di Michele Nobile
ITALIANO - ENGLISH
Prima parte: aiuti esteri e guerra di liberazione
In secondo luogo, bisogna fare attenzione a non farsi abbagliare dal modo in cui politici e commentatori utilizzano la parola pace. Bisogna ribadire quel che dovrebbe essere ovvio: che un «cessate il fuoco» o un armistizio, fragile o duraturo che sia, sono cosa ben diversa da un trattato di pace, non pongono fine allo stato di guerra ma si limitano a sospenderlo. Quando si guardi obiettivamente quali siano gli obiettivi minimi delle parti in conflitto è chiaro che, a meno di grandi sconvolgimenti militari che al momento non sono prevedibili, la partita diplomatica non può concludersi con la pace ma, nel migliore dei casi, con il congelamento delle linee del fronte.
Purtroppo il motivo per cui Putin rifiuta una sospensione lunga e generale dei combattimenti terrestri e degli attacchi aerei non è solo tattico ma è inevitabile conseguenza della situazione che egli ha deliberatamente creato. Basti considerare quali siano gli obiettivi di guerra minimi del regime russo, ribaditi di continuo: riconoscimento de jure dell’annessione della Crimea e di altri quattro oblast dell’Ucraina alla Federazione Russa, nel complesso circa un quinto del territorio ucraino; la drastica riduzione della capacità di difesa delle forze armate ucraine; la negazione all’Ucraina non solo dell’ingresso nella Nato ma di qualsiasi altra seria forma di garanzia internazionale di sicurezza. Questi sono obiettivi irrinunciabili, specialmente il primo, un macigno che sbarra la via della pace ed è inamovibile con la diplomazia. Non può esistere alcun dubbio sul fatto che in nessun caso Putin restituirà pacificamente i territori occupati, perché questo significherebbe la sconfitta della sedicente «operazione speciale» e l’inutilità dell’enorme costo umano della guerra, con possibili gravi ripercussioni sulla tenuta del regime.
Dal lato opposto, è ovvio che gli ucraini siano stanchi della guerra e i primi a desiderare la pace. Tuttavia la presunta «pace» nei termini degli obiettivi minimi di Putin sarebbe funzionale al conseguimento del suo obiettivo massimo, a cui egli evidentemente non ha rinunciato: l’instaurazione a Kyiv di un governo subordinato a Mosca. È a questo che serve indebolire economicamente e umanamente l’Ucraina, amputarne il territorio e pretendere che non sia in grado di difendersi né d’essere aiutata dall’estero. Si può ben dire che questa «pace» non sarebbe altro che la continuazione della guerra con altri mezzi, o una pausa prima d’una terza aggressione (dopo quelle del 2014 e del 2022 ancora in corso). Cedere agli obiettivi minimi di Putin equivarrebbe per gli ucraini al suicidio dell’indipendenza nazionale e della libertà politica del loro Paese.
Per gli ucraini la questione della pace va anche oltre la restituzione dei territori occupati, la giustizia per le atrocità e i crimini di guerra e le riparazioni per l’enormità del danno umano e materiale inferto dall’aggressione di Putin. La pace comporta determinare le condizioni militari, politiche ed economiche che assicurino al popolo d’Ucraina la libertà interna e la libertà di decidere della collocazione internazionale del Paese.
E questo pone obiettivamente la questione del rafforzamento dell’Unione Europea: difficile che questa abbia un futuro politico se non sarà in grado di difendere se stessa e l’Ucraina come nuovo Stato membro. Se si condivide questa posizione, ne consegue che i Paesi europei devono decidere e coordinare una politica d’investimenti nel settore della difesa, al fine immediato di sostituire il più possibile l’aiuto militare statunitense alla guerra per la liberazione e l’indipendenza dell’Ucraina: in pratica l’aiuto economico e militare dei Paesi dell’Unione Europea dovrebbe raddoppiare. Fatto senz’altro possibile quando si consideri che per i maggiori Stati europei gli aiuti totali all’Ucraina ammontano a circa lo 0,1% del Prodotto interno lordo, uno sforzo economico del tutto inadeguato.
Inoltre, il sostegno degli Stati europei all’Ucraina dovrà continuare anche dopo il congelamento o il termine della guerra, sia per la ricostruzione economica del Paese sia per le necessarie garanzie di sicurezza e gli aiuti militari, possibilmente utilizzando i fondi congelati della Russia e annullando il debito estero dell’Ucraina.
Nel resto dell’articolo considero il contributo estero all’evoluzione delle capacità militari dell’Ucraina e critico l’idea della «guerra per procura».
La politica estera multivettoriale e la crisi della difesa dell’Ucraina
La Rss Ucraina era parte fondamentale dell’industria militare dell’Unione Sovietica, anche nella progettazione e costruzione di missili balistici intercontinentali, come gli SS-18 Satan: dotati di otto testate nucleari con traiettorie e obiettivi indipendenti, per la loro capacità di colpire i siti missilistici statunitensi erano i vettori più temibili dell’arsenale sovietico. L’Ucraina era allora una delle regioni più militarizzate e più potentemente armate del mondo: vi stazionavano normalmente circa 800 mila militari.
Disgregatasi l’Urss, all’inizio degli anni Novanta l’Ucraina era potenzialmente la terza potenza nucleare mondiale, grazie al lascito di migliaia di testate nucleari tattiche e strategiche, con relativi vettori, missili e bombardieri: un arsenale atomico superiore a quelli combinati di Cina, Francia e Regno Unito. A questo l’Ucraina rinunciò con un programma di disarmo nucleare unilaterale, finanziato dagli Stati Uniti, che prevedeva la cessione di testate e vettori alla Russia2, dove sono ancora operativi 46 missili SS-18 Satan e alcuni dei bombardieri strategici Tupolev TU-160 e TU-22M che lanciano missili cruise contro le città ucraine. Scartato integralmente il deterrente atomico, con il Memorandum di Budapest del 1994 l’Ucraina ottenne in cambio dalla Federazione Russa l’impegno a rispettarne la sicurezza e l’integrità. Un pezzo di carta strappato da Putin nel 2014: una vicenda da ricordare quando gli ucraini dicono qualcosa circa l’autodifesa, concrete garanzie di sicurezza internazionali, l’affidabilità delle solenni promesse russe.
La crisi socioeconomica della transizione postsovietica fu in Ucraina e in Russia molto più grave che nelle altre ex repubbliche dell’Urss ed ancor più grave che nei Paesi dell’Europa centrale - un tempo a sovranità limitata da Mosca -, che a ondate scelsero di aderire alla Nato e all’Unione Europea. Radicalmente trasformato il quadro geopolitico e terminata la pianificazione sovietica degli ordini diretti alle imprese, l’industria militare ucraina3 si ridusse alla metà per numero d’imprese e occupati, trovando sbocco quasi esclusivamente nel mercato estero, in particolare in Russia, non nelle forze armate nazionali; del resto queste vendettero centinaia di carri armati, aerei ed elicotteri, anche in applicazione del Trattato sulle forze convenzionali in Europa, dal 2007 non più applicato dalla Russia. Nel 2012 più del 90% del materiale in dotazione alle forze armate ucraine aveva almeno vent’anni; le esercitazioni a fuoco dei reparti dell’esercito e le ore di volo dei piloti erano ridotte al minimo; i mezzi non avevano sempre disponibilità di carburante, mancavano le batterie.
