“Quella
sera a Milano era caldo
Ma
che caldo che caldo faceva
Brigadiere
apra un po' la finestra
E
ad un tratto Pinelli cascò.
Commissario
io gliel'ho già detto
Le
ripeto che sono innocente
Anarchia
non vuol dire bombe
Ma
eguaglianza nella libertà."...
La
ballata del Pinelli, 1969
testo
di G. Barozzi, F. Lazzarini, U. Zavanella, musica di J. Fallisi
I.
Morte (per niente) accidentale di un anarchico
Le strade del cinema
italiano sono lastricate di monumentali banalità contrabbandate come “storie
sociali” o sceneggiati televisivi che mortificano al fondo l’immaginario
collettivo... la domesticazione degli sguardi rende gli uomini stupidi,
dipendenti da dispositivi di massa (cinema, televisione, fotografia, carta
stampata, telefonia, internet, in parte) che li rendono incapaci di ragionare e
li piegano alla rappresentazione politica del consenso elettorale... la
dittatura finanziaria (banche, partiti, mercanti d’armi, “bottini” delle chiese
monoteiste) pensa a sacralizzare gli entusiasmi della società consumerista e l’organizzazione gerarchica del potere...
tuttavia le giovani generazioni si prendono il diritto alla resistenza sociale
e legittimano ogni forma insorgente che rigetta la servitù volontaria. Chiedono
una società senza stato, senza potere politico né terrore chiesastico e lavorano a nuove forme di democrazia
partecipata, diretta o consiliare per la comunità che viene.
Romanzo di una
strage
(2012) di Marco Tullio Giordana tratta della strage di Piazza Fontana, avvenuta
il 12 dicembre 1969 a
Milano... di romanzato c’è molto, di strage di Stato, poco. I giornali hanno
diffuso dibattiti, consensi, dissensi su questo film... i critici velinari gli hanno assegnato le stellette secondo gli
orientamenti politici o padronali... il pubblico non si è proprio scaraventato
nelle sale cinematografiche a vedere la ricostruzione dei fatti... è
sorprendente! Quando ci sono di mezzo storie di anarchia anche gli artisti più
avvertiti riempiono le loro opere di lordure e non di purezze... sembrano non
sapere che la verità e la giustizia sta al di là delle apparenze e non si
accede alla bellezza se non in virtù della disobbedienza. Conoscere significa
smascherare, disvelare, scuotere l’indifferenza generale, il passo conseguente
è l’incinerazione di ogni forma di autorità. Per meglio comprendere Romanzo di una
strage
non è male ritornare (con un indignato flashback) alla
strage di Stato della quale il film parla e gli anarchici non hanno mai archiviato.
Nel dicembre 1969 una
bomba scoppia nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura (ore 16:37)
uccidendo diciassette persone (quattordici al momento dell’esplosione) e
ottantotto restano feriti. Una seconda bomba deposta nella sede della Banca Commerciale
Italiana (Piazza della Scala) è rinvenuta inesplosa e la terza esplode a Roma
(ore 16:55) all’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro (via San Basilio), i
feriti sono tredici. Tra le 17:20 e le 17:30 altre due bombe scoppiano a
Roma... una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo
del Risorgimento (Piazza Venezia), i feriti, quattro. In quel 12 dicembre,
nell’arco di 52 minuti, si compiono cinque “oscuri” atti terroristici (secondo
le veline dei servizi segreti). Sebbene queste aggressioni alle istituzioni
siano opera di gruppi eversivi di estrema destra e servizi deviati dello Stato,
la polizia politica individua i colpevoli tra le file degli anarchici.
