di Roberto Sinigaglia
Caro Roberto,
ti segnalo un contributo molto importante per la comprensione del Medio Oriente da parte di Roberto Sinigaglia, che fu mio docente di storia tanto tempo fa, e che oggi è Presidente del Centro Internazionale di Studi Italiani (CISI) dell’Università di Genova.
Si compone di due parti. La prima è una sintetica descrizione dell’attuale conflitto a Gaza, ed è tratta dal sito dell’Associazione Italia-Israele, dov’è uscita a inizio luglio.
Essa funge da introduzione al suo saggio «Gaza e dintorni. Dipanare le matasse arruffate dalla propaganda», apparso questa primavera sulla rivista online European Journal of Psychoanalysis.
Mi rendo conto che ambedue i testi non sono pubblicazioni originali, cioè non sono state prodotte in area rossoutopica né per una discussione sul blog di UR; ma spero che vorrai fare un’eccezione perché penso che i lettori di Utopia Rossa potranno apprezzare un lavoro così stimolante, dove la cultura storica e giuridica è messa al servizio della ricerca della verità e della giustizia per tutti gli abitanti della regione.
La descrizione che fa Sinigaglia degli eventi successivi alla Prima guerra mondiale e del valore dei vari trattati e accordi dei vincitori (Gran Bretagna e Francia) nella spartizione delle terre dell’Impero ottomano nel determinare la nascita di vari Stati indipendenti - dalla Giordania all’Iraq, dal Libano a Israele, è fondamentale per inquadrare la situazione odierna.
Buona lettura e buon lavoro!
Luciano [Dondero]
Caro Luciano,
ti ringrazio per la segnalazione, che è certamente preziosa e di estrema utilità. Proprio per questo faremo un’eccezione alla norma che regola la pubblicazione di materiali in UR. Credo che l’autore - studioso prestigioso - sia riuscito a sintetizzare ma anche ad analizzare nella sua complessità, l’intera problematica legata al diritto alla sopravvivenza dello Stato d’Israele e al ruolo nefando svolto dagli Stati arabi, per non parlare del più recente pogrom di Hamas. A differenza di tanti altri analisti, Sinigaglia non dimentica di sottolineare che Hamas è l’organizzazione governativa di una Gaza che, prima del pogrom, era totalmente autonoma. Ciò significa che gli abitanti di Gaza uccisi finora sono vittime di guerra e di una guerra scatenata dal loro governo. In questo simili ai tedeschi bombardati a Dresda, ai giapponesi di Hiroshima, ai romani del quartiere San Lorenzo. E inoltre ha il grande merito di fare in più punti il parallelo con l’aggressione russa all’Ucraina e alle stragi del popolo ucraino, che non suscitano la protesta indiganata di quella che io chiamo normalmente la «sinistra reazionaria». Chiunque rimanga sulle proprie posizioni antisemitiche e antisraeliane, dopo aver letto questo articolo, può farlo solo rinunciando all’uso della ragione. Ma l’antisemita non avrà mai il coraggio di leggere per intero o in parte un materiale così ben argomentato e storicamente documentato.
r.m.
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UN’INTRODUZIONE
Ringrazio Carlo Panella che, coi suoi lavori, mi permette di inquadrare il violento scontro nel Vicino oriente in un contesto più ampio, in cui trova spazio il forte antisemitismo dell’islamismo radicale. Attingo generosamente al suo ultimo libro, Il libro nero di Hamas. L’antisemitismo islamico e il miraggio dei due Stati (Lindau, 2024) per proporvi queste poche paginette come introduzione al mio saggio «Gaza e dintorni. Dipanare le matasse arruffate dalla propaganda», apparso questa primavera sulla rivista European Journal of Psychoanalysis.
Al momento ci si muove, a mio avviso, in un abbaglio colossale nella trattazione degli avvenimenti. I due «partiti» che si sono venuti creando, partono entrambe da una premessa sbagliata che poi chiarirò: si schierano, il primo, in un appassionato appoggio ai Palestinesi, se non, addirittura, ad Hamas, insistendo sul presunto genocidio che si starebbe consumando a Gaza. L’altro partito, pur condannando – talvolta, però, in sordina – l’eccidio bestiale del 7 ottobre, effettuato ai danni di civili ebrei inermi, e riconoscendo il diritto di Israele a difendersi, ritiene tuttavia eccessiva, non proporzionale (cosa significa?), la risposta di Israele. Disgiunge, nel giudizio, i cattivi terroristi di Hamas dai poveri abitanti di Gaza. Presunti innocenti. Un sondaggio condotto da Arab World for Research and Development parla di un appoggio entusiasta del 63,6 % dei cittadini di Gaza all’assalto del 7 ottobre.[1] Come ho tentato di dimostrare, nel saggio sopracitato che seguirà questa breve introduzione, è fondamentale chiarire e dichiarare che l’attacco del 7 ottobre ha rappresentato l’atto iniziale della guerra scatenata da Hamas, che governa Gaza dal 2007, contro Israele. E come in tutte le guerre anche la popolazione civile viene a essere coinvolta. La questione da appurare è se i cittadini di Gaza, caduti negli scontri, abbiano rappresentato un obiettivo mirato dell’esercito israeliano o siano stati vittime accidentali.[2] Infiniti, nel passato, i casi in cui l’attacco armato di un esercito ha avuto come obiettivo primario quello di infierire sulla popolazione per fiaccare la resistenza del nemico. Vedi i bombardamenti sulla Germania (il più devastante quello anglo-americano del febbraio 1945 su Dresda), o quelli americani in Vietnam e soprattutto su Hiroshima e Nagasaki.[3] Per Gaza, al di là delle manifestazioni a livello mondiale pressoché quotidiane per condannare Israele (ma gli ostaggi ce li siamo dimenticati?),[4] qualcuno ha potuto dimostrare che ci siano o ci siano stati attacchi intenzionali contro la popolazione?[5]
L’ostilità araba si mostrò in tutta evidenza quando la Risoluzione dell’ONU del 1947, favorevole alla formazione dei due Stati, fu disattesa da parte degli Stati limitrofi e Israele subì un attacco da parte di cinque eserciti, salvandosi grazie agli armamenti provenienti dalla Cecoslovacchia [sovietica (n.d.r.)].[6] Progetto, quello dei due Stati – frutto di un antico accordo tra Feisal (futuro re prima della Siria, poi dell’Iraq) e Weizmann (futuro primo presidente di Israele) – che trovò riconoscimento, almeno per quel che concerne l’esistenza di uno Stato ebraico, col Mandato per la Palestina, documento assurto agli onori del diritto internazionale col voto della Società delle Nazioni del 24 luglio 1922.[7] Non trovò realizzazione, visto il clima politico tutt’altro che pacifico nell’intermezzo tra le due guerre mondiali. Importante ribadire che tutte le proposte avanzate da Israele dopo il 1948 per risolvere il contenzioso con le popolazioni arabe (negli anni 1967, 2000, 2001 e 2008), sono state rifiutate da parte araba.
Il dibattito attuale parte, come ho già detto, da un abbaglio colossale. Pensare che l’antisemitismo islamico sia sorto soltanto per motivi strumentali e funzionale alla contrapposizione con lo Stato di Israele è profondamente sbagliato. È vero il contrario: il rifiuto totale, radicale, nei confronti di Israele è il frutto di un millenario odio antiebraico frutto di intransigenza religiosa. Intollerabile poi, per molti islamici, che l’ebreo, da sempre maltrattato, umiliato, sottomesso, abbia guadagnato una sua dignità e sia ora in grado di tenere a bada i suoi nemici. Qualificare la lotta di Hamas allo Stato ebraico come guerra di liberazione rappresenta una favola romantica che scalda i cuori dei gruppi studenteschi impegnati in occupazioni di sedi universitarie negli Usa e in Italia. Ma non solo dei gruppi studenteschi: anche qualche vecchio intellettuale rintanato sta ritrovando spazi per far sentire la propria voce, dimentico dei rigori storici che dovrebbero accompagnare il suo percorso intellettuale. Ma è importante far sapere agli studenti (e pertanto anche a qualche storico) che Yahya Sinwar non è certo Mazzini e che gli arabi non sono diventati antisemiti per reazione all’«affronto» della creazione dello Stato di Israele. Al contrario è proprio il consolidato e atavico antisemitismo la causa vera del rifiuto arabo di accettare nel 1947 la formazione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. Tutto parte da molto lontano, addirittura dalle origini dell’islamismo, dalla Battaglia del Fossato del 627 con la quale Maometto, vinti i Meccani, decide di eliminare la presenza ebraica nella zona, responsabile a suo dire di un’alleanza coi suoi nemici, e ordina pertanto di sgozzare (ma dà una mano pure lui) da 600 a 900 uomini della tribù dei Banu Qurayza presenti a Medina. Nasce allora il racconto metastorico dell’ebreo – altro soggetto monoteistico presente nella medesima area geografica – che complotta contro l’islamismo. Questo odio contro gli ebrei si consolida dopo la morte di Maometto nella stesura della Sunna, il codice islamico che raccoglie presunte affermazioni (Hadīth) ed episodi della vita del Profeta, privi però di riscontri o testimonianze, e quindi totalmente inattendibili sul piano scientifico, ma che si sono cementati nella coscienza del credente. Negli Hadīth leggiamo:
«L’ultimo giorno non verrà fino a quando i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei non si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno “O musulmano, o servo di Dio, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo!”. Ma l’albero di Gharquad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei».[8]
In tutte le predicazioni degli Imam, tese a contrastare le minacce scismatiche – giudicate come minaccia e pericolo sommo per l’unità dell’umma – si fa riferimento a qualche ebreo che le avrebbe fomentate per favorire lotte intestine nel mondo musulmano, perché gli ebrei – nella tradizione islamica – sono la fonte di tutti mali del mondo e sono anche accusati di aver falsificato la Bibbia. Ed è ormai solo all’interno del mondo musulmano che si dà credito alla veridicità dei «Protocolli dei Savi anziani di Sion».[9] E coloro, nel mondo islamico, che hanno tentato di opporsi all’antisemitismo, sono stati isolati. Qualcuno addirittura condannato per apostasia e impiccato.[10]
L’ostilità nei confronti dell’ebreo dà vita a una metastoria per cui si giunge addirittura a disconoscere la millenaria presenza ebraica in Palestina, mentre in realtà sono gli arabi ad arrivare nel 637 d.C. con la conquista di Gerusalemme da parte del califfo Omar.[11] Atteggiamento intransigente – un «apriori religioso» – che ha impedito agli arabi di Palestina di sviluppare una cultura capace di dar vita a una progetto «patriottico» concreto, in grado di intercettare e di misurarsi con quanto, in momenti diversi, andavano proponendo, a proposito dei territori occupati da Israele, Begin (1979), Rabin (1993), Barak (2000), Sharon (2005), Olmert (2008). L’insegnamento impartito nelle scuole a Gaza – complice l’Unrwa[12], struttura dell’Onu che ha visto alcuni dei suoi membri appoggiare o forse addirittura partecipare agli eccidi del 7 ottobre – è assai significativo quando magnifica come eroi e martiri quei kamikaze che hanno sacrificato la propria vita disseminando morte tra gli ebrei. Inquietanti i messaggi che alcuni imam lanciano spesso nei sermoni del venerdì, colmi di violenza, che vengono abbondantemente propagati:
«La vergogna ricada su colui che non educa i suoi bambini al jihǡd. La benedizione su colui che indossa una veste di esplosivi egli stesso o i suoi figli e va in mezzo agli ebrei dicendo: Allahu akbar […] Tutte le armi devono essere puntate sugli ebrei, i nemici di Allah, nazione maledetta nel Corano, che Allah descrive come scimmie e maiali adoratori del vitello e degli idoli!».[13]
Hamas nasce nel 1987: suo battesimo di sangue fu l’attentato su un bus il 16 aprile 1993 a Mehola in Cisgiordania. Si rifà ai Fratelli Musulmani, organizzazione politico-religiosa sorta in Egitto nel 1928 per contrastare la cultura occidentale. Risaputi e vantati i suoi rapporti col nazismo in funzione antiebraica.[14] Dopo la consegna di Gaza all’Autorità palestinese, da parte di Israele, Hamas, vincitrice nelle elezioni nel 2006, con un colpo di mano dette vita alla secessione dal resto dei territori palestinesi.[15] Importante sottolineare questo aspetto, che cioè Hamas da allora governa a Gaza.[16] Da ribadire anche che, al di là di quanto una propaganda faziosa è andata affermando da anni, è esistito sì un blocco intorno a Gaza, finalizzato al tentativo di bloccare i lanci di razzi contro Israele (centinaia di migliaia nel corso degli anni). Ma è stato un blocco assai singolare perché Israele fornisce energia elettrica e acqua potabile e perché si è assistito, ad esempio nel 2022, al passaggio di circa 500 Tir al giorno per portare cibo, medicinali e anche tutto il materiale utilizzato da Hamas per costruire ben 500 km di tunnel sotterranei, dove attualmente si nascondono molti guerriglieri e dove vengono tenuti con ogni probabilità gli ostaggi. Per non parlare del transito quotidiano di lavoratori arabi che si recano a lavorare in Israele e soprattutto degli aiuti finanziari notevolissimi provenienti dal Qatar, da altri Stati arabi e da organizzazioni internazionali, destinati, a parere di molti analisti, a incrementare l’apparato bellico.[17]
L’odio antisemitico che si esprime con la denuncia del «complotto ebraico» si acuisce nei momenti in cui l’universo musulmano versa in particolari difficoltà. Non è un caso che riemerga violentemente con la fine dell’Impero ottomano e permanga nella stessa misura virulenta ai giorni nostri. E i nostri studenti, che vivono in una realtà, quella occidentale, nella quale i diritti dell’uomo, del singolo individuo, della libertà di pensiero e di parola e delle scelte sessuali, della separazione tra Stato e Chiesa, sono stati sanciti e consacrati e sono patrimonio riconosciuto (anche se vanno rigorosamente e quotidianamente difesi e salvaguardati), i nostri studenti, che sfilano nelle dimostrazioni o occupano dipartimenti universitari, non esitano a farsi paladini di realtà culturali e politiche che ne sono l’esatta negazione. E per un odio rabbioso nei confronti del mondo occidentale in cui vivono, prendono le parti dei nemici della nostra cultura e accreditano metastorie, figlie di una impostazione mitico-religiosa, che producono racconti che stanno fuori della realtà. Chiudo constatando che l’impennata dell’antisemitismo è un sintomo pericoloso dell’indebolimento del costume democratico, rivelatore di una deriva autoritaria che recentemente si va manifestando nel mondo occidentale.
[1] Pubblicato il 17 novembre 2023. Il sondaggio dice ancora che il 74,7% della popolazione desidera uno Stato palestinese «dal fiume al mare» (e quindi la distruzione di Israele) e solo il 17,2 è favorevole alla formula «due popoli, due Stati». Un sondaggio pubblicato da la Repubblica l’8 dicembre 2023, due mesi dopo il pogrom, dice che l’80% della popolazione di Gaza è favorevole a uno Stato palestinese dal fiume al mare e quindi auspica la distruzione di Israele. Cfr. Carlo Panella, cit., pp. 78-9.
[2] Sbalorditivo che i dati sulle vittime – forniti proprio dal governo di Gaza, cioè da Hamas, organizzazione terrorista – siano presi per buoni da tutti i media internazionali. Tra l’altro non si fa mai distinzione tra guerriglieri e civili.
[3] Già che ci sono perché non parlare anche degli Italiani, «brava gente»? L’esercito italiano nella «riconquista della Libia» («picchiate sodo», si era raccomandato Mussolini), circondati i villaggi della Cirenaica, giustiziò 12 mila uomini, costringendo poi migliaia di uomini a una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto, verso campi di concentramento. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; coloro che non riuscivano a tenere il passo venivano fucilati sul posto. Di episodi simili si rese protagonista l’esercito italiano anche in Croazia, durante la Seconda guerra mondiale.
[4] Al momento (23 giugno), sembra che quelli ancora in vita, siano soltanto 66.
[5] Talvolta il Corriere della Sera e La Repubblica hanno fornito notizie sulle modalità con le quali l’esercito israeliano informa preventivamente la popolazione di Gaza di attacchi armati aerei o terrestri, giocandosi in tal modo l’effetto sorpresa. Non mi risulta che in qualche guerra, dalla notte dei tempi, un esercito abbia preavvisato la popolazione nemica di un proprio attacco. Più preciso Panella (p. 66): «Prima del lancio della sua operazione di terra, [l’esercito israeliano] ha effettuato 70mila telefonate, inviato 13 milioni di messaggi di testo, lasciato 14 milioni di messaggi vocali e rilasciato 7 milioni di volantini che invitavano i civili a evacuare temporaneamente per la loro sicurezza e li informavano delle località sicure». In effetti mi è stato mostrato un cellulare in cui appaiono i quartieri di Gaza. Quando l’esercito, o l’aviazione, intendono bombardare un quartiere, inviano un segnale sui cellulare segnalando anche quali sono le zone sicure in cui rifugiarsi.
[6] Per gli arabi è la cosiddetta Nakba, catastrofe, che riguarda sia la sconfitta militare, sia l’uscita di circa 700mila arabi dai territori teatro della guerra e in contemporanea l’espulsione dagli Stati arabi di circa 600 mila ebrei, cui se ne aggiunsero altri 900 mila negli anni immediatamente successivi.
[7] Feisal, il grande avversario del Gran Muftì scrisse: «Quando gli ebrei rientreranno in Palestina daremo loro un clamoroso benvenuto. […] Noi arabi, specie quelli ciólti, consideriamo con la più grande simpatia il movimento sionista. Lavoreremo insieme per un nuovo Medio Oriente e i nostri movimenti si completeranno reciprocamente. Il movimento ebraico è nazionalista, non imperialista. Il nostro movimento è nazionalista, non imperialista, e c’è abbastanza posto in Palestina per entrambi. Penso sinceramente che non possiamo riuscire che assieme».
[8] Da sottolineare la differenza tra cristiani e musulmani riguardo al destino degli ebrei. Mentre il Corano prevede un olocausto finale degli ebrei, premessa liberatoria della salvezza dei Giusti, Paolo, a proposito del rapporto tra Giudizio Universale ed ebrei, li sottrae al massacro e assegna loro la salvezza eterna, poiché, nel Giorno Finale vi sarà la loro conversione al cristianesimo (vedi Lettera agli Ebrei e Lettera ai Romani, e Agostino, La città di Dio, XX, 30). Differente, come è noto, l’antisemitismo cristiano. Nasce come antigiudaismo, con accusa per aver ucciso il figlio di Dio, ponendo di fatto l’ebreo al centro di ogni narrazione, col ruolo di protagonisti nella società, come causa di qualsiasi evento indesiderato, fosse una carestia, la pestilenza. A Genova si ghiacciò il mare nella notte di Natale del 1492. L’evento straordinario fu attribuito a una punizione divina dovuta alla presenza di ebrei da poco cacciati dalla Spagna che sciamarono soprattutto nelle regioni del Nordafrica. Antigiudaismo che evolse in antisemitismo, funzionale alla nascita degli Stati nazionali.
[9] Fu un falso creato dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo. La prima pubblicazione è del 1903.
[10] Il caso più clamoroso è forse quello di Mahmud M. Taha (1909-1985) grande teologo e politico sudanese, fondatore di un movimento progressista e già protagonista nelle lotte contro il regime coloniale britannico. Si mosse poi contro il governo militare che si era instaurato, sostenendo la necessità di separare religione e Stato e puntando all’abolizione della Sharia. Arrestato, fu condannato a morte e impiccato nel gennaio 1985. Celebri le fatwǡ con condanne a morte ai danni dell’egiziano Nagib Mahfuz, premio Nobel (1988), scampato a un attentato nel 1994 e di Salman Rushdie (in questo caso fu Khomeyni in persona ad emetterlo). Recentemente Rushdie è stato fatto oggetto dell’ennesimo attacco per il quale ha perso un occhio e l’uso di una mano.
[11] Il 15 novembre 2016 l’Unesco votò con una maggioranza schiacciante una Risoluzione, ripresa l’anno dopo dall’Assemblea generale dell’Onu (30 novembre), che dichiarava che il Monte del Tempio ebraico dovesse essere denominato col solo termine arabo Al Haram Al Sharif. Sempre per scindere il legame storico tra il popolo ebraico e i luoghi storici, il Kotel o Muro Occidentale venne chiamato col solo nome arabo Al Buraq. Durante il Congresso islamico mondiale del 1931, presieduto dal poeta pakistano Muhammad Iqba, grande ammiratore del nazifascismo, fu votata una Risoluzione che individua nel sionismo il grande nemico dell’islamismo. Nel 2000, durante le trattative di Camp David, Saeb Erekat, capo della delegazione palestinese disse beffardo: «Il Tempio? Ma io non vedo nessun tempio!!!» (Carlo Panella, cit., p. 39).
[12] Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino oriente: è una struttura dell’Onu.
[13] «Al-Hayat al-Jadida», quotidiano ufficiale dell’Anp, 18 giugno 2002.
[14] Hajj Amin al-Husseini, Gran Mufti di Gerusalemme dal 1921, contribuì a reclutare musulmani bosniaci per le Waffen-SS per dar la caccia ai partigiani.
[15] Nel gennaio 2006 con una vittoria a sorpresa alle elezioni legislative in Palestina con il 44% circa dei voti, Hamas ottenne 74 dei 132 seggi della Camera, mentre Fatah, con il 41% circa dei voti ne ottenne solo 45.
[16] Gaza è ai primi posti, se non al primo, nella classifica mondiale delle esecuzioni capitali per ogni milione di abitanti. In buona compagnia, con l’Iran, la Cina e l’Arabia saudita (Fonte: Centro Palestinese per i Diritti Umani, cit. in Panella, cit, p. 69).
[17] Questi sono i dati in mio possesso. (E aggiungo: grandiosi i beni immobiliari, azionari e fondiari all’estero in Turchia, Algeria, Sudan, Emirati Arabi, ecc. Numerose le testimonianze, mai smentite). Molte fonti forniscono informazioni diametralmente opposte, e quindi potrò ricredermi nel caso mi pervengano dati sicuri, che non siano ovviamente quelli provenienti dagli organi di governo di Gaza. Come già detto, il numero delle vittime nella Striscia sono forniti dal locale Ministero della sanità, lo stesso che accusò Israele di alcuni attacchi a ospedali, mai avvenuti. Ne approfitto per aggiungere alcune riflessioni. Rimango attonito quando compagni e amici postano fotografie o filmati che dimostrerebbero il blocco di Tir che portano aiuti alla popolazione di Gaza o di fedeli arabi ai quali si preclude l’entrata in una moschea. Il fatto che non si contestualizzino gli episodi e si dia per scontato che si stia consumando un sopruso da parte di israeliani a danno degli arabi forse non è neppure malafede. È peggio: è assunzione acritica che dà per scontata una perfidia originaria degli ebrei che è alla base dell’antisemitismo. Pertanto, si torna al discorso dell’antisemitismo inconscio, come mi dimostrò un mio collega storico, peraltro molto preparato, che una volta, di fronte a varie contestazioni, sentenziò: «Dite quel che volete, comunque io sto sempre dalla parte dei palestinesi e contro Israele». Tutto ciò non esclude, ovviamente, che ci siano forme di rozza violenza da parte di estremisti religiosi ebrei, presenti tra i coloni in Cisgiordania. Ai primi di maggio (2024), invitato da un liceo della Spezia a parlare della guerra a Gaza, ho avuto come interlocutrici due ricercatrici o borsiste universitarie che hanno proiettato un video nel quale due soldati israeliani si gloriavano di aver ammazzato molti nemici. Non ho difficoltà a ritenere autentiche le interviste, capaci di dimostrare la rozzezza culturale in certi ambienti israeliani. La pecca del filmato consisteva però nel fatto che veniva proiettata, in contrapposizione, la scena della disperazione di una donna palestinese per la morte del figlio. I buoni e i cattivi.
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Gaza e dintorni. Dipanare le matasse arruffate dalla propaganda
«L’Europa non perdonerà mai gli Ebrei per Auschwitz.»
(Zvi Rex, psichiatra israeliano).
Questo documento nasce dall’insofferenza nei confronti di molti commenti apparsi negli ultimi mesi nei quali, a mio parere, emerge un’impostazione ideologica che prescinde dalla realtà dei fatti e, per giunta, è macchiata da un sentimento antisemita, spesso tutt’altro che inconscio.
«Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». Non so se sia stato veramente Goebbels a pronunciare questa frase, ma è una frase che coglie nel segno. Tenterò pertanto, partendo da dati storici, di azzerare il racconto che si è venuto creando, in cui il momento ideologico si è spesso sovrapposto alla verità storica. Pronto ovviamente, per deontologia professionale, a rivedere le mie posizioni se qualcuno mi contrapporrà dati storici inoppugnabili. In questa stessa pagina suggerisco le note che segnano questo percorso di ricostruzione storica.
1) Scriveva in ottobre Corrado Augias che, quando si trova ad affrontare il problema di Israele in pubblico, chiede preventivamente al suo interlocutore se intende discutere degli errori di Israele o dell’esistenza di Israele. La risposta a questa domanda è dirimente perché, nel caso si opti per la sopravvivenza di questo Stato, è necessario poi essere conseguenti nelle argomentazioni.
2) Anziché partecipare al derby dovremmo andare alla radice del conflitto che divide arabi ed ebrei nel Vicino Oriente ormai da un secolo.[1] Parto dalla considerazione, a mio avviso fondamentale e che dovremmo tener presente in tutte le nostre valutazioni, che a livello internazionale continuano a persistere interessi troppo forti e divergenti perché il contrasto venga sanato in tempi brevi. Importante quindi evitare di fissare l’attenzione unicamente sull’area del Vicino Oriente, se si perseguono iniziative utili per approdare a soluzioni durature. Gli interessi dei gruppi armati sono intrecciati con quelli dei Paesi che sponsorizzano le loro azioni. È quanto accade in tutta l’area (Siria, Yemen, Sudan, Palestina, Libano). Dovremo attendere il ricomporsi di un quadro internazionale sufficientemente pacificato.
3) I Tre Punti di Biden. Il testo concordato a suo tempo da Biden, insieme ai leader di Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia, è basato su tre punti chiave: condanna del terrorismo jihadista, solidarietà e sostegno a Israele, impegno a una soluzione della crisi sulla base di una formula sancita (senza fortuna) negli accordi di Oslo del 1993 che, dando vita a un’Autorità palestinese, poteva prefigurare la soluzione «Due Stati per due popoli».
4) Le motivazioni di Hamas vanno cercate al di fuori della questione palestinese. Eccitate anche dal confronto tra Iran e Arabia saudita, rappresentano un momento fondamentale della guerra islamista ai valori dell’Occidente. Ci potrà essere un armistizio, mediocre, capace di interrompere momentaneamente scontri armati e vittime. L’irruzione terroristica del 7 ottobre non ha solo messo in pausa il processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, evidenziando le criticità degli Accordi di Abramo. Ha rappresentato un salto di qualità negativo. È una guerra all’ebreo che non contempla mediazioni alcune e un’affermazione estrema del radicalismo religioso musulmano che noi europei – che viviamo ormai da tempo in società secolarizzate, in cui la parola Dio ha ancora un significato soltanto tra minoranze sempre più ristrette – fatichiamo assai a capire. La semplice normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele non avrà un impatto significativo sulla sicurezza o sulla stabilità della regione se non sarà accompagnata da una soluzione accettabile e duratura del conflitto palestinese-israeliano. Ma qui in Occidente, la strage del 7 ottobre, che ci ha fatto rivivere la barbarie dell’Olocausto, non ha ancora sortito l’effetto di palesare che il progetto di dar vita a uno Stato arabo accanto a Israele forse non esiste più (o addirittura non è mai esistito), perché una pace vera non è mai stata contemplata dai capi palestinesi. Se ne è impossessata ora una banda di estremisti musulmani coi quali – ed è necessario prenderne atto senza infingimenti ed ipocrisie – non ci sarà possibilità di accordi. E come potrebbe Israele accettare la proposta dei due Stati in mancanza di una pace, garantita a livello internazionale, che assicuri che la Palestina araba, divenuta Stato vero e proprio, non persegua progetti di annientamento della comunità ebraica?
5) Ma veniamo al dunque, ai massacri del 7 ottobre. La barbarie. Coloro che hanno calpestato un soldato morto e hanno trascinato per i capelli e poi violentato una donna non erano eroi che combattevano per la patria palestinese. Erano semplicemente criminali. Coloro che, al grido di yehud, yehud (come i nazisti che gridavano juden, juden) hanno bruciato vivi uomini e donne nei kibbutzim e hanno filmato le loro imprese sono solo dei fanatici. Ma i bambini, quelli la cui morte deve sgomentare particolarmente, li ha visti vittime di ferocie specifiche: sono stati sgozzati, decapitati, accecati; e le donne incinte eviscerate, e alcuni uomini ridotti a tronchi, privati delle teste e degli arti. Guterres, personaggio pavido e complice, che non ha osato denunciare l’eccidio del 7 ottobre, finalmente, costretto a visionare i filmati degli eccidi, è rimasto inorridito. Che non sia pertanto Hamas, ora, a gridare in difesa dei bambini, non ne ha i titoli![2]
Hanno filmato ed esibito le loro azioni per mostrare una determinazione estrema e per suggerire un comportamento a tutti i musulmani (generalmente, invece, nella propaganda bellica, le azioni efferate, vere o inventate, vengono attribuite al nemico, per esporlo alla pubblica condanna a livello internazionale). La strage doveva perciò scuotere l’opinione pubblica musulmana col suo orrendo effetto spettacolare. Tutto ciò è di una gravità assoluta, che distrugge spazi a una trattativa.[3] Si tratta dell’azione più crudele e con il più alto numero di morti in un sol giorno dopo l’orrore della Shoah.[4]
Molti i messaggi sui social a commentare gli avvenimenti. Alcuni giuntimi personalmente. Un collega mi scrive che «Il campo di concentramento di Gaza è diventato un immenso campo di sterminio. Lo sterminio di cui autore è lo Stato di Israele». Messaggio inaccettabile. Il massacro con sbudellamenti è già avvenuto. La risposta israeliana non ancora. La sollecitudine di alcuni è però sbalorditiva. C’è chi ha fatto di meglio. Paola Peduzzi, sul Foglio Quotidiano, riporta che lunedì 9 ottobre, due giorni dopo l’eccidio, il consiglio per i diritti umani dell’Onu ha osservato un minuto di silenzio per le vite perse da palestinesi, su richiesta dell’ambasciatore pakistano che ha detto che queste vittime «ricordano tristemente l’effetto di sette decenni di occupazione straniera illegale, di aggressione e di mancanza di rispetto della legge internazionale». In conclusione, l’Onu – che ormai si è purtroppo squalificata in troppe occasioni – mai ha condannato ufficialmente l’eccidio.[5] La carneficina ha significato un salto di qualità nella barbarie spaventoso che rimanda a tempi remoti. Troppi amici e colleghi, però, mostrano un deficit di indignazione per le vicende del 7 ottobre, per le quali raramente ho riscontrato commenti severi; avrei apprezzato sdegno e solidarietà piena e incondizionata. Da parte di troppi si è taciuto sulla strage per parlare invece di ciò che ancora doveva avvenire, cioè della reazione di Israele. Accuse in anticipo per le sofferenze che l’esercito israeliano, nella caccia ai terroristi, avrebbe potuto apportare alla popolazione civile. È nella sensibilità democratica di Israele separare terroristi e popolazione. Nelle foghe polemiche troppi si sono dimenticati che Israele è un Paese democratico, con una popolazione di buon livello culturale, assai attenta alle vicende interne e internazionali, e pronta a criticare il proprio governo come in più occasioni ha saputo dimostrare. Separare terroristi e popolazione per quanto possibile, perché i terroristi si muovono tra ospedali, scuole e campi profughi, optando volutamente per un disastro umanitario da utilizzare poi per motivi propagandistici, facendo ricadere la responsabilità su Israele. Biden, giustamente, reclama attenzioni perché i civili siano il più possibile risparmiati. Sensibilità che, nel loro fanatismo religioso, non hanno certo mostrato gli assassini di Hamas, che hanno ammazzato i malcapitati in quanto ebrei. E qui la logica squilibrata dei due pesi e due misure si palesa clamorosamente, ma non è sufficientemente percepita in certi ambienti. Utilizzare termini come campo di concentramento, sterminio, genocidio rappresenta un accostamento indecente e demagogico nei confronti di chi il genocidio l’ha subito realmente.[6] Linguaggio angosciante che richiama il rapporto nazisti-ebrei riproponendolo nella versione ebrei-palestinesi.[7] Considerazioni legate a un'impostazione ideologica che prescinde dalla realtà: la bassa elaborazione culturale, dovuta a certi automatismi, conduce a un antisemitismo spicciolo.[8]
6) Per una veloce ricostruzione storica della nascita dello Stato di Israele utilizzo volutamente una sintesi molto veloce ed elementare di Marco Travaglio (di cui raramente condivido le prese di posizione e il cui giornale non mostra certamente posizioni filoisraeliane) per ricavarne qualche dato.[9] A proposito degli acquisti di terre da parte di ebrei, prima della fondazione di Israele del 1948, ci informa che «quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte o desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutzim, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni, deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale».[10] Opinione diffusa è che Israele sia il frutto di un rimorso di un’Europa che aveva assistito alla Shoah in silenzio, e che per secoli ha coltivato un antisemitismo feroce, con poche oasi di tolleranza. Gli fu affidato un angolo dell’antica terra per saldare il conto.[11] Opinione diffusa, ma la ricostruzione storica mi dice però altre cose: il territorio tra il mare e il fiume (Giordano) gli fu attribuito dal Mandato per la Palestina. Solo l’incredibile vittoria militare del 1948 ha permesso a Israele di sopravvivere. E i palestinesi sono vittime di questa guerra scatenata dalle potenze confinanti (Egitto, Siria, Libano, Iraq, Giordania) che portò a un ampliamento del territorio ebraico, rispetto a quello suggerito (non decretato) dall’Onu. La Cisgiordania fu occupata, questa sì illegalmente, dalla Giordania, e Gaza, altrettanto illegalmente, dall’Egitto, senza che siano mai state sollevate proteste ufficiali a livello internazionale. Molti esuli palestinesi si rifugiarono in Giordania dove organizzarono quasi uno Stato parallelo interno. Ci fu addirittura un tentativo, da parte loro, di uccidere il re hascemita Husayn. Dura fu la reazione dei beduini e dell’esercito giordano e molti i morti tra questi esuli. L’episodio è conosciuto come «Settembre nero» (1970). Altro evento da rammentare, l’intervento, dal 16 al 18 settembre 1982, a Sabra e Chatila (periferia di Beirut) delle Falangi libanesi (cristiani maroniti) che massacrarono palestinesi (le stime oscillano tra mille e tremila morti).[12]Dell’eccidio se ne parlò, attribuendolo impropriamente all’esercito israeliano. La Corte suprema israeliana intervenne, censurando il comportamento di Ariel Sharon giudicato negligente, ma non complice, per mancato intervento atto a impedire l’eccidio (tra falangisti libanesi e israeliani esisteva infatti un accordo per il controllo del territorio).[13] La stessa sensibilità Israele la mostrò nel 2011. Per riavere il caporale Gilad Shalit, prigioniero da cinque anni di Hamas, liberò 1.027 prigionieri (alcuni con un curriculum ragguardevole; tra gli altri Yahya Sinwar, dal 2017 attuale capo di Hamas).[14] Una parte di questi fu successivamente riarrestata e ricondotta nelle carceri israeliane.[15]
7) Un racconto ideologico e una ricostruzione storica. Ecco però come si snoda il racconto di parte della sinistra in Italia, in Europa e negli Usa: orribile la strage di ebrei partecipanti alla festa e nei kibbutzim. Dico strage di ebrei e non di israeliani perché le modalità della ferocia denunciano i tratti del pogrom. Detto ciò, scaricata la coscienza con una prima blanda solidarietà nei confronti di Israele, con sorprendente velocità si è passati al «secondo capitolo» del racconto, completamente sganciato dal primo. Il massacro è pressoché scomparso dall’universo della comunicazione, perché è necessario togliere la ratio che giustifica la reazione israeliana. Perché ora si deve parlare di genocidio perpetrato contro la popolazione di Gaza, cui allude anche il segretario generale dell’Onu, il portoghese Antonio Guterres. Assistiamo a un’ondata di antico livore, di irriducibile odio. E a questa narrazione si sono piegate e si adeguano, a livello mondiale, importanti personalità politiche, anche del mondo occidentale. Si parla della Vendetta israeliana, come recitava un titolo de il Manifesto del 14 ottobre. L’elemento Vendetta, con tutto il significato negativo che la parola esprime, sarebbe in qualche modo la risposta degli israeliani a una violenza subìta, frutto però di comportamenti oppressivi di questi nei confronti dei palestinesi.[16] Come dire che gli israeliani la violenza di Hamas se la sono cercata.[17] Le manifestazioni di dissenso (soprattutto in Francia) a esprimere solidarietà verso le vittime dell’eccidio, palesano incomprensione o, meglio, odio nei confronti degli ebrei disconoscendo il loro diritto alla difesa.[18] La considerazione amarissima è che gli ebrei piacciono soltanto come vittime e che in tale posizione debbano rimanere.[19]
Non intendo certamente svalutare il disagio materiale e psicologico in cui vivono gli arabi (e anche gli israeliani). Desidero però ritornare a fare un po’ di storia. E voglio di nuovo utilizzare Travaglio sulla risoluzione con la quale l’Onu propose (non stabilì, non poteva farlo) di dar vita ai due Stati: «Il primo [Israele] nacque nei confini Onu senza occupare un millimetro in più. Il secondo no: i governi arabi e la leadership palestinese violarono la risoluzione Onu e mossero guerra a Israele per ricacciare a mare gli ebrei. La persero e Israele dilagò in Galilea orientale, a Gerusalemme Ovest e in una fetta di deserto del Negev. Ma nel ’49 si ritirò da Gaza, occupata dall’Egitto, e dalla Cisgiordania, annessa dalla Giordania. Quindi a occupare questi territori furono Egitto e Giordania fino al 1967, quando li persero nella Guerra dei Sei Giorni insieme ad altri, fra cui il Sinai. Israele nel 1978 restituì i territori all’unico Stato arabo che firmò la pace, l’Egitto.[20] Che però non rivolle Gaza, occupata da Israele fino al 2005».[21] Dal 2006 Gaza è libera e riceve aiuti da parte di alcuni Stati arabi, aiuti utilizzati in parte cospicua per l’acquisto di armi.[22]
Israele è riuscito a sopravvivere grazie alla fortunosa vittoria sugli eserciti arabi, sfuggendo così all’annientamento, e ha sviluppato una potenza militare superiore a quella degli Stati circostanti ostili, indispensabile per non soccombere. Israele non è un’oasi felice per i reduci della Shoah, ma una cittadella in guerra perenne. Troppo lungo sarebbe rifare la storia delle numerose altre guerre (1956, 1967, 1973, 1987-1993: prima intifada, 2000-2005: seconda intifada,[23] 2006: tra Israele e la milizia sciita libanese Hezbollah, 2007: scontri vari ai confini con Gaza, e ora, a partire dal 7 ottobre 2023).[24]
Dei tentativi di pace, alcuni proposti in maniera ambigua dalle potenze mondiali, il più importante fu l’accordo di Oslo del 13 settembre 1993: portò all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese che ha il compito di governare, in modo limitato, una parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza. Fu riconosciuto il ruolo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp fondata nel 1964: i suoi poteri furono ampliati due anni dopo coi secondi accordi di Oslo). A firmare furono Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Regista: Clinton.[25]
Ma covavano i sospetti da entrambe le parti. La Knesset approvò gli accordi con una strettissima maggioranza (a favore la sinistra, contraria la destra). Gli israeliani dubitavano della sincerità dei palestinesi a proposito di pace e convivenza. Come prova portarono, tra le altre, dichiarazioni rese da Arafat davanti a un uditorio palestinese, nelle quali paragonava il trattato all’accordo di al-Hudaybiyya firmato da Maometto con gli abitanti della Mecca ancora pagani, con ciò facendo intendere trattarsi di una tregua tattica per passare poi a una guerra vittoriosa e distruttiva nei confronti di Israele. Si sarebbe così portato a termine l’Olocausto.
Nel 2000, Bill Clinton invitò, nella sede presidenziale di Camp David, Yasser Arafat ed Ehud Barak, premier israeliano e capo del partito laburista. Quest’ultimo, grazie alle pressioni del presidente americano, acconsentì al progetto della creazione di uno Stato palestinese nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza con capitale Gerusalemme Est, il rientro di un numero limitato di palestinesi e un indennizzo per gli altri.[26] Arafat, dopo un continuum di opposizioni, respinse anche queste offerte finali – fu aspramente criticato – senza peraltro avanzare proposte alternative. Do spazio a due interpretazioni. Il timore di Arafat di essere scavalcato dalle frange radicali palestinesi che, rifiutando l’accordo, avrebbero ridimensionato il suo ruolo di leader; oppure, che Arafat medesimo fosse sostenitore della linea intransigente: che pensasse in cuor suo che i palestinesi, sconfitti in tante battaglie, alla fine, anche per fattori numerici, avrebbero spazzato via lo Stato di Israele. Perché, pertanto, concedere qualcosa nelle trattative, se poi si sarebbe ottenuto tutto? In conclusione, i suoi rifiuti reiterati – per molti osservatori – si sono palesati non come tattici, ma strategici.
8) Antisemitismo. La reazione debole, negli Usa e in Europa, all’eccidio del 7 ottobre è a mio avviso la dimostrazione che, accanto all’antisemitismo dichiarato e gridato dell’estrema destra, esiste pure un antisemitismo inconscio in settori della sinistra. Inconscio, ma non sempre. In Francia, il paese in cui i sentimenti antiebraici sono più forti che altrove, manifestazioni di sinistra in cui si gridi «morte agli ebrei» non sono rare. Nel 2019, i gilet gialli in corteo, incrociando Alain Finkielkraut,[27]gli gridarono: «Sporco ebreo», «sporco sionista», «la Francia è dei francesi», «il popolo ti punirà». Un video, postato su Twitter, mostra l’aggressività di un gruppo di manifestanti che si avvicina al filosofo, finché qualcuno, prudentemente, lo prende a braccetto per sottrarlo a possibili aggressioni fisiche.[28] (Ammesso che il movimento dei gilet gialli sia da collocare a sinistra, ma questa è una vecchia polemica che non voglio qui rinnovellare).
Nel novembre 2023 ci fu un’audizione alla camera dei rappresentanti Usa, vista in pochi giorni un miliardo di volte in tutto il mondo. All’Odg il clima di antisemitismo, tollerato dalle autorità accademiche, in alcuni campus americani (con aggressioni verbali e talvolta anche fisiche nei confronti di studenti ebrei) dopo la risposta israeliana all’eccidio del 7 ottobre. In particolare, Elizabeth Magill, presidente della University of Pennsylvania, costretta poi alle dimissioni, alla domanda se nella sua università fosse legittimo invocare il genocidio degli ebrei, ha risposto che «dipende dal contesto». Qualcuno, per difenderla, ha parlato di caccia alle streghe e di un ritorno al maccartismo contro la libertà di pensiero. Libertà di pensiero che però, ultimamente, grazie a un esasperato approccio politically correct, viene soffocata da alcune frange di estrema sinistra quando queste ravvedono minacce nei confronti di altre minoranze (neri, omosessuali, ecc). Non poche, infatti, le conferenze bloccate nei campus negli ultimi tempi.[29]
Appunto questo pregiudizio antisemita è ciò che ottunde la capacità di inserire il conflitto nel Vicino Oriente in uno scenario diverso. Alcuni settori della sinistra rifiutano sdegnosamente di essere definiti antisemiti. Insistono su una differenziazione tra antisionismo e antisemitismo, sostenendo che proprio questa assimilazione terminologica sia un trucchetto degli ebrei per ripararsi da attacchi per alcuni loro comportamenti: si tratterebbe quindi di una corazza vittimistica, utilizzata per l’occorrenza per procedere nella loro politica aggressiva.[30] E sempre per evidenziare questo gioco di sovrapposizioni che permette all’antisemitismo di riciclarsi sotto le spoglie dell’antiisraelismo: Netanyahu, eversivo nel suo tentativo di subordinare il potere giudiziario a quello politico (una costante dell’ultradestra a livello mondiale), non può essere additato come causa prima dell’attacco del 7 ottobre. Diventa un patetico pretesto per «celare» aspetti razzisti nella lotta contro Israele nobilitandoli come reazione progressista contro un personaggio della destra radicale. Nel clima di pessimismo, mostrato anche da esponenti della sinistra israeliana, sulla possibilità della nascita di uno Stato palestinese non infettato da terrorismo e col quale si possa convivere, è emersa in Israele un'insicurezza diffusa che la destra ha messo all’incasso per le sue fortune elettorali.
Scrisse Zvi Rex (psichiatra israeliano): «L’Europa non perdonerà mai gli Ebrei per Auschwitz». Come dire che l’antisemitismo – per mezzo millennio funzionale alla nascita e al rafforzamento di un processo identitario, condizione necessaria per la formazione degli Stati nazionali – gli europei sono stati costretti, negli ultimi decenni, ad accantonarlo, per via del gigantesco debito morale contratto nei confronti degli ebrei per l’Olocausto.[31] Osservo però che si stia riproponendo nei suoi termini consueti o addirittura maggiorati.
9) Bombardamenti su Gaza. L’argomento forte usato da chi invoca una tregua è la sofferenza inferta alla popolazione di Gaza. Da tener presente che filmati e fotografie sulle distruzioni causate dai bombardamenti aerei sui quartieri di Gaza provengono spesso da fonti vicine ad Hamas, che le agenzie girano immediatamente per offrirle in pasto ai giornali. Si è parlato di attacchi a ospedali, con un susseguirsi di dati e smentite e, nel primo caso, sicuramente di una falsa notizia.[32] Ho già sottolineato che troppi si sono dimenticati che Israele è un Paese democratico con una opinione pubblica assai vigile e capace di contestare le scelte del governo. Ed è nella sensibilità democratica di questo paese porre attenzione nel separare terroristi e popolazione, anche se questa funge spesso da scudo umano. Le testimonianze, confuse che ci giungono da Gaza, non possono certamente confermare una volontà specifica da parte di Israele di infierire sulla popolazione. Gli inviti ad abbandonare i quartieri settentrionali della città per snidare con più facilità i terroristi di Hamas erano inviati per scongiurare danni supplementari alla popolazione (anche se, è evidente, la distruzione della propria abitazione, per un palestinese rappresenta una tragedia vera).[33] Rovistando nelle cronache degli anni passati che raccontano gli interventi dell’aviazione israeliana contro le abitazioni dei terroristi, si verifica sempre come gli attacchi fossero «chirurgici» nell’individuare gli obiettivi umani.[34]Sarebbe necessario essere sul campo per capire ciò che realmente sta avvenendo a Gaza al di fuori dell’involucro propagandistico-ideologico. Certamente – come più d’uno ha già osservato – avallare l’idea che sia Israele responsabile delle vittime estranee ai combattimenti vuol dire incoraggiare ora, e soprattutto per il futuro, strategie che puntano a continuare a utilizzare lo scudo umano e a disporre dei civili come oggetti di negoziazione ed è ciò che dà forza ad Hamas.[35]
Io non sono così ingenuo da escludere violenze di ogni tipo, sempre presenti negli scontri bellici. E tantomeno sono in grado di affermare alcunché sull’efficacia o meno delle operazioni militari.[36] Avverto con certezza però che tante affermazioni, discussioni, polemiche risentono troppo di un'impostazione ideologica.[37] Non sono tuttavia imbarazzato ad affermare che, se l’efficacia dell’intervento israeliano è nulla o quasi, nel perseguire l’annientamento di Hamas, ha ragione chi reclama una tregua, nel senso che una risposta israeliana agli orrori del 7 ottobre c’è già stata e di più non si potrebbe fare. Se invece l’operazione che mira almeno ad abbattere, o quanto meno a indebolire Hamas, è efficace, necessita allora di tempi lunghi e Israele non può che continuare l’offensiva, al di là delle raccomandazioni di Biden, timoroso per le sue future fortune elettorali. Noi europei ci siamo «pigramente» adagiati su ottant’anni di pace, e siamo stati bruscamente risvegliati dalla guerra in Ucraina e, per spegnerla, abbiamo reagito con astratti appelli di pace anziché comprendere l’importanza della posta in gioco e indagare sugli obiettivi veri dell’offensiva russa. Ma, negli ultimi decenni, mentre l’Europa riposava nella «pace perpetua» di kantiana memoria, in Corea abbiamo sfiorato l’attacco atomico e in Vietnam abbiamo assistito a tremendi bombardamenti, mirati quelli sì a colpire la popolazione per fiaccarne la resistenza, che hanno causato centinaia di migliaia di vittime (c’è chi si arrischia a parlare di quattro milioni di morti, senza contare i danni che ammonterebbero a 150 miliardi di dollari). E per giungere a tempi più vicini, che dire della spietata repressione in Cecenia da parte dei russi, che si sono distinti anche in Siria dando man forte a Bashar al-Assad? E degli scontri tra hutu e tutsi? Dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si è compiuto in Ruanda lo sterminio dei tutsi per mano dell’esercito regolare e di milizie paramilitari. Il movente ideologico fondamentale fu l’odio razziale nei confronti della minoranza tutsi, che aveva costituito l’élite sociale e culturale del Paese. In soli cento giorni vennero ammazzate circa un milione di persone, uccise soprattutto con machete, asce, mazze. In questo caso si può usare il termine genocidio, quasi sempre usato a sproposito da alcuni storici che dovrebbero conoscerne il significato.[38]
Ma desidero subito stoppare un perfido equivoco che può affiorare nel lettore: questi riferimenti non valgono per «ridimensionare» lo scontro a Gaza operando un meschino calcolo aritmetico sul numero dei morti. Servono a mettere a confronto la disattenzione mondiale nei confronti di fatti spaventosi con l’attenzione ossessivamente mirata verso l’operazione bellica condotta dagli «antipatici» ebrei, come li definisce con magistrale ironia Ernesto della Loggia.[39] Sciocco l’accenno sarcastico di chi parlò di una bimba palestinese uccisa «per sbaglio». Ma sicuramente, non per sbaglio, sono stati massacrati i minori nei kibbutzim dalla furia assassina di Hamas. Per concludere: gli ebrei prima avvisano, per evitare di colpire civili. Poi inevitabilmente ne colpiscono alcuni. Hamas invece colpisce civili e militari e di questo si compiace.[40]
10) Fermare l’assedio? Al di là del pacifismo di maniera, che impera e che si è sviluppato anche in occasione dell’invasione dell’Ucraina,[41] il problema sta nella legittimità o meno da parte di Israele, per motivi di sicurezza, di indebolire fortemente Hamas per scongiurare periodici attacchi devastanti. E se si parte, come scrivevo al punto 1) di questo documento, dall’opzione favorevole alla sopravvivenza di questo Stato, dovremmo essere conseguenti. Perché la debolezza degli appelli a porre fine all’azione armata a Gaza sta appunto nel fatto che il progetto di annientare Israele è nei programmi e nelle azioni dei terroristi.[42] Inconsistente, pertanto, il richiamo a una proporzionalità tra l’offesa subìta da Israele e la sua risposta con l’assedio di Gaza. Non ha senso rifarsi all’aritmetica dei morti, perché le vittime sono tutte uguali ma non i carnefici. Ma la prima osservazione è: questa guerra è stata originata da una serie di eventi criminali senza precedenti: stupri, squartamenti, mutilazioni, anche di bambini (cito anche io i bambini perché nelle cronache da Gaza di Hamas, si parla sempre di bambini morti). La proporzionalità cosa significa? Ovviamente non può essere la riproposizione in eguale misura delle brutalità di Hamas. Quello che in realtà si esige da Israele è di ritirarsi, di non vincere, e così potremo ritornare tranquillamente a cullarci nelle rituali commemorazioni della Giornata della Memoria, aggiungendo, alla collezione, l’ultima perla: la strage del 7 ottobre. Ma riavvolgiamo il nastro degli avvenimenti e ripartiamo dal 7 ottobre. Molti, nel mondo occidentale, sulle prime hanno reputato legittima la risposta israeliana a tanto scempio. Ma ora sempre più forti sono le pressioni su Gerusalemme perché interrompa la sua campagna militare. Come dire, il massacro del 7 ottobre è stato gravissimo, d’accordo. Voi israeliani avete risposto adeguatamente, e quindi ora basta. Pari e patta! Come dire ancora che, se Israele persegue l’obiettivo di eliminare alla radice le minacce alla propria sopravvivenza, rischia di passare dalla parte del torto perché col suo intervento può, di fatto, coinvolgere la popolazione civile. Ma porre con tanta determinazione un limite all’azione di Israele mostra in trasparenza come la legittimità all’esistenza di questo Stato venga concepita come una graziosa concessione a un popolo che ha subìto persecuzioni e sofferenze, vittima assoluta del Novecento e di ogni tempo per gli orrori patiti. Ma se l’ebreo, vittima per eccellenza, rinnega il ruolo assegnatogli e si sottrae a un destino intollerabile, è disconosciuto dall’Occidente, che con un’operazione ardita e rapida lo assimila ai suoi aguzzini: i nazisti.[43] Dissento quindi da quanto affermato, il 13 febbraio scorso, in occasione della presentazione del suo libro, da Maria Luisa Boccia:[44] «gli ebrei hanno subìto gravi torti, ma fino a che punto potremo tollerare le loro risposte eccessive?». Il voler porre un limite alla volontà di autodifesa di Israele, significa condannarlo alla precarietà o addirittura all’estinzione, contraddicendo così, nei fatti, il diritto all’esistenza proclamato a parole.
La narrazione che è venuta consolidandosi scinde erroneamente questa drammatica storia in due tronconi che non comunicano. Si inorridisce di fronte allo scempio bestiale del 7 ottobre e si giustifica, ma solo per poco, la reazione di Israele che il Manifesto ha descritto con l’infame sostantivo di «vendetta» e altri con un altrettanto orribile «ritorsione». Il «secondo tempo», scisso dal primo, vede le truppe dello Tsahall bombardare Gaza. E si commenta: la strage del 7 ottobre Gerusalemme la sta facendo pagare a una popolazione che non è responsabile di quanto avvenuto. La narrazione è assai indicativa e permette di ricavarne considerazioni desolanti. Io però ne propongo un’altra che ritengo fondamentale per interpretare gli avvenimenti: Hamas non è solamente una banda di fanatici. Hamas nel 2006 ha vinto le elezioni e pertanto governa Gaza con un governo legittimo.[45] L’azione del 7 ottobre non si limita ad essere un atto criminale. È un atto di guerra contro Israele e i combattimenti in corso a Gaza fanno parte di questa guerra. E dire che la risposta di Gerusalemme è barbara e disumana che senso ha? È la guerra in sé che è espressione massima di barbarie.[46] Ma è opportuno e necessario aggiungere che l’area interessata al conflitto non si limita a Gaza, è più vasta. Israele è aggredito anche da truppe Hezbollah sul confine libanese e dagli Houthi, gruppo sciita armato dall’Iran che controlla da dieci anni vaste zone dello Yemen e che ha iniziato attacchi diretti contro il Sud di Israele e, nel Mar Rosso, contro le navi mercantili passanti per lo stretto di Bab el-Mandeb.[47]
Se pertanto le pressioni internazionali su Israele lo bloccassero senza costringere Hamas a rinunciare alle pretese per rilasciare gli ostaggi (è recentissima la sua richiesta della liberazione di tremila detenuti per lo scambio) permetterà ad Hamas di rivendicare la vittoria e di presentarsi come la maggiore forza antisionista. Potrà significare anche un incoraggiamento alle provocazioni dell’Iran nel Mar Rosso e in Libano.
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Si parla della sofferenza del popolo palestinese in questo scontro. Sofferenza reale. Necessario ricordare che in tutte le guerre la popolazione civile è coinvolta, perché Hamas, che esibisce le foto di bambini morti nei bombardamenti per commuovere l’opinione pubblica mondiale (da che pulpito!), ha sistemato bombe, missili, armi e rifugi sotto asili, scuole, ospedali.
Quanti uomini e donne (e quanti bambini) inglesi sono morti in seguito ai bombardamenti tedeschi su Londra? E quanti uomini e donne (e bambini) sono morti nei bombardamenti anglo-americani sulla Germania. Lo scopo dichiarato di Churchill era quello di colpire proprio la popolazione civile per terrorizzarla e piegare la volontà di combattere dei tedeschi. A San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943, in un paio d’ore morirono circa tremila persone a causa del bombardamento aereo statunitense.[48] E non parliamo dei bombardamenti devastanti in Vietnam con una intensità che non ha eguali. E men che mai di Hiroshima e Nagasaki.
Si grida, si implora un cessate il fuoco a Gaza. «Ma perché il Vaticano, l’Onu, ma anche la Schlein e la Meloni, quando chiedono a Israele di fermarsi, non esigono che prima Hamas rilasci gli ostaggi israeliani?» si chiede Lia Levi, novantaduenne, fondatrice della rivista ebraica Shalom.[49] Lia Levi non ha firmato l’appello degli ebrei «buoni» che chiedono l’armistizio, quasi sia necessario fare qualche concessione per poter aver voce in capitolo. E perché Amnesty, Onu, Unrwa nessuno chiede a Sinwar, architetto dell’eccidio del 7 ottobre, di lasciare prima liberi gli ostaggi e di consegnarsi, visto che è lui il responsabile principale del massacro generale? E perché non si censura la richiesta esagerata di Hamas (qui sì che ha un senso il discorso della proporzionalità) che, per liberare gli israeliani sequestrati, pretende la liberazione di un numero di arrestati palestinesi assai superiore?[50]
11) Il dopo. Una soluzione significativa del contrasto, che insanguina da troppo tempo il Vicino Oriente, necessiterebbe anche di un accordo tra le Potenze, che da circa ottant’anni alimentano l’instabilità dell’area.
Poco può fare l’Onu, da troppo tempo delegittimata. Forse qualche iniziativa potrebbero intraprenderla gli Usa, coinvolgendo il maggior numero di Paesi arabi per individuare interlocutori che non siano gli assassini di Hamas e, in Israele, una classe politica diversa dall’attuale. Ma nell’immediato, se si stanno realmente sferrando colpi duri all’estremismo arabo, proporre il cessate il fuoco è forse il modo migliore per allontanare la pace e offrire ad Hamas la possibilità di rialzare la testa.[51]
Credo opportuno però intervenire con alcune precisazioni, a mio avviso dirimenti e prese in scarsa considerazione, su tutto l’intrigo che, da decenni, si è venuto a creare nell’area. Ritengo di riportare date e dati veritieri, e, come già detto, sono pronto ad accogliere osservazioni e obiezioni mosse però con elementi certi e verificabili. Torno quindi a parlare, velocemente, della situazione che si venne a creare dopo la Prima guerra mondiale per offrire un quadro complessivo che confligge con la narrazione che prevale nelle polemiche attuali.
Il crollo dei vari Imperi alla fine della Grande guerra portò, sia in Europa orientale, sia nelle terre dell’ex Impero turco, alla formazione di vari Stati. Il Mandato per la Palestina, deciso nella conferenza di Sanremo e redatto poi dalla Commissione Millner, fu approvato, come ho già detto, dalla Società delle Nazioni nel luglio 1922. L’area presa in considerazione comprendeva l’attuale Israele, Transgiordania, Cisgiordania (Giudea e Samaria). Il testo approvato stabiliva dir dar vita a uno Stato ebraico (National home: il «Focolare») in uno spazio compreso tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Il clima esistente tra le due guerre non permise di dare attuazione a quanto deliberato, anche se, importante ribadirlo, i trattati non decadono. Tanto è vero che, morta la SdN nell’aprile 1946, lo Statuto dell’Onu (art. 80) ribadì che tutti i diritti acquisiti dagli Stati e dalle popolazioni sarebbero stati accettati e considerati validi dall’Onu medesima. Come già ricordato, l’Onu, di fronte allo stallo, tentò di offrire una soluzione capace di dare soddisfazione ad arabi ed ebrei proponendo la formazione di due Stati con la stracitata Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 che però, importante ricordarlo e ribadirlo, è soltanto una raccomandazione dal momento che l’Onu non ha, tra le sue competenze, quella di decidere la formazione di Stati.[52] Tutte le risoluzioni dell’Assemblea Generale, infatti, non hanno valore legale per il diritto internazionale. Come è noto, gli Stati arabi (Giordania, Siria, Egitto, Libano, Iraq) rifiutarono il suggerimento dell’Onu, attaccarono Israele ma furono respinti. La Giordania prese però possesso illegalmente della Cisgiordania e l’Egitto della striscia di Gaza, senza che si manifestassero proteste da parte della comunità internazionale.
Alla luce di quanto detto, il tema dei cosiddetti insediamenti va rivisto radicalmente. Sotto il profilo del diritto internazionale, tutto il territorio della Cisgiordania (Giudea e Samaria), erano stati attribuiti a Israele dal Mandato e pertanto non ci sono insediamenti clandestini o illegali. E se facciamo riferimento a tempi più recenti, cioè agli accordi di Oslo del 1993, anche in questo caso non si può parlare di insediamenti illegali. Gli accordi dividevano tutta l’area della Cisgiordania in tre zone; zona A in mano all’Autorità palestinese; zona B a controllo misto palestinese-israeliano¸ zona C gestita tutta da Israele. Per quel che ne so, tutti i cosiddetti insediamenti sono avvenuti in questa ultima zona. E aggiungo: contrariamente a quanto viene gridato ai quattro venti, non mi risulta che questi insediamenti abbiano comportato l’espulsione di arabi, che nella zona C rappresentano soltanto il 4% della popolazione, e men che mai espropri di case di questi ultimi.[53]
Un altro tema che mi interessa toccare e chiarire – sempre per offrire un quadro esaustivo di ciò che agita il Vicino Oriente – è quello dei rifugiati, di cui tanto si parla da tanto tempo, e spesso a sproposito. La guerra scatenata nel 1948 (ma anche gli avvenimenti successivi) indusse centinaia di migliaia di persone a spostarsi, alcune volontariamente, altre costrette dagli eventi. Un dato ufficiale dell’Onu parla di complessivi 500 mila profughi. Dico complessivi perché, accanto ai profughi arabi, la grande maggioranza, sono da segnalare migliaia di profughi ebrei allontanatisi dall’area interessata allo scontro bellico. Ma a questi si deve aggiungere quasi un milione di sefarditi, non coinvolti direttamente nella guerra, che furono espulsi da vari paesi, dal Marocco all’Iraq, con sequestro dei beni e, in qualche caso, di veri e propri pogrom. Si trattava spesso di comunità che si erano insediate addirittura da millenni nei vari Paesi arabi. Le migliaia di ebrei fuorusciti trovarono sistemazione in Israele. Ai fuorusciti arabi, eccezion fatta della Giordania, non fu concessa la cittadinanza da parte dei paesi ospitanti.
Per offrire un aiuto concreto a questa massa di esuli intervenne l’Assemblea Generale dell’Onu la quale, con la Risoluzione 302 dell’8 dicembre 1949, dette vita all’Unwra, un'Agenzia per i rifugiati di Palestina (attenzione: non rifugiati palestinesi, perché riguardava arabi ed ebrei). Questa Agenzia prese ad assistere i rifugiati arabi che, a partire dal 1949, si erano sistemati in Cisgiordania e a Gaza. L’agenzia doveva avere una durata limitata, tanto più che l’anno successivo (dicembre 1950) fu creato l’Unhcr, un Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati di tutto il mondo.
La prima anomalia che si riscontra è nella definizione di rifugiato che Unwra, anziché limitarsi, come fa l’Unhcr, ad applicarla a colui che è costretto a lasciare la propria terra per trovare ospitalità in altro luogo, la estende a tutti i successori in linea maschile e anche a coloro che hanno lasciato volontariamente la propria terra d’origine.[54] Abbiamo pertanto arabi nati in California che godono del titolo di rifugiati con tutti i vantaggi che ne derivano in quanto discendenti di arabi che vivevano in Palestina. A quanto dichiara David Elber, la cifra di veri rifugiati ammonterebbe a soli 30 mila.[55] Sbalorditiva la differenza coi dati forniti dall’Unwra che parla di oltre cinque milioni.[56] C’è da aggiungere che molti degli impiegati che lavorano in questa Agenzia sono arabi di Palestina. Con l’andare degli anni questa moltitudine di Rifugiati è diventata una massa di manovra utilissima come arma politica contro Israele.
12) È potente e in crescita in Occidente un atteggiamento di critica corrosiva nei confronti dei propri modelli culturali. Molti nemici dell’Occidente sono presi in considerazione da frange di estrema destra e da alcuni gruppi di estrema sinistra. Appoggio, in settori non piccoli dell’opinione pubblica, all’aggressione russa all’Ucraina. Che vetero-comunisti facciano il tifo per Putin è semplicemente grottesco, quasi che l’autocrate russo possa impersonare la continuità col comunismo sovietico. È infatti l’odio per il mondo in cui si vive che incoraggia alcuni a parteggiare per i nemici dell’Occidente. Un volantino sedicente anarchico, anni fa, prendeva le difese di Lukašenko, autore di una politica repressiva nel suo paese (e colpevole di aver mantenuto il potere grazie a brogli elettorali). L’ipocrisia la fa da padrona quando si ammantano le proprie posizioni politiche con travestimenti «etici». Insisto nel ribadire che un valore genuino come il pacifismo viene spesso utilizzato cinicamente per veicolare posizioni politiche che di fatto premiano una delle parti in causa. Esiste, a mio avviso, un mondo residuale irriducibile, che ha assistito alla fine dell’Urss, al trionfo del capitalismo in Cina, alla scomparsa della classe operaia così come è venuta a raffigurarsi negli ultimi due secoli, e che non riesce a prendere atto di questi mutamenti radicali ai quali non si rassegna. Ma, anziché impegnarsi in un’analisi capace di ricostruire un quadro nel quale muoversi in questa realtà completamente nuova e orientarsi di conseguenza, sonnecchia e lancia ruggiti ogni qualvolta si apre uno spiraglio e appare un qualcosa sul quale lanciarsi e sfogare le proprie frustrazioni. Cosa di meglio, appunto, della guerra russo-ucraina e della violenza omicida di frange musulmane fanatiche per rimettersi in gioco? (e che dire della parentesi no-vax?). Un’occasione d’oro per gridare di essere «contro», sfogando in questo modo la propria insignificanza, guadagnandosi così un’identità da quattro soldi, ma a portata di mano. Per quel che riguarda lo scontro a Gaza oggi, in questo contesto ideologico tutti gli elementi che la sinistra utilizza normalmente sono a disposizione. La lotta dei palestinesi diventa la rappresentazione plastica del povero contro il ricco, del proletario contro il borghese, del Terzo Mondo contro l’Occidente, con la capacità di congiungere e rappresentare cronologicamente, in un’area geografica ristretta, passato e presente.
E che dire di alcuni settori dell’estrema sinistra statunitense che, con i suoi eccessi e la sua reazionaria cancel culture, non a caso manifestano anche il loro aperto antisemitismo senza imbarazzi? L’ebraismo sembra essere diventato la sintesi perfetta della cultura occidentale contestata dall’estrema sinistra e impersonata, per l’estremismo musulmano, nel Grande Satana americano, superbo nel suo trionfo tecnologico, culturale, civile.[57] Terrorismo musulmano e contestazione in Occidente affiancati nell’obiettivo di abbattere l’edificio della democrazia liberale.[58] Un’utopia regressiva contro la società aperta. Grottesco che si gridi al fascismo di Netanyahu e alle sparate demenziali di alcuni membri del suo governo (che assist formidabile per spacciare, da parte di tanti, il proprio antisemitismo come semplice antiisraelismo!) ben sapendo che in Israele si può essere di destra o di sinistra, anche estreme, si può professare tranquillamente la propria omosessualità perché è un Paese di democrazia consolidata, come dimostrano le manifestazioni potenti contro l’arrogante politica del suo governo in materia di giustizia. E se gettiamo invece un occhio su Gaza scopriamo che teocrati sessuofobi la fanno da padroni, ossessionati da un islamismo estremo che vede la donna sottomessa e il piacere sessuale negato dal credo religioso. E cosa dicono (in realtà tacciono) alcuni gruppi di femministe americane delle donne stuprate il 7 ottobre?
Per chiudere sulla situazione nel Vicino Oriente: una riflessione amara. Il «mai-più-Auschwitz» è morto. Gli anticorpi stanno svanendo. Ci eravamo illusi di aver recintato il mostro che invece ha ripreso energie. Shoah e genocidio che erano patrimonio degli ebrei, per una beffa della storia, è ora materiale in mano al fanatismo islamico, grazie alla complicità di un’estrema sinistra mondiale disfattista e autolesionista. Israele ha perduto un atout e dobbiamo pensare l’impensabile: la distruzione di Israele con una perdita spaventosa per tutta la cultura occidentale.
13) Europa assente. Il mondo è in subbuglio. L’equilibrio presente nei decenni della guerra fredda è venuto meno. Talebani nuovamente al potere in Afghanistan, Ucraina aggredita, tensioni sempre più forti tra Usa e Cina per Taiwan, armeni cacciati dall’esercito azero dal Nagorno-Karabakh, jihadisti che dilagano nell’Africa francofona, turchi contro curdi in Siria, ora la guerra in Vicino Oriente. E l’Europa è assente mentre potrebbe fare molto se, anziché limitarsi a essere una potenza economica, abbandonasse il nanismo politico e, abbracciando un processo di unificazione reale, diventasse protagonista nell’area continentale e nel Mediterraneo.[59] E non siamo lontani dal vero se individuiamo nell’inerzia europea una delle cause della crisi che sta insanguinando il Vicino Oriente. Con un’espressione efficace, a proposito delle vicende di Gaza, l’ambasciatore Stefano Stefanini ha scritto: «L’America si muove, l’Europa si commuove». Può darsi – è un auspicio – che Ucraina e Gaza fungano da elettro-shock.[60]
Riporto le indicazioni relative ai confini del Mandato per la Palestina. Confine sud: quello del 1906 sottoscritto da GB (in nome dell’Egitto che era un protettorato) e dall’Impero ottomano. Confine ereditato dal Mandato. Confine nord: fu creato con due trattati internazionali (dicembre 1920 e marzo 1923) sottoscritti da GB e Francia con i quali si dividevano i confini tra Palestina e Iraq da un lato e Siria e Libano dall’altro. Confine est: qui la cosa si complica ma in estrema sintesi furono creati un confine internazionale con il trattato di Gedda del 1927 che separava la parte est del Mandato (la Transgiordania) dall’Arabia Saudita e dall’Iraq e un confine amministrativo all’interno del Mandato che separava la parte ebraica da quella araba in base alle disposizioni dell’articolo 25 del Mandato stesso. Il confine è ben descritto nel memorandum britannico del 16 settembre 1922 e approvato dalla SdN. Importante considerazione: il fatto che i confini fossero decisi da Gran Bretagna e Francia in qualità di potenze vincitrici dell’Impero ottomano ci fa capire senza ombra di equivoco che la SdN non aveva diritto di sovranità territoriale esattamente come l’Onu dopo di essa. Alla creazione degli Stati indipendenti che sono nati dai Mandati internazionali, questi Stati hanno «ereditato» i medesimi confini per il principio dell’uti possidetis iuris universalmente accettato dalla comunità internazionale.
Lettera dell’emiro Faysal Hussein a Felix Frankfurter, delegato sionista alla Conferenza di Parigi insieme a Chaim Weizmann, 1.3.1919.
[1] Visto che in molte contrapposizioni polemiche gli aspetti ideologici fanno aggio sulla realtà storica, partiamo dalle origini. Distrutto l’Impero ottomano con la Prima guerra mondiale, il 3 gennaio 1919 ci fu a Parigi un incontro tra l’emiro Faisal – futuro sovrano dell’Iraq, rappresentava gli arabi – e Chaim Weizman, capo dell’Organizzazione sionista mondiale dal 1920 al 1931 e futuro primo presidente di Israele. Giunsero a un accordo – faceva riferimento alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) – che prevedeva due Stati: la Palestina destinata agli ebrei e uno Stato arabo, comprendente l’attuale Giordania e l’Iraq. L’accordo impegnava entrambe le parti a intrattenere rapporti improntati alla cordialità. Nella Palestina ebraica, sarebbero stati garantiti i diritti di contadini e proprietari terrieri arabi, incoraggiata l’immigrazione degli ebrei su vasta scala e salvaguardata la libertà di pratica delle varie convinzioni religiose. I luoghi santi musulmani sarebbero stati sotto controllo musulmano. Il progetto fu bocciato dalle Potenze vincitrici, contrarie alla formazione di uno Stato arabo di così vaste proporzioni, e poi ricusato dalle parti. La dichiarazione Balfour da semplice atto politico diventerà poi atto di diritto internazionale a Sanremo nel 1920 con la Risoluzione omonima e con il suo inserimento nel trattato di Sèvres (1920) e nel preambolo del Mandato per la Palestina, nato dal combinato disposto della Dichiarazione Balfour e dell’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni. A fine saggio il documento in cui Faisal parla dell’accordo con gli ebrei. (La dichiarazione Balfour è conservata presso la British Library). Per facilitare il lettore nell'individuazione di questo percorso giuridico finalizzato alla conoscenza della formazione dello Stato di Israele e alla sua legittimazione, indico fin d’ora le note da tener presente, oltre a questa, le note 9, 16, 20, 21, 25, 51. Sul ruolo dell’Onu: le note 17, 53, 55.
[2] Il 7 ottobre ha diversi precedenti nel passato. Il Farhud a Baghdad nel 1941, Hebron nel 1929. La novità assoluta risiede nell’esplosione mediatica dell’evento che ha restituito al mondo intero l’enormità dell’avvenimento. E anche nelle proporzioni: a Baghdad le vittime furono duecento, a Hebron settanta. Ora invece sono state milleduecento. Il precedente storico più famoso fu nel 627, opera dello stesso Maometto nei confronti della tribù ebraica dei Banu Qurayshi risiedente a Medina. Furono tutti sgozzati e decapitati. Maometto volle il privilegio di decapitare i capitribù.
[3] Interessante l’osservazione di Paola Caridi, «Dentro Hamas comandano i militari», che ipotizza che il gruppo militare del partito abbia agito autonomamente prendendo alla sprovvista i leader politici. Nelle interviste, le parole di questi ultimi tradiscono infatti una certa sorpresa (Limes, ottobre 2023). Alcuni capi di Hamas hanno poi voluto rettificare il tiro, affermando che autori dei tanti casi di violenza siano stati comuni cittadini palestinesi, esasperati per le condizioni di vita in cui versano. Ha scritto Ezio Mauro: «il pogrom di Hamas è un unicum dei nostri anni, e non per il numero di vittime, che resta spaventoso: ma perché i morti non sono combattenti in azioni di guerra bensì civili, inseguiti e uccisi nella normalità della loro esistenza quotidiana, nell’esercizio personale delle scelte autonome, nella libertà delle piccole cose che è il tessuto pratico, concreto, del modo di vivere in democrazia. Questa caratteristica — persone trasformate in bersaglio non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono, dato sufficiente e anzi dirimente nel decretarne la morte — porta l’accaduto fuori dalla dimensione della politica e addirittura oltre la morale, e ci chiede di giudicarlo semplicemente e finalmente come una manifestazione del disumano» (la Repubblica, 30 ottobre 2023).
[4] Sono stati massacrati 1.200/1400 ebrei. Al momento (fine aprile 2024) risultano ancora in mano ad Hamas un centinaio di ostaggi presunti vivi e i corpi di altri 29. Tra gli ostaggi ci sono dieci non israeliani.
[5] Sulle prese di posizione dell’Onu (con l’accondiscendenza dell’Occidente) nei confronti di Israele, vedi nota 17.
[6] Con genocidio, secondo la definizione adottata dall’Onu (1948), si intendono «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il termine non è stato speso, giustamente, per le vittime nella Seconda guerra mondiale: né per i sovietici (25 milioni, il 15% della popolazione), né per i polacchi (5,5 milioni, 16%) e neppure per gli indonesiani (4 milioni, 6%). Il termine fu coniato nel 1944 da Raphael Lemkin, avvocato ebreo-polacco.
[7] Netanyahu, nella ricostruzione degli avvenimenti, non vuol essere da meno quando parla della volontà di denazificare Gaza. Usa lo stesso linguaggio di Putin quando parla dell’attacco all’Ucraina per denazificarla. Anni fa, il leader israeliano, mostrando la foto del gran Muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini che esorta nel novembre del 1941 Hitler a completare lo sterminio degli ebrei, ebbe l’improntitudine di dichiarare che era stato lo stesso Husseini a suggerire a Hitler lo sterminio. Fu preso a pedate dagli storici.
[8] Sbalorditivi i risultati contenuti in un’indagine dell’Istituto Cattaneo di Pavia, che Giovanni Belardinelli ha riportato su Il Foglio Quotidiano del 20 gennaio 2024: «Studenti universitari, ebrei e Israele prima e dopo il 7/10/2023». Indagine che non ha avuto l’attenzione che merita. La ricerca, che raccoglie le risposte di studenti di destra e di sinistra, conferma soprattutto a destra gli stereotipi che caratterizzano l’antisemitismo tradizionale (ebrei alla guida di una cospirazione internazionale per il controllo della finanza); al contempo rivela, soprattutto a sinistra, che viene condiviso, da circa il 60% degli intervistati, il paragone tra il comportamento di Israele verso i palestinesi e quello della Germania nazista verso gli ebrei. Accostamento che anche alcuni studenti di destra condividono. Ma, al riguardo, la cosa più interessante è sicuramente un’altra. I ricercatori del Cattaneo, che hanno condotto l’inchiesta subito dopo gli avvenimenti del 7 ottobre, evidenziano come il numero di chi concorda con la similitudine tra Israele e Germania nazista cresca «nei giorni immediatamente successivi alla strage terrorista» molto prima della risposta del governo israeliano. Ciò sembra confermare una delle caratteristiche fondamentali dell’antisemitismo: il suo configurarsi come atteggiamento a prescindere: legato non alle azioni degli ebrei ma a ciò che essi rappresentano. Belardinelli giunge all'amareggiata conclusione che tante commemorazioni della Giornata della Memoria a poco siano servite. Mi associo a questa considerazione amarissima. Da quasi un decennio partecipo a visite annuali ad Auschwitz con studenti delle medie superiori, promosse da Regione Liguria. Feci presente, a un autorevole politico della Regione, che la Shoah appare alla grande maggioranza degli studenti (e della popolazione italiana in genere) come il frutto di una spaventosa violenza esercitata contro gli ebrei, non collegata però, in modo adeguato, alla cultura antisemita secolare profondamente introiettata. Sarebbe pertanto necessario un approccio storico diverso da parte dei docenti che partecipano alla Giornata della Memoria.
[9] La nascita di Israele fu proclamata il 14 maggio 1948. Credo necessario, a questo punto, confutare alcune «credenze», divenute, ahimè, merce comune, a opera di tanti «esperti» (c’è caduto anche uno storico come Paolo Mieli). La celeberrima Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 non decretava (non poteva farlo) la nascita dello Stato di Israele. Si limitava a raccomandarla. Lo Statuto dell’Onu, tra le sue competenze, non ha quello di decidere la formazione degli Stati, sancirne i confini, assegnare loro le Capitali. Dicendola con una formula giuridica latina, nemo dat quod non habet. Raccomanda ma non delibera. Di chi era il territorio su cui è nato lo Stato di Israele? Del popolo ebraico, dal Giordano al mare, per diritto internazionale, sancito col Mandato per la Palestina (vedi n. 1), che ha valenza di Trattato Internazionale, emesso dalla SdN nel 1922, le cui disposizioni giuridiche non sono mai state abrogate e quindi sono tuttora valide (al Mandato si oppose il Vaticano, per il suo secolare atteggiamento antigiudaico!). Il mandato internazionale (in tutto ne sono stati emessi venti) era lo strumento giuridico appositamente creato per la creazione degli Stati nazionali dopo il disfacimento di alcuni Imperi, come sancito dall’articolo 22 del Patto della SdN). La SdN muore nell’aprile 1946, ma lo Statuto dell’Onu (art. 80) stabilisce che tutti i diritti acquisiti dagli Stati e popolazioni vengano accettati e considerati validi dall’Onu medesima. Il territorio destinato al popolo ebraico era quindi più vasto di quello raccomandato dalla già ricordata Risoluzione 181. Da aggiungere che il Mandato per la Palestina, riferendosi alla popolazione ebraica, alludeva a tutti gli ebrei sparsi per il mondo che divenivano automaticamente cittadini di questo Stato costituendo se lo desideravano. Per ulteriori informazioni, cfr. l’ottimo libro di David Elber, Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato di Israele, Belforte Editore, 2022. Per i confini stabiliti nel 1922, vedi cartina p. 18. Sulla legittimità dello Stato di Israele e sul contenzioso col mondo arabo torno in finale di questo saggio.
[10] Così continua la citazione: «La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila» (Travaglio su il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2023). Aggiungo io: tra il ‘45 e ‘48 arrivarono altri 100mila ebrei, 70mila dei quali sopravvissuti all’Olocausto.
[11] Belle le pagine di Isaiah Berlin: «[Pochissimi] hanno creduto che [Israele] avrebbe mai avuto la forza combattiva e l’unità spirituale necessarie per trionfare su un così grande numero di ostacoli» (Isaiah Berlin, Le origini di Israele, in Il potere delle idee, Adelphi, 1994).
[12] Rappresenta l’ultimo atto di violenze reciproche. Già nell’agosto 1976 le Falangi avevano fatto strage di palestinesi a Qarantina (vicino a Beirut, da 1500 a 3000 vittime), in risposta a un precedente attacco di una squadra palestinese ai danni di cristiani maroniti a Damour, (sempre vicino a Beirut) nel gennaio precedente (582 vittime).
[13] Le immagini del massacro sconvolsero l’opinione pubblica di tutto il mondo. A Tel Aviv ci fu una manifestazione di 400mila persone che reclamavano informazioni precise sull’evento.
[14] Laureato in Studi arabi presso l’Università Islamica di Gaza, è stato l’ideatore della strage del 7 ottobre 2023. Autore in precedenza del rapimento e uccisione di due soldati israeliani e quattro palestinesi che considerava collaboratori nel 1989, fu condannato a quattro ergastoli e rimase in carcere per 22 anni.
[15] Il 24 marzo 2016, il soldato israeliano Elor Azaria uccise un terrorista palestinese ormai disarmato. Fu condannato da un tribunale perché Azaria non aveva ucciso perché minacciato, ma soltanto per l’intenzione di uccidere. E l’esercito emise un comunicato per affermare che il suo gesto era contrario alla cultura delle Forze armate israeliane. I leader israeliani, e anche i militari, devono rispondere al vaglio della Corte Suprema (e dell’opinione pubblica), che in passato non ha esitato a emettere condanne in casi di risposte sproporzionate nei confronti di palestinesi. A questo proposito interessante il libro di Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, Feltrinelli 2016, in cui l’autore (allora soldato israeliano) racconta che, disattendendo un ordine di un superiore, si rifiutò di sparare a un soldato nemico ormai disarmato. Goldkorn, ebreo polacco, vive ora a Firenze. È stato responsabile de l’Espresso.
[16] Da tenere presente che Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, quando il 12 settembre l’ultimo soldato abbandonò la Striscia. La decisione fu assunta dall’allora primo ministro Ariel Sharon, ex militare e politico del Likud, passato poi a Kadima (formazione centrista). Ci furono resistenze da parte di alcuni degli 8.500 cittadini israeliani presenti in 21 comunità, che furono allontanati con la forza dagli stessi militari israeliani.
[17] Molti osservatori indipendenti hanno denunciato Unrwa, la principale agenzia dell’Onu che opera nei territori palestinesi, come
eccessivamente contigua alla struttura politica e militare di Hamas e chi addirittura si ritiene in grado di dimostrare il suo pieno coinvolgimento con le squadre della morte di Hamas. Unrwa assolve compiti di assistenza umanitaria nei confronti dei rifugiati palestinesi (si tratta del mitizzato «welfare» di Hamas) tra cui l’organizzazione dei programmi scolastici che, concordata con Hamas, ne rispecchia l’impronta jihadista. Luis Cohn Pelaez, ricercatore dell’Un Watch (organizzazione non governativa con sede a Ginevra la cui missione è quella di «monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta») ha individuato insegnanti che hanno espresso la loro approvazione al massacro del 7 ottobre. Fa il nome di Safaa Mohammed al Najjar che il 7 ottobre ha pubblicato un video di terroristi intenti a torturare. Video che il ricercatore è riuscito a conservare prima che venisse cancellato (Il Foglio Quotidiano, 20 gennaio 2024). Pertanto, il 26 gennaio 2024 l’Unrwa è stata costretta a licenziare e aprire un’indagine interna su 12 suoi dipendenti, relativa al loro coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre. In seguito alla notizia, Usa, Regno Unito, Italia, Canada, Australia, Germania, Finlandia, Paesi Bassi, Giappone, Francia, Svizzera, Islanda, ed Estonia hanno sospeso i finanziamenti all’agenzia. Quanto all’Onu, imbarazzante la nomina dell’Iran – che impicca gli omosessuali e massacra le ragazze senza velo – alla guida del Forum Sociale dell’organizzazione che dovrebbe tutelare i diritti fondamentali degli individui su scala planetaria (e ciò è avvenuto pochi giorni dopo il 7 ottobre). Scrive Panebianco: «…sbaglia anche chi non vede la trasformazione di una istituzione [Onu], nata dai lombi della tradizione liberale occidentale, in qualcosa d’altro. Ho citato il caso dell’Iran alla testa del Forum sui diritti umani. Cosa significa? Significa che l’idea dei diritti umani, un'idea occidentale (la sua origine è il giusnaturalismo cristiano) è stata totalmente stravolta, significa che coloro che hanno messo l’Iran in quel luogo si servono di idee occidentali svuotandole del significato originario, se ne servono per difendere modi di organizzazione del potere e prassi politiche che, dal punto di vista occidentale, sono, dei diritti umani, la negazione. Di quella stessa trasformazione, in senso antioccidentale, è anche testimonianza la singolare posizione di Stato-paria nella quale l’Onu ha (per la verità, da molto tempo) relegato — ed è l’unico caso — un suo Stato membro, ossia Israele. Senza ripercorrere la lunga storia del rapporto conflittuale fra Israele e l’Onu, è sufficiente confrontare l’attivismo dell’attuale Segretario generale, Antonio Guterres, in difesa di Gaza con i suoi silenzi e la sua inerzia nella vicenda ucraina» (Angelo Panebianco, «Il volto autentico dell’Onu. Eterogenesi dei fini», Corriere della sera, 18 dicembre 2023). Personalmente aggiungo che dalla fondazione dello Stato nel 1948 alla guerra con l’Egitto nel 1956, Israele, ancora immune da accuse di occupazione di territori palestinesi, subì in continuità attentati che provenivano dalla Giudea e Samaria e da Gaza (occupata dall’Egitto) senza che ci fosse un’ombra di condanna da parte dell’Onu, che neppure intervenne quando, sempre illegalmente, Nasser inibì alle navi israeliane il passaggio nel canale di Suez previsto dalle convenzioni internazionali. Ricordo anche che nel 1975 Amin Dada, dittatore dell’Uganda autore di stragi, propose, tra un tripudio di applausi, l’espulsione di Israele dall’Onu e l’eliminazione dello Stato ebraico. Progetti che si concretarono nella Risoluzione 3.379 del 10 novembre 1975. Kurt Waldheim, ex nazista e presidente dell’Onu, non sollevò obiezioni. Israele era appena uscito dalla guerra del Kippur, sopravvissuto grazie anche alla risolutezza degli Usa, mentre il resto dell’Occidente si era piegato al ricatto energetico arabo. Dal 1969 al 1978, il blocco arabo-sovietico, sostenuto dai paesi non allineati, produsse una valanga di risoluzioni (ne ho contate 112) per umiliare Israele. La risoluzione 3.379 fu abrogata soltanto nel 1991 (per saperne di più, Giulio Meotti, «Onustan, il palazzo che dà voce agli aguzzini di Israele», Il Foglio Quotidiano, sabato 4 novembre 2023). Ho individuato la causa di tanto accanimento studiando il funzionamento dell’Onu. Il principio di eguaglianza dei suoi membri è stato ribadito nel 1970 con l’approvazione della Risoluzione 2.625 denominata «Dichiarazione sui princìpi di diritto internazionale relativi alle relazioni amichevoli e alla cooperazione tra gli Stati in conformità allo Statuto dell’Onu». Per permettere pertanto a tutti gli Stati – a prescindere dalla loro potenza economica, politica, militare – di sentirsi parte in causa del sistema decisionale furono creati gruppi regionali, perché, come affermò sir Robert Jennings, già presidente della Corte di Giustizia Internazionale «l’appartenenza a un gruppo regionale è l’unico modo con il quale uno Stato può presentare il proprio candidato per qualsiasi posizione». Sorsero pertanto cinque gruppi di Stati 1) Europa Occidentale e altri (Australia, Nuova Zelanda, Canada ecc.); 2) Europa Orientale; 3) Asiatico; 4) Africano; 5) America Latina e Caraibi. Ogni gruppo elegge i propri delegati per consigli e commissioni incaricati di preparare convenzioni o risoluzioni che potranno diventare norme di diritto internazionale o nominare un proprio rappresentante in seno alla Corte di Giustizia Internazionale o della Corte Penale Internazionale. Israele per posizione geografica avrebbe dovuto far parte del gruppo asiatico, ma ne è stato escluso per volere dei paesi musulmani. Perciò fin dalla creazione dei gruppi regionali, Israele non fa parte di alcun gruppo o commissione. Questa esclusione (apartheid, per usare finalmente questo termine non a sproposito come solitamente avviene), gravissima, non ha suscitato sdegno da parte della comunità internazionale. Soltanto ultimamente Israele è stato ammesso, ma come mero osservatore, nel gruppo dell’Europa occidentale. In una conferenza qui a Genova dell’11 gennaio scorso (2024) David Elber,oltre a comunicare come tante commissioni siano rette da politici di Stati non democratici (o addirittura Stati «canaglia») in cui non trovano riconoscimento i diritti umani, ha aggiunto una perla divertente (si fa per dire): nell’esecutivo della commissione sui diritti delle donne siede un rappresentante del governo talebano dell’Afghanistan. Voglio chiudere questa carrellata per mostrare come sia stato mortificato lo spirito che aveva animato la conferenza di Sanremo del 1920 che aveva sancito la nascita di Israele. Il 15 novembre 2016 l’Unesco votò con una maggioranza schiacciante una Risoluzione, ripresa l’anno dopo dall’Assemblea generale dell’Onu (30 novembre), che dichiarava che il Monte del Tempio ebraico dovesse essere denominato col solo termine arabo Al Haram Al Sharif. Sempre per scindere il legame storico tra il popolo ebraico e i luoghi storici, il Kotel o Muro Occidentale venne chiamato col solo nome arabo Al Buraq.
[18] Furono Occhetto, Fassino e Napolitano a fare uscire il Pci dall’ostilità preconcetta contro Israele, partita dall’Urss in occasione della guerra tra Israele ed Egitto nel 1956. In occasione della Guerra dei Sei Giorni (1967), Umberto Terracini assunse, in contrasto con la linea del partito, una posizione filoisraeliana che gli attirò molte critiche. (Ho un ricordo vago di un litigio nella redazione di Paese Sera in cui Terracini, irritato, fece a pezzi un dattiloscritto o gettò a terra una macchina per scrivere). Negli anni successivi si impegnò anche nella denuncia delle persecuzioni antiebraiche in Unione Sovietica e nei Paesi socialisti. Fu finalmente Napolitano a denunciare come l’antisionismo mostrasse talvolta segni di antisemitismo. A destra, rompendo con l’ostilità antiebraica dei nostalgici della Repubblica di Salò, manifestatasi anche con violente incursioni missine nel Ghetto ebraico a Roma negli anni Cinquanta e con i successivi collegamenti fra estremismo nero e gruppi filoiraniani, fu Gianfranco Fini che, recatosi allo Yad Va-Shem – il museo della Shoah a Gerusalemme – apostrofò il fascismo come «male assoluto».
[19] Psicanaliticamente si potrebbe giungere all’orrenda conclusione di un reale e sotterraneo compiacimento verso la loro sofferenza, purificato e «nobilitato» dalla compassione. Sarebbe l’ebreo vittima l’unica figura socialmente accettata. Ma un sentimento generico, persistente e diffuso suona così: «Ma se tutti ce l’hanno con gli ebrei, qualcosa avranno pur fatto!». Clemenceau, incontrando Weizmann a Parigi nel 1919, lo affrontò con una frase significativa: «Noi cristiani non possiamo perdonare gli ebrei per aver crocifisso Cristo» (Richard Meinertzhagen, Middle East Diary, 1917-1956, Thomas Yoseloff, 1960, p. 22).
[20] Nel 1994 anche la Giordania firmò la pace con Israele.
[21] Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2023. Travaglio ha pubblicato recentemente Israele e i palestinesi in poche parole, PaperFirst, 2023. Molto critico, nella seconda parte, nei confronti dell’attuale politica di Israele. In realtà questa ricostruzione presenta alcune inesattezze. Il termine «palestinese» è nato nel 1970, mentre prima si parlava semplicemente di arabi. La Cisgiordania (Giudea e Samaria o West Bank) fu occupata, come già detto, illegalmente dalla Giordania perché nella spartizione sancita dal Mandato per la Palestina e approvate dalla SdN e infine ribadita dal congresso di Losanna (luglio1923), era stata attribuita a Israele. Il secondo soggetto della spartizione sarebbe stata la Giordania, anch’essa nata dai territori perduti dall’Impero ottomano, che nei progetti originari sarebbe dovuto essere un unico paese comprendente anche la Mesopotamia (futuro Iraq). Importante questo richiamo alla spartizione sancita dal Mandato che fa giustizia su tutte le chiacchiere su occupazioni illegali e sconfinamenti.
[22] Scrive Roberto Arditti: «Vale la pena aggiungere al dibattito un dato certo, che riguarda la totalità del mondo musulmano. Un mondo che, in buona sostanza, ha investito in ogni direzione possibile tranne che negli aiuti ai palestinesi, con un obiettivo preciso: mantenere aperta e sanguinante la ferita, come drammatico strumento di pressione verso Israele, l’Europa e gli Stati Uniti» (Formiche, 15 ottobre 2023). Anna Lombardi (la Repubblica del 10 novembre 2023) riporta alcune valutazioni di Uzi Shaya, ex agente del Mossad, secondo il quale entrano nella Striscia annualmente circa 2 miliardi e mezzo di dollari, provenienti dal Qatar, dall’Iran, dall’Onu e da varie associazioni benefiche, nonché da numerose operazioni commerciali, di cui, sempre a detta dell’agente, una parte cospicua viene trattenuta da Hamas. Anshel Pfeffer, giornalista in Vicino Oriente dal 1996 ha visionato la prima di due lettere pubblicate sul Times di Londra e risalente al 2020, che mostra la tabella dei pagamenti effettuati dall’Iran dal 2014 al 2020 a favore di Abu Ibrahim, che conosciamo col nome Yahya Sinwar, il capo di Hamas a Gaza. In totale 154 milioni di dollari in sei anni. La seconda lettera è scritta a mano, risale al novembre 2021 e fornisce il dettaglio dei fondi arrivati in seguito al conflitto con Israele di quell’anno: 58 milioni di dollari la singola somma più alta di tutte.
[23] Una delle cause, sicuramente la più appariscente, capace di riscaldare gli animi, fu l’episodio plateale di Sharon che, il 28 settembre 2000, con una piccola comitiva (e molti soldati per protezione), prese a passeggiare provocatoriamente sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme. Fu l’inizio della seconda Intifada.
[24] Un interlocutore, a proposito della nascita dello Stato d’Israele, mi ha scritto: «la scelta del 1948 è stata, da parte degli alleati, molto miope, se l’obiettivo era la pace per il popolo ebraico, molto sagace, se l’obiettivo era costruire una enclave occidentale in un contesto che, già si sapeva, aveva e avrebbe acquisito sempre più un’importanza strategica nello scacchiere. Da là, credo, la reazione araba del 1948». Nella mia risposta ho ricordato che gli inglesi abbandonarono il progetto «imperialista» con molto anticipo, rispetto alla data della nascita dello Stato di Israele, impedendo ulteriori sbarchi di ebrei (vedi adozione nel 1939, da parte del governo britannico in qualità di potenza mandataria, del White Paper, con la quale si chiudeva la porta all’immigrazione araba in Palestina). Le tensioni, che si svilupparono già negli anni Trenta, portarono ad attentati contro gli inglesi organizzati da gruppi militari ebraici; ci fu una tregua dal 1940 al 1943 e poi una ripresa di attacchi: i più noti nel 1946 contro l’albergo King David a Gerusalemme e contro l’ambasciata inglese di villa Torlonia a Roma. Fu anche ucciso il barone Moyne, alto diplomatico inglese. Così poco enclave occidentale che il primo Stato a riconoscere de iure Israele fu l’Urss, tre giorni dopo la dichiarazione di indipendenza. E furono le armi provenienti dalla Cecoslovacchia a permettere a un esercito improvvisato e male armato di resistere e vincere contro gli eserciti coalizzati dei cinque Stati arabi. Ben lungi da me credere a una generosità disinteressata. Fin da subito iniziarono le grandi manovre a livello internazionale per il controllo dell’area. Ma, fino alla guerra del 1956, l’Urss e tutto il mondo comunista fu fondamentalmente filoisraeliano, come attestano articoli pubblicati su L’Unità. La seconda parte della lettera dell’interlocutore è più intrigante e afferma: «È molto interessante una visione che sta evolvendo nel mondo ebraico che non individua più nello Stato di Israele la patria degli ebrei ma nelle comunità della diaspora. Questa è una visione che potrebbe dare una nuova prospettiva che parte dall’assunto che attualmente Israele non rappresenta più la visione culturale ebraica. Non è una posizione originale ma sta prendendo forza». Personalmente, sono soltanto a conoscenza di forti timori in alcuni israeliani che, vista la precarietà in cui sono costretti a vivere, progettano di emigrare in Europa o negli Usa. Elaboro però anche una lettura più maliziosa e brutale di questa lettera: se gli ebrei si tolgono dai piedi dall’area, il problema si risolve da solo.
[25] Il 13 dicembre 1988 Arafat dichiarò la rinuncia al terrorismo, propedeutica a un futuro riconoscimento dello Stato di Israele. L’anno seguente, il crollo del Muro portò a un allentamento delle tensioni; qualcuno, con eccessivo ottimismo, ipotizzò una definitiva soluzione per la Palestina. Ma nel 1991, con l’operazione «Desert Storm» dell’Onu contro l’Iraq, che aveva occupato con la forza il Kuwait, Arafat fece marcia indietro, dichiarandosi favorevole all’uso delle armi chimiche contro Israele e filo-iracheno. Scelta infausta. A guerra terminata, tutti i lavoratori palestinesi furono espulsi dal Kuwait (170 mila: rappresentavano il 30% della popolazione).
[27] Membro dell’Académie française e professore universitario, è nato nel 1949 da una famiglia di ebrei polacchi deportati ad Auschwitz e sopravvissuti. Autore di Riflessioni sull’antisemitismo che viene, Ipermedium libri, 2014.
[28] Nelle manifestazioni settimanali dei Gilet furono lanciati slogan antisemiti: «Macron, sei la puttana degli ebrei!» era scritto su un lenzuolo appeso su un ponte dell’autostrada Parigi-Marsiglia. Altri insulti: «Macron, sei il pupazzo degli ebrei», «Ebrei state tirando la corda, la crisi finanziaria è colpa vostra». Gli esempi si sprecano. Non meno virulento l’antisemitismo in Gran Bretagna, il più alto degli ultimi quarant’anni, come ha segnalato il governo Sunak, con esplosioni di odio, che si traducono in lanci di bottiglie o mattoni verso abitazioni o negozi di ebrei o con aggressioni fisiche.
[29] Federico Rampini, «L’autocensura verso l’Islam di Michael Ramirez rimossa dal sito del Washington Post», in Corriere della Sera, novembre 2023. Sui numerosi casi di manifestazioni antisemite, vedi anche le rubriche di Francesco Merlo su la Repubblica del 7 novembre 2023 e di Mattia Feltri sul Secolo XIX del 31 ottobre 2023. Desidero segnalare quanto detto da Lawrence H. Summers il 10 novembre scorso all’Università di Harvard, di cui è stato presidente: «Ci troviamo in un momento di pericolo morale e mortale nel mondo e nelle comunità universitarie come la mia: di questo ne sono convinto […] L’antisemitismo è un cancro, un avversario letale che va affrontato il più rapidamente, ponderatamente e aggressivamente possibile. Harward e molte altre università d’élite non sono state rapide nella loro risposta» (Washington Post).
[30] Il 12 novembre scorso si è tenuta a Parigi una manifestazione per denunciare le manifestazioni di antisemitismo scatenatesi in Francia. Per la sinistra superstite erano presenti François Hollande, ex presidente della Repubblica, Bernard Cazeneuve, l’ecologista Marine Tondelier, il socialista Olivier Faure e il comunista Fabien Roussel che si è guadagnato i fischi dei manifestanti. Assente Mélenchon, schieratissimo per la causa islamica. Paolo Mieli cita il filosofo Pascal Bruckner, per il quale l’estrema sinistra francese è oggi «antisemita» né più né meno dell’estrema destra. Fenomeno non sconosciuto nella storia francese. Ai tempi del caso Dreyfus, Jules Guesde arrivò alla rottura con Paul Lafargue — assieme al quale vent’anni prima (1882) aveva fondato il Partito operaio — perché, pur considerando il «capitano ebreo» innocente, riteneva che la campagna a suo favore fosse impropria per chi si era assegnato il compito di battersi contro la borghesia. Considerava Dreyfus una persona che aveva goduto «di una ricchezza prodotta dal furto operato sugli operai sfruttati dalla sua famiglia, una famiglia di israeliti» (cfr. Paolo Mieli, Corriere della Sera, 13 novembre 2023). Marc Lazar ha ricordato come negli anni Trenta il Partito comunista francese tenesse discorsi antisemiti contro il socialista Léon Blum. Anche Vladimir Jankélévitch, professore di Filosofia morale alla Sorbona, nel 1967 denunciò come antisemitismo l’antisionismo degli ambienti della sinistra accademica.
[31] È oltremodo imbarazzante rileggere come alcuni intellettuali, futuri antifascisti, aderirono alle leggi razziali del 1938. Scriveva Piovene (che partecipò al libello antisemita Contra judaeos di Telesio Interlandi): «L’inferiorità di alcune razze è perpetua». Piovene abiurò le precedenti posizioni razziste nel suo Mémoire. La coda di paglia. E Giorgio Bocca (1941): «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Gabriele De Rosa (1939): «Di quale male ora ti lamenti, losco figlio di Israele, qual è la tua sofferenza atroce che ti suscita il pianto? Quali ingiustizie credi siano state commesse in te? Taci ti dico, nasconditi in una buca: che è poco quel che ora sconti». E padre Agostino Gemelli, francescano, fondatore e rettore dell’Università cattolica di Milano, dopo il suicidio dell’ebreo Felice Momigliano, scriveva: «Se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero, e con il Momigliano, morissero tutti i giudei che hanno crocifisso il nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione» (R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Nuova Italia, 1999). Robusta questa lista di intellettuali con atteggiamenti antisemiti, passati poi a «miglior vita politica». La guerra è stata evidentemente una buona palestra di rieducazione. Se persone di notevole intelligenza e cultura assunsero posizioni di così esasperato razzismo, evidente, a mio avviso, come l’antisemitismo rappresentasse un elemento “naturale” nella formazione culturale europea fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’antigiudaismo prima – come necessario momento identitario del cristianesimo nella contrapposizione ai «perfidi» ebrei, colpevoli del deicidio – e l’antisemitismo poi, altrettanto necessario cemento per la formazione degli Stati nazionali, sono stati moneta corrente nella cultura europea per secoli. Sull’argomento, cfr, Roberto Sinigaglia, «Le leggi razziali del 1938 in Italia», in Annuario dell’Istituto Italo-Romeno di Studi Storici, Cluj-Napoca-Roma, 2008, V.
[32] Sulla pubblicazione di notizie false, la guerra in Jugoslavia nell’ultimo decennio del secolo scorso ha fatto scuola. Ma Gaza non è da meno. Ecco un paio di esempi: «martedì 17 ottobre, intorno alle 19.00 ora locale, un’esplosione ha scosso l’ospedale Al-Ahli di Gaza City». Questo l’annuncio con relativa corsa dei vari mezzi di informazione internazionali per pubblicare per primi la notizia. Pochi minuti dopo il Ministero della sanità di Gaza aggiungeva che l’esplosione era stata causata da un attacco missilistico israeliano. Organizzazioni giornalistiche come il New York Times e Reuters, senza verificare la veridicità dell’annuncio, funsero da megafono, inviando agli smartphone di persone in tutto il mondo questo annuncio: «Ultim’ora: le autorità palestinesi riportano che un attacco israeliano agli ospedali ha ucciso centinaia di persone». La verità emersa più tardi era che un razzo difettoso di un’organizzazione armata vicina ad Hamas era caduto nella zona adibita a posteggio vicina all’ospedale, senza causare vittime. Le smentite, come ben sappiamo, valgono assai meno delle notizie propalate, tanto è vero che in alcuni paesi arabi ci furono manifestazioni di condanna del «vile» attentato israeliano. Il 4 novembre una seconda bugia. Fu proiettato su Facebook un video che voleva mostrare il bombardamento dell’ospedale oncologico Al-Sadaka di Gaza, denunciato dal ministero della salute di Gaza in persona, con un comunicato firmato da Sobhi Skeek, direttore generale dell’ospedale. Il filmato però era già apparso su Youtube, come riporta la didascalia in arabo che accompagna il video e che gli autori del falso si erano dimenticati di cancellare, e riguarda invece il bombardamento di un ospedale ad Aleppo, in Siria, avvenuto nel luglio 2016 ad opera dell’esercito siriano per snidare un gruppo di ribelli. Per smascherare le fake news si sono attivate numerose associazioni. Teniamo presente che i bollettini quotidiani che riportano il numero delle vittime di Gaza provengono proprio da questo ministero della salute.
[33] Ci sono testimonianze che parlano di uomini di Hamas che hanno tentato di bloccare con le armi gli spostamenti dai quartieri settentrionali a quelli meridionali della città (cfr. articolo di Maurizio Ferrera, «Giudizi offuscati», Corriere del Sera, 18 ott. 2023).
[34] Da tempo l’esercito israeliano ha adottato il Roof Knocking, prassi di cui non si è quasi mai parlato. Individuata l’identità di un attentatore, i servizi israeliani talvolta lo eliminano con azioni mirate, talvolta si limitano a abbattergli la casa con un bombardamento aereo, preavvisando però, per la possibile presenza di persone estranee. Usano il telefono o utilizzano il Roof Knocking, che consiste nel lanciare preventivamente sul palazzo in questione un oggetto non esplosivo, offrendo così agli abitanti dello stabile l’opportunità di allontanarsi. Clamoroso nel 2007: per impedire l’abbattimento della loro casa, i terroristi invitarono molti amici a riunirsi intorno all’abitazione. Nel 2002 ero a Belgrado. Mi mostrarono un palazzo sventrato da un missile americano. Era la sede della TV di Milosevič. Il missile era partito, dicono, addirittura da una nave al largo di Ancona e aveva centrato perfettamente il palazzo sede dell’emittente. È ovviamente necessaria la presenza di qualcuno nei pressi dell’obiettivo da colpire per veicolare il missile. Analoga azione gli americani misero in atto nei confronti dell’ambasciata cinese a Belgrado, che offriva indicazioni utili all’esercito serbo. Non ci furono vittime perché il personale dell’ambasciata era stato opportunamente preavvertito.
[35] Ernesto Galli della Loggia, «L’ostilità nascosta», Corriere della Sera, 23 novembre 2023. Ugo Volli, docente di Semiotica e comunicazione a Torino sino al 2019, intervistato, si scaglia contro l’appello dei quattromila docenti, critici nei confronti dell’intervento armato di Israele a Gaza: «Non c’è nessuna punizione collettiva, Israele sta cercando di eliminare nei limiti del possibile il pericolo per la popolazione di Gaza invitandola ad andar via dai luoghi del combattimento. Ogni giorno Israele fa pause di alcune ore e indica il percorso alle persone per lasciare la zona di guerra. I bombardamenti non sono indiscriminati, il tentativo è quello di non colpire la popolazione civile. C’è l’urgenza di eliminare un’organizzazione terroristica e criminale che ancora continua a tenere prigioniere 240 persone».
[36] Sembrerebbe che metà dei tunnel costruiti nel sottosuolo di Gaza siano ad oggi ancora intatti. Il New York Times ha parlato di una rete di una estensione compresa tra i 560 e i 700 km, superiore a quella della metropolitana di Londra.
[37] Due flash. Zigzagando tra i programmi televisivi, mi imbatto in Porta a Porta e ascolto un giornalista (legato a Medici senza frontiere?) che racconta che l’esercito israeliano, individuato un covo di Hamas, aveva concesso alcune ore di tempo agli abitanti di un quartiere di Gaza per allontanarsi prima di bombardare la zona. All’ora stabilita l’aviazione interviene, anche se ci sono ancora persone presenti, sottolinea indignato il giornalista. E all’obiezione di un giornalista (?) nel salotto televisivo, che sarebbero allora sufficienti due persone per quartiere per bloccare ogni operazione militare, il giornalista rimane muto, ma si mostra allibito e indispettito di fronte a questa osservazione che reputa provocatoria. Secondo episodio: Michele Santoro con tono irato racconta che l’esercito israeliano avrebbe in animo di pompare acqua nei tunnel per snidare i guerriglieri di Hamas, rischiando così di ucciderli per annegamento. Come dire: questa è l’aberrazione cui è giunto Israele. Se ne deduce che – secondo Santoro – i soldati israeliani dovrebbero loro avventurarsi nei tunnel rischiando di farsi ammazzare. Che cosa denotano questi due casi, se non il tentativo di criminalizzare ogni risposta di Gerusalemme come impropria, immorale, ingiusta, che rimanda a un’unica considerazione finale: Israele non ha diritto a difendersi, e quindi se ne nega di fatto la legittimità all’esistenza. Osservazione elementare: quotidianamente siamo informati di bombardamenti russi ai danni di edifici ucraini (grossi magazzini, teatri, uffici) il cui obiettivo è certamente quello di colpire la popolazione per fiaccarne la resistenza. Queste notizie vengono tranquillamente «digerite» senza reazioni evidenti da parte dell’opinione pubblica, così pronta invece a condannare azioni israeliane in cui è però da dimostrare che siano rivolte esplicitamente contro la popolazione civile.
[38] Desidero insistere nell’evidenziare l’ottusità di chi usa questo termine. Atto grave se in guerra ammazzi deliberatamente dei civili. Ma il genocidio è un’altra cosa: è il progetto di sterminio di un popolo, coltivato e realizzato in maniera considerevole dai nazisti (sei milioni di morti). Viceversa, è assente, nelle parole e nei fatti, un progetto di sterminio dei palestinesi a opera degli israeliani. C’è chi è giunto, con notevole fantasia, a preconizzare per i palestinesi un destino analogo a quello dei nativi americani. Spassoso, violento ed erga omnes il commento dell’Andrea’s Version su Il Foglio Quotidiano del 13 gennaio 2024: «E chi si balocca a cazzo di cane col termine genocidio parlando di Israele: dal Corriere della Sera, a quella specie di tremebondo fasullo chiamato Molinari, a questo scemo elegante di Conte, alle televisioni pressoché tutte, alle Schlein, ai social e perfino al Papa».
[39] Ernesto Galli della Loggia, «L’ostilità nascosta», art. cit. A proposito di attacchi deliberatamente rivolti contro la popolazione civile, radicale fu la scelta di Winston Churchill nel 1941, come ricorda sempre Ernesto Galli della Loggia («La storia figlia delle guerre che si vuole dimenticare», Corriere della Sera, 6 novembre 2023: «Alla guida di una Gran Bretagna rimasta sola contro il Terzo Reich padrone dell’Europa, si convinse che la sola risposta possibile fosse an absolutely devastating exterminating attack sulla Germania da parte dei bombardieri pesanti inglesi. Il programma fu portato a termine. In 400mila incursioni la Royal Air Force sganciò sul territorio nemico un milione di tonnellate di bombe. Molte città tedesche vennero interamente rase al suolo. In totale persero la vita 600mila civili tedeschi e alla fine della guerra si contavano qualcosa come 7 milioni e mezzo di senzatetto». «In pratica [come si legge in un libro da cui sono tratti tutti questi dati, Storia naturale della distruzione di W. G. Sebald, Adelphi edizioni] in Germania l’esistenza urbana venne pressoché cancellata».
[40] È grottesco che Hamas, che governa Gaza, esibendo al pubblico occidentale rovine e vittime prodotte dall’esercito israeliano, voglia puntare sulla morte di bambini per accusarlo di crudeltà. Proprio loro, gli uomini di Hamas, che deliberatamente ne hanno sgozzati in quantità nell’attacco del 7 ottobre. Il governo israeliano ha scelto di non mostrare al mondo tanta violenza, ripresa coi video. La guerra è la madre di tutte le bugie diceva Eschilo (525-456 a.C.). Riporto due versioni contrapposte sulla situazione di Gaza. In un breve spot Ilaria D’Amico, conduttrice televisiva, invitando a una donazione a favore della popolazione di Gaza, ne descrive le condizioni di vita: «Sotto le bombe, senza acqua, senza cibo, senza elettricità, senza cure mediche, senza speranza…». Quel che è fuori discussione è che migliaia e migliaia di persone sono sicuramente senza casa. La versione della stampa israeliana, diametralmente opposta, sottolinea invece il buon comportamento del proprio esercito, assai attivo «[con] la consegna continua di aiuti umanitari, non solo acqua, cibo e medicine, ma anche benzina – una scelta persino bizzarra…» (Fiamma Nirenstein, Le 10 bugie su Israele. Tutti i luoghi comuni dell’odio antiebraico, Federazione Associazioni Italia Israele, Roma, 2024).
[41] Doveroso, ovviamente, riconoscere le legittime aspirazioni delle minoranze russe in alcune zone dell’Ucraina sud-orientale, nonché sottolineare la spregiudicata politica della Nato nella sua espansione verso l’Europa orientale.
[42] Lo Statuto di Hamas del 1988 (addolcito nel 2017) prescriveva lo sterminio degli ebrei: «L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo» (art. 7). E Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, il 16 settembre 2015 in un discorso alla TV: «Noi diciamo benvenuta a ogni goccia di sangue versato per Gerusalemme. Sangue puro, sangue pulito, sangue che sale fino ad Allah; con l’aiuto di Allah ogni martire verrà ricompensato in paradiso e ogni ferito avrà la sua ricompensa». Nella stessa occasione ha aggiunto: «Gli ebrei sono sporcizia, profanano e contaminano Gerusalemme». Fiamma Nirenstein, cit., p. 58.
[43] Geniale osservazione di Francesco Fanelli, filosofo romano: «L’Occidente non tollera che Israele si rivolti contro il suo destino di vittima perché ne va del suo “tramonto”». Anche nel mondo musulmano l’ebreo è stato stereotipato come un sottomesso che viveva una vita miserabile, senza diritti. Intollerabile, pertanto, per certa mentalità islamica, che l’ebreo possa possedere uno Stato, un esercito. In poche parole, che possa difendersi.
[44] Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, Manifestolibri, 2023.
[45] Nel gennaio 2006 con una vittoria a sorpresa alle elezioni legislative in Palestina con il 44% circa dei voti, Hamas ottenne 74 dei 132 seggi della Camera, mentre Fatah, con il 41% circa dei voti ne ottenne solo 45.
[46] Interessante un articolo di Antonio Longo, federalista di vecchia data, che propone una federazione arabo-israeliana per mettere fine agli scontri. L’Europa ha chiuso con guerre interne secolari accordandosi su carbone e acciaio, lo stesso potrebbero fare ebrei e arabi unendo le loro forze su acqua ed energia (Prealpina, 27 gennaio 2024). Ipotesi, tuttavia difficilmente realizzabile: non si intravvedono, al momento, interlocutori palestinesi moderati, capaci di opporsi al linguaggio di odio dei gruppi terroristi.
[47] Gli hezbollah sono la milizia più potente tra quelle sostenute dall’Iran (circa 40mila uomini) che ha accumulato un arsenale di 100mila missili (qualcuno ipotizza addirittura di 200mila) e possiede i potenti Yakhont, di fabbricazione russa, che sono missili antinave con una gittata di 300 km. Circa 100mila israeliani che vivevano al confine col Libano sono stati costretti ad abbandonare le loro abitazioni per i continui attacchi subiti. Quanto agli Houthi, nel 2014, con un colpo di mano, si sono impadroniti del Nord dello Yemen e sono in guerra con fazioni sostenute dall’Arabia Saudita e dagli emirati. L’Occidente, così attento alla contabilità per l’area di Gaza, non si è accorto dei 150mila morti per violenze, ai 227mila per carestie e ai 4,5 milioni di sfollati nello Yemen.
[48] Una flotta di 591 aerei si accanì su Roma per qualche ora. Seguirono altre 51 incursioni su Roma.
[49] Intervista rilasciata a Nicola Mirenzi, «Questo mondo accetta solo l’ebreo vittima, non l’ebreo che si difende», Il Foglio Quotidiano, sabato 17 – domenica 18 febbraio 2024.
[50] Alcuni pacifisti dichiarano che l’eliminazione di Hamas potrebbe realizzarsi soltanto con la distruzione totale di Gaza e la strage dei suoi abitanti per suggerire un’immagine di una spaventosa devastazione che andrebbe a un tempo contro l’etica e contro un principio di ragionevolezza, in quanto irrealizzabile sul piano pratico. Si parla delle sofferenze del popolo palestinese per offrire una patente di legittimità agli orrori del 7 ottobre, ma si ignorano di proposito i mancati appuntamenti con la storia, quando l’ipotesi dei due Stati aveva forse una qualche possibilità di concretarsi. Il pacifismo ultimamente, anche per quel che riguarda la proposta di una preoccupante equidistanza tra Russia e Ucraina, genera forme di buonismo indistinto che si trasformano inesorabilmente in una solidarietà verso l’aggressore.
[51] Tanto per ribadire come Israele sia considerato uno Stato sotto tutela: aggredito e vincitore in varie guerre (1948, 1956, 1973), ha ampliato il suo territorio senza però ottenere tutto lo spazio geografico che il Mandato per la Palestina gli aveva attribuito nel 1922. I trattati di pace successivi alla Seconda guerra mondiale hanno modificato la geografia in varie parti del mondo, senza che «un giudice superiore» ne accertasse la legittimità, come si pretende da Israele. Alcuni esempi: La Polonia ha dovuto cedere all’Urss alcune regioni orientali (100 mila kmq), acquisendo al contempo territori strappati alla Germania. L’Italia ha perso Istria e Dalmazia a favore della Jugoslavia e ha subìto rettifiche in Piemonte a favore della Francia. La parte meridionale dell’isola di Sachalin fu restituita dal Giappone alla Russia e 400mila giapponesi furono costretti a sgomberare.
[52] Vedi n. 9, p. 4.
[53] Importante chiarire che gli accordi di Oslo non assegnano a Israele la zona C, perché è già di suo diritto. Gli accordi sanciscono semplicemente una divisione amministrativa del territorio (e non di sovranità) per garantire un’autonomia politica agli arabi che vivono in Giudea e Samaria.
[54] Secondo la definizione adottata dall’Unhcr, l’altra Agenzia dell’Onu che si occupa dei milioni di rifugiati di tutto il mondo tranne appunto quelli palestinesi
[55] David Elber, «Il problema dei rifugiati: L’Unrwa», in L’informale, 5 dicembre 2019, p.2.
[56] Nel 2016, dai dati forniti dall’Onu risulta che l’Unrwa ha speso 246$ per ognuno dei 5,3 milioni di rifugiati, mentre l’Unhcr ne ha speso 58$ per ognuno dei circa 68 milioni di rifugiati nel mondo.
[57] L’estate scorsa il collega Nando Fasce ha tenuto una splendida lectio sull’emigrazione italiana negli Usa presso il Centro Internazionale di Studi italiani dell’Università di Genova. Ha affermato che, fino a non molto tempo fa, godevano del privilegio di considerarsi «Bianchi» solamente coloro che vantavano origini anglosassoni. Italiani, ebrei e ispanici erano considerati una «razza» intermedia tra Bianchi e Neri. Attualmente, nel disprezzo e odio che alcuni intellettuali americani di sinistra nutrono nei confronti della società di cui fanno parte, gli ebrei si sono guadagnati il titolo assai pericoloso di Bianchi per eccellenza.
[58] Apprezzo quanto afferma Pina Picierno, europarlamentare del PD: «Corriamo il rischio di confondere la complessità con la neutralità e il relativismo, il bisogno di pace con la paura, il ripudio della guerra con l’assenza di soluzioni realistiche e stabilizzatrici alle controversie e ai conflitti nel mondo, la forza naturalmente pacificatrice della democrazia e dell’espressione della volontà popolare con un malinteso rispetto delle diversità culturali. In questi anni la tenuta democratica globale si è erosa sempre di più e compito dei progressisti è essere non solo argine di tenuta, ma avere la capacità di slancio e di tensione per una nuova stagione di diritti e democrazia. (Pina Picierno, «L’Europa contro il terrore», la Repubblica, 20 ottobre 2023). Voglio citare, a questo proposito il Musicattore® Luigi Maio che, nella lectio da lui tenuta in occasione del premio “Dante Alighieri” conferitogli dal Cisi nel 2021, affermò che «l’ignavo è il dannato tout court d’irrisolta trascendenza, che non rientra in alcuna categoria perché ha confuso libertà con neutralità».
[59] Altro dato poco rassicurante. Nel 1960 gli europei rappresentavano il 12% della popolazione mondiale. Oggi, su una popolazione di otto miliardi di persone, siamo ridotti al 6%.
[60] Sull’inerzia europea, cfr. Marta Dassù e Stefano Stefanini, «L’indecisione dell’Europa», la Repubblica, 17 ottobre 2023.
CHI è: Roberto Sinigaglia è uno storico. Nel 1971 si laurea con lode in filosofia con una tesi di Storia contemporanea sulla Rivoluzione russa presso l’Università di Genova, dove inizia la propria carriera accademica. Professore ordinario di Storia dell’Europa orientale, ha preso parte a convegni e seminari in alcune Università europee ed è stato coordinatore, per più di un ventennio, di gruppi di ricerca di Ateneo e del Cnr. Ha partecipato all’elaborazione di più programmi trasmessi sulla Rete Rai o su reti private. All’inizio del 1989, in collaborazione con una ventina di studiosi genovesi ho dato vita al Ceseo, centro studi sull’Europa orientale, di cui è tuttora presidente. La sua attività scientifica si è sviluppata prevalentemente sulla Storia della Russia nell’epoca moderna e contemporanea e sui rapporti tra Russia e Italia. Tra le sue pubblicazioni: Mjasnikov e la Rivoluzione russa, 1973; la voce «Bakunin» apparsa sul Grande Dizionario Enciclopedico della Utet; Stepnjak-Kravčinskij nella Russia pre-rivoluzionaria, Linee di sviluppo della politica ottomana della Russia nel giuoco diplomatico europeo dal 1877 al 1908; La missione Rivarola a San Pietroburgo; La missione Mordvinov; Un testimone poco noto della fine della Russia zarista: Eugenio Bollati di Saint-Pierre. Ultimamente ha pubblicato, in lingua russa, Российская Империя и Генуэзская Республика: история дипломатических отношений [L’impero russo e la Repubblica di Genova: storia di rapporti diplomatici].
È stato membro del Consiglio Universitario nazionale (Cun) dal 1997 al 2007 e direttore del dipartimento Antichità, Filosofia, Storia dell’Università di Genova dal 2011 al 2015.