Per il 2014, quando Putin ordinò l’occupazione della Crimea e l’agitazione separatista nel Donbas, non solo l’Ucraina aveva rinunciato alla deterrenza nucleare ma tutti i governi, in diversa misura e indipendentemente dall’orientamento politico, avevano anche lasciato gravemente degradare la capacità difensiva del Paese. In parte ciò accadde a causa della crisi economica e sociale della transizione post-sovietica; in parte a causa della diffusa corruzione e dell’utilizzo personalistico del Ministero da parte dei politici incaricati; in parte, sotto Janukovyč, a causa della «russificazione» dei servizi di sicurezza, sia nel senso di vertici politico-militari personalmente legati al regime russo, sia nel senso del tentativo di «russificare» il sistema politico4. Tutti motivi importanti e concorrenti, ma ritengo se ne debba considerare anche un altro, di speciale rilievo quando si discuta un eventuale status dell’Ucraina come Paese neutrale o non-allineato (che non è quanto vuole Putin: il suo obiettivo è la neutralità intesa come neutralizzazione della difesa e dell’autonomia politica dell’Ucraina).
Con oscillazioni verso Occidente o Oriente, fino al 2014 Presidenti e governi ucraini perseguirono tutti quel che si diceva politica estera multivettoriale, secondo la quale una secolare storia d’integrazione e di dominio rendevano inevitabili strette relazioni con la Russia, fin dall’indipendenza non poco problematiche per le questioni della delimitazione dei confini, della Crimea, della divisione della flotta del Mar Nero, dei prezzi e della gestione dell’energia. Nello stesso tempo, secondo la politica multivettoriale, le necessarie relazioni con la Russia dovevano essere compensate dalla creazione di nuovi rapporti con la Nato e l’Unione Europea; perfino l’oligarchia del Donbas, la più ricca e potente del Paese e legatissima all’oligarchia russa, doveva anche arginare le eccessive pretese di quest’ultima e non intendeva rinunciare alle opportunità offerte dall’Europa occidentale.
La pluridecennale ambiguità della politica estera multivettoriale ucraina raggiunse i suoi limiti nel 2014. La violenta repressione del movimento europeista da parte del presidente Janukovyč chiarì inequivocabilmente il nesso fra la costruzione di un regime autoritario interno e l’orientamento internazionale che privilegiasse la Russia. D’altra parte l’Ucraina è un anello insostituibile del progetto di sfera d’influenza eurasiatica di Putin, che rispose alla caduta di Janukovyč con l’invasione e annessione della Crimea alla Russia e la promozione e l’intervento armato nel Donbas. A quel punto non ci fu più spazio per le ambiguità e le oscillazioni della politica multivettoriale: per l’Ucraina far parte dell’Unione Europea era - ed è - una condizione d’indipendenza politica.
Dopo il 2014 la condizione delle forze armate e dell’industria militare iniziò a cambiare ma, per quanto riguarda la fornitura d’armi dall’estero, l’Ucraina si trovò in pratica sottoposta a un embargo. Questo era in linea con la politica di appeasement dei governi «occidentali» nei confronti della Russia praticata con gli accordi di Minsk, il cui presupposto era che la Russia fosse soggetto mediatore invece che controparte diretta del conflitto; inoltre, quegli accordi non comprendevano la Crimea, invasa e annessa alla Federazione Russa.
Il governo degli Stati Uniti vendette armi letali all’Ucraina soltanto nel 2018, sotto il programma Foreign military sales, precisamente: 210 missili anticarro a corto raggio Javelin e 37 lanciatori, altri 150 missili l’anno seguente, pattugliatori classe Mark VI nel 2020. Dal 2015 al 2020 le amministrazioni statunitensi autorizzarono l’esportazione, come Direct commercial sales, di materiale militare per 294 milioni di dollari (principalmente munizioni, sistemi di puntamento e guida, elettronica militare)5; nel corso di più anni e fino al 2021 gli Stati Uniti avevano anche provveduto 77 milioni di dollari per l’eliminazione di mine e materiale esplosivo disposto dalle forze russe e dai secessionisti nella regione del Donbas, ripulendo quasi due milioni m2. Per farsi un’idea di quanto poco significassero queste esportazioni, si consideri che dopo l’invasione russa del 2022 alla resistenza ucraina sono stati forniti oltre missili 10.000 Javelin e molte altre armi anticarro.
Nell’articolare la sua politica estera Donald Trump si vanta d’essere stato il primo a fornire armi letali all’Ucraina e che, fosse stato lui Presidente, Putin non avrebbe aggredito l’Ucraina. La prima affermazione è una mezza verità. È vero che né Obama né Bush avevano permesso l’esportazione di mezzi militari letali, ma Trump venne sottoposto al primo tentativo di impeachment proprio per aver usato gli aiuti all’Ucraina come strumento di ricatto nei confronti di Zelens’kyj, al fine di ottenere informazioni compromettenti sul figlio di Biden; e fu a causa del boicottaggio del partito di Trump (meglio: per iniziativa della componente più legata al miliardario) che per oltre un anno - fra gennaio 2023 e aprile 2024 - il Congresso Usa non finanziò nuovi aiuti all’Ucraina, compromettendone la difesa e agevolando la ripresa offensiva russa. Quanto alla seconda affermazione, essa è solo una delle innumerevoli presuntuose bufale di Trump, che implicano una totale incomprensione del disegno imperiale putiniano.
La difesa dell’Ucraina e l’aiuto internazionale
Dunque, quanto a dotazione materiale, l’esercito dell’Ucraina non era - e non è - un esercito Nato. Il materiale a disposizione delle forze ucraine era nel 2022 in massima parte d’epoca sovietica - più o meno ammodernato - e di produzione nazionale. Infatti, nei primi mesi dell’invasione totale il problema era reperire munizioni e armamenti di tipo sovietico, compatibili con le piattaforme e l’addestramento delle forze ucraine, ad es. proiettili per l’artiglieria calibro 122 e 152 mm. (lo standard Nato è invece di 155 mm.); carri armati T-72 (in diversi modelli, risalenti agli anni Settanta-Ottanta, utilizzati in tutte le guerre sovietiche e russe e ampiamente esportati) in aggiunta ai T-72 e al modello T-64 «Bulat» ucraino del T-64; aerei MIG-29 e via elencando. Con l’eccezione dei lanciarazzi multipli - una dozzina di M142 HIMARS degli Stati Uniti e un’altra dozzina di M270 e Mars II da Regno Unito, Germania e Francia -, che fra la fine di luglio e l’autunno del 2022 permisero di colpire logistica e mezzi degli invasori effettivamente contribuendo al successo delle controffensive ucraine, i mezzi «occidentali» più moderni sono stati forniti soltanto nel corso del 2023 e 2024, con limiti d’uso e con tempi politici lunghi e sfasati rispetto alle urgenti esigenze della guerra.
Sulla base di una valutazione politica del tutto errata, l’invasione dell’Ucraina era stata concepita come un insieme d’operazioni destinate a concludersi rapidamente. Il fallimento del piano iniziale costrinse i russi a rovesciare la strategia in direzione di una lunga guerra di logoramento, per il cui successo divenne indispensabile la mobilitazione (parziale) dell’economia in funzione delle necessità belliche, iniziata non oltre giugno, almeno tre mesi prima della mobilitazione parziale delle riserve umane. Per la mobilitazione del potenziale bellico dell’economia la Russia è stata agevolata dalla tradizione sovietica: l’aver già predisposto un piano di mobilitazione economica per la guerra; l’esistenza di impianti industriali civili disegnati per la conversione alla produzione militare; l’ampia proprietà statale dell’industria bellica. Per i primi di luglio il processo di mobilitazione dell’economia venne formalizzato con gli opportuni provvedimenti legislativi, tra cui il divieto alle imprese private di rifiutare ordini governativi inerenti la produzione bellica; la sospensione dei diritti sindacali (per quel poco che potevano ancora valere); l’introduzione di turni di lavoro di dodici ore con un solo fine settimana di riposo negli impianti interessati dallo sforzo bellico. Si stima che siano 4,5 milioni i lavoratori addetti alle produzioni necessarie alla guerra, che con un paio di famigliari ciascuno porterebbero la quota della popolazione interessata dalla produzione bellica a circa il 10%.