Il 12 dicembre la
polizia ferma Giuseppe “Pino” Pinelli, ferroviere e anarchico, uno degli
animatori del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa e lo invita a seguire i
poliziotti in questura, anzi a precederli col motorino. “Tre giorni dopo, il
corpo di Pino veniva scaraventato giù dalla finestra di una stanza dell'ufficio
politico, al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l'inizio di
una tragica farsa, tuttora in corso” (www.anarchopedia.org). Il sostituto
procuratore Gerardo D’Ambrosio scrisse una sentenza dove diceva che la causa
della morte si doveva a un “malore attivo”. Pinelli sarebbe caduto da solo
dalla finestra, mentre fumava, sporgendosi un po’ troppo dal balcone (forse per
acchiappare la luna). Le forze dell’ordine insistono sul suicidio. Nella stanza
del “suicidato” c’erano Luigi Calabresi, i brigadieri Panessa, Mucilli,
Mainardi, Caracutta e il tenente dei carabinieri Lograno, saranno tutti
per — “meriti di servizio” — elevati di
grado.
Il 16 dicembre viene
arrestato l’anarchico Pietro Valpreda (ex-ballerino, quasi zoppo)... il
tassista Cornelio Rolandi lo riconosce nell’uomo con la valigia che era sceso
dal suo taxi presso la Banca dell’Agricoltura... incassa per questo cinquanta
milioni. I giornali si gettano sul mostro, specie il Corriere della Sera, il presidente della
Repubblica Saragat (in un momento lontano dal fiasco di chianti) si congratula
col questore di Milano Guida. Marcello Guida era un ex-fascista, durante il
ventennio fu il direttore delle guardie dei carceri di Ventotene e Santo
Stefano... Sandro Pertini, presidente della Repubblica, lo riconobbe in una
visita ufficiale a Milano e si rifiutò di stringere la mano a un persecutore di partigiani e di
uomini del libero pensiero.
In pochi si accorgono
che il tassista mente e le accuse contro Valpreda sono una porcata delle
istituzioni. I partiti di sinistra accusano la “pista anarchica”... PSI e PCI
si fanno garanti di indagini e depistaggi contro gli anarchici. Ci vogliono
sette processi per stabilire che tutti gli imputati (anarchici e fascisti) di
Piazza Fontana non sono colpevoli... dopo 38 anni Carlo Digillo, fascista di
Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato
e nel duemila ha ottenuto la prescrizione del reato... nel maggio 2005 la Corte
di Cassazione ha assolto definitivamente gli ultimi indagati, i fascisti di
Ordine Nuovo, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. I teologi del
terrorismo di destra, Franco Freda e Giovanni Ventura, attendono ancora di
essere giudicati e attualmente non vi è alcun procedimento in corso.
Più di settecento
intellettuali (scrittori, registi, attori, pittori...) firmarono una petizione
pubblicata su L’Espresso il 27 giugno 1971
(più tardi alcuni di loro si dissociarono) e
questo è l’incipit: “Il processo che doveva far luce sulla morte di
Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza
colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato
nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice”. Il giornale Lotta Continua e la stampa
libertaria si presero cura di sbugiardare tesi e contro tesi del suicidio
dell’anarchico e imputarono a Calabresi e ai suoi collaboratori la morte di
Pinelli. Camilla Cederna, con l’impeto di giustizia sociale che le era proprio
scrisse su Lotta
Continua:
“Noi per questi nemici del popolo esigiamo la morte”. Il 17 maggio 1972
Luigi Calabresi è ucciso in un parcheggio e per questo omicidio sono stati
condannati in via definitiva Ovidio Bompressi e il pentito Leonardo Marino come
esecutori materiali, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri quali mandanti.
Anche questo delitto non convince e la cosa resterà per sempre sepolta nella
carte della polizia politica.
Per non dimenticare: «Noi
accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli,
arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice
fascista. Accusiamo il questore e i dirigenti della polizia di Milano di aver
dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua
colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che
"era caduto". Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver
redatto alcun verbale edi interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale
verbale che venisse in seguito tirato fuori è da considerarsi falso. Accusiamo
la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l'inchiesta si
svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli
avvocati della difesa. Accusiamo i magistrati e la polizia di aver
ripetutamente violato il segreto istruttorio diffondendo voci e accuse tendenti
a diffamare di fronte all'opinione pubblica un uomo assolutamente innocente, ma
per loro colpevole di essere anarchico. Noi accusiamo lo Stato Italiano di
cospirazione criminale nei confronti dell'anarchico Pietro Valpreda, da mesi
sottoposto ad un feroce linciaggio morale e fisico, mentre le prove che gli
inquirenti credono di avere contro di lui, si smantellano da sole una per una».
Gli anarchici lasciano a queste parole le loro accuse contro lo Stato e i suoi
apparati... sia lode ora ai sovversivi della storia... sono loro e solo loro
che hanno fatto della propria esistenza libertaria un’opera d’arte.
II.
Romanzo di una strage: Il commissario calabresi santo subito!
Romanzo di una
strage cerca
di raccontare, anche con trasporto (specie nella prima parte), i fatti che
riguardano la strage (di Stato) di Piazza Fontana e l’assassinio dell’anarchico
Giuseppe “Pino” Pinelli. Infiltrati di destra, sinistra, il Sid, Cia, Nato, il
principe Borghese, i fascisti di Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, alti
apparati dello Stato (Saragat, Moro, Rumor), questori, magistrati, commissari,
militari, Feltrinelli, Freda, Ventura, anarchici... sono intrecciati a una
stagione dove le bombe (pilotate da figure legate all’eversione di destra e
atte a diffondere il terrore a sostegno di un colpo di Stato) servivano a
destabilizzare l’inclinazione di un Paese ancora investito dalle lotte sociali
del Sessantotto... il popolo chiedeva una società più giusta e più umana, nelle
strade si riversavano migliaia persone di ogni ceto sociale e reclamavano a
faccia scoperta diritti e mutamenti profondi della “cosa pubblica”... in questo
clima di rivolte libertarie (che come sappiamo porterà alla nascita dello
Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto...) Giordana deposita il suo
film... i cattivi però non ci sono nel suo romanzo per immagini... o sono poco
delineati, quasi assolti dei loro crimini... gli anarchici sono stupidi, il
ferroviere Pinelli è un idealista un po’ ottuso, buon padre di famiglia, e il commissario
Calabresi, quello che nel Sessantotto, vestito sempre con un impeccabile
impermeabile bianco, portato alla Humphrey Bogart
(c’eravamo in quelle strade infuocate di rabbia e l’abbiamo visto), guidava le
cariche della Celere contro i cortei che chiedevano il diritto alla casa, le
ore di lavoro più corte, la sanità per tutti, pensioni legate alla scala
mobile, l’accesso alle università anche per i figli dei proletari... il commissario
che dialogava con Pinelli, con i giornalisti, che si era messo a indagare per
proprio conto (dice Giordana) sui colpevoli reali della strage, ucciso
barbaramente... quando siamo uscito dal cinema abbiamo letto sulle facce degli
spettatori un pensiero: Calabresi santo, subito!
Giordana è attento
alla storia sociale italiana, come dimostrano alcuni suoi film precedenti (Maledetti vi amerò, 1980; La caduta degli
angeli ribelli,
1968; Notti
e nebbie,
1984; Pasolini
un delitto italiano,
1995; I
cento passi,
2000; La
meglio gioventù,
2003)... tuttavia i suoi lavori sembrano restare sul versante della cronaca o
poco più... la sua onestà intellettuale non si discute e nemmeno l’aderenza a
pezzi di storia italiana è messa in dubbio... ciò che non ci convince è quel
buonismo di fondo che attraverso il suo fare-cinema, e più ancora una certa
mancanza di coraggio abrasivo che la sua filmografia mostra, lo deposita nella
storia del cinema italiano come il regista che fa domande ma non trova
risposte... un autore che resta spaventato da quell’immensa prostituzione
politica che giustifica i propri crimini e che evita di accusare... come non
sapere che il potere non si concilia molto con il rispetto dell’uomo? “Uno
Stato non si compone né di angeli, né di agnelli: è la giungla organizzata”
(E.M. Cioran). Tutto ciò che giova alla potenza e all’arroganza dello Stato è
bene, chi attenta al crollo del Palazzo (come auspicava Pasolini) è male.
Romanzo di una
strage è
fin troppo didascalico... le riunioni dei capi di governo sono ridicole, quasi
grottesche... la figura di Saragat sembra ritagliata da una commedia di bassa
fattura... l’immagine di Moro, riflessiva, dolcificata, tutta chiesa e lavoro,
rimanda al cinema parrocchiale degli anni Cinquanta... il ballerino Valpreda è
quasi una caricatura... la moglie di Calabresi sembra uscita da una pubblicità
dei detersivi... Pinelli un ingenuo ferroviere che si trova nel movimento
anarchico quasi per caso... ai testi magistrali di Bakunin preferiva le poesie
(peraltro straordinarie) di Spoon
River. I
torturatori dell’ufficio di Calabresi hanno la faccia da bravacci ma, come
sappiamo, sullo schermo i cani e gli imbecilli vengono sempre bene... il
commissario pulito e pettinato sempre bene, tutto dedito al mantenimento
dell’ordine costituito, un “questurino con il quale si poteva parlare”, dice il
film... è il vero protagonista del cineromanzo di Giordana. Si dimentica di
dire che Calabresi era un segugio abile nel manovrare gli infiltrati, quanto
nel mentire sull’omicidio di Pinelli... l’altarino della sua vita non ci
interessa e la sua ascesa al cielo dei martiri caduti per lo Stato anche meno.
La tesi delle due
bombe, quella degli anarchici che doveva essere un atto dimostrativo, da fare
scoppiare a banca chiusa, e quella stragista dei servizi segreti è una
stupidaggine, ed è offensiva verso l’innocenza degli anarchici coinvolti in
questa tragedia, tutta da addebitare ai fascisti e ai servizi deviati dello
Stato... del resto, in questa democrazia della corruzione, dove al governo
convivono ladri e mafiosi, gli apologeti della ragion di Stato sono sempre bene
accetti. La ricompensa è l’applauso. Il potere è una lebbra che contamina
uomini e istituzioni ecco perché siamo tra quelli che auspicano la soppressione
dei partiti: “i partiti sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere
il senso della verità e della giustizia” (Simone Weill)... sono macchine
autoritarie che mortificano le passioni collettive di libertà e bellezza e
poggiano il loro dominio sulla menzogna.
Romanzo di una
strage si
articola su un soggetto di Giordana, sostenuto dalla sceneggiatura di Sandro
Petraglia, Stefano Rulli e dello stesso Giordana. I luoghi comuni si sprecano.
Dialoghi pomposi, fraseologia (anche figurativa) da sceneggiato Rai, il “covo”
degli anarchici è oscuro e gli anarchici sono sporchi e scemi... si vede che la
frequentazione degli anarchici per gli sceneggiatori (che pure non sembrano
estranei ai movimenti del Sessantotto) non c’è stata (o è stata male capita) e
quello che hanno scritto è solo letteratura di infimo valore giornalistico.
L’attorialità è di quelle destinate al pubblico televisivo... Pierfrancesco
Favino (Pinelli) fa quello che può (del resto non è un mostro di recitazione
mai) per rendere autentico un uomo che aveva fatto dell’anarchia il fulcro
della propria esistenza e insieme al suo gruppo lavorava per dare aiuto ai
tanti innocenti chiusi nelle carceri speciali (abbiamo partecipato a
raccogliere fondi per i detenuti politici attraverso Croce Nera Anarchica che
Pinelli si adoperava a destinare). Laura Chiatti (la moglie di Calabresi)
sembra passare nel film per caso... il suo pudore casalingo è semplicemente
osceno, da favola di Disney. Fabrizio Gifuni (Aldo Moro) sfocia nel patetico e
fa dei pianti democristiani (falsi) di un politico, una figurina da conservare
negli archivi sporchi di sangue della chiesa. Per non dire di Luigi Lo Cascio
(il giudice Paolillo), impomatato come un inserviente delle latrine pubbliche
che lascia sullo sfondo le sue intuizioni e sembra davvero credere in quello
che interpreta, ma nessuno ci fa caso, lui per primo. Omero Antonutti (notevole
icona di tanti film d’autore) fa il presidente della Repubblica Saragat...
sempre sobrio... troppo accigliato... si perde in atteggiamenti vezzosi, senza
sostanza. Giorgio Colangeli (Federico Umberto D’Amato), Giorgio Tirabassi (il
professore dei servizi segreti), Thomas Trabacchi (il giornalista Nozza),
Fausto Russo Alesi (Guido Giannettini), Denis Fasolo (Giovanni Ventura),
Giorgio Marchesi (Franco Freda) Benedetta Buccellato (Camilla Cederna)... sono
i figuranti seriosi o distratti di un’architettura filmica appesa ad
avvenimenti storici trattati però senza l’umanesimo necessario... ogni immagine
è un’immagine di troppo... non c’è tono, non c’è stile nell’impianto narrativo
ma indulgenza per ciò che è stato e giustificazione impropria su quanto è
veramente successo in quegli anni di piombo.
Valerio Mastrandea è
attore vero... animale da cinecamera... senza mai strafare richiama molto il
commissario Calabresi... manca però nella verbosità manichea del personaggio...
troppo casa e famiglia e poco carcere e manganello. Michela Cescon (Licia Pinelli)
è misurata, fiera, da credibilità alle sue emozioni, mostra a tratti di
conoscere la demenza accettata ufficiale (all’ospedale con la madre di Pinelli,
quando i medici si rifiutano di farle vedere il figlio o ai funerali
dell’anarchico). La fotografia (Roberto Forza) è smorzata, scura, quasi un
affresco di ciò che non è stato né sarà più. Il montaggio (Francesca Cavalli) è
artificioso, lento... i personaggi si perdono per strada, riappaiono e qualche
volta sono incastrati (male) nella vicenda in maniera arbitraria, frettolosa
(il pezzo del nascondiglio delle armi che sarebbero dovute servire per arginare
l’avanzata comunista). La musica (Franco Piersanti) è smielata su molte
sequenze “morte”... il cinegiornale dei funerali delle vittime della strage è
di notevole forza visiva, straziante... la sepoltura di Pinelli è colorata da
alcuni anarchici (un po’ straccioni) che cantano sommessamente “Addio Lugano
Bella”. Giordana fa bene a ricordare nelle didascalie finali che per questa
tragedia/farsa italiana nessuno è stato giudicato colpevole e che i parenti
delle vittime hanno dovuto pagare le spese processuali.
Romanzo di una
strage
non racconta la lotta degli anarchici contro lo sfruttamento economico, contro
il dispotismo politico, contro la sottomissione religiosa... lascia fuori dallo
schermo l’immaginario radicale/creativo dell’utopia come forza innovatrice in
cammino verso una società di liberi e uguali. Commemora l’operato di un
servitore dello Stato complice di realtà costruite e verità deformate...
l’obbedienza non è mai stata una virtù, ma un prodotto sociale imposto e va
scardinata. Il fucile, l’aspersorio e la dittatura delle banche sono gli
utensili del potere e rappresentano i linguaggi di domesticazione sociale delle
istituzioni... lo Stato è il regno della sottomissione, l’Anarchia il luogo a
venire della libertà. La memoria degli anarchici non è iscritta nella storia
dei dominatori... la fine della storia come sopruso di pochi a danno di molti
non è nell’avvento di dio, né dei regimi comunisti... ma nella rottura con
l’ordine dominante a vantaggio di tutto ciò che porta alla libertà e alla
giustizia... quando gli uomini, le donne si accorgeranno della fame di
bellezza, di giustizia e di libertà che batte nei loro cuori, ci sarà la
rivoluzione dell’intelligenza nelle strade della terra. Nè dio, né padrone,
sempre.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, 14 volte aprile 2012.