di Michele Nobile
Articoli precedenti:
- «La Rpc nel mar cinese meridionale. Dalle battaglie tra Cina e Vietnam al 2008», 20 dicembre 2018,
I discorsi in merito all’ascesa della Repubblica popolare cinese (Rpc) sono troppo spesso viziati da astratti schemi storici e da pregiudizi ideologici, da generalizzazioni basate sulla cronaca o su dichiarazioni ufficiali e propositi propagandistici. È per questo motivo che ho preferito evitare un discorso generico ed esaminare in modo puntuale le vicende storiche e lo scenario politico contemporaneo del Mar cinese meridionale, l’area del mondo che meglio si presta verificare l’idea di una possibile transizione dell’egemonia regionale (e in prospettiva mondiale) dagli Stati Uniti alla Cina e all’analisi della coerenza dei diversi aspetti della politica estera della Rpc. E non mi stancherò di ripetere che qui il termine egemonia è inteso nell’unico modo (gramsciano) che ne giustifica l’uso specifico: non come mero dominio e prevalenza della potenza ma come unione di forza e consenso, con enfasi sul consenso e la capacità di costruire alleanze, sia tra i governi e le classi dominanti di Stati diversi sia, almeno in certa misura, all’interno dei singoli Stati.
Quindi, tenendo ferma l’analisi regionale, in questo articolo cerco di trarre delle conclusioni più ampie, anche attraverso la comparazione delle varie dimensioni della politica estera della Rpc e degli Stati Uniti.
In particolare, mi interessa mettere a fuoco i rapporti tra il regime interno e la politica estera della Cina. La questione fondamentale che ha motivato questa mia ricerca è infatti quella del futuro dei popoli della Cina e del sud-est asiatico. È questione che travalica gli Stati e la regione, per coinvolgere le prospettive del resto dell’umanità.
Non si tratta solo dei numeri, pur imponenti, della popolazione, della produzione, dei flussi di merci e di capitali. Se un giorno il popolo della Cina si ribellerà al dominio politico della casta burocratico-capitalista; se i lavoratori e le lavoratrici cinesi si rivolteranno contro lo sfruttamento da parte del capitalismo statale e privato, nazionale e internazionale, e i movimenti di protesta dovessero generalizzarsi e confluire su scala nazionale, allora l’onda d’urto si farà sentire in tutto il mondo. È probabile che un evento del genere possa significare una nuova fase nella storia della lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento. Se si hanno presenti gli effetti dell’integrazione della Cina nell’economia mondiale si può intendere perché il risveglio del popolo cinese possa avere significato ed effetti epocali.
Non azzardo previsioni sul quando e sul come questo potrebbe accadere. Tuttavia, le contraddizioni del capitalismo «con caratteristiche cinesi» sono abbastanza gravi da far pensare che, lentamente, semi di rivolta possano maturare in modo sotterraneo nei processi inconsci della società e germogliare spontaneamente, ma in modo improvviso. E, stante l’integrazione del capitalismo cinese nell’economia mondiale, è assai probabile che un sommovimento interno risulti dalla sinergia tra fattori nazionali e internazionali. Già ora, come argomento avanti, specialmente nel Mar cinese è possibile spiegare la politica estera dei dirigenti di Pechino come dominata dalle ragioni della legittimazione interna, in termini nazionalisti e pseudopopulisti sotto i quali covano dilemmi, contraddizioni e incertezza sul futuro del regime.
1. Il capitalismo «con caratteristiche cinesi» è un nuovo imperialismo
I liberali non hanno problemi a caratterizzare la politica estera della Rpc in termini che possono ricordare l’imperialismo ma, ipocritamente, la spiegheranno con la peculiarità del regime politico cinese, dominato da un partito comunista - certamente del tutto estraneo alla loro tradizione culturale - e con il rilievo e i privilegi che in quel regime ha il settore delle imprese statali, promosse a campioni nazionali; con metodo simile, nel caso della Russia si insisterà sull’ascesa al potere deisiloviki, di uomini che come Putin sono stati membri degli apparati della sicurezza, trascurando il fatto che, benché sotto Putin siano mutati i rapporti tra Stato e oligarchia capitalistica nel settore energetico (e neanche in tutto questo), il regime putiniano riproduce la natura oligarchica del capitalismo russo, formatasi al tempo di Boris Yeltsin, che designò Putin come proprio successore.
Quanto di aggressivo i liberali possono riscontrare nella politica estera della Cina (e della Russia) sarà quindi interpretato come effetto dell’incompletezza delle riforme economiche e della transizione a un’economia di mercato. La loro speranza è che la crescita dell’imprenditoria privata ponga fini all’anomalia della persistente dittatura del Partito comunista (Pcc), così facendo della Cina un Paese normalmente costituzionale e con un’economia di mercato liberata dalle interferenze politiche e dai privilegi delle imprese statali.
Altri, che si pensano socialisti e sono critici del liberismo, viceversa loderanno proprio il dirigismo del Pcc e il modello socioeconomico «sviluppista» o del «socialismo con caratteristiche cinesi», intendendolo alternativo al cosiddetto neoliberismo e forza costruttiva di un ordine mondiale multipolare, in contrapposizione all’egemonismo o unipolarismo statunitense. Conseguentemente, questi non possono ammettere che il settore delle imprese statali sia il nucleo più potente del capitalismo«con caratteristiche cinesi» e che i suoi investimenti esteri abbiano le stesse motivazioni delle società transnazionali private dei Paesi imperialisti, pur con alcune prassi diverse che si spiegano con la necessità degli ultimi arrivati di farsi strada nel contesto competitivo dell’economia mondiale e di agganciare, quando possibile, gli investimenti al sostegno della politica estera di Pechino.
Sia i liberisti che i critici del liberismo del tipo prima indicato condividono un’idea fondamentale: che l’interventismo statale nell’economia e il mercato (il capitalismo) stiano tra loro in relazione inversa, ragion per cui un più di proprietà e di regolazione statale corrispondono a un meno di mercato e di capitalismo. L’identificazione del socialismo con lo statalismo - per giunta con uno Stato a partito unico che esercita la sua dittatura sul proletariato negandogli perfino il diritto a un’organizzazione sindacale indipendente - è una tragedia di portata incalcolabile e una specie di vampiro ideologico che in modo subdolo continua a succhiare il sangue dei vivi. Smascherarne le sembianze è possibile e doveroso da molti decenni.
In entrambi i casi, quel che viene sottovalutato o mistificato è la realtà che il successo economico della Cina è il successo del capitalismocinese - statale e privato - e delle società transnazionali capitalisticheestere che in Cina hanno investito, per usufruire di una forza lavoro a basso costo e disciplinata da uno Stato forte; che si tratta di un successo nutrito dallo sfruttamento di centinaia e centinaia di milioni di lavoratrici e lavoratori, a cui è negata la possibilità legale di darsi voce attraverso un’organizzazione sindacale e politica indipendente dallo Stato; e che il successo della transizione capitalistica ha dato vita a una società in cui la disuguaglianza dei redditi tra le classi e le aree geografiche è al livello più alto tra i Paesi industriali. Le peculiarità della struttura socioeconomica e politica della Cina non sono un mero retaggio del passato ma il modo concreto assunto dallo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici.
La continuità della dittatura monopartitica ha garantito la stabilità politica necessaria a gestire le contraddizioni della transizione sociale, gli strumenti regolativi e la relativa coerenza di direzione necessari a far sì che lo sviluppo del capitalismo in Cina assumesse la forma di un developmental state. Pur essendo i managers delle imprese industriali e finanziarie di Stato nominati dal Pcc, essi sono scelti per la loro competenza di amministratori con criteri di redditività capitalistici.
A dispetto della narrazione della convergenza globale tra le società grazie ai processi di modernizzazione e di differenziazione dei sotto-sistemi sociali - cioè attraverso la diffusione e lo sviluppo delle relazioni capitalistiche - l’estensione planetaria del capitalismo non produce uno spazio sociale mondiale omogeneo. Le singole formazioni sociali si trasformano ma, mentre lo sviluppo combinato del capitalismo come sistema mondiale riproduce i differenziali della potenza economica e politica, esso non cancella le eredità culturali e materiali delle storie locali, bensì le modifica e le reinterpreta. L’economia mondiale capitalistica non è mai stata la mera somma algebrica delle economie nazionali - in questo senso è sempre stata globale - ma si tratta di una totalità complessa, strutturata dal suo sviluppo ineguale e combinato e dalla dialettica di sviluppo e sottosviluppo, relativo e dai caratteri variabili nel tempo. L’eterogeneità dello spazio sociale su tutte le scale, i processi di causazione circolare cumulativa e la persistenza di particolarità socioeconomiche, politiche e culturali che appaiono - ma non sono più solo tali - retaggi del passato in contrasto col progresso verso il modello ideale di una società liberale e di un’economia di mercato, alimentano la dinamica trasformativa dell’economia mondiale e la riproduzione allargata del capitale e delle sue contraddizioni globali. È con questo materiale plastico e resistente che il capitalismo reale si riproduce e si trasforma: accrescendo l’interdipendenza mentre trasforma le società e crea nuove forme di dipendenza.
Ebbene, è ovvio che i capitalismi generati recentemente dall’interno di formazioni sociali pseudosocialiste in Cina e in Russia (la prima anche relativamente arretrata dal punto di vista materiale e della struttura produttiva) presentino, rispetto ai capitalismi sorti per tutt’altre vie e che hanno ben altra storia secolare, peculiarità nell’ordinamento politico, nella struttura socioeconomica, nella costruzione del loro ufficial-nazionalismo, nelle forme culturali e della legittimazione politica. Per un paio di decenni ho molto insistito su quanto fosse errato concepire le trasformazioni dell’economia capitalistica mondiale in termini di convergenza o omogeneizzazione dello spazio sociale - la cosiddetta globalizzazione - e come tendenziale e generale obsolescenza delle funzioni socioeconomiche degli Stati capitalistici - il cosiddetto neoliberismo1. Lo ribadisco perché sia chiaro che è ho ben presente la varietà dei capitalismi.
Premesso ciò, devo dire che è necessario non farsi fuorviare dal rilievo che in Russia e in Cina hanno lo statalismo e la selezione di aspetti del passato - rispettivamente sovietico (stalinista) e maoista, oltre che zarista e confuciano e antico-imperiale - che insistono sulla continuità dello Stato, nel caso cinese fondato sulla persistenza del potere del Pcc. Questo è un errore che accomuna i liberali e i nostalgici del «socialismo reale». Occorre, invece, affermare con forza che la società cinese e il suo Stato non sono una specie sociale distinta da quella, per esempio, degli Stati Uniti: in entrambi i casi si tratta di società capitalistiche, di varietà diverse della stessa specie così come, ad esempio, durante il secondo conflitto mondiale le economie di guerra fortemente regolate non cessavano per questo d’essere capitaliste, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone e nella Germania nazista2. Da ciò occorre trarre rigorosamente le conseguenze.
Una di queste è che, proprio a causa dello sviluppo del suo capitalismo - il maggior successo della trasformazione dell’economia mondiale capitalistica da quattro decenni ad oggi - la Repubblica popolare cinese è uno Statoimperialista.
La trasformazione della Rpc in Stato imperialista non coincide con l’inizio delle riforme economiche. Fino a quel momento la politica estera nazionalistadella Rpc era stata dettata dalle particolari esigenze politiche del regime pseudosocialista di Mao: ne furono momenti importanti l’annessione del Tibet, le guerre con l’India e il Pakistan, lo «scisma» e il conflitto con l’Unione Sovietica e, infine, l’alleanza di fatto con gli Stati Uniti contro l’Unione Sovietica (e il Vietnam).
È solo in seguito alla ristrutturazione delle imprese di Stato iniziata intorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso - ridimensionamento e consolidamento finanziario e organizzativo, con circa trenta milioni di licenziamenti - che, sotto la direzione degli apparati governativi e del Pcc il capitalismo cinese ha sviluppato un nucleo di capitale forte e indipendente che gli ha conferito i caratteri dell’imperialismo, a fianco del settore costituito dalle filiali delle società transnazionali estere e delle joint ventures.
Non per la prima volta nella storia dell’economia mondiale capitalistica il capitalismo ultimo arrivato è riuscito a far leva sulle proprie particolarità - innanzitutto sulla potenza dell’apparato partitico e statale e sul suo controllo sull’economia - per utilizzare le opportunità del contesto internazionale. L’alleanza antisovietica di fatto tra Rpc e gli Stati Uniti fu una condizione necessaria per il «pacifico sviluppo» del developmental statecinese nell’economia mondiale. Sicché nel giro di poco più di un decennio dall’inizio delle riforme economiche e dell’apertura all’estero, il neomercantilismo del developmental statedella Rpc riuscì a fare il grande balzo in avanti nell’imperialismo economico e politico «con caratteristiche cinesi».
2. Politica estera e neomercantilismo: la Cina a confronto con i Paesi capitalistici avanzati
Per tutti gli Stati, specialmente per quelli più potenti e, in primo luogo, per gli Stati Uniti, esiste una sinergia nel combinare i mezzi e i fini della politica militare e delle alleanze con quelli della politica economica internazionale, benché questa combinazione non necessariamente si realizzi nel rispetto delle promesse elettorali, sulla base di un piano e in modo coerente: la grand strategypuò emergere in seguito a imprevisti e per tentativi ed errori. Sono esempi dell’impiego di mezzi economici a fini politici le sanzioni contro i programmi nucleari dell’Iran e della Corea del Nord, contro la Russia dopo l’annessione della Crimea o la selezione dei destinatari e delle dimensioni degli aiuti economici; più recentemente le tariffe protezionistiche dell’amministrazione Trump, ammesso che questa abbia una sua strategia coerente. E la realizzazione dell’unione monetaria europea è un caso di sinergia tra iniziativa politica e costruzione economica senza eguali nel mondo. La mondializzazione del capitalismo non comporta l’obsolescenza della statualità ma la ridefinizione dei suoi contenuti, strumenti e forme: in Europa è palese che non si può più intendere lo Stato come entità strettamente nazionale: fatto che, a sua volta, impone che si rigetti una prospettiva «sovranista» illusoriamente, volta alla restaurazione di quanto lo sviluppo capitalistico ha già ridotto in briciole sotto la propria macina. E, come molti hanno scoperto solo nel 2008, il sedicente neoliberismo è anche un neomercantilismo, comunque qualcosa che non può fare a meno di ricorrere all’interventismo statale - che si scopre anche avere una certa efficacia - nella gestione delle crisi.
Tuttavia, le modalitàdel capitalismo di Stato cinese nell’utilizzo di mezzi economici a fini politici e di mezzi politici a fini economici si distinguono da quelle dei Paesi a capitalismo avanzato. Il confronto più pertinente è quello col Giappone.
Cina e Giappone sono entrambi developmental stateso Stati «sviluppisti», ma il secondo era già all’epoca della Prima guerra mondiale uno Stato imperialista e relativamente avanzato. La Cina, invece, Paese relativamente sottosviluppato e neocoloniale, iniziò l’industrializzazione e la generalizzazione del lavoro salariato dopo la Seconda guerra mondiale, nella forma di uno pseudosocialismo totalitario, per poi realizzare la transizione al capitalismo nei due decenni finali del XX secolo, in un’epoca di globale e multidimensionale controffensiva capitalistica contro i lavoratori del mondo: di rapida internazionalizzazione dei flussi di capitale e dei processi di lavoro, di privatizzazioni e di attacco ai diritti socioeconomici dei salariati e dei comuni cittadini, di globalizzazione e neoliberismo.
E poiché la conservazione della formastatuale è il primo degli «interessi nazionali» - nel caso della Cina si tratta di un developmental statefondato sulla dittatura del Pcc - non deve essere motivo di sorpresa che le modalità con cui si articolano gli obiettivi e i mezzi politici con quelli economici abbiano una loro peculiarità.
In quanto era già formazione sociale capitalistica avanzata e posta sotto la protezione dell’«ombrello» militare statunitense, lo Stato giapponese nell’epoca della guerra fredda poteva accantonare lo sviluppo di autonome capacità militari e ambizioni geopolitiche per dedicarsi completamente alla crescita economica. Il developmental statedella Rpc, invece, non può separare lo sviluppo del capitalismo di Stato, sul terreno concimato dalle ceneri dello pseudosocialismo autarchico e dal potente fertilizzante dell’integrazione nell’economia mondiale, dallo sviluppo della potenza statale. Questo è indispensabile sia per riprodurre potere e privilegi dei funzionari del Partito-Stato e ai fini della legittimazione politica interna, sia a causa della specificità macroeconomica del capitalismo cinese, fondato su un elevatissimo tasso d’investimento e sulla compressione del consumo, non in assoluto ma relativamente all’investimento, e del costo della forza lavoro.
I governi dei capitalismi più avanzati promuovono principalmente, quando non esclusivamente, gli investimenti esteri delle imprese private; il governo cinese promuove principalmente, quasi esclusivamente, gli investimenti esteri delle imprese statali e di quelle che con lo Stato hanno rapporti strettissimi. Per il finanziamento degli investimenti diretti all’estero di queste imprese la Rpc può valersi di un’apposita agenzia che gestisce le cospicue riserve in valuta estera (State asset foreign exchange, Safe) e di fondi sovrani, primo fra tutti il China investment corporation (Cic). Questo si concretizza nell’importanza che negli investimenti esteri del capitalismo di Stato cinese hanno i grandi progetti infrastrutturali - nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, della costruzione di dighe e porti (o di un canale transoceanico in Nicaragua, secondo criteri opposti a quelli di Sandino ma non del presidente Ortega), gli investimenti per l’importazione di energia dall’Asia centrale e dal Venezuela, per l’estrazione di materie prime in Africa.
Il neomercantilismo dei capitalismi più avanzati si basa in gran parte sulla definizione di regole generali e di procedure che si applicano ai flussi di merci e di capitale nei diversi mercati: così definisce rapporti multilaterali molto - non del tutto - aperti. Il neomercantilismo della Rpc privilegia i rapporti bilaterali tra i governi e, in questo senso, tende alla chiusura. Il neomercantilismo dei capitalismi più avanzati, forte dei vantaggi tecnologici, punta ad aprire i sistemi nazionali alla concorrenza estera; il secondo punta a regolare i rapporti economici sulla base di considerazioni politiche.
Per l’ampiezza dei controlli amministrativi il governo cinese può gestire politicamente gli scambi economici in modo più rapido e selettivo dei governi «occidentali» - in particolare dell’Unione europea, che deve mediare tra molti governi con interessi economici non coincidenti - variandoli in funzione di determinate esigenze di politica estera, sia con misure formali che prassi informali.
La storia recente del Mar cinese (e le relazioni col Giappone) è un caso esemplare sia dell’utilizzo da parte della Rpc di sanzioni economiche a fini politici, sia dell’impiego della coercizione a fini economici: dato lo squilibrio di potenza economica e militare, per gli altri Paesi della regione queste sono armi spuntate.
Il neomercantilismo cinese deve essere inquadrato nella rete della divisione internazionale del lavoro: che è ragione del suo successo ma anche motivo di contraddizioni.
Caratteristica fondamentale del nuovo regionalismo economico, delineatosi dopo la fine della guerra fredda e del blocco economico costituito dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti, è infatti che esso noncostituisce blocchi chiusi al commercio intraindustriale (lo scambio di beni e servizi della stessa industria) e alle esportazioni industriali verso i Paesi a capitalismo avanzato, al contrario. Il blocco costituito dall’Unione Sovietica e dagli Stati associati nel defunto Consiglio di mutua assistenza economica(il Comecon) non fu mai un «mondo socialista» autarchico, ma l’integrazione della Rpc nell’economia mondiale capitalistica è di una qualità diversa, è molto più profonda e più sensibile alle fluttuazioni internazionali. Come la Russia di oggi, l’Unione Sovietica esportava principalmente materie prime, ovvero energia, fatto che durante gli anni ’70 del secolo scorso contribuì a rinviare le riforme economiche. Invece, specialmenteper l’Asia del Pacifico e per la stessa Cina, la formazione di una fitta rete regionale di scambi di merci e capitali è il modo in cui i diversi Paesi si inseriscono nella divisione internazionale del lavoro delle imprese transnazionali, trasformando i flussi regionali interni in esportazioni di prodotti industriali verso i Paesi a capitalismo avanzato. La stessa «via della seta» proposta dalla Rpc si presenta come via verso l’Europa.
Non pare possibile che l’economia della Rpc possa rinunciare alla tecnologia, al capitale e ai mercati esteri «occidentali», se non con un’ulteriore riduzione della crescita economica, che può impedire la moderazione delle contraddizioni sociali e quindi compromettere la stabilità politica del regime. Né pare possibile che per le altre economie della regione il mercato cinese possa sostituirsi a quello dei Paesi a capitalismo avanzato.
La Rpc ha interessi economici con la Russia e i Paesi dell’Asia centrale, e con la Russia auspica un mondo multipolare. Tuttavia, nello stesso tempo si guarda bene dal farsi coinvolgere dalle diatribe della Russia con gli Stati europei e gli Stati Uniti in altre regioni del mondo. E, nonostante l’asserito intento multipolare, la Rpc è assolutamente contraria all’inclusione nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dell’India e del Giappone. Dal canto loro gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina - che è il principale o quasi unico sostegno economico della Corea del Nord - per por fine al programma nucleare militare di Pyongyang; e le imprese transnazionali statunitensi hanno bisogno di poter sfruttare la forza lavoro cinese e di esportare negli Stati Uniti beni di consumo a buon mercato: un tassello importante del mosaico neoliberista.
In sintesi, per il governo della Rpc la connessione neomercantilistica tra politica ed economia è più esplicita, sistematica e coerente che per i governi dei Paesi a capitalismo avanzato. Ciò consegue direttamente dalle peculiarità del regime d’accumulazione del capitalismo cinese e dal monopolio del potere statale da parte del Pcc: la promozione delle imprese del capitalismo di Stato è nello stesso tempo un mezzo potente e un fine funzionale alla riproduzione del potere politico e delle posizioni socioeconomiche della casta partitico-statale.
Ciò non significa che il neomercantilismo cinese sia privo di contraddizioni. Ad esempio: l’importanza che nella diplomazia economica cinese nei confronti dei Paesi «in via di sviluppo» hanno i grandi progetti infrastrutturali, i prestiti ai governi e gli investimenti nell’estrazione di materie prime, ricordano più il neocolonialismo a cavaliere dei secoli XIX e XX (nei confronti di Egitto, Turchia, America Latina e della stessa Cina) che il modo delle relazioni economiche tra i Paesi a capitalismo avanzato nel secondo dopoguerra, centrato sui vantaggi tecnologici e sugli scambi intraindustriali.
3. Qualche considerazione sul rapporto di forza militare tra Cina e Stati Uniti
Non riporto i termini della discussione tra gli esperti circa la tecnologia militare e le effettive capacità belliche della Rpc3. Posso però sviluppare un ragionamento politico utilizzando le stime della spesa militare, con le avvertenze che si tratta di un tipo di spesa la cui stima è sempre politicamente scottante eincerta, specialmente per uno Stato con un regime politico dittatoriale; e che il volume della spesa militare non si traduce proporzionalmente in capacità combattente e ancor meno in vittoria.
Nel 2016 la spesa militare della Rpc era ufficialmente a 145 miliardi di dollari, più alta della somma delle spese militari di tutti gli Stati del Mar cinese meridionale e orientale (compresi Giappone e Corea del Sud, esclusa la Corea del Nord); ma la spesa militare degli Stati Uniti nello stesso anno (604,5 miliardi di dollari) era più alta della somma di quella della Rpc piùi seguenti quattordici della lista degli Stati più spendaccioni - o spreconi - in questo campo: da sola era dunque quattro volte più alta di quella cinese e, ovviamente, lo svantaggio della Rpc cresce ulteriormente se si considera anche la spesa degli alleati degli Stati Uniti nel Pacifico4(senza allargare il ragionamento alla Nato e all’India, da una parte, e a Russia e Corea del Nord dall’altra).
Restando sul piano della spesa militare come (assai approssimativo) indicatore della crescita delle capacità militari, ciò che suscita allarme tra gli analisti è il tasso eccezionale con cui è crescita quella della Rpc nel nuovo secolo. In rapporto alla popolazione (aumentata nel periodo considerato di quasi 400 milioni di unità) la spesa militare in dollari correnti della Rpc all’incirca si raddoppiò tra il 1989 e il 2001 e di nuovo entro il 2006 e ancora entro il 2009; e nel 2017 era ancora raddoppiata relativamente all’inizio del decennio, dato coerente con la stima delle sue dimensioni espressa in dollari costanti5.
Tuttavia, in percentuale del prodotto interno la spesa militare della Rpc stimata dallo Stockholm international peace research institute(Sipri), si è mantenuta costante tra il 1993 e il 2017 - intorno al 2% - mentre nello stesso periodo quella degli Stati Uniti oscillava tra un minimo del 3% nel 1997-2002 e un massimo di quasi il 5% nel 2010. Dunque, la spesa militare cinese è cresciuta notevolmente in volume, ma parallelamente alla crescita del prodotto interno: un effetto della riforma fiscale ricentralizzatrice della metà degli anni ’90 (confermata dalla nuova riforma del 2018-2019) e ancor più del boom economico - con eccezionali tassi di crescita dell’investimento e delle esportazioni e delle entrate in valuta estera - nel primo decennio del nuovo secolo. Sotto questo punto di vista, e ammesso che le stime del Sipri siano vicine al valore reale, la spesa militare della Rpc è a un livello che non può considerarsi tipico di uno Stato che abbia l’intento d’intraprendere l’avventura di sfidare la maggiore potenza mondiale. Bisogna inoltre considerare che se la spesa militare per abitante in Cina nel 2017 era di 162 dollari (22 nel 2001, 101 nel 2011), negli Stati Uniti era pari a 1879 dollari (781 più che nel 2001 ma 400 meno del massimo del 2011; per comparazione: nel 2017 era a 356 dollari in Giappone, 447 per Taiwan, 768 per la Corea del Sud e 493 in Italia).
Inoltre, nella valutazione della potenza economica e del potenziale militare che da essa può essere messo in gioco, non conta solo la dimensione assoluta del prodotto interno ma il suo valore per abitante, a sua volta indice di altri importanti fattori, come il livello tecnologico complessivo del Paese e l’integrazione sociale e la stabilità politica. Comunque, ai fini di definire il potere internazionale relativo la comparazione va fatta in dollari, non con le parità di potere d’acquisto. Dopo aver considerato per molti anni la questione delle parità di potere d’acquisto, chi scrive è diventato molto scettico a riguardo, sia per i problemi derivanti dall’attendibilità delle fonti, della definizione dei dati, dei periodi alla base dei calcoli; sia per la validità di questa misura per il confronto della distribuzione del reddito tra società assai diverse. Ed è da contestare che ridurre la misura della povertà al solo criterio monetario per definire una soglia assoluta - valida in tutto il mondo - sia socialmente e politicamente rilevante dal punto di vista dei poveri e degli sfruttati, per cui contano le condizioni materiali e la povertà relativa. Il punto è importante per demistificare la propaganda del regime cinese, e non solo di questo. Da questo punto di vista la Rpc deve fare ancora moltissima strada per avvicinarsi agli Stati Uniti. E benché quanto a forza economica la Rpc non sia l’Unione Sovietica, è anche chiaro che il peso di una corsa agli armamenti è molto maggiore per il popolo cinese che per quello statunitense. Col rallentamento della crescita economica, i dirigenti di Pechino si trovano di fronte alla scelta tra spesa militare e spesa sociale, tra ambizioni geopolitiche internazionali e stabilità sociale interna.
Ciò su cui non esiste dubbio è che dalla metà degli anni ’90 l’Esercito popolare ha enormemente modernizzato il suo arsenale e le piattaforme di lancio, riducendo di molto il vantaggio statunitense sia nei campi convenzionali sia nell’arsenale nucleare, nell’uso militare dello spazio e nella guerra cibernetica.
Il potenziamento della flotta, dell’aeronautica e delle capacità d’interdizione d’area (A2/Ad) della Rpc modificano la situazione militare nel Mar cinese, in tempo di pace specialmente a danno delle iniziative economiche degli Stati rivieraschi. In caso di conflitto con gli Stati Uniti, la Cina è in grado di proteggersi causando gravi perdite a tentativi di penetrazione in profondità, di colpire le basi statunitensi avanzate, di infliggere danni alla flotta di superficie e di minacciare Taiwan. Tuttavia, che l’Esercito popolare abbia ridotto la distanza dalle forze armate statunitensi - un tempo molto grande - non significa affatto né che questa sia scomparsa, né che lo svantaggio si sia ridotto in modo uniforme in tutte le aree della tecnologia militare, né che la Rpc possa continuare ad accrescere la potenza militare al ritmo dei due decenni trascorsi; inoltre, l’efficacia della forza militare cinese decresce con la lontananza dal continente.
È quindi assai discutibile che - se ci provasse - in futuro la Cina possa riuscire ad assumere effettivamente e in modo duraturo il controllo militare sull’insiemedel Mar cinese meridionale, fatto che comporta mezzi e capacità finanziarie e operative ben al di là di quelle richieste per impossessarsi di singoli atolli semisommersi, reprimere i pescatori stranieri e sabotare le attività esplorative di altri Paesi.
Anche nella valutazione dei rapporti di forza militari non si può prescindere dai rapporti politici.
Se un giorno la Rpc entrasse in guerra con un membro dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico(Asean)- per esempio, le Filippine o il Vietnam - e se l’Associazione fosse costretta a scegliere tra la Rpc e il suo membro spalleggiato dagli Stati Uniti, ciò significherebbe la sua spaccatura, ma non a vantaggio della Rpc: è improbabile che la Cina possa contare su più dei tre - su dieci - membri dell’Asean che al momento possono considerarsi suoi «satelliti» (Cambogia, Laos, Myanmar). Questo significa che nell’ipotesi fantapolitica di un conflitto che coinvolga gli Stati Uniti, qualsiasi vantaggio iniziale la Rpc possa conquistarsi grazie alla superiorità tattica locale sarebbe, con ogni probabilità, solo temporaneo, perché verrebbe neutralizzato dalla progressiva concentrazione della potenza statunitense, da possibili reazioni difensive degli altri Stati (specie se nel frattempo avessero ulteriormente aumentato le loro piattaforme A2/Ad) e dalla chiusura degli stretti di Malacca e della Sonda al traffico commerciale verso e dalla Cina. Un disastro per l’economia mondiale ma di gran lunga peggiore per la Cina e la stabilità del regime. Il risultato più probabile di una guerra, fredda o calda, tra Cina e Stati Uniti è la trasformazione di gran parte del Mar cinese in un «mare di nessuno»; ma gli Stati Uniti continuerebbero a controllare la prima catena di isole, installandosi in nuove basi.
Un discorso simile può farsi per Taiwan, cerniera tra Mar cinese meridionale e orientale. Se il governo della Rpc volesse assumere realmente il controllo militare del Mar cinese sarebbe indispensabile liquidare l’apparato militare e l’esistenza di Taiwan come Stato indipendente di fatto. Questo è potenzialmente un casus bellitra Rpc e gli Stati Uniti, che implica la possibilità di un’escalation nucleare. La Rpc afferma (per quel che valgono affermazioni del genere) di non intendere usare per prima l’arma nucleare; tuttavia, esistono segnali, d’incerto valore, che questa linea potrebbe non valere nel caso di Taiwan, perché essa è considerata provincia, territorio nazionale, della Rpc. In futuro non si può escludere che i dirigenti di Pechino e di Washington cadano in preda a una tentazione suicida e irrimediabilmente e follemente distruttiva della stessa posta in gioco, sia materialmente che politicamente - una ragione per cui bisogna battersi in nome del futuro dell’umanità per mettere al bando le armi nucleari, anche unilateralmente, in qualsiasi Stato. Tuttavia, se non è affatto certo che alla resa dei conti a Washington siano disposti a entrare in guerra aperta con la Cina per difendere Taipei o - men che mai - gli scogli delle Spratly, è pure ragionevole pensare che un attacco all’isola sarebbe un disastro gravissimo per le relazioni politiche ed economiche della Rpc, forse motivo di una nuova guerra fredda. Di certo non motivo per l’acquisizione di una posizione egemonica della Cina nella regione, se l’egemonia non è solo uso della forza ma anche costruzione del consenso politico. Intanto, l’indipendenza di Taiwan costituisce obiettivamente un grave limite ad eventuali ambizioni di dominio geopolitico della Rpc nel Mar cinese e, con scorno di Pechino, nei più recenti decenni lo spirito indipendentista della popolazione dell’isola è aumentato, non diminuito.
4. Una situazione non interpretabile con la mentalità della guerra fredda
Il precedente esercizio fantapolitico ha lo scopo di raffreddare certe previsioni, che vengano da simpatizzanti o antipatizzanti della Cina. Fantapolitica a parte, il problema strategico reale nel Mar cinese non sorge linearmente dallo sviluppo delle capacità militari della Rpc - inevitabile data la sua posizione nell’economia mondiale e nella prima fase anche favorito dagli Stati Uniti - ma dal loro concreto utilizzo e da quel che esso fa presagire per il futuro. Le risorse materiali creano delle possibilità ma è la decisione politica che sceglie quali realizzare. E quindi, intorno alla fine del primo decennio del nuovo secolo furono le azioni coercitive e politiche della Rpc nel Mar cinese - la sua assertività, si suole dire, o prepotenza, in modo più chiaro - che suscitarono la percezione di un atteggiamento minaccioso riguardo alle risorse e ai flussi marittimi, quindi preoccupazione circa il condizionamento da parte della Rpc delle potenzialità di sviluppo economico nazionale degli Stati della regione. L’incertezza e il timore sul futuro utilizzo della forza da parte della Rpc giocarono a favore degli Stati Uniti, non della Rpc, fatto verificabile con gli sviluppi diplomatici e la stipula di accordi di collaborazione militare tra Stati Uniti e governi della regione fino all’India.
L’attivismo della marina e dell’aviazione militare della Rpc ha certamente aumentato la possibilità di incidenti con unità militari Stati Uniti. Tuttavia, la frequenza di questi incidenti e la loro gestione dipende dalla volontà politica d’entrambe le parti. Del resto, nonostante la polemica cinese sul carattere provocatorio della svolta di Obama, i governi della Cina e degli Stati Uniti collaborarono durante la crisi finanziaria; elevarono di qualità il «dialogo strategico ed economico» (facendo presiedere le due linee del dialogo dal Vice presidente e dal Segretario al tesoro per gli Stati Uniti e dal Vice premier e da un rappresentante speciale per la Rpc); i Presidenti continuarono a incontrarsi e non vennero mai meno i rapporti di alto livello, anche tra i militari. Nel gennaio 2012 il Dipartimento della difesa pubblicò la Strategic guidance, secondo cui «dovremo necessariamente riequilibrare verso la regione Asia-Pacifico»6, ma il tono era disteso, l’amministrazione rimase neutrale nel merito delle dispute marittime - insistendo du procedure pacifiche e d’arbitrato - e tra il 2012 e il 2015 non decise neanche una freedom of navigation operation, evitando accuratamente il confronto diretto con la forza messa in campo dalla Rpc durante le crisi di quegli anni. Nel novembre 2014 Xi Jinping e Barack Obama annunciarono la firma di un Memorandum d’intesa sulle regole di comportamento in occasione di incontri tra unità navali dei due Paesi e l’anno seguente venne definito un supplemento sugli incontri aerei7che, tra l’altro, richiede incontri annuali di valutazione; un codice per gli incontri navali non programmati nell’Oceano Pacifico è stato firmato nel 2014 dalle marine di 21 Paesi, tra cui Rpc e Stati Uniti. Nonostante la tensione nel Mar cinese, nel 2014 e nel 2016 la marina della Rpc partecipò alle Rim of the Pacific exercise (Rimpac), esercitazioni navali a cui partecipano 26 Stati e che sono le più imponenti del mondo. La marina dell’Esercito popolare di liberazione non è stata invitata alla Rimpac del 2018, ma i contatti tra gli apparati militari non si sono interrotti: il più recente incontro tra i ministri della difesa della Rpc e degli Stati Uniti è del novembre 2018.
Incontri ai massimi livelli, meccanismi di consultazione tra i comandi militari e partecipazione a esercitazioni non risolvono le differenti interpretazioni della Unclos circa il «passaggio inoffensivo» marino e aereo, né escludono attività che le parti possono considerare provocatorie; ma, insieme all’intensità delle relazioni economiche e diplomatiche, delineano un quadro inconcepibile in un contesto di sfida da parte della Rpc per la conquista del dominio sulla regione e di suo contenimento - nello stile della guerra fredda - da parte degli Stati Uniti.
Il pericolo posto dalla svolta di Obama per la Rpc non era di natura militare, tanto che è proprio sull’inadeguatezza della forza militare schierata che vertono le critiche di molti specialisti statunitensi. Esso era invece essenzialmente politico e, per questa via, in ultimo anche militare: un’operazione che univa la costruzione del consenso politico intorno agli interessi economici con il consolidamento della forza nella regione. Quando iniziarono le trattative per il trattato Trans-Pacific partnership(Tpp, dal 2008) gli Stati Uniti dimostrarono di voler recuperare il tempo perso nella ridefinizione delle regole della più dinamica area economica del mondo. Moderata sul piano militare, the pivotfu un successo nei campi della diplomazia economica e del rafforzamento ed estensione della cooperazione militare, anche a causa della contraddizione nella politica cinese tra proposte di «sviluppo congiunto» e di una nuova «via della seta» marina, da una parte, e, dall’altra, le contese con Filippine e Vietnam sulla sovranità di atolli e acque circostanti.
Per queste ragioni non esiste alcuna crisi strutturale dell’egemonia statunitense nella regione. Al contrario, dopo aver intensificato la tensione già creata durante gli ultimi anni di Hu Jintao (Segretario generale del Pcc e Presidente della Rpc) e del suo primo ministro Wen Jiabao, Xi Jinping ha dovuto rincorrerel’iniziativa politica di Obama. Nonostante il flusso d’investimenti e il lancio della «nuova via della seta» marittima, il dispiegamento della forza da parte della Rpc non ha giovato ad accrescerne il consenso politico, ciò che caratterizza in modo peculiare il concetto di egemonia.
Proprio a causa del suo sviluppo economico, dell’incorporazione nella divisione internazionale del lavoro delle società transnazionali «occidentali», dell’importanza delle esportazioni, dell’eccesso di capacità produttive e della necessità di mantenere aperta la possibilità d’investire all’estero capitali, la Rpc non può fare a meno di mantenere relazioni pacifiche con gli Stati della regione, gli Stati Uniti e i suoi alleati europei. Questo è il limite ultimo che il governo cinese deve badare a non superare, tanto nell’affermazione delle sue rivendicazioni nei confronti dei Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale, che per quel che riguarda la libertà di navigazione come intesa dagli Stati Uniti. Una guerra fredda con gli Stati Uniti costituirebbe un grave colpo per l’economia cinese e, in prospettiva, per la stabilità politica del regime. E chi pensa che Washington punti a senz’altro a un cambiamento di regime in Cina deve mettere sull’altro piatto della bilancia l’integrazione dei lavoratori e delle lavoratrici cinesi nella catena dello sfruttamento da parte delle imprese transnazionali, nonché il peso del capitale finanziario e del mercato della Cina nel precario equilibrio dell’economia mondiale, molto più importanti di quello dell’Unione Sovietica negli anni ’80 o della Russia oligarchica di Putin. Nel caso di una grande rivolta antiburocratica la cui dinamica assumesse anche una potenzialità anticapitalistica, a Washington dovranno augurarsi che l’ordine torni a Pechino. Potranno esserci ipocrite, brevi e sostanzialmente innocue proteste - del tipo di quelle che seguirono il massacro di piazza Tiānānmén- ma dal punto di vista del capitalismo internazionale la natura controrivoluzionaria del regime cinese è pure una garanzia di profitti e di stabilità dell’ordine politico.
Nessuno vuole una guerra fredda nel Mar cinese: né la Cina, né gli Stati della regione, né gli Stati Uniti. Oltre che per i tagli delle spese militari questa è la ragione dell’ambiguità del pivotverso l’Asia dell’amministrazione Obama. D’altra parte, l’amministrazione pseudopopulista di Trump ha per ora compromesso la partecipazione degli Stati Uniti al principale successo diplomatico di quella di Obama nella regione, il Trans-Pacific partnership(Tpp), che comunque marcia come Comprehensive and progressive agreement for trans-Pacific partnership (Cptpp): oltre a Canada, Messico, Perù e Cile comprende Australia, Brunei, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam. E per buone ragioni economiche, in Cina è forte la corrente che spinge verso l’entrata o una forma di collaborazione tra il Regional comprehensive economic partnership- in corso di negoziazione con Asean, Australia, Corea del Sud, Giappone, India e Nuova Zelanda - con l’area economica definita dal Cptpp.
Il problema per l’egemonia statunitense nell’Asia del Pacifico è congiunturale: uscendo dal Tpp per mettere in scena lo spettacolo del nazionalismo economico pseudopopulista a fini interni, l’amministrazione Trump dimostra di non aver compreso il di quell’accordo,che è la riscrittura delle regole dell’economia dell’Oceano Pacifico in modo diverso da quel che vorrebbe il capitalismo di Stato cinese. Tuttavia, un Presidente non può sovvertire i problemi strutturali di lungo periodo, tanto più se ha vinto le elezioni perdendo però il suffragio popolare per quasi tre milioni di voti. Ed è possibile che cambi posizione.
5. Opportunismo e limiti della politica estera cinese e la logica di fondo della persistente egemonia degli Stati Uniti
Paesi come la Cambogia, il Laos e Myanmar sono molto poveri e dipendenti dal capitale e dall’aiuto estero, nei quali la Rpc ha grande rilievo. In questi Paesi le pretese di costruire un’economia pianificata - mai esistita - sono state abbandonate da molto tempo e sono benvenuti gli investimenti diretti del capitale «occidentale». È importante comprendere che quel che li lega alla Rpc non è un qualche mistico destino geopolitico o geoeconomico ma la specificità della loro statualità. In Laos il regime politico è a partito unico; in Cambogia Hun Sen, ex khmer rosso già ministro degli esteri nella prima metà degli anni ’80 del secolo scorso, è primo ministro dal 1985, ora di una monarchia pseudocostituzionale, in pratica un regime monopartitico. In Myanmar (Birmania) è finito il regime militare durato mezzo secolo e ora è capo del governo Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e celebrata eroina dei diritti umani: ma a giudicare dai fatti - deportazione e repressione di oltre 700 mila musulmani Rohinga, con accuse di crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio8- una volta al potere si è posta sulla linea del nazionalismo militarista del padre e del precedente regime. Specialmente Cambogia e Myanmar hanno problemi di frontiera con gli Stati vicini (Thailandia e Vietnam) e ancor più gravi problemi con le minoranze etniche interne (per 40 anni le formazioni armate secessioniste o autonomiste dei popoli Kachin e Karen hanno controllato circa un quarto del territorio birmano). Non bisogna confondere la ferocia della repressione con la reale capacità dello Stato di promuovere l’industrializzazione e l’unità nazionale dei gruppi etnici. Quindi, non solo i regimi di questi Paesi sono autoritari ma lo Stato è in realtà debole: è il motivo per cui le caste politiche e gli apparati militari sono clienti a buon mercato. Questa è la situazione ideale per la Rpc, ed è anche per questo che tra i membri dell’Asean sono quelli allineati con la diplomazia cinese. Se in quei Paesi i diritti politici facessero progressi reali e se si verificasse una rivolta contro le oligarchie interne anche la loro posizione internazionale potrebbe mutare.
I governi dei Paesi a capitalismo avanzato usano in modo strumentale i diritti umani e la «responsabilità di proteggere» nella gestione delle crisi e per giustificare gli interventi militari; ma, proprio per questo, con la fine della guerra fredda è diventato contraddittorio e suscettibile di critica il sostegno di regimi che negano la libertà sindacale e politica ed evidentemente calpestino i diritti umani e delle minoranze etniche: è il caso scomodo del rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Questo problema - o contraddizione interna - invece non esiste per la politica estera della Rpc, il cui neomercantilismo è programmaticamente indifferente ai regimi interni. Dietro il paravento ideologico del proclamato rispetto della sovranità nazionale non c’è solo l’autodifesa preventiva del proprio regime di dittatura monopartitica, ma la convenienza economica. La Rpc può fare ottimi affari anche con i peggiori regimi politici esistenti proprio perché questi sono diplomaticamente isolati o soggetti a sanzioni, possono sopprimere senza scrupoli le proteste dei lavoratori e dei cittadini per le condizioni di lavoro, l’esproprio di terre e gli effetti ambientali dei progetti d’investimento, e si possono corrompere senza temere scandali e inchieste interne. Tuttavia, questa è anche la ragione per cui, quando la repressione si allenta, possono esplodere reazioni popolari anti-cinesi come in Myanmar (Birmania) nel 2011 e perfino in Cambogia; e comunque, a causa della corruzione di ministri e funzionari e della crescita del debito estero, gli investimenti del capitalismo cinese tendono a generare nei Paesi destinatari scandali politici, oltre che opposizioni per motivi sociali ed ecologici, come nelle Filippine nei primi anni del secolo e in Sri Lanka nel 2015.
I developmental Statesmaturi, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, si collocano al polo opposto di Cambogia, Laos e Myanmar. Questi sono i Paesi capitalistici più avanzati della regione e, per definizione, negli Stati «sviluppisti» il connubio tra politica e affari è forte. Tuttavia, sono anche quelli con gli Stati più forti e attrezzati: in questi casi la corruzione è stata centralizzata e diretta a costruire un sistema industriale competitivo nel mercato mondiale. Il Vietnam è un caso a parte: sottosviluppato e a partito unico, come i Paesi del primo gruppo, tuttavia ha uno Stato relativamente forte e nazionalista, che non può essere ridotto alla condizione di cliente del patrono-Rpc. Tra gli altri membri dell’Asean, le Filippine sono l’anello più debole: e tuttavia anche in questo Paese, dove lo «sviluppismo» è abortito e la corruzione è elevata e diffusa, l’inclinazione verso la Rpc di particolari governi è stata contestata. Indonesia, Malesia, Thailandia sono Paesi di «nuova industrializzazione», a suo tempo classificati da Alice Amsden tra quel pugno di economie del «resto del mondo» al di fuori dell’Atlantico del nord «salito ai ranghi dei concorrenti di livello mondiale in una vasta gamma di industrie a media tecnologia»9.
Le classi dominanti dei Paesi del Mar cinese meridionale desiderano fare affari con la Cina e in Cina, ma è improbabile che possano pacificamente accettare di diventare politicamente tributarie del capitalismo di Stato della Rpc a danno delle loro relazioni economiche con i Paesi a capitalismo avanzato. E devono fare i conti con il nazionalismo popolare: non si può dire che i lavoratori e le lavoratrici gradiscano lo stile manageriale cinese, che le comunità locali approvino l’esproprio delle terre o che la cittadinanza sostenga le rivendicazioni marittime della Rpc. È un fatto di scarso rilievo pratico ma simbolicamente significativo che, nel luglio 2017, l’Indonesia abbia allargato la sua zona economica esclusiva e ridenominato Mare settentrionale di Natuna parte del Mar cinese meridionale a nord delle isole omonime, dove sono state avvistate imbarcazioni della Rpc10.
L’amministrazione Trump insiste sul fatto che gli interessi economici degli Stati Uniti siano stati sacrificati per sostenere gli alleati, anche al di là del necessario. Tuttavia questa posizione (che è in parte all’origine degli interminabili e inconcludenti discorsi sul declino dell’egemonia statunitense da circa mezzo secolo a questa parte) implica non comprendere che per mantenere la centralità nell’economia mondiale e nel sistema internazionale degli Stati dopo il conflitto mondiale e durante la guerra fredda, gli Stati Uniti dovevanopromuovere la rinascita e lo sviluppo degli altri Paesi a capitalismo avanzato; e che, anche a guerra fredda terminata, è il parziale sacrificio degli interessi economici a breve termine che, a sua volta, garantisce gli interessi economici a lungo termine dell’imperialismo statunitense e la sua capacità d’influenzare la direzione in cui muovono i cambiamenti dell’economia mondiale. E sono l’ampiezza e la profondità dell’economia interna ed esterna del capitalismo nordamericano, non i complotti, che gli garantiscono questo potere strutturale nell’economia mondiale, come lo definì Susan Strange11.
Si dirà, giustamente, che l’appoggio statunitense alla ricostruzione e allo sviluppo dei capitalismi europei e del Giappone, della Corea del Sud e perfino della Cina, abbia contribuito all’erosione della parte del capitalismo statunitense nel mercato mondiale dei beni. Ben altro è però il discorso sull’esportazione dei servizi, il mercato finanziario, gli investimenti esteri diretti all’estero e dall’estero, lo sviluppo della divisione internazionale del lavoro: un capitalismo è imperialista proprio perché il processo della sua riproduzione allargata si estende - a suo profitto - oltre i confini nazionali, come è iniziato ad accadere anche per quello cinese.
Certo, lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo mondiale è contraddittorio e conflittuale, ma è attraverso la gestione delle contraddizioni che si riproducono l’egemonia politica e la centralità economica. Il neo mercantilismo cinese o dell’amministrazione Trump saranno più coerenti dal punto di vista degli interessi economici a breve termine, ma pagano un prezzo politico. La differenza tra i due casi è che l’establishmentstatunitense ha un’esperienza quasi secolare e conta su un potere strutturale. I dirigenti cinesi stanno ancora imparando e potrebbe già essere troppo tardi, perché il capitalismo cinese non solo risente delle contraddizioni dell’economia mondiale, ma una fase di riduzione della crescita e di delusione delle aspettative popolari è potenzialmente pericolosa per la stabilità del regime.
6. Quali obiettivi ha la politica di Pechino nel Mar cinese meridionale?
Rimangono ancora da definire gli obiettivi della politica della Rpc nel Mar cinese meridionale. Dico subito che, benché possa esserci un motivo dominante, non se ne può dare una spiegazione monocausale, anche a causa della molteplicità degli apparati burocratici e degli interessi: ministero degli esteri, Esercito popolare di liberazione, China national offshore oil corporation (Cnooc) e altre compagnie controllate dalla Commissione di supervisione e amministrazione delle imprese statali (Sasac), il nucleo centrale e più potente del capitalismo di Stato della Rpc. E, come spiego oltre, importantissimo se non determinante per la politica di Pechino nel Mar cinese è il ruolo del nazionalismo come ideologia di legittimazione del Partito-Stato, molto potenziato con l’ascesa di Xi Jinping. Questo promuove dall’alto l’identità nazionalista da grande potenza, nei confronti delle minoranze nazionali e di Hong Kong e Taiwan, con conseguenze simili, o potenzialmente simili, all’affermazione dell’identità grande-russa all’interno e nell’«estero vicino». Deve però fare i conti anche con la logica sciovinistica del nazionalismo dal basso - che dispone di mezzi propri, ad esempio telematici - che può generare problemi nella politica interna e nella gestione della politica estera. Dalla molteplicità degli apparati e degli interessi, civili e militari, economici e politici, interni e internazionali, conseguono anche specifiche contraddizioni.
L’acquisizione e lo sfruttamento delle risorse naturali è certamente un obiettivo della politica della Rpc nel Mar cinese meridionale, di particolare interesse per le agenzie del capitalismo di Stato e per quelle militari e paramilitari (ora unificate), per le quali ruolo e finanziamenti sono giustificati dalla necessità di garantire la sicurezza del controllo sugli stock di risorse, anche ittiche. Tuttavia, questo obiettivo è in contraddizione con altri, sia economici che politici. È discutibile che il beneficio derivante dal controllo delle risorse economiche marine valga la spesa necessaria per la modernizzazione delle forze armate, le tensioni con i Paesi vicini e gli Stati Uniti, il deteriorarsi dell’immagine internazionale, il rischio di escalationmilitare; esso è pure in opposizione all’idea della Cina come potenza pacifica e contrasta con le proposte di «sviluppo congiunto» internazionale. Inoltre, è possibile che le riserve di petrolio e gas del Mar cinese meridionale non siano sufficienti a soddisfare il fabbisogno dell’industria cinese (se le stime statunitensi sono quelle più vicine al vero) e, comunque, il capitalismo di Stato cinese è perfettamente in grado di procurarsi idrocarburi e materie prime con i più economici mezzi dell’imperialismo informale. Gli accordi economici internazionali della Rpc per l’estrazione di materie prime prevedono che i crediti erogati agli altri Stati vengano utilizzati per l’acquisto di merci cinesi, così che il capitalismo di Stato cinese possa nello stesso tempo provvedere sia ai suoi input che agli sbocchi dell’industria nazionale. Un tipico scambio neocoloniale, ammantato di paternalismo.
Tuttavia, per lo sviluppo economico di Paesi come le Filippine e il Vietnam le risorse del Mar cinese hanno un valore molto più alto che per la Rpc: che questa disponga del potere di concederne o negarne l’uso è quindi un’arma potente per condizionarne la politica estera e per promuovere la penetrazione cinese attraverso joint ventures e progetti d’investimento.
Non direi che la politica della Rpc nel Mar cinese meridionale possa spiegarsi solo con l’intento di assumere il controllo delle risorse marine. E comunque è chiaro che la capacità di ricatto e la costrizione a far di necessità virtù è altro dall’egemonia, che non si basa solo sulla forza ma anche e necessariamente sul consenso. Perché sia componente dell’egemonia la forza non deve essere minaccia ma protezione dell’ordine costituito contro il comune nemico, interno ed esterno. Non è certo così che è percepita la potenza della Rpc nel Mar cinese.
È facile stabilire una relazione tra l’indurimento della linea della Prc nel Mar cinese e l’inizio della Grande recessione nell’agosto-settembre 2008. È un argomento frequente anche tra i «falchi» accademici cinesi: la crisi avrebbe dimostrato il fallimento del regime neoliberista e dell’egemonia statunitense, così aprendo la strada per una transizione di potere in Asia a favore della Rpc, che si appresterebbe a diventare la più grande economia del mondo. La tesi è rafforzata dalla propaganda del il «sogno cinese», dalle dichiarazioni ufficiali circa il multipolarismo e l’«esorbitante privilegio» del dollaro - per usare una formula del generale De Gaulle - dalla pubblicazione di libri e articoli da parte di alti ufficiali e specialisti di politica estera, che invocano apertamente la lotta all’«egemonismo» degli Stati Uniti, dall’allentamento delle redini del nazionalismo dal basso e dei mass media.
L’esplodere della Grande recessione certamente può aiutare a comprendere il momentodella svolta di Pechino nella regione. Tuttavia, può essere rovesciata la direzione o causalità del ruolo della Grande recessione nello spiegare la presunta sfida del capitalismo «con caratteristiche cinesi» al modello statunitense.
Innanzitutto, il cosiddetto neoliberismo è stato scosso, la ripresa è stentata ma, dopo il breve momento «keynesiano» per fronteggiare il crollo finanziario, l’asse fondamentale della politica economica e sociale non è cambiato. Come in molte altre occasioni, devo ribadire che in assenza di un’esplosione della lotta di classe nei Paesi a capitalismo avanzato non ci si può aspettare un new New deal; nel quadro della postdemocrazia e dello pseudopopulismo questo non è possibile per via elettorale e men che mai è possibile che ciò avvenga da sinistracon appelli nazional-populisti alla sovranità monetaria. Né Donald Trump né i partiti pseudopopulisti europei minacciano le basi socioeconomiche del neoliberismo: semmai mostrano con evidenza l’anima neomercantilista (nei rapporti competitivi orizzontali tra i capitalismi) occultata dalla retorica neoliberista (che è realtà nei rapporti verticali tra i capitalismi e i salariati e i comuni cittadini).
Quanto alla Cina, si deve ricordare che la sua ascesa nell’economia mondiale, specialmente nel primo decennio del nuovo secolo, si deve proprio al neoliberismo dei Paesi a capitalismo avanzato; e nei rapporti tra capitale e lavoro salariato l’economia cinese è un paradiso neoliberista. Il governo cinese non ha affatto messo in atto qualcosa che possa dirsi un’offensiva contro le istituzioni economiche internazionali: al contrario, si è inserito in esse, in particolare nel Fondo monetario internazionale. La Banca asiatica per l’investimento nelle infrastrutture e la nuova «via della seta» possono essere intese come iniziative nazionali - o sinocentriche - in competizione col capitale «occidentale» ma, dal punto di vista globale, sono correttivi e complementi all’ordine neoliberista, non alternative sistemiche.
Se si mettono da parte le lenti dello schema ascesa-declino dell’egemonia e se si guarda con maggiore attenzione alla politica del governo e all’insieme dei commenti degli economisti cinesi, si vedrà che ben prima della crisi finanziaria del 2008 i dirigenti della Rpc erano ben consapevoli dell’insostenibilitàdel corrente regime di accumulazione cinese, fatto che va a loro merito: ne sono un esempio (al di là del loro impatto reale) le misure fiscali a favore dell’agricoltura, per la riduzione della povertà, l’estensione della copertura sanitaria e pensionistica, la normativa sui contratti di lavoro, in ultimo l’obiettivo di una società di moderata prosperità. Il fatto è che la Grande recessione non ha dimostrato solo la fragilità finanziaria del neoliberismo «occidentale», ma anche la vulnerabilità del sistema cinese alle fluttuazioni della domanda mondiale.
Tuttavia, il problema storico del regime d’accumulazione del capitalismo cinese non è la dipendenza dai mercati esteri ma l’enorme squilibrio macroeconomico tra le componenti della domanda interna, tra l’alto tasso di accumulazione e la compressione del consumo, motivo di un eccesso di capacità produttive che richiede esportazione di merci e di capitale. E poiché in questo si esprimono l’intensità dello sfruttamento dei lavoratori e la struttura dei rapporti di potere tra le classi sociali, le correzioni portate al sistema sono state e sono marginali. Come per i Paesi a capitalismo avanzato, un cambiamento del regime d’accumulazione pare possibile solo di fronte a una generale ascesa delle lotte dei lavoratori cinesi. In questa prospettiva la stabilità politica della dittatura del Pcc non è la soluzione del problema ma è parte integrante di esso.
Inoltre, la Cina ha la sua particolare forma di finanziarizzazione e di crisi finanziaria strisciante, anche questa prodotta dall’elevato tasso d’investimento, in particolare delle province e delle municipalità: a fine 2017 l’indebitamento totale era pari al 257% del prodotto interno, di cui il 45% dovuto al sistema del credito «ombra» (credito erogato da entità esterne al sistema bancario ufficiale); il Fondo monetario internazionale prevede che l’indebitamento del solo settore non-finanziario possa raggiungere il 275% del Pil nel 2020. Il governo cinese ha imposto più rigore nell’erogazione dei crediti e una normativa sul sistema del credito «ombra», ma questo è al prezzo del rallentamento della crescita e della domanda interna: ciò implica un aumento dei crediti in sofferenza e delle insolvenze, col rischio di un circolo che si autoalimenti sfuggendo al controllo12.
