VERSO LA GUERRA FREDDA NEL MAR CINESE MERIDIONALE?
di Michele Nobile
1. 2008-2011: cresce la tensione nel Mar cinese meridionale
2. 2012-2018: l’offensiva marittima della Rpc
3. 2016: il giudizio del tribunale d’arbitrato internazionale, sfavorevole per la Rpc
4. La reazione cinese al giudizio d’arbitrato
5. Estate del 2018: la fragilità di una possibile terza fase delle relazioni fra la Cina e i Paesi dell’Asean
1. 2008-2011: cresce la tensione nel Mar cinese meridionale
A partire dall’inizio della Grande recessione nel 2008 e dai primi mesi del 2009 la politica marittima della Rpc nella regione del Mar cinese meridionale è stata caratterizzata da un atteggiamento fortemente nazionalista, dall’intensificazione dei controlli e della repressione di attività che considera illegali nelle acque di cui rivendica la sovranità, da misure amministrative e dichiarazioni politiche considerate provocatorie dalla maggior parte dei governi della regione, da azioni coercitive e confronti fisici a rischio di degenerare in scontri armati con le Filippine e il Vietnam. Obiettivamente un insieme di fatti in contrasto con l’idea di costruire un «mondo armonioso» e con la proposta di una nuova «via della seta» marittima, che dovrebbe concretizzarsi in iniziative di «sviluppo congiunto»; insieme allo sviluppo delle capacità di interdizione d’area ciò ha generato l’idea che la Rpc punti a controllare stock e flussi del Mar cinese. La preoccupazione si è estesa a tutta l’area del Pacifico, dall’Indonesia fino all’India. I primi effetti politici si manifestarono nel 2009 e, poco dopo, nella «svolta» verso l’Asia e il Pacifico di Obama.
Ricostruendo la successione degli eventi si possono distinguere due periodi: il primo coincide con gli ultimi anni della presidenza di Hu Jintao (Segretario generale del Pcc dal 2002 al 2012 e Presidente della Rpc dal 2003 al 2013), e del primo ministro Wen Jiabao; il secondo corrisponde ai primi anni della presidenza di Xi Jinping (Segretario generale del Pcc dal novembre 2012 e Presidente della Rpc dal marzo 2013; ma già vice Presidente dal 2008) e del primo ministro Li Keqiang. Volendo essere ottimisti è possibile che nell’estate del 2018 sia iniziato un terzo periodo di conciliazione tra Rpc e Asean, dagli esiti assai incerti.
Nella seconda metà del gennaio 2007 il IV plenum del Comitato centrale del Partito comunista vietnamita adottò una risoluzione sulla «strategia marittima» secondo cui le industrie legate al mare, in particolare petrolifera e ittica, dovrebbero costituire il 55% del Pil e il 50-60% delle esportazioni entro il 2020. Conseguentemente, il Vietnam aumentò le esplorazioni petrolifere in blocchi marittimi rivendicati come propri anche dalla Rpc, fatto inevitabile considerando l’ampiezza delle pretese cinesi. L’anno seguente terminò e non venne rinnovato l’accordo per progetti petroliferi congiunti tra Filippine, Rpc e Vietnam sottoscritto nel 2005 (Joint marine seismic undertaking).
Durante un’udienza davanti al Comitato del Senato degli Stati Uniti nel luglio 2009, un funzionario d’alto grado del Dipartimento di Stato affermò che dall’estate del 2007 la Rpc stava premendo sulle compagnie petrolifere estere perché si ritirassero dai progetti vietnamiti, pena conseguenze per i loro investimenti in Cina. In effetti, nel giugno 2007 il ministro degli esteri della Rpc dichiarò illegale il progetto della British petroleum nel bacino Nam Con Son - che nel 2002 valeva 1,3 miliardi di dollari - in quanto usurpazione della sovranità della cinese nell’area; pressioni analoghe vennero fatte sulla ExxonMobil, la ConocoPhillips e società dell’India1. Anche la società statale russa Gazprom ha da tempo accordi di cooperazione e joint venture con PetroVietnam, il grande gruppo dell’energia di proprietà del governo vietnamita: un esempio sud-asiatico della competizione tra interessi russi e cinesi2.
Negli anni successivi navi della marina cinese tagliarono più volte i lunghi cavi dei sonar trasportati da navi vietnamite al fine dell’esplorazione delle risorse del sottosuolo marino; nei primi mesi del 2011 anche le Filippine denunciarono cinque simili tentativi di sabotaggio da parte d’imbarcazioni della Rpc. E, come sempre, centinaia di pescatori furono minacciati, detenuti e in alcuni casi uccisi, dalle marine della Rpc, delle Filippine, dell’Indonesia e del Vietnam, sempre con l’accusa d’aver svolto il loro lavoro in zone economiche esclusive (Eez) diverse da quelle del loro Stato. Si deve tener conto che nel Mar cinese meridionale opera il maggior numero di battelli da pesca del mondo e che le riserve naturali di pesce sono compromesse: l’industria ittica regionale è in una condizione di sovrapproduzione e di concorrenza distruttiva. È anche per questo che per tutti gli Stati della regione i problemi economici e sociali (nella sola Cina circa 30 milioni di posti di lavoro dipendono dalla filiera dell’industria ittica) si intrecciano con le dispute territoriali e il nazionalismo. Il fatto che da almeno vent’anni la Rpc istituisca unilateralmente un divieto stagionale di pesca e che abbia più volte introdotto divieti di pesca per imbarcazioni straniere sulla maggior parte del Mar cinese meridionale è il sintomo di quanto sia difficile, se non impossibile, applicare queste misure che, comunque, hanno l’effetto di aumentare gli incidenti e la tensione internazionale. Bisognerebbe ideare soluzioni concordate e multilaterali, miranti a conservare l’ecosistema marino provvedendo nