di Andrea Vento
La povertà assoluta torna a crescere e raggiunge il valore più elevato dal 2005
Le stime preliminari relative al 2020[1], diffuse dall'Istat il 4 marzo u.s., indicano valori dell’incidenza della povertà assoluta in crescita, sia in termini familiari (da 6,4% del 2019 al 7,7%), con oltre 2 milioni di famiglie, sia in termini di individui (dal 7,7% al 9,4%) che si attestano a 5,6 milioni. Nell’anno della pandemia si azzerano i miglioramenti registrati nel 2019. Dopo quattro anni consecutivi di aumento, si erano infatti ridotti in misura significativa il numero e la quota di famiglie (e di individui) in povertà assoluta, pur rimanendo su valori molto superiori a quelli precedenti la crisi avviatasi nel 2008, quando l’incidenza della povertà assoluta familiare era inferiore al 4% e quella individuale era intorno al 3%. Pertanto, secondo le stime preliminari Istat relative al 2020, la povertà assoluta raggiunge, in Italia, i valori più elevati dal 2005, vale a dire da quando è disponibile la serie storica per questo indicatore (figura 1).
Il Nord Italia conta nel 2020 oltre 218mila famiglie in più in condizioni di povertà assoluta rispetto all’anno precedente (più di 720mila individui), con un’incidenza che passa dal 5,8% al 7,6% a livello familiare e dal 6,8% al 9,4% in termini di individui. Nel Mezzogiorno, dove le persone povere crescono di quasi 186mila unità, si confermano le incidenze di povertà più elevate: il 9,3% per le famiglie (dall’8,6% dell’anno precedente) e l’11,1% per gli individui (dal 10,1%). Nel Centro, infine, sono cadute in povertà quasi 53mila famiglie e circa 128mila individui in più rispetto al 2019 che rappresenta il valore macroregionale più basso della povertà assoluta, ma anche in questa area del Paese, seppur in misura meno rilevante, l’incidenza aumenta sia tra le famiglie (da 4,5% a 5,5%) che tra gli individui (dal 5,6% al 6,7%).
Rispetto alla tipologia del comune di residenza le differenze sono meno pronunciate: l’incidenza di povertà assoluta passa dal 5,9% al 7,3% nei Comuni centro di area metropolitana, dal 6,0% al 7,6% nei Comuni periferia di area metropolitana e nei Comuni con più di 50mila abitanti e dal 6,9% al 7,9% nei restanti piccoli Comuni.
Anche in Italia nel periodo pandemico il divario di mortalità tra meno e più istruiti si è ulteriormente allargato
Il rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile 2020[2]del 10 marzo u.s. conferma che in Italia, come in tutti i Paesi europei, chi è più povero di competenze e di risorse tende ad ammalarsi più spesso e presenta in media una speranza di vita più bassa.
Nel complesso, gli italiani mostrano minori disuguaglianze sociali di mortalità rispetto al resto dei paesi europei grazie alla protezione della dieta mediterranea, della rete familiare e di un sistema sanitario universalistico. I dati di mortalità dell'Istat per livello di istruzione mostrano tuttavia, nel periodo pre-pandemico, significative disuguaglianze a sfavore delle persone meno istruite. Le diseguaglianze sociali nella mortalità sono maggiori tra gli uomini e nelle fasce centrali della vita (dove la mortalità può essere definita ‘evitabile’).
Analizzando la mortalità per i diversi livelli di istruzione, inevitabilmente correlati alle disuguaglianze di reddito,si scopre che in corrispondenza della prima ondata della pandemia il divario di mortalità tra meno e più istruiti, che si osservava già nel 2019, si è ulteriormente allargato; i meccanismi che espongono al rischio di morte hanno, infatti, agito con maggiore virulenza sulle persone meno istruite.
In particolare, le diseguaglianze sociali nella mortalitàrisultano aumentate soprattutto nelle fasce centrali della vita e tra le donne. L’analisi per età nelle aree ad alta epidemia mostra una maggiore disuguaglianza negli individui in età lavorativa rispetto a quelli più anziani e un aumento del rapporto di mortalità, nella prima fase pandemica, tra le donne di età compresa tra i 35 e i 64 anni (da 1,5 a 2) e tra i 65 e i 79 anni (da 1,2 a 1,5). Non si osservano, invece, cambiamenti sostanziali tra gli uomini e le donne con più di 80 anni. Nei mesi di maggio e giugno, periodo di minor diffusione della pandemia, le diseguaglianze sociali nella mortalità si sono attestate nuovamente su valori simili a quelli dell’anno precedente.
Sopravvivenza e qualità degli anni vissuti: i guadagni perduti durante la pandemia
L’Italia permane nel tempo uno dei paesi più longevi nel contesto internazionale. Rispetto ai dati più recenti dell'Eurostatsulla speranza di vita alla nascitaaggiornati al 2019, il nostro Paese si confermava ancora una volta al secondo posto tra i 27 paesi dell’Unione europea, con 83,6 anni, dopo la Spagna (con un valore pari a 84 anni) e con un vantaggio di vita attesa di +2,3 anni rispetto alla media Ue27 (pari a 81,3 anni). Rilevante la conferma per il genere maschile: nel 2019 l’Italia si collocava insieme alla Svezia al top della graduatoria dei paesi per livelli di vita media attesa alla nascita (rispettivamente 81,4 in Italia e 81,5 in Svezia), i livelli più elevati mai rilevati prima in Italia e nell’Unione europea.
A seguito della pandemia di COVID-19 che ha colpito in misura rilevante l’Italia, anche a causa di una struttura demografica molto più anziana rispetto ad altri paesi, le stime effettuate sulla speranza di vita per il 2020 suggeriscono la brusca interruzione e una significativa inversione di tendenza nel processo di costante miglioramento della longevità osservato negli ultimi anni, soprattutto in alcune aree del paese particolarmente colpite dalla diffusione del virus. Per quanto riguarda la speranza di vita alla nascital'Istat(Figura 6), a fronte di una stima di circa 0,9 anni perdutiin un solo anno a livello nazionale (da 83,25 a 82,3 anni del 2020), emerge una forte eterogeneità tra i diversi territori, con una riduzione, in termini di anni vissuti, più marcato nelle regioni settentrionali(da 83,6 a 82,1 anni attesi), rispetto al Centro (da 83,6 a 83,1) e al Mezzogiorno (da 82,5 a 82,2). In particolare, guardando alle singole regioni, nel 2020 il calo atteso più forte nella speranza di vita alla nascita si registra in Lombardia, la regione di gran lunga più colpita, in cui la mortalità registrata nel corso dell’anno provocherebbe una perdita di circa 2,4 anni (da 83,7 a 81,2), seguita, in ordine decrescente, dalla Valle d’Aosta (-1,8 anni; da 82,7 a 80,9), dalle Marche (-1,4 anni; da 84 a 82,6), dal Piemonte (-1,3 anni; da 82,9 a 81,6) e dal Trentino-Alto Adige (-1,3 anni; da 84,1 a 82,8). Riduzioni superiori ad un anno verrebbero inoltre registrate anche in Liguria (-1,2 anni; da 83,1 a 81,9), Puglia (-1,2 anni; da 83,3 a 82,1) ed Emilia-Romagna (-1,2 anni; da 83,6 a 82,4). La speranza di vita alla nascita rimane invece sostanzialmente invariata in Basilicata e Calabria e diminuisce solo lievemente nella maggior parte delle regioni del Mezzogiorno, ad eccezione di Abruzzo e Sardegna, dove si stima un calo intorno ad 1 anno di vita (rispettivamente da 83,4 a 82,4 e da 83,1 a 82,1)
Le criticità appaiono ancora più evidenti restringendo l’attenzione alle stime sulla speranza di vita degli over 65 (Figura 7). Ancora una volta è la Lombardia la regione in cui le stime per il 2020 segnalano il calo più forte rispetto all’anno precedente: se nel 2019 un residente lombardo di 65 anni poteva sperare di vivere in media circa altri 21 anni, nel 2020 tale aspettativa risulta essersi ridotta di oltre 2 anni. Tra i primi posti per perdita nella longevità attesa si confermano anche la Valle d’Aosta (-1,8), le Marche (-1,4), il Trentino-Alto Adige e il Piemonte (-1,3 anni in entrambi i casi). Basilicata e Calabria si distinguono anche in questo caso per la sostanziale invarianza dell’indicatore.
I sopracitati report diffusi dall'Istat confermano, dunque, come in Italia la pandemia, oltre che a livello globale come da noi già analizzato[3], abbia svolto funzioni di amplificatore delle disuguaglianze sociali. Le persone in condizioni di fragilità economica e marginalità sociale, infatti, sono state quelle che avendo minori strumenti finanziari e logistici per difendersi dal contagio, hanno subito le conseguenze peggiori.
Gli effetti della pandemia sui redditi in Italia
Il rapporto "Disguitalia" divulgato da Oxfam Italia il 25 gennaio 2021[4]riporta il primo studio, a cura degli economisti Giovanni Gallo e Michele Raitano, effettuato prendendo in esame l’intero 2020. L’analisi, basata su un modello di microsimulazione statica, tiene conto di diversi scenari di evoluzione della pandemia e del periodo di erogazione dei trasferimenti pubblici emergenziali, valutando gli impatti pandemici sui redditi da lavoro degli individui (attivi a febbraio 2020) e sui redditi disponibili delle famiglie residenti.
Nello scenario meno favorevole affrontato dallo studio, che ha previsto anche la seconda ondata autunnale, e pertanto più simile a ciò che si è verificato in Italia nel corso del 2020, sono emersi i seguenti aspetti, in uno scenario nazionale che vede l'Italia subire una contrazione del Pil in volume del 8,9%[5]a causa della pandemia e delle restrizioni:
1. Per quanto riguarda i lavoratori, le retribuzioni annue lorde hanno mostrato un calo medio del 21,5%rispetto al mondo pre-pandemico (-18,1% per chi lavora alle dipendenze e, più marcatamente, - 35,2% per gli indipendenti). La caduta del reddito medio è stata però attenuata dal blocco dei licenziamenti e dai trasferimenti: tenendone conto la riduzione effettiva del reddito lordo medio è "solo" dell’11,8% (-8,8% per i lavoratori dipendenti e -24,1% per i lavoratori autonomi).
2. Senza trasferimenti emergenziali, la quota dei working poor[6]italiani sarebbe cresciuta di oltre il 16%; grazie agli interventi a tutela dell’occupazione e ai trasferimenti emergenziali, l’aumento è risultato solo dell’1,7%. La disuguaglianza retributiva si è ridotta del 1,7%, mentre senza le misure di emergenza sarebbe cresciuta del 5,6%
3. Per quanto riguarda le famiglie, il reddito equivalente disponibile medio si è ridotto del 6,1%rispetto al periodo pre-pandemico. In assenza di trasferimenti il calo sarebbe risultato più marcato (-19,3%). In media i trasferimenti ricevuti dalle famiglie hanno compensato il 42% della caduta dei redditi di mercato con un effetto perequativo non dissimile da quello registrato per le retribuzioni dei lavoratori.
4. La pandemia ha determinato un aumento dell’incidenza della povertà[7]del 2%, ma in assenza di trasferimenti emergenziali, l’aumento sarebbe stato oltre 4 volte superiore (+8,8%). Come per le retribuzioni, la combinazione di diffusi rischi occupazionali e i trasferimenti di importo progressivo hanno contribuito (nonostante la diminuzione dei redditi per una quota cospicua delle famiglie) a ridurre le disuguaglianze dei redditi. L’indice di Gini del reddito disponibile equivalente è sceso di 1,1 punti percentuali rispetto al periodo pre-pandemico. In assenza dei trasferimenti sarebbe cresciuto del 1,7%
Il mancato acuirsi delle disuguaglianze nell’anno pandemico (tendenzialmente elevate e crescenti nel mercato del lavoro italiano pre-Covid19), rilevato dalla microsimulazione, non può tuttavia indurre ad alcun ottimismo in quanto la riduzione delle disparità reddituali è stato accompagnato da un calo dei redditi per una quota ampia della popolazione meno abbiente. La riduzione delle disuguaglianze è inoltre ascrivibile esclusivamente al temporaneo intervento compensativo di carattere perequativo messo in campo da parte del governo sin dalle prime fasi della pandemia.
Alcune proposte per superare la crisi sociale: riforma fiscale e web tax
Il messaggio di fondo che fuoriesce dai rapporti analizzati costituisce dunque un monito per le istituzioni, governo in primis, circa gli indesiderabili impatti su povertà e disuguaglianze che l’interruzione o l’attenuazione delle misure di tutela e supporto pubblico prima di un pieno recupero dell’economia possono provocare. In ottica di medio periodo non va inoltre trascurato che la riorganizzazione delle attività produttive nel periodo post-pandemico potrà verosimilmente aumentare i divari tra nuovi “vincenti” e i soliti “perdenti”.
Resta dunque più che mai attuale la necessità di un piano di interventi predistributivi e redistributivi in grado di contrastare meccanismi iniqui di crescita della disuguaglianza di mercato preesistenti la pandemia e che si sono rafforzati, al netto dell’intervento pubblico emergenziale, nel corso della crisi che stiamo affrontando.
Riteniamo pertanto quanto mai necessaria una riforma fiscale organica che ripristini i costituzionali principi di progressività e nell'immediato che il governo italiano si operi per l'introduzione di una web tax che vada a significativamente ad incidere sugli extra profitti realizzati dai giganti del web che durante la pandemia, magari senza nemmeno rispettare i diritti dei lavoratori. Perché se da un lato le disparità di reddito si sono omogeneizzate verso il basso riducendo gli squilibri distributivi, è altrettanto vero che, come rivela Oxfam, alcuni super ricchi hanno incrementato sensibilmente le loro ricchezze, visto che nei primi 9 mesi della pandemia il valore patrimoniale dei 36 miliardari italiani più facoltosi è aumentato di 45,7 miliardi di euro.
Andrea Vento - 20 aprile 2021
Docente di Geografia economica Ite A. Pacinotti di Pisa
Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
[1]https://www.istat.it/it/files//2021/03/STAT_TODAY_stime-preliminari-2020-pov-assoluta_spese.pdf - Stime preliminari povertà assoluta e mortalità delle famiglie
[2]https://www.istat.it/it/files//2021/03/BES_2020.pdf - Il Benessere equo e sostenibile in Italia 2020
[3]http://utopiarossa.blogspot.com/2021/02/gli-effetti-economici-e-sociali-della.html
[4]https://www.oxfamitalia.org/disuguitalia-2021/
[5]https://www.istat.it/it/archivio/254242
[6]I lavoratori poveri (working poor) sono gli occupati che guadagnano meno del 60% del reddito da lavoro lordo mediano prepandemico
[7]La soglia di povertà è fissata al 60% dei reddito equivalente mediano pre-Covid19