Senza esplicitarla, fin dall’inizio del conflitto gli Stati Uniti e i governi europei adottarono una strategia di logoramento dell’economia russa: Putin si sarebbe deciso a negoziare per evitare che i «devastanti» (così Biden) effetti economici e sociali delle sanzioni sfociassero in proteste e nella destabilizzazione del regime. Dato il notevole squilibrio militare fra Russia e Ucraina, una strategia di logoramento era ed è obbligatoria, ma la sua efficacia dipende dal modo in cui viene applicata e questo, a sua volta, risulta dalla corretta valutazione di capacità e obiettivi del nemico. Il primo punto debole della concreta applicazione della strategia di Biden e alleati è stato l’aver sottovalutato il livello dei costi economici ed umani che Putin e la società russa sono disposti a sopportare, conseguenti dall’enorme importanza che la sottomissione dell’Ucraina ha per il regime e il nazionalismo russo.
Il secondo errore è stato la sottovalutazione delle capacità gestionali, del potenziale economico e delle riserve di mezzi che il regime russo avrebbe potuto mobilitare per la guerra.
Il terzo errore è stato il più grave e diretta conseguenza dell’atteggiamento di fondo nei confronti della Russia. Per funzionare contro uno Stato industriale e con un ricco arsenale, la strategia di logoramento richiede che le sue forze armate siano sottoposte al più forte attrito sul campo di battaglia e che, oltre al blocco economico totale (ben oltre le sanzioni), siano colpiti i centri della produzione bellica, le basi militari, i trasporti in territorio nemico. Detto brutalmente: in guerra il logoramento consiste nel fatto che la distruzione fisica della forza nemica procede più velocemente delle capacità economiche e demografiche di ricostituirla o di sopportarne i costi politici, fino al punto da indebolire il morale dell’avversario e convincerlo che non potrà conseguire quanto si propone. Il problema è che la prospettiva politica di Biden e alleati non ha permesso una coerente applicazione della strategia di logoramento perché l’obiettivo non è mai stato la sconfitta militare dell’invasione russa ma il compromesso con Putin. È per questo motivo che gli aiuti militari all’Ucraina sono stati condizionati dal rispetto delle varie «linee rosse» poste da Mosca, generando una sorta di corsa ad ostacoli, quasi tutti superati ma con tempi e con limiti tali da danneggiare le operazioni militari e la capacità difensiva dell’Ucraina, tanto più mentre si estendeva la mobilitazione russa e continuavano gli attacchi alle città e alle infrastrutture civili ucraine.
In Ucraina si squaglia il mito dell’invincibilità della Russia
Uno degli argomenti più usati dalla propaganda putiniana e fintopacifista è che l’Ucraina non abbia alcuna speranza di battere la superpotenza militare della Federazione Russa e che, quindi, sia interesse del popolo ucraino rinunciare alla lotta e così por fine a sofferenze e distruzione inutili, a una guerra senza senso, dicono alcuni. Anche Trump utilizza un argomento simile, utile a giustificare sia l’estorsione economica nei confronti delle risorse minerarie dell’Ucraina sia le concessioni alle pretese di Putin, assurdamente fatte senza contropartita, sulla pelle degli ucraini e ancor prima d’iniziare un negoziato. Tuttavia l’invincibilità della Russia è un mito, nella storia6 e nel presente. Consideriamo alcuni fatti.
L’Ucraina ha iniziato la mobilitazione economica per la guerra in una situazione simile a quella dell’Unione Sovietica nella seconda metà del 1941: con quasi un terzo del territorio nazionale occupato, bombardamenti sulle regioni libere, importanti risorse industriali perse (tra cui 1/3 degli impianti metallurgici), porti ed esportazioni marittime bloccate. Nonostante tutto questo e la caduta del prodotto interno, per la fine del 2024 erano di produzione nazionale circa la metà dei proiettili d’artiglieria e la quasi totalità dei droni. Come la Russia, anche l’Ucraina ha valorizzato un’eredità sovietica: la proprietà statale di molte industrie per la difesa - che semplifica gli ordini - e personale in grado di progettare armi sofisticate, con costi di produzione molto inferiori a quelli della Russia e dei Paesi della Nato.
Con risorse relativamente limitate gli ucraini hanno conseguito risultati e inventato metodi efficaci che per gli specialisti costituiscono lezioni e motivo di riflessione circa le possibili caratteristiche delle guerre a venire. Gli ucraini sono riusciti a impedire all’aereonautica russa di conquistare la supremazia aerea, obbligandone i velivoli a operare a distanza dal fronte; addirittura, malgrado l’inesistenza di fatto di una marina militare, hanno colpito duramente le navi russe con droni marittimi, costringendo la flotta del Mar nero ad allontanarsi dalla Crimea.
Come mai prima, questa guerra ha evidenziato l’importanza dei droni d’ogni tipo e funzione e della velocità con cui innovazioni tecniche e tattiche non precedono il conflitto - impostazione - ma vengono realizzate nel suo corso, come susseguirsi di mosse e contromosse. Nel 2024 in Ucraina sono stati prodotti un milione e mezzo di droni di tutti i tipi, fra cui migliaia in grado di colpire arsenali e magazzini, basi aeree e raffinerie fino a 2.000 km in profondità in territorio russo; nei primi mesi del 2025 questo ha significato la distruzione di circa un anno di produzione russa di proiettili d’artiglieria, di diversi bombardieri strategici e la perdita del 10% delle capacità delle raffinerie.
Nel 2022 gli ucraini liberarono dagli occupanti russi oltre 74 mila km2; nel corso di tutto il 2024 e quasi metà 2025 i russi hanno occupato poco più di 4 mila km2. Nell’agosto 2024 le forze ucraine invasero l’oblast’ russo di Kursk, occupandone in poco più di una settimana circa 1.000 km2, impegnando per oltre otto mesi decine di migliaia di militari russi e, addirittura, un contingente della Corea del nord, probabilmente dimezzato a causa dell’inesperienza. Il valore tattico e strategico di questa operazione è oggetto di discussione ma un punto certamente essa ha dimostrato: notevoli capacità di manovra offensiva delle forze ucraine, ancora una volta nonostante le aspettative contrarie e i limiti degli aiuti internazionali. Inoltre, i limitati progressi territoriali degli invasori russi hanno un costo umano e di mezzi spaventoso: almeno mille uomini al giorno tra morti e feriti, con punte d’oltre 1.500, il che implica che ogni mese le nuove reclute a malapena compensano le perdite; dal 2022 la stima è di 900.000 fra morti e feriti russi. Il fatto è che i comandi russi hanno a lungo praticato una tattica basata sul consumo di massa di uomini e mezzi, mandati nel «tritacarne». Il campo di battaglia saturo di droni lavora contro l’attacco russo e a favore della difesa ucraina. Posto che sul campo di battaglia «trasparente» veicoli corazzati per il trasporto delle truppe e carri armati sono troppo vulnerabili, un ragionevole adattamento tattico dei russi (adottato anche dagli ucraini) - utilizzato nella speranza d’essere meno visibili o di battere i droni in velocità - è l’attacco condotto da piccole squadre che si muovono con motociclette o simili mezzi civili. Obiettivamente un’umiliazione, per una sedicente superpotenza che dovrebbe avanzare trionfante nel rombo di massicce brigate corazzate.
Il «sugo» di queste note è che la resistenza ucraina è sulla difensiva e in situazione difficile, ma non è sconfitta né è inevitabile che questo accada in futuro. La guerra è un fenomeno totale e complesso, in cui entrano in gioco in modo decisivo una molteplicità di fattori non militari e non materiali, sia tra le parti direttamente in conflitto e al loro interno, sia nel contesto internazionale. La guerra è il regno dell’incertezza, per cui affidarsi al solo calcolo della potenza materiale è un errore potenzialmente fatale. Se non fosse così non si spiegherebbe tanta parte della storia recente, dalle sconfitte americane in Vietnam a quella dell’Unione Sovietica in Afghanistan all’insuccesso del piano d’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Tuttavia, se il «fattore morale» dei combattenti e dei civili d’Ucraina è stato ed è tuttora la condizione necessaria della resistenza all’invasione russa, da solo non è sufficiente a garantirne la vittoria o l’esito migliore. È per questo motivo che occorre il raddoppio dello sforzo internazionale per l’indipendenza ucraina.
La guerra di liberazione dell’Ucraina non è una guerra per procura
È una banalità, ma occorre rimarcare che l’Ucraina non ha mai costituito una «minaccia esistenziale» militare per la Russia. Non solo perché la Russia è nata come potenza nucleare mentre l’Ucraina ha attuato il disarmo nucleare unilaterale (a favore della stessa Russia), ma anche perché, come già detto, quello dell’Ucraina non era e non è un esercito Nato e, malgrado la forza dell’aspirazione, l’Ucraina non è uno Stato membro dell’alleanza atlantica e non ha mai avuto seria possibilità di farne parte, meno che mai dal 2014: a questo proposito solo promesse circa un futuro indeterminato.
Inoltre, tra febbraio e la fine di marzo 2022 è stato irrimediabilmente negato a Putin il primo e determinante obiettivo dell’invasione: la decapitazione del governo e la sottomissione politica di tutta l’Ucraina. Dalle considerazioni circa la situazione degli aiuti militari prima del 2022 è chiaro che questo si deve alla sola forza e alla determinazione degli ucraini nel difendere la loro indipendenza statuale e la loro libertà politica dall’aggressione dell’imperialismo russo.
Questo ci dice qualcosa sulla natura della guerra russo-ucraina o, almeno, su ciò che essa non è e su come considerare gli aiuti militari.
Al contrario di quanto sostenuto dalla propaganda putiniana e fintopacifista, la guerra in Ucraina non è affatto una guerra per procura, ovvero condotta dall’Ucraina contro la Russia per conto di terzi. Più che concetto analiticamente utile «guerra per procura» è una pessima espressione moralistica e stigmatizzante, che durante la guerra fredda era utilizzata specialmente in funzione antisovietica, fatto paradossale visto che l’espressione è ora una marca linguistica dei simpatizzanti del regime russo. In questo caso significherebbe che l’Ucraina farebbe guerra alla Russia su incarico di ... di chi? Del cosiddetto mitico Occidente? O degli Stati Uniti o della Nato, oppure dell’Unione Europea, della Germania? È interessante che la propaganda russa ora consideri guerrafondaia l’Europa e non più gli Stati Uniti. Il fatto è che non esiste risposta ragionevole a quella domanda, perché non è l’Ucraina che ha aggredito la Russia ma è la Russia che ha invaso e occupato l’Ucraina fin dal 2014 (sorvolando sulla cronica e potente ingerenza nei decenni precedenti).
E poi: da dove arrivavano i caccia Mig-17, 19 e 21 dell’aviazione del Vietnam del nord (Mig sta per Mikoyan-Gurevich)? Dove erano prodotti i carri armati T-54 e T-55, ampiamente utilizzati dall’esercito del Vietnam del nord, e i radar che intercettavano e i missili S-75 Dvina che abbatterono la maggior parte del migliaio d’aerei persi dall’aviazione degli Stati Uniti durante quella guerra? Si vuole essere coerenti e così ridurre anche la guerra del Vietnam a una guerra per procura per conto di Mosca? Cosa si sarebbe detto se qualcuno avesse condannato la guerra statunitense e nello stesso tempo avesse preteso la cessazione degli aiuti militari sovietici al Vietnam del nord? Ipocrita? Infame? Servo degli americani? Questo e anche peggio.
Il punto è che dalla seconda metà del XX secolo Stati Uniti e Unione Sovietica furono coinvolti in tutti i maggiori conflitti e in guerre civili ma, non per questo, quelli erano conflitti per loro procura: scaturivano essenzialmente da ragioni sociali interne e/o come lotte di liberazione nazionale da antiche potenze coloniali europee.
Il mondo è cambiato, ma una parte della sinistra vive in una bolla mentale popolata dai fantasmi, dai miti e dai riti del passato. È una forma di lutto non rielaborato che non solo blocca la riflessione critica sul passato ma allontana dalla corretta interpretazione della realtà presente, così da finire ipnotizzati da regimi ferocemente reazionari: sul Cremlino ora è tornata la bandiera zarista, la Cina è una delle colonne dell’economia mondiale capitalista.
A maggior ragione se esclusa dalla Nato, per continuare ad esistere come Stato indipendente l’Ucraina ha la necessità di forze armate consistenti e ben dotate dei mezzi bellici più moderni. Chi rivendica l’interruzione degli aiuti militari e il disarmo dell’Ucraina, invoca la «pace» ma non pone come condizione preliminare il ritiro delle truppe d’invasione della Russia non è un pacifista. O è un «utile idiota» che non sa di cosa parla, oppure è un mercenario al servizio di Putin.
A chiunque vadano le simpatie politiche in una qualsiasi guerra, l’idea della «procura» cancella le ragioni oggettive del conflitto e le motivazioni soggettive dei combattenti, riducendoli a marionette o a imbecilli senza autonomia. Ignorare la soggettività e gli interessi politici e materiali del popolo ucraino è un altro dei marchi distintivi del sedicente «realismo» (nel senso della teoria delle relazioni internazionali) e del fintopacifismo (cioè del non troppo mascherato «campismo» filo-Putin) che obiettivamente ragionano come se la pace consista nell’ammettere la divisione del mondo in legittime sfere d’influenza. D’altra parte, è l’assoluta incomprensione di questa soggettività politica e nazionale ad essere all’origine degli errori operativi dei russi nella pianificazione dell’invasione e della più grave umiliazione dell’esercito di una «superpotenza» proprio nel tipo di guerra in esso dovrebbe eccellere: non contro milizie irregolari e guerrigliere, ma in un conflitto convenzionale contro forze regolari sostenute dalla volontà di resistenza di un popolo. Con o senza il sostegno degli Stati Uniti, questa stessa soggettività è il fattore «morale» che continuerà a sostenere la resistenza armata ucraina e che impedirà il riconoscimento delle illegali annessioni di territori e cittadini ucraini alla Federazione Russa e di accettare la sottomissione al disegno imperiale di Putin.
Anche dopo l’aggressione del 2022 i governi «occidentali» sono stati costretti a fornire armi all’Ucraina, per di più tenendo conto di «linee rosse» stabilite da Mosca e senza impegnarsi a fondo, nonostante il potenziale economico degli Stati Uniti e dell’Unione Europea mobilitabile per un conflitto sia enormemente più grande di quello della Russia. Studiando con attenzione tempi, quantità e qualità degli aiuti militari all’Ucraina è chiaro che gli Stati Uniti e gli Stati più importanti dell’Unione Europea non hanno avuto una strategia coerente con gli obiettivi indicati dalle dichiarazioni formali. Non hanno puntato sulla sconfitta delle forze d’invasione russe e alla loro espulsione dall’Ucraina ma sul logoramento economico della Russia, per portare Putin a negoziare la pace da una posizione indebolita. Questo sulla base di una errata valutazione sia dell’obiettivo politico minimo di Putin, sia della mobilitazione economica del complesso militare-industriale della Russia, a fronte di una quasi inesistente mobilitazione del potenziale economico del complesso militare-industriale statunitense ed europeo, che pure è di diversi ordini di grandezza maggiore di quello della Russia.
1 Ne ho trattato più volte estesamente negli ultimi mesi: «Perché non è possibile la pace con Putin», 2 dicembre 2024; «Stati Uniti, Russia e Ucraina da Biden a Trump. Dall’appeasement all’incoerenza all’idiotismo negoziale», 16 febbraio 2025; «I falliti negoziati russo-ucraini. Lezioni per il futuro», 26 febbraio 2025. Tutti gli articoli nel blog: http://utopiarossa.blogspot.com
2 Il trasferimento dell’arsenale nucleare detenuto dall’Ucraina rientrava nel complesso programma noto come Cooperative threat reduction o Nunn-Lugar act o, formalmente, Soviet nuclear threat reduction act of 1991, promosso dai senatori nordamericani Nunn e Lugar su richiesta d’assistenza del presidente sovietico Gorbačëv, finanziato dagli Stati Uniti con 400 milioni di dollari all’anno per diversi anni, volto alla distruzione di armi nucleari, chimiche e biologiche poste nelle Repubbliche sovietiche «and any successor entities». Il programma terminò nel gennaio 2015 su richiesta della Federazione Russa.
3 Fonte principale per quel che segue: Oleksandr V. Danylyuk-Jack Watling, Winning the industrial war. Comparing Russia, Europe and Ukraine, 2022–24, RUSI, aprile 2025.
4 Taras Kuzio, «Russianization of Ukrainian national security policy under Viktor Yanukovych», Journal of Slavic military studies, 25, 4, 2012.
5 Cifre in U.S. security cooperation with Ukraine, U.S. Department of State, Bureau of political-military affairs, 4 marzo 2025.
6 Storicamente, benché l’Impero russo e l’Urss abbiano vinto le «guerre patriottiche» contro Napoleone e Hitler insieme ad altre potenze alleate – punto su cui la narrazione mitologica glissa - fra XIX e XX secolo la Russia e l’Urss persero quasi tutte le altre guerre: la guerra di Crimea (1853-6), quella con il Giappone (1904-5), la Prima guerra mondiale, la guerra con la Polonia (1919-21), la guerra in Afghanistan (1979-89). Mentre Stalin era di fatto alleato con Hitler, in accordo con la Wehrmacht e dopo che questa aveva già battuto le forze polacche, l’Armata rossa occupò le regioni occidentali dell’Ucraina e della Bielorussia, allora parti della Polonia, salvo perderle immediatamente all’inizio dell’attacco nazista; Stalin ottenne acquisizioni territoriali al termine della «guerra d’inverno» (1939-40) con la Finlandia, ma al prezzo di perdite elevatissime e della conferma della fama d’incapacità dell’Armata rossa diffusa fra i capi militari e politici del tempo; questa valutazione negativa si rivelò sbagliata, ma solo col senno del poi e un costo terrificante in vite umane.
ENGLISH
WHY DOUBLE MILITARY AID TO UKRAINE
by Michele Nobile
Part one: Foreign aid and the war of liberation
The back-and-forth of official statements and journalistic commentary regarding the negotiations between Russia, the United States, and Ukraine is creating confusion and tends to raise expectations that are bound to be disappointed1. First and foremost, the contacts between Russia and the United States are not actual negotiations but rather preliminary steps aimed at exploring the possibility of initiating talks that are not doomed to fail from the outset. The disputes over the duration, scope, and geographical extent of a possible ceasefire fall within this context: testing the real willingness to negotiate.
After previous attempts by Obama, Biden, and the first Trump administration, this is yet another U.S. reset in the direction of appeasement toward Putin—but one that is even more contradictory than the previous ones. In fact, with the aim of quickly ending hostilities, the Trump administration has exerted maximum pressure on Ukraine—for example, by forcing its air defense to choose whether to protect civilian or military targets. Even more seriously, the uncertainty surrounding the continuity of aid compromises the Ukrainian forces' ability to plan future counteroffensive operations.
At the same time, however, Russian forces continue to maintain the offensive initiative along nearly the entire front line and to carry out massive airstrikes on Ukrainian cities. Although every square kilometer gained comes at a very high cost to Russia in terms of personnel and equipment, and the pace of their territorial advances is significantly slower than it was in October–November 2024—and continues to slow down—from the perspective of Putin’s war objectives, this course of action is perfectly logical: although it cannot be sustained indefinitely, it is the most effective way to exploit the material and psychological imbalance in Russia’s favor created by Trump’s policies.
Secondly, it is important not to be dazzled by the way politicians and commentators use the word peace. It must be reiterated—what should be obvious—that a “ceasefire” or an armistice, whether fragile or long-lasting, is something entirely different from a peace treaty. It does not end the state of war but merely suspends it. When one objectively examines the minimum goals of the parties in conflict, it becomes clear that—barring major military upheavals, which are not foreseeable at the moment—the diplomatic outcome cannot be peace, but at best, a freezing of the front lines.
Unfortunately, the reason Putin refuses a prolonged and general suspension of ground fighting and airstrikes is not merely tactical; it is an inevitable consequence of the situation he has deliberately created. One only needs to consider the Russian regime’s repeatedly stated minimum war aims: de jure recognition of the annexation of Crimea and four other Ukrainian oblasts by the Russian Federation—amounting to about one-fifth of Ukraine’s territory; a drastic reduction of the Ukrainian armed forces’ defense capabilities; and denial to Ukraine not only of NATO membership but of any serious form of international security guarantee. These objectives—especially the first—are non-negotiable. They constitute a massive obstacle to peace, immovable through diplomacy. There can be no doubt that Putin will never peacefully return the occupied territories, as that would mean admitting defeat in the so-called “special operation” and render the immense human cost of the war meaningless, with potentially grave consequences for the stability of his regime.
On the other hand, it is obvious that Ukrainians are weary of the war and the first to desire peace. However, the supposed peace on the basis of Putin’s minimum objectives would directly serve his ultimate goal, which he clearly has not abandoned: the establishment of a government in Kyiv subordinate to Moscow. That is the purpose behind weakening Ukraine economically and demographically, amputating its territory, and ensuring that it is unable to defend itself or receive help from abroad. It could well be said that such a “peace” would be nothing more than the continuation of war by other means—or a pause before a third aggression (after those of 2014 and 2022, the latter still ongoing). Accepting Putin’s minimum demands would, for Ukrainians, amount to the suicide of their national independence and political freedom.
For Ukrainians, the issue of peace goes beyond the return of occupied territories, justice for atrocities and war crimes, and reparations for the enormous human and material damage inflicted by Putin’s aggression. Peace entails defining the military, political, and economic conditions that ensure the Ukrainian people’s internal freedom and their right to determine the country’s international alignment.
This, in turn, objectively raises the issue of strengthening the European Union. It is difficult to see a political future for the EU if it cannot defend itself—and Ukraine—as a future member state. If one shares this perspective, it follows that European countries must decide upon and coordinate a defense investment policy aimed, in the immediate term, at replacing as much as possible the United States’ military support in Ukraine’s war for liberation and independence. In practical terms, European Union countries’ military and economic aid to Ukraine should double. This is certainly feasible, considering that for the largest European states, total aid to Ukraine amounts to just around 0.1% of their Gross Domestic Product—a clearly inadequate economic effort.
Moreover, European support for Ukraine must continue even after the war is frozen or ends—both for the country's economic reconstruction and for essential security guarantees and military aid, possibly through the use of frozen Russian assets and the cancellation of Ukraine’s foreign debt.
In the remainder of the article, I will consider the impact of foreign contributions on the evolution of Ukraine’s military capabilities and criticize the notion of a “proxy war.”
Ukraine’s multi-vector foreign policy and the crisis of national defense
The Ukrainian SSR was a fundamental part of the Soviet Union’s military-industrial complex, including in the design and construction of intercontinental ballistic missiles such as the SS-18 Satan. Armed with eight nuclear warheads with independent trajectories and targets, these missiles were the most fearsome in the Soviet arsenal due to their capability to strike U.S. missile sites. At that time, Ukraine was one of the most heavily militarized and powerfully armed regions in the world, with around 800,000 troops stationed there.
After the USSR disintegrated in the early 1990s, Ukraine was, in potential, the world’s third-largest nuclear power, thanks to the legacy of thousands of tactical and strategic nuclear warheads, along with their delivery systems—missiles and bombers. This arsenal was larger than the combined nuclear forces of China, France, and the United Kingdom. Ukraine gave it up through a unilateral nuclear disarmament program financed by the United States, which involved transferring the warheads and delivery systems to Russia2. Notably, 46 SS-18 Satan missiles and several Tupolev TU-160 and TU-22M strategic bombers—some of which are currently launching cruise missiles at Ukrainian cities—are still operational in Russia today. After entirely discarding its nuclear deterrent, Ukraine obtained in return, through the 1994 Budapest Memorandum, a pledge from the Russian Federation to respect its security and territorial integrity. That piece of paper was torn up by Putin in 2014—a fact worth remembering whenever Ukrainians speak of self-defense, credible international security guarantees, and the trustworthiness of solemn Russian promises.
The socioeconomic crisis of the post-Soviet transition was far more severe in Ukraine and Russia than in other former Soviet republics—and even more so than in the Central European countries that had previously been under Moscow’s limited sovereignty but progressively chose to join NATO and the European Union. With the collapse of Soviet central planning and the disappearance of direct orders to defense industries, Ukraine’s military-industrial sector shrank by half in terms of both companies and workforce3. It became almost entirely export-oriented, especially toward Russia, rather than serving Ukraine’s own armed forces. Meanwhile, Ukraine’s military sold off hundreds of tanks, aircraft, and helicopters—partly in compliance with the Treaty on Conventional Armed Forces in Europe, which Russia stopped implementing in 2007.
By 2012, more than 90% of the Ukrainian military’s equipment was at least twenty years old. Live-fire exercises for army units and flight hours for pilots were minimal. Vehicles often lacked fuel, and batteries were missing. By 2014, when Putin ordered the occupation of Crimea and instigated separatist unrest in the Donbas, Ukraine had not only abandoned nuclear deterrence but had also, through successive governments—regardless of political orientation—allowed its defensive capabilities to deteriorate dramatically.
This decline resulted partly from the economic and social turmoil of the post-Soviet transition, partly from widespread corruption and the personal use of the Defense Ministry by political appointees, and partly—under Yanukovych—from the "Russification" of the security services, both in terms of high-ranking military and political figures personally linked to the Russian regime, and efforts to “Russify” the political system itself4.
All of these are important contributing factors. However, I believe another one must also be considered, especially relevant in discussions about a possible status for Ukraine as a neutral or non-aligned country (which is not Putin’s actual goal: he seeks not Ukrainian neutrality, but the neutralization of its defense capabilities and political autonomy).
With shifts toward either the West or the East, until 2014 all Ukrainian presidents and governments pursued what was known as a multi-vector foreign policy. According to this approach, centuries of shared history, integration, and dominance made close relations with Russia inevitable—relations that, since independence, had been quite problematic due to issues such as border delimitation, Crimea, the division of the Black Sea Fleet, and the pricing and management of energy supplies. At the same time, the multi-vector policy held that these necessary ties with Russia should be balanced by forging new relationships with NATO and the European Union. Even the Donbas oligarchy—the richest and most powerful in the country, and deeply connected to the Russian oligarchy—sought to contain Moscow’s excessive demands and had no intention of giving up the opportunities offered by Western Europe.
Ukraine’s decades-long ambiguity in foreign policy reached its limits in 2014. The violent repression of the pro-European movement by President Yanukovych made it unmistakably clear that the construction of an authoritarian domestic regime was directly linked to an international orientation favoring Russia. On the other hand, Ukraine is an irreplaceable link in Putin’s project for a Eurasian sphere of influence. He responded to Yanukovych’s fall with the invasion and annexation of Crimea and the promotion of, and military intervention in, the Donbas conflict. At that point, there was no longer any room for the ambiguities and oscillations of multi-vectorism: for Ukraine, joining the European Union became—and remains—a condition of political independence.
After 2014, the state of Ukraine’s armed forces and military industry began to change, but when it came to foreign arms supplies, the country was effectively under an embargo. This aligned with the appeasement policy of "Western" governments toward Russia, exemplified by the Minsk agreements, which treated Russia as a mediator rather than a direct party to the conflict; moreover, those agreements excluded Crimea, which had been invaded and annexed by the Russian Federation.
The U.S. government sold lethal weapons to Ukraine only in 2018 under the Foreign Military Sales program—specifically: 210 short-range Javelin anti-tank missiles and 37 launchers, followed by another 150 missiles the following year, and Mark VI patrol boats in 2020. From 2015 to 2020, U.S. administrations authorized exports, under Direct Commercial Sales, of military equipment totaling $294 million (mainly ammunition, targeting and guidance systems, and military electronics)5. Additionally, between 2015 and 2021, the United States provided $77 million for mine and explosive ordnance disposal, clearing nearly two million square meters in the Donbas region from munitions planted by Russian forces and separatists. To understand how insignificant these exports were, consider that after the 2022 Russian invasion, Ukraine’s resistance received over 10,000 Javelin missiles and many other anti-tank weapons.
In outlining his foreign policy, Donald Trump boasts that he was the first to provide lethal weapons to Ukraine and claims that, had he been president, Putin would not have invaded Ukraine. The first claim is a half-truth. It is true that neither Obama nor Bush allowed the export of lethal military equipment, but Trump was subjected to his first impeachment for using military aid to Ukraine as a tool of blackmail against President Zelensky, in an effort to obtain compromising information about Biden’s son. Moreover, it was due to obstruction by Trump’s party—more precisely, by its faction most loyal to the billionaire—that for over a year, from January 2023 to April 2024, the U.S. Congress failed to approve new aid for Ukraine, undermining its defense and facilitating the renewed Russian offensive.
As for Trump’s second claim, it is just one of his countless arrogant falsehoods, which reveal a total misunderstanding of Putin’s imperial ambitions.
Ukraine’s Defense and International Support
In terms of equipment, the Ukrainian army was not—and still is not—a NATO army. As of 2022, the majority of the Ukrainian armed forces’ equipment was Soviet-era—somewhat modernized—and domestically produced. In fact, in the early months of the full-scale invasion, the main challenge was sourcing Soviet-style ammunition and weaponry compatible with Ukraine’s existing platforms and training—for example, 122 mm and 152 mm artillery shells (whereas the NATO standard is 155 mm); T-72 tanks (in various models dating back to the 1970s and ’80s, used in all Soviet and Russian wars and widely exported), in addition to the T-72s and the Ukrainian-made T-64 “Bulat” variant; MiG-29 fighter jets, and so on.
With the exception of multiple rocket launchers—about a dozen U.S.-supplied M142 HIMARS and another dozen M270 and Mars II systems from the UK, Germany, and France—which enabled strikes against enemy logistics and vehicles between late July and autumn 2022, effectively contributing to the success of Ukrainian counteroffensives—the most modern "Western" systems were only delivered during 2023 and 2024. Even then, their use was often limited, and the political decision-making timeline lagged far behind Ukraine’s urgent wartime needs.
The invasion of Ukraine had been based on a completely flawed political assessment, conceived as a set of operations expected to conclude quickly. When the initial plan failed, Russia was forced to shift to a strategy of prolonged attritional warfare. To sustain this, partial mobilization of the economy for wartime production became essential—beginning no later than June, at least three months before the partial mobilization of human reserves.
Russia’s mobilization of its war economy was aided by Soviet-era legacies: a pre-existing economic mobilization plan; civilian industrial facilities designed to be converted for military production; and extensive state ownership of the arms industry. By early July, the economic mobilization process was formalized through legislative measures, including a ban on private firms refusing government orders related to military production, suspension of trade union rights (as limited as they already were), and the introduction of 12-hour shifts with only one weekend off per month in defense-related facilities. It’s estimated that around 4.5 million workers are involved in war-related production; including their family members, this means about 10% of the population is directly tied to the war economy.
From the beginning of the conflict, the United States and European governments implicitly adopted a strategy of attrition targeting Russia’s economy: the assumption was that Putin would eventually be forced to negotiate to avoid the “devastating” (as Biden put it) economic and social consequences of sanctions leading to protests and regime destabilization. Given the significant military imbalance between Russia and Ukraine, an attritional strategy was—and still is—necessary. But its effectiveness depends on how it’s applied, which in turn relies on an accurate assessment of the enemy’s capabilities and objectives.
The first weakness in Biden and his allies’ approach was underestimating the level of economic and human cost that Putin and Russian society are willing to bear, due to how crucial Ukraine’s subjugation is for the regime and for Russian nationalism.
The second error was underestimating the regime’s management capacity, its economic potential, and the resources it could mobilize for war.
The third—and most serious—mistake stems directly from the broader attitude toward Russia. To work against an industrialized state with a large arsenal, an attritional strategy requires not just sanctions but maximum battlefield pressure, total economic blockade, and direct strikes on military production centers, bases, and transport infrastructure within enemy territory. Put bluntly: in war, attrition means the physical destruction of the enemy’s forces must proceed faster than they can be replenished economically or demographically, until morale collapses and the adversary is convinced that its goals are unattainable.
The problem is that Biden and his allies’ political outlook never allowed for a coherent application of this strategy, because their objective was never the military defeat of the Russian invasion—but rather a negotiated settlement with Putin. That is why military aid to Ukraine has been constrained by compliance with various “red lines” set by Moscow, creating a kind of obstacle course that Ukraine has often overcome, but always with delays and limits that harmed its military operations and defensive capabilities—especially as Russia’s mobilization expanded and continued its attacks on Ukrainian cities and civilian infrastructure.
In Ukraine, the myth of Russia’s invincibility is melting away
One of the most common arguments from Putin’s propaganda and pseudo-pacifist narratives is that Ukraine has no hope of defeating the military superpower that is the Russian Federation. Therefore, they claim, it would be in the Ukrainian people’s interest to give up the fight and thus end unnecessary suffering and destruction—"a senseless war," as some say. Even Donald Trump uses a similar argument, which conveniently serves to justify both economic extortion of Ukraine’s mineral resources and concessions to Putin’s demands—absurdly made without reciprocity, at the expense of Ukrainians, and even before any negotiations begin.
However, Russia’s invincibility is a myth—both historically and currently6. Let’s consider some facts.
Ukraine began mobilizing its economy for war in conditions similar to those of the Soviet Union in the second half of 1941: nearly one-third of its national territory was occupied, its free regions were being bombed, major industrial resources were lost (including a third of its metallurgical plants), and its ports and maritime exports were blocked. Despite all this and a falling GDP, by the end of 2024 around half of Ukraine’s artillery shells and nearly all its drones were domestically produced. Like Russia, Ukraine benefited from a Soviet legacy: state ownership of many defense industries—which simplifies procurement—and personnel capable of designing sophisticated weapons, all with production costs far lower than those in Russia or NATO countries.
With relatively limited resources, Ukrainians have achieved significant results and devised effective methods that, according to experts, offer valuable lessons and insights into the possible nature of future wars. They managed to prevent Russia’s air force from achieving air superiority, forcing Russian aircraft to operate at a distance from the front lines. Remarkably, despite having virtually no navy, Ukraine inflicted heavy damage on Russian ships using maritime drones, forcing the Black Sea Fleet to withdraw from Crimea.
This war has highlighted, more than ever before, the importance of drones of every type and function—and the speed with which technical and tactical innovations do not precede the conflict but are developed during it, in a dynamic sequence of moves and countermoves. In 2024, Ukraine produced 1.5 million drones of all kinds, including thousands capable of striking arsenals, supply depots, airbases, and refineries up to 2,000 km deep into Russian territory. In early 2025, this meant the destruction of roughly a year’s worth of Russia’s artillery shell production, several strategic bombers, and 10% of the country’s refining capacity.
In 2022, Ukrainians liberated more than 74,000 km² from Russian occupation. Throughout all of 2024 and almost half of 2025, Russian forces have captured just over 4,000 km². In August 2024, Ukrainian forces invaded Russia’s Kursk Oblast, occupying about 1,000 km² in just over a week. This operation tied down tens of thousands of Russian troops for over eight months—including a North Korean contingent, reportedly halved due to inexperience. The tactical and strategic value of the operation is debated, but one thing is clear: it demonstrated Ukraine’s considerable offensive maneuvering capabilities—once again, despite low expectations and limited international support.
Moreover, Russia’s limited territorial gains have come at a staggering human and material cost: at least 1,000 Russian soldiers are killed or wounded each day, with peaks exceeding 1,500. This means that each month, new recruits barely make up for losses. Since 2022, an estimated 900,000 Russian soldiers have been killed or wounded. Russian commanders have long employed tactics based on the mass consumption of men and equipment—sent into the “meat grinder.” A battlefield saturated with drones works against Russian attacks and in favor of Ukrainian defense. On this “transparent” battlefield, where armored vehicles and tanks are too vulnerable, the Russians (like the Ukrainians) have been forced to adapt: attacks are now carried out by small teams using motorcycles or similar civilian vehicles—an objective humiliation for a supposed superpower that should be advancing triumphantly with armored brigades.
The takeaway from all this is that Ukrainian resistance is on the defensive and facing difficulties, but it is not defeated—nor is defeat inevitable. War is a total and complex phenomenon, involving many non-military and non-material factors—within and between the belligerents, and in the broader international context. War is the realm of uncertainty, and relying solely on calculations of material power is a potentially fatal error. If that weren’t the case, much of recent history would be inexplicable: from America’s defeat in Vietnam to the Soviet failure in Afghanistan to Russia’s failed 2022 invasion plan.
Still, while the morale of Ukrainian fighters and civilians has been and remains a necessary condition for resisting the Russian invasion, it is not sufficient on its own to ensure victory or the best possible outcome. This is why the international effort for Ukrainian independence must be doubled.
Ukraine’s war of liberation is not a proxy war
It may seem obvious, but it must be emphasized: Ukraine has never posed an "existential military threat" to Russia. Not only because Russia emerged as a nuclear power while Ukraine unilaterally disarmed its own nuclear arsenal (in favor of Russia, no less), but also because, as previously mentioned, Ukraine’s military was not—and still is not—a NATO army. Despite strong aspirations, Ukraine is not a NATO member and has never had a serious chance of joining the alliance, especially not since 2014: only vague promises about an indefinite future have been made in that regard.
Moreover, between February and the end of March 2022, Putin’s first and decisive objective for the invasion—decapitating the Ukrainian government and politically subjugating the entire country—was definitively thwarted. As shown by the state of military aid before 2022, this result was due solely to the strength and determination of Ukrainians in defending their state independence and political freedom from Russian imperialist aggression.
This tells us something about the nature of the Russia-Ukraine war—or, at the very least, about what it is not, and how military aid should be understood.
Contrary to what Putin’s propaganda and pseudo-pacifist voices claim, the war in Ukraine is not a proxy war—i.e., a war Ukraine is waging against Russia on behalf of others. More than an analytically useful concept, "proxy war" is a harmful moralizing and stigmatizing expression, historically used during the Cold War mostly for anti-Soviet purposes. Ironically, it is now a catchphrase of those who sympathize with the Russian regime. In this context, it would mean that Ukraine is fighting Russia on behalf of… whom, exactly? The so-called mythical "West"? The United States? NATO? The European Union? Germany?
It’s telling that Russian propaganda now portrays Europe, rather than the U.S., as the warmonger. But there is no reasonable answer to that question, because it was not Ukraine that attacked Russia—it was Russia that invaded and occupied parts of Ukraine starting in 2014 (not to mention the chronic and powerful interference in Ukrainian affairs in prior decades).
And consider this: where did the North Vietnamese air force get its MiG-17s, MiG-19s, and MiG-21s (MiG stands for Mikoyan-Gurevich)? Where were the T-54 and T-55 tanks—widely used by North Vietnam’s army—produced? Or the radar systems and S-75 Dvina missiles that shot down most of the thousand U.S. aircraft lost in that war? Should we then, for the sake of consistency, call the Vietnam War a Soviet proxy war? What would have been said if someone had condemned the U.S. war while also demanding an end to Soviet military aid to North Vietnam? Hypocrite? Infamous? American stooge? That—and worse.
The point is that, from the second half of the 20th century onward, both the United States and the Soviet Union were involved in nearly all major conflicts and civil wars, yet that didn’t automatically make them proxy wars. These conflicts typically stemmed from internal social reasons and/or national liberation struggles against old European colonial powers.
The world has changed, but parts of the left still live in a mental bubble populated by ghosts, myths, and rituals of the past. It’s a form of unresolved mourning that not only blocks critical reflection on history, but also distorts current reality, leaving some hypnotized by brutally reactionary regimes: the tsarist flag now flies over the Kremlin, and China is a pillar of global capitalist economics.
Even more so given its exclusion from NATO, Ukraine must maintain strong and well-equipped armed forces with access to the most modern weapons if it is to survive as an independent state. Those who call for halting military aid and disarming Ukraine, all in the name of “peace,” but do not make Russia’s withdrawal from occupied territories a prerequisite—those people are not pacifists. They are either "useful idiots" who don’t know what they’re talking about, or mercenaries in service to Putin.
Whatever one’s political sympathies may be in any war, the idea of a "proxy" conflict erases the objective reasons behind it and dismisses the subjective motivations of those fighting, reducing them to puppets or fools without agency. Ignoring the political and material interests of the Ukrainian people is another hallmark of so-called "realism" (in the sense of international relations theory) and fake pacifism (which barely conceals its pro-Kremlin "campism"). These ideologies ultimately treat peace as a matter of accepting the world’s division into legitimate spheres of influence.
But in fact, it was the utter failure to understand this political and national subjectivity that led to Russia’s strategic errors in planning the invasion—and to the most humiliating defeat of a “superpower” army in precisely the kind of war in which it was supposed to excel: not against irregular guerrillas, but in a conventional war against regular forces backed by a people determined to resist.
With or without U.S. support, this very sense of subjectivity is the moral factor that will continue to sustain Ukraine’s armed resistance and prevent any recognition of Russia’s illegal annexation of Ukrainian territory and citizens, or acceptance of subjugation to Putin’s imperial plan.
Even after the 2022 invasion, Western governments were forced to provide arms to Ukraine—but always within the constraints of “red lines” set by Moscow, and without real commitment, despite the vast economic potential that the U.S. and the EU could bring to bear. If one examines the timing, scale, and nature of military aid to Ukraine carefully, it becomes clear that neither the U.S. nor the leading EU countries had a strategy consistent with the objectives they stated publicly. They did not aim to defeat and expel the Russian invasion forces from Ukraine, but rather to wear down the Russian economy in hopes of forcing Putin to negotiate from a weakened position. This approach was based on a mistaken assessment of both Putin’s minimal political objectives and Russia’s ability to mobilize its military-industrial complex—while the U.S. and Europe barely mobilized theirs, despite its vastly superior capacity.
1 I have written extensively on this topic in recent months: «Perché non è possibile la pace con Putin», 2 dicembre 2024; «Stati Uniti, Russia e Ucraina da Biden a Trump. Dall’appeasement all’incoerenza all’idiotismo negoziale», 16 febbraio 2025; «I falliti negoziati russo-ucraini. Lezioni per il futuro», 26 febbraio 2025. All articles are available on the blog: http://utopiarossa.blogspot.com
2 The transfer of the nuclear arsenal held by Ukraine was part of a broader program known as the Cooperative Threat Reduction or Nunn-Lugar Act, formally the Soviet Nuclear Threat Reduction Act of 1991, promoted by U.S. Senators Nunn and Lugar at the request of Soviet President Gorbachev. It was funded by the United States at $400 million annually for several years, with the aim of dismantling nuclear, chemical, and biological weapons located in the Soviet republics “and any successor entities.” The program ended in January 2015 at the request of the Russian Federation.
3 Main source for the following: Oleksandr V. Danylyuk and Jack Watling, Winning the industrial war: Comparing Russia, Europe and Ukraine, 2022–24, RUSI, April 2025.
4 Taras Kuzio, “Russianization of Ukrainian national security policy under Viktor Yanukovych,” Journal of Slavic Military Studies, Vol. 25, No. 4, 2012.
5 Data from U.S. Security Cooperation with Ukraine, U.S. Department of State, Bureau of Political-Military Affairs, March 4, 2025.
6 Historically, although the Russian Empire and the USSR won their so-called “patriotic wars” against Napoleon and Hitler with the help of allied powers - a point that mythologizing narratives tend to gloss over - between the 19th and 20th centuries, Russia and the USSR lost nearly all other wars: the Crimean War (1853–56), the war with Japan (1904–05), World War I, the war with Poland (1919–21), and the war in Afghanistan (1979–89). While Stalin was in fact allied with Hitler—cooperating with the Wehrmacht after it had already defeated Polish forces—the Red Army occupied the western regions of Ukraine and Belarus, then part of Poland, only to lose them immediately with the onset of the Nazi invasion. Stalin did gain territorial concessions at the end of the “Winter War” (1939–40) against Finland, but at the cost of massive losses and confirmation of the Red Army’s reputation for incompetence, a belief widely held among military and political leaders of the time. That negative judgment turned out to be wrong, but only in hindsight—and at a terrifying cost in human lives.