In effetti, pur in un quadro complessivamente dominato da un approccio «realistico» alle relazioni internazionali, esiste una notevole differenza tra i problemi nazionali segnalati dagli economisti, tali da rendere secondo loro impossibile e controproducente una linea di politica estera ambiziosa e di scontro con gli Stati Uniti - in questo perfettamente fedeli allo spirito e all’indicazione di Deng Xiaoping - da una parte e, dall’altra, buona parte, ma non tutti, gli specialisti cinesi delle relazioni internazionali, che sembrano ignorare del tutto le analisi dei primi13. Una divisione tra intellettuali-funzionari che si annida nelle contraddizioni della politica estera della Rpc.
7. Le indicazioni di Deng Xiaoping per la politica estera e la ridefinizione del patriottismo cinese
Deng Xiaoping era stato chiarissimo nell’indicare le relazioni tra riforme economiche interne e apertura all’estero, tra politica interna e politica estera. Secondo Deng le riforme del meccanismo economico e l’apertura al capitale «occidentale» erano possibili perché il rischio di guerra veniva dall’Unione Sovietica, non dagli Stati Uniti. La Cina doveva però mantenere un profilo basso nella scena politica internazionale, perché la sua «pacifica ascesa» non generasse timori e si garantisse il sostegno estero alla modernizzazione, anche delle forze armate, e allo sviluppo delle forze di produzione.
L’altra e indispensabile condizione delle riforme del sistema economico era la stabilità politica interna. Il Pcc criticava gli «eccessi» della Rivoluzione culturale e abbandonava i metodi tipicamente maoisti della mobilitazione di massa e del capillare controllo totalitario della vita quotidiana, ma né la promozione dell’imprenditoria privata all’interno né l’apertura al capitale estero dovevano mettere in discussione la dittatura del Partito-Stato. Dunque, se compito della politica estera era favorire la modernizzazione interna, i suoi obiettivi fondamentali rimanevano la continuità del regime politico monopartitico, la protezione della forma statuale - in realtà questa in evoluzione rapida ma controllata verso quella del developmental State- e l’integrità nazionale. Si badi che quest’ultima comprendeva anche entità esterne allo Stato cinese: Hong Kong, Taiwan e gli arcipelaghi del Mar cinese.
E in effetti, al contrario del partito sovietico, il Pcc è riuscito a ben gestire la transizione al capitalismo, grazie alla sua gradualità, al controllo dell’apertura e, forse il fattore più importante, in virtù dell’osmosi tra gli interessi carrieristici e affaristici della burocrazia partitico-statale e quelli dei nuovi imprenditori privati, mediati dal guanxi(le buone relazioni), dalla corruzione e dalle imprese economiche dei famigliari. Per la continuità del potere del Pcc è stato senza dubbio decisivo che la transizione si combinasse con la crescita dell’investimento, l’incorporazione nella divisione internazionale delle società transnazionali, le esportazioni e l’assimilazione della tecnologia estera.
Tutto ciò richiedeva però che l’ideologia dominante venisse adattata, in modo da assicurare sia la legittimazione del potere di un partito-Stato a denominazione comunista sia della crescita della disuguaglianza sociale e geografica, del mercato e dell’imprenditoria privata, delle idee che «arricchirsi è glorioso» e che il capitale estero non è un demonio ma un benvenuto.
Ne è risultato un nuovo pasticcio ideologico il cui asse è il nazionalismo, specialmente dopo il massacro di piazza Tiānānmén(giugno 1989) e, in modo solo apparentemente paradossale ma spiegabilissimo, dopo il soggiorno di Deng a Shangai nell’inverno 1990 e il suo tour meridionale nel gennaio-febbraio 1992, opportunità per tessere le lodi delle zone economiche speciali e preludio alla crescita accelerata degli investimenti dall’estero e del boom delle esportazioni.
Socialmente, la legittimazione del Pcc veniva a poggiare sulle opportunità d’arricchimento per i nuovi imprenditori e i funzionari e sulle migliori possibilità occupazionali e condizioni di vita (principalmente nelle campagne negli anni ’80, nonostante la crescita della disuguaglianza) offerte dallo sviluppo dei rapporti mercantili.
Ideologicamente, il Pcc continuava ancora a legittimarsi come partito della Patria, vincitore della guerra di liberazione antigiapponese e campione della riscossa nazionale, ma caratteri e riferimenti sociali del patriottismo necessitavano d’essere ridefiniti, in modo che potessero adattarsi alle nuove condizioni della transizione, e così è stato. Se lo sviluppo delle forze di produzione è il primo dei compiti patriottici e se questo comporta l’integrazione nell’economia mondiale capitalistica e la riabilitazione dell’imprenditorialità privata, patrioti sono allora anche quei capitalisti e quei professionisti che contribuiscono allo sviluppo dell’economia nazionale (capitalistica) e sono leali al Partito-Stato: è la formula delle «tre rappresentatività» di Jiang Zemin («le forze produttive più avanzate, la cultura più avanzata e gli interessi fondamentali del popolo cinese»), già nel pensiero di Deng. Questa è un’ideologia della modernizzazione, adatta al developmental statecapitalistico perché permette d’integrare politicamente strati della nuova borghesia capitalistica privata e professionale nel sistema di potere del Pcc e di giustificare l’imprenditorialismo «sviluppista», anche dei funzionari dei governi locali e dei managers delle imprese statali.
Più di un’intera generazione cinese è cresciuta ed è stata educata in questo spirito patriottico che rimodella le formule nazionalistiche stalino-maoiste al fine della legittimazione dell’ascesa del nuovo imperialismo cinese, integrato nell’economia mondiale capitalistica e nelle sue istituzioni internazionali.
Il nazionalismo in questione non è quello della resistenza all’imperialismo con la promessa della costruzione di una società egualitaria e collettivistica ma, sottolineo, quello di uno Stato che aspira a vedersi riconosciuto uno status di grande potenza: è questo il senso della meta di un ordine mondiale multipolare. Sorvolando sul fatto - non da poco - che la categoria in questione è un’astrazione astorica e che l’economia mondiale non ha mai cessato d’avere più centri - poli se si vuole - seppur tra loro ineguali, non per tutti i teorici accademici quella multipolare è una struttura stabile e pacifica delle relazioni internazionali. E infatti, porsi la multipolarità come obiettivo politico comporta lo sviluppo dell’apparato militare, dello spirito marziale e della suscettibilità a ciò che può apparire un’offesa, anche lieve, all’orgoglio nazionale. Per cui, nel divenire di questo processo gli attori esteri percepiranno l’emergere di una potenziale minaccia.
È per questo motivo che Deng invitava alla pazienza e al basso profilo nell’arena politica internazionale e che tra gli intellettuali-funzionari della Rpc le fortune del multipolarismo sono state alterne. Ad esempio, Lynch cita il «curioso caso» di Ye Zicheng dell’Università di Pechino, che nel 2004 pubblicò un saggio, «Riflessioni sulla storia e la teoria della strategia di multipolarizzazione della Cina»14, quasi completamente dedicato a esaltarla. Le ultime pagine sono però in contraddizione con il resto del saggio perché l’autore conclude argomentando che: il multipolarismo è un concetto cinico, che «rappresenta la tendenza delle grandi potenze occidentali a dominare la politica internazionale»; non può esprimere la complessità risultante dal costante cambiamento del mondo nel processo di globalizzazione; implica il conflitto tra le grandi potenze e, in particolare, la divisione del Terzo mondo in sfere d’influenza, inaccettabile per la Cina; i discorsi sul multipolarismo sono incompatibili con altri aspetti della «grande strategia» cinese». Queste considerazioni sono a mio parere abbastanza condivisibili, ma il fatto è, commenta Lynch, che l’autore deve aver cambiato la conclusione per adeguarsi all’ultimo momento alla linea di Hu Jintao: e riporta altri articoli dello stesso periodo dedicati alla critica della multipolarizzazione.
8. La Cina prima! Unapolitica esteranazionalista e pseudopopulista al fine della legittimazione interna
La centralità del nazionalismo nell’ideologia del regime ha implicato che i governi tollerassero la formazione di una sfera dell’opinione pubblica nazionalista relativamente indipendente, sia sulla carta stampata e ancor più in internet. Tuttavia, i toni di questo nazionalismo dal basso e le sue aspettative circa l’azione e lo status della Rpc negli affari internazionali possono andare oltre quelli ufficiali, contribuendo a rafforzare la percezione della «minaccia cinese»: motivo per cui, all’occasione, anche questo spazio di supporto all’ufficial-nazionalismo viene censurato.
È stato però notato che dal 2008, sono aumentate le pubblicazioni decisamente nazionaliste, che affermano la crisi in atto dell’egemonismo statunitense quindi l’opportunità di una politica estera cinese più aggressiva, anche da parte di ex ufficiali dell’Esercito popolare, che servono nelle accademie militari e hanno ampio spazio nei mass media. Esempi spesso citati sono i libri dei colonnelli Dai Xu (dell’aereonautica) e Liu Mingfu, e i commenti degli ammiragli Luo Yuan eZhang Zhaozhong.
Nel suo libro Il sogno cinese, Liu Mingfu afferma con forza che la Cina si trova in un periodo d’opportunità strategica per ascendere alla posizione di leader mondiale e che le è indispensabile una visione ambiziosa: «se la Cina del XXI secolo non diventerà la prima nazione al mondo, se non diventerà il Paese guida del mondo, il più forte del mondo, allora rimarrà indietro nella competizione per la grandezza». Il punto di vista è decisamente «realista», nel senso della teoria delle relazioni internazionali:
«lo sviluppo e il progresso globali sono mossi principalmente dalla competizione tra le nazioni. Proprio come lo sviluppo di un paese è guidato dalla competizione tra classi, organizzazioni e strati sociali al suo interno, la competizione tra le nazioni è ciò che guida lo sviluppo globale e ciò che spinge le grandi nazioni a crescere».
E perché non si diano dubbi su quel che la grandezza della Cina richiede per l’organizzazione interna del potere, Liu Mingfu precisa che
«la Cina non tenterà di costruire una democrazia utopistica né rimarrà intrappolata nella fossa di un grande mito democratico. Si avvierà su una strada democratica con caratteristiche cinesi, adattandosi alle realtà e alle regole della Cina, frenando efficacemente i danni della corruzione all'ascesa della Cina».
La campagna contro la corruzione - la più incisiva è stata lanciata proprio da Xi Jinping - è una realtà ma è anche la parola d’ordine con cui il regime protegge sé stesso - scaricando le responsabilità sistemiche su singoli individui - ed evade la domanda di libertà politica e sindacale che potrebbe destabilizzarlo. L’ammiraglio continua affermando che
«tra le molte crisi che possono causare il declino e il crollo di un Paese e del suo popolo, la più pericolosa è la crisi dell'élite, e la più letale è la crisi dell'élite politica. Solo con l'ascesa dell’élite la Cina può realizzare l'ascesa al potere [mondiale]. Tuttavia, un élite degenerata non è in grado di guidare e sostenere l'ascesa di una grande potenza. Questa è una lezione che abbiamo imparato dall'ascesa e dalla caduta dell'Unione Sovietica»15.
Queste pubblicazioni sono indicative di stati d’animo e idee che esistono negli apparati. Tuttavia, è sbagliato assumere che i libri pubblicati e le esternazioni televisive o in rete di alcuni intellettuali-funzionari «falchi» rappresentino l’opinione della maggioranza dei militari o che influenzino i dirigenti alla guida della politica estera. Interpretare la politica estera cinese alla luce di posizioni come quella diLiu Mingfu è fuorviante come assumere l’eurasianismo mistico e fascisteggiante di Aleksandr Dugin quale guida per comprendere quella di Putin. Le questioni in gioco sono altre. Una è indicata da Yawei Liu e Justine Zheng Ren:
«il problema è che la leadership civile oggi semplicemente non è in grado di impedire all'élite militare di discutere apertamente dell'interesse strategico della Cina. Oltre ai cambiamenti strutturali che impediscono alla leadership civile di farlo, il complicato contesto di sicurezza che la Cina sta affrontando aumenta anche la domanda di dibattito strategico. Da questa prospettiva, la Cina è entrata in una nuova era in cui le questioni di sicurezza nazionale devono essere discusse apertamente»16.
E per quanto i due studiosi affermino di non essere in grado di stabilire quanto le dichiarazioni di alti ufficiali dell’Esercito popolare di liberazione influenzino direttamente le decisioni del vertice politico, notano anche che i politici non possono controllare tutte le decisioni operative militari - ad esempio quelle che hanno portato ad alcuni incidenti con unità statunitensi - e che la percezione da parte dei governi esteri di una crescente influenza dei militari nella politica estera della Rpc può essere una profezia che si autorealizza.
Non è però detto che l’espressione di posizioni minacciose rappresenti una maggiore indipendenza delle forze armate dal Pcc. Dopotutto, gli intellettuali-funzionari più rumorosi sono parte integrante dell’apparato propagandistico del partito; e la propaganda, sia pur nei termini più nazionalisti, è cosa diversa dalla strategia e dai piani operativi militari.
Ci si può allora chiedere: perché è tollerato il nazionalismo dai toni accessi? Come s’inquadra nell’insieme della politica del partito e del governo?
9. Il rilancio del nazionalismo pseudopopulista di Xi Jinping
Già sul finire degli anni ’90 del secolo scorso le contraddizioni del regime cinese si stavano accumulando in modo pericoloso sia nelle aree rurali, dove in particolare gli agricoltori erano stati spremuti in modo legale e illegale dalle tasse statali e dalle angherie dei funzionari locali; sia nelle città, a causa del processo di «distruzione creativa» della transizione: ridimensionamento delle imprese e della classe operaia formatasi in epoca maoista, da una parte, e dall’altra massiccia immigrazione urbana di lavoratori con hukoururale - quindi sprovvisti d’ogni diritto sociale - la massa della nuovaclasse operaia della Rpc impiegata anche dalle transnazionali estere. Come già detto, sotto Hu Jintao il governo iniziò alcune riforme, importanti quelle fiscali per gli agricoltori, tuttavia la conflittualità crebbe enormemente. Ufficialmente scioperi, dimostrazioni e proteste che coinvolgono più di 100 persone sono definiti «incidenti di massa»: questi crebbero da 8700 nel 1993 a 32 mila nel 1999 e 58 mila nel 2003, fino a circa 87 mila nel 2005, ultimo anno per cui esistono dati del governo centrale. Per gli anni successivi articoli in pubblicazioni legali indicano chiaramente che il numero di questi incidenti continuò ad aumentare almeno fino al 2012: in quell’anno, per esempio, l’Accademia cinese delle scienze sociali dichiarò che avevano raggiunto il livello di oltre 100 mila per anno. Stante la censura e l’autocelebrazione del regime, s’intende quanto sia difficile quantificare le proteste e analizzarne motivi, forme di lotta e risultati: è possibile solo per un numero limitato di casi. Non c’è però dubbio che esista un serio problema per l’«armonia» del regime. Ne sono sintomi anche la concentrazione del potere nelle mani di Xi Jinping, il cui elenco di cariche è degno di un monarca medievale, la campagna contro la corruzione e le parziali riforme dell’assistenza sociale. Queste ultime non sono sufficienti a cambiare il regime d’accumulazione della Rpc e, a loro volta, sono motivo di contraddizioni interne al regime. L’assistenza sociale e le norme ambientali comportano costi per le imprese e per le amministrazioni locali; ridurre la sovrapproduzione implica milioni di licenziamenti; aumentare i tassi d’interesse aumenta l’indebitamento delle imprese; il controllo del credito «ombra» riduce il credito disponibile per le imprese non-statali e i governi locali; la campagna contro la corruzione colpisce gli interessi di singoli funzionari e managers di Stato, senza però eliminarne le ragioni strutturali; il contributo delle esportazioni alla crescita economica si è ridotto, ma l’inerzia dei rapporti tra capitale e lavoro rende assai improbabile che a prenderne il posto sia il consumo dei lavoratori.
Per comprendere l’intensificazione del nazionalismo dall’avvento di Xi Jinping occorre tener conto di questo accumulo di tensioni sociali e dilemmi interni.
È in questo quadro che l’ideologia e il controllo dei contenuti dell’istruzione e della comunicazione diventano più che mai cruciali per la stabilità del regime. Con Xi Jinping è stata lanciata la più grande campagna propagandistica dal tempo della Rivoluzione culturale, al cui centro sono l’auto-celebrazione del regime e del «sogno cineseper rinsaldare la fiducia nella via del «socialismo con caratteristiche cinesi».Si insiste sul valore della civiltà cinese e sulla continuità della storia della Rpc, per non contrapporre il periodo maoista a quello delle riforme e viceversa. Non si tratta di un ritorno al maoismo, peraltro impossibile dopo la transizione, ma dell’intento di sistematizzare e consolidare l’ideologia del regime in un’epoca in cui le contraddizioni rischiano di esplodere. La fraseologia «marxista-leninista» ha il senso di ribadire la lotta al costituzionalismo e al «liberalismo borghese»: la censuraeil controllo dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare di internet, sono stati rafforzati, e nel gennaio 2015 è iniziata una grande campagna di «rettifica» delle idee, dei manuali e del personale insegnante nelle università. Sotto la scorza della fraseologia «marxista-leninista» c’è la polpa dell’idea prettamente borghese della nazione come unità culturale e psicologica. Negando il concetto basilare del materialismo storico marxiano, la politica nazionalista presuppone che non vi sia contrasto tra le classi sociali, unite nella costruzione e nella riscossa della nazione. In definitiva, l’esaltazione della nazionalità si risolve in quella dello Statoe della sua potenza: non è certo una peculiarità cinese, ma nella Rpc questo è tanto più forte perché si tratta di un regime dittatoriale che può equiparare qualsiasi tipo di opposizione politica come anti-nazionale e frutto del complotto straniero. L’attualizzazione selettiva della memoria e dei miti storici è parte integrante del nazionalismo di Stato, strumentale al fine della costruzione del consenso per il Pcc quale partito della nazione cinese.
In questo contesto il Mar cinese ha nel rilancio nazionalistico una posizione speciale: esso evoca l’imperialismo straniero e l’umiliazione del popolo cinese, ma anche i miti dell’antico impero, ed è l’area nella quale si può concretamente affermare la ritrovata potenza dello Stato cinese. Questo non esclude affatto altri obiettivi e interessi - economici, d’apparato e strategici - ma li assorbe, non senza contraddizioni, sotto il segno dominante della riscossa nazionale e e della ritrovata grandezza.
Inoltre, già Paese neocoloniale e oggetto d’aggressioni imperialistiche in epoca moderna, per molti secoli la Cina è stata un grande impero multinazionale. Da questa particolarità, che pur nelle differenze condivide con la Russia, consegue per la Cina un problema nella costruzione dell’identità nazionale e un pericolo per l’integrità statale. Esistono i nazionalismi del Tibet, invaso e colonizzato, e delle minoranze non-han, in particolare uigura nello Xinjang (le province più estese della Rpc); per Hong Kong, Macao e specialmente per Taiwan, la questione nazionale si intreccia con quella dei regimi politici. I nazionalismi tibetano e uiguro sono trattati con una combinazione di repressione e di provvedimenti per lo sviluppo economico che non possono risolvere la gravità delle questioni nazionali.
Per quel che è ora la Cina, la litania sul «secolo dell’umiliazione» e l’«educazione patriottica» sono un atteggiamento ipocrita, che rivendica l’antica tradizione imperiale cinese per mascherare l’imperialismo contemporaneo del capitalismo di Stato.Prima la Cina!potrebbe essere lo slogan di questa politica, speculare all’America first! di Trump. E in questo senso si può dire che, pur con tutte le loro differenze si tratta di due visioni del mondo e di due politiche entrambe pseudopopuliste, perché scaricano all’esterno le contraddizioni interne.
Sicché la tolleranza di un più accesso nazionalismo, la cui essenza è l’anti-americanismo, e l’assertività nel Mar cinese (con il corredo della rievocazione della reale aggressione giapponese e del mito antico-imperiale cinese) svolgono tre funzioni:
- di cemento ideologico per la legittimazione del Partito-Stato, tanto più necessario mentre si riduce il tasso di crescita dell’economia e, con esso, l’efficacia delle misure correttive degli squilibri esistenti;
- di preventiva giustificazione della repressione di movimenti politici e sindacali destabilizzanti, che possono essere bollati come anti-nazionali e strumento di complotti esteri;
- di supporto alla esternalizzazione dei problemi interni attraverso la costruzione di sbocchi esteri per la sovrapproduzione e per gli investimenti di capitale.
In altri termini: che posizioni fortemente nazionaliste - anche con toni più alti di quelli della retorica ufficiale - possano esprimersi nella Rpc con libri, articoli e presenze televisive per un pubblico di massa rientra nel quadro della propagandarivolta all’interno - e ai simpatizzanti esteri - per consolidare il consenso al «sogno cinese» del Pcc.
Tuttavia, come si può cogliere dalle citazioni dal libro di Liu Mingfu, alimentare l’ambizione dell’ascesa a prima potenza mondiale comporta anche un rischio: che la frustrazione di tale ambizione si ritorca contro l’élite politica alla guida del regime, non solo per le reazioni esterne ma per la pressione sull’economia e sulla società che questo comporta.
10. L’impossibile egemoniadella Rpc
Tra la geoeconomia e la geopolitica si danno rapporti contraddittori e complessi: le relazioni economiche temperano i contrasti geopolitici, ma l’equilibrismo tra i diversi campi è difficile, soggetto a oscillazioni, in pericolo che per qualche incidente possa sfuggire al controllo.
Intanto alcuni punti paiono sicuri.
Il primo è che un quadro complesso come quello del Mar cinese - che specialmente nella sua porzione meridionale presenta contraddizioni tra interessi economici e politici e una scena politica strutturata su più livelli - non può essere interpretato mediante gli schemi della guerra fredda o di una dinamica di crisi e di sostituzione dell’egemonia. Non può neanche essere adeguatamente compreso prescindendo dalla politica interna, dall’interdipendenza economica e dalle reazioni nazionaliste dei Paesi della regione, a loro volta molto diversi.
In secondo luogo, se egemonia non significa solo la mera affermazione della potenza mediante coercizione militare ed economica, ma capacità di costruire consenso intorno alla forza, allora la Cina è molto lontana dal sostituire la propria egemonia a quella statunitense nella regione del Mar cinese meridionale. Malgrado rivendicazioni e azioni della Rpc ne compromettano alcuni interessi economici e ne offendano la dignità nazionale (in particolare delle Filippine e del Vietnam), governi e capitalisti dei Paesi dell’Asean hanno necessità di mantenere le loro importanti relazioni economiche con la Cina (oltre che con gli Stati Uniti, il Giappone e gli altri Paesi a capitalismo avanzato).
Non deve però trarre in inganno il fatto che le dichiarazioni collettivedell’Asean (distinte da quelle di molti dei suoi singoli membri) su incidenti e controversie marittime siano moderate ed equidistanti tra le potenze maggiori, che esprimano la preoccupazione che gli incidenti tra unità cinesi e statunitensi possano sfuggire al controllo delle due potenze maggiori o che, in alcuni casi, l’associazione abbia addirittura taciuto, conseguenza del ruolo svolto dalla Cambogia e della regola dell’unanimità. È un fatto che tutti i Paesi Asean non hanno alcun interesse al deterioramento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti e che uno dei ruoli storici dell’associazione è quello di fungere da cuscinetto tra le due potenze. Tuttavia, ora più che mai - più che nei primi vent’anni dell’ascesa dell’economia della Rpc - presupposti impliciti di questo atteggiamento e dell’autonomia dell’Asean sono la continuità delle relazioni economiche con gli Stati Uniti e della presenza militare statunitense nella regione per frenare le ambizioni geopolitiche della Rpc, nello stesso tempo sforzandosi di gestire le controversie e le crisi con il potente vicino in modo che non degenerino. Pur in assenza di formale alleanza, gli altri Stati della regione temono molto più il disimpegno che un rinnovato impegno degli Stati Uniti nel Mediterraneo asiatico.
Una cartina di tornasole delle capacità egemoniche della Rpc può essere la posizione nei diversi Paesi delle minoranze etniche cinesi, antiche o di recente immigrazione che, spesso economicamente importanti, oscilla tra l’integrazione e il rigetto. Ed è interessante che se i cinesi autoctoni possono fungere da mediatori nei confronti degli investimenti dalla Rpc, essi possono anche fare le spese dell’ostilità conseguente dall’«invasione» di merci e immigrati dalla Cina o essere direttamente danneggiati nei loro piccoli commerci dalle esportazioni delle imprese statali dalla madrepatria.
L’indubbia crescita della potenza militare della Rpc e l’attrattiva per i capitali esteri delle possibilità d’investimento che essa offre non avanzano insieme al consenso politico, né pare esistano le condizioni perché questo possa essere conseguito in tutti i Paesi della regione, certamente non in quelli più interessati alle controversie marittime, economicamente più sviluppati o nei quali il confronto politico interno è più libero. La politica estera assertiva da grande potenza nel Mar cinese genera tensioni tra la Rpc e diversi Stati della regione, fatto in contrasto con la costruzione dell’egemonia cinese: questo può spiegare le oscillazioni della politica della Rpc nella regione.
In terzo luogo, la Cina non può realmente costituire un modello socioeconomico per altri Paesi. Innanzitutto perché il «miracolo cinese» dipende da circostanze e presupposti peculiari che non possono darsi di nuovo tutti insieme. E poi perché il risultato di un altro «miracolo economico» del genere non potrebbe che aumentare la competizione sul mercato mondiale e aggravare sovrapproduzione. Esso presuppone la riproduzione della logica detta neoliberista, in particolare dell’espansione della domanda internazionale alimentata dal credito, con conseguente creazione di fragilità finanziarie e delle condizioni per una crisi economica internazionale.
In quarto luogo, l’antiamericanismo e la politica estera nazionalista e assertiva sono in contraddizione con la necessità della Rpc di mantenere buone relazioni economiche con gli Stati Uniti e gli altri Paesi a capitalismo avanzato, che non possono essere sostituite da quelle con la Russia, i Paesi dell’Asia centrale o del sud-est asiatico.
In quinto luogo, il regime cinese di dittatura del Partito-Stato non può costituire un modello politico per i popoli della regione e del mondo, ma solo per le élites autoritarie al potere.
Obiettivamente, la storia dell’ascesa della Cina nell’economia mondiale è la dimostrazione che non esiste un modello unico di «rivoluzione borghese» o di modernizzazione e che le vie dello sviluppo dei rapporti sociali capitalistici sono numerose, ora includendo anche la transizione dallo pseudosocialismo totalitario al capitalismo. Tuttavia, la compiuta transizione cinese dimostra ancora una volta che che lo sviluppo del capitalismo non è affatto sinonimo di democrazia né di maggiori diritti d’organizzazione indipendente, sindacale e politica, per i lavoratori.
D’altra parte, la compiuta transizione capitalistica della Cina ha creato nuove contraddizioni interne e le ha direttamente connesse (in tutti i sensi) a quelle dell’arena mondiale, creando alcune condizioni perché, col tempo, si superino le divisioni geografiche e settoriali tra i diversi settori della società cinese e, in particolare, tra i lavoratori. L’enfasi sul nazionalismo e sul «sogno cinese» d’ascesa nel potere mondiale mantenendo la dittatura del Partito nello «Stato sviluppista» capitalistico possono interpretarsi come sintomi d’una insicurezza di fondo per la stabilità socioeconomica e politica interne.
L’incubo più grande dell’élite di Pechino non è la potenza militare statunitense ma il «risveglio» del proprio popolo. E se e quando questo accadrà, sarà interessante vedere quale direzione assumerà una rivolta destinata a scontrarsi col potere di un Partito-Stato che si dice comunista ma che sarà stata generata da rapporti sociali capitalistici.
Note
1) In interventi sparsi negli anni ’90 del secolo scorso, ma anche Merce-natura ed ecosocialismo, Massari editore, Roma, 1993 ha un approccio che evidenzia le differenze tra diversi regimi d’accumulazione ed è incompatibile col globalismo; e poi con Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006 e Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari editore, Bolsena 2012.
2) Il caso di queste economie di guerra è interessante anche sul piano teorico: pur in una situazione estrema e di forte regolazione, non furono statalizzate né pianificate ed esistevano incoerenze e contrasti non solo tra le agenzie statali e i gruppi industriali privati ma tra gli stessi organi di controllo statali, e tutto ciò in modi diversi nei singoli Stati, nonostante la guerra a tutti imponesse lo stesso obiettivo finale - la vittoria - da conseguire nel più breve tempo possibile. Si veda Alan S. Milward, Guerra, economia e società, 1939-1945, Etas, Milano 1983.
Nel caso sovietico, la statalizzazione non coincideva con la pianificazione intesa come calcolo razionale della distribuzione delle risorse sulla base dei bisogni sociali né con un processo gestito con mezzi essenzialmente economici. Molto più importante era la capacità coercitiva degli apparati statali, sicché la pianificazione si risolveva sostanzialmente in un processo di mobilitazione e drenaggio delle risorse sociali, concentrate nella realizzazione di alcuni obiettivi quali che ne fossero i costi economici e umani: un meccanismo relativamente efficace (dal punto di vista degli obiettivi del potere) ma non efficiente. In questo senso, l’economia sovietica era già in gran parte militarizzata prima dell’aggressione nazista; il primo impatto di quest’ultima fu di aggravare il problema ma, d’altra parte, i piani e le linee produttive predisposti a livello d’impresa per la riconversione alla produzione bellica nell’eventualità e le capacità di mobilitazione e concentrazione delle risorse permisero di assorbire il colpo, a un costo immane.
Sull’argomento sono particolarmente interessanti i lavori di Mark Harrison: Soviet planning in peace and war, 1938-1945, Cambridge University Press, Cambridge 1985;«The USSR and total war: why didn’t the Soviet economy collapse in 1942?», in Roger Chickering-Stig Förster-Bernd Greiner (a cura di), A World at total war. Global conflict and the politics of destruction, 1937-1945, Cambridge University Press, Cambridge 2004; e a cura diHarrison, Guns and rubles. The defense industry in the stalinist state, Yale University Press, New Haven 2008.
3) Mi limito a segnalare: Eric Heginbotham et al., The U.S.-China military scorecard. Forces, geography, and the evolving balance of power, 1996–2017, Rand corporation, Santa Monica, 2015, che mi risulta essere il più dettagliato e ampio (430 pagine) confronto dell’evoluzione delle forze della Rpc e degli Stati Uniti, articolato in dieci campi, applicati a modelli che simulano i risultati in caso di conflitto per Taiwan e le isole Spratly: circa le possibilità d’attacco alle basi militari, della guerra marina e sottomarina, della deterrenza nucleare, del cyberwarfare e dell’utilizzo militare dello spazio. Tuttavia, questo testo non prende in considerazione gli altri Stati che potrebbero essere coinvolti in un conflitto con la Cina né un cambiamento della strategia statunitense, basandosi solo sulle assai costose piattaforme necessarie all’air-sea battle; altri, invece, considerano anche le meno onerose capacità d’interdizione d’area sviluppate dagli Stati del Mar cinese a imitazione della Rpc (capacità che nel caso della Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Vietnam non sono affatto trascurabili) e propongono una strategia di active denialbasata innanzitutto sul rafforzamento di queste, sull’uso di mezzi coercitivi non-militari e, in caso di conflitto, sull’intervento in combattimento di forze statunitensi solo in un secondo momento, in modo da graduare l’escalation. Tra questi sono recenti: Stephen Biddle-Ivan Oelrich «Future warfare in the Western Pacific. Chinese antiaccess/area denial, U.S. Air sea battle, and command of the commons in East Asia», in International security, vol. 40, n. 1, 2016; Michael Beckley, « The emerging military balance in East Asia. How China’s neighbors can check Chinese naval expansion», in International security, vol. 42, n. 2, 2017. Non recente, ma utile per la storia dell’apparato militare e della politica della difesa della Rpc dalla sua fondazione, basato quasi esclusivamente su documenti cinesi (con buone avvertenze sul loro uso) è Imagined enemies. China prepares for uncertain war, di John Wilson Lewis e Xue Litai,Stanford University Press, Stanford 2006, autori anche diChina builds the Bomb,Stanford University press, Stanford 1988, per quanto mi risulta l’unico libro sulla storia del programma nucleare militare cinese.
4) International institute for strategic studies, The military balance 2017, Londra 2017, capitoli «Comparative defence statistics» e «China: defence politics and economics».
9) Alice H. Amsden, The rise of “the rest”. Challenges to the West from late-industrializing economies, Oxford University Press, Oxford 2001.
11) «Il potere, cioè di modellare e modificare le struttura produttive, della conoscenza, del credito, della sicurezza all'interno delle quali gli altri sono costretti a vivere se vogliono partecipare all’economia mondiale di mercato»,Susan Strange, Capitalismo d’azzardo, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 71. Noto che il presunto declino dell’egemonia statunitense copre oramai un arco di tempo che è oramai quasi due volte più lungo di quello della supposta indiscussa egemonia, dal 1945 al 1970 circa.
Forse il problema è a monte, nel modo in cui è concettualizzata l’egemonia. Nell’economia mondiale - e in particolare per quel che riguarda il sistema monetario internazionale - l’egemonia (del dollaro) e la sua crisi sono per lo più concettualizzate - anche a sinistra - in termini della capacità di uno Stato d’offrire «beni pubblici» (la sicurezza, la stabilità finanziaria) e di supplire ai «fallimenti del mercato», cioè come necessaria deviazione dal modello ideale di riferimento – almeno implicito - che è il mercato ideale neoclassico. Si veda Andrew Walter, Wordl power and wordl money. The role of hegemony and international monetary order, Harvester Wheatsheaf, Hemel Hempstead, 1993.
13)Daniel C. Lynch, China’s futures. PRC elites debate economics, politics, and foreign policy, Stanford University Press, Stanford 2015. Lynch utilizza varie fonti cinesi, tra cui diverse pubblicazioni nèibù, di speciale interesse perché a circolazione ristretta negli apparati statali, e cita i saggi che meglio rendono l’idea della discussione nell’élitesulle questioni dell’economia, della politica interna e della comunicazione, delle relazioni internazionali. Tra i risultati più interessanti di questa ricerca sono il contrasto, al limite dell’incomunicabilità, tra l’orientamento prevalente tra gli economisti - molti dei quali convinti che senza cambiamenti fondamentali la Rpc può andare incontro a una grave crisi interna - e quello della maggior parte degli specialisti di politica estera, caratterizzati da un approccio «realista» (molto tradizionale nel quadro della teorizzazione delle relazioni internazionali) ma anche dalla convinzione quasi mistica che nulla possa fermare l’ascesa della Cina.
14)Daniel C. Lynch, China’s futures. PRC elites debate economics, politics, and foreign policy, op. cit., p. 162, cita dall’articolo in Guoji wenti luntan, 1/2004, pp. 4-23.
15) Tradotto dal cinese il titolo del libro di Liu Mingfu è Il sogno cinese, Youyi chuban gongshi, Pechino 2010, pubblicato in inglese col titolo The China dream. Great power thinking and strategic posture in the post-American era, CN Times books, Pechino 2015.
16) Liu, Yawei-Ren, Justine Zheng, «An emerging consensus on the US threat. The United States according to PLA officers», in Journal of contemporary China, vol. 23, n. 86, 2014, p. 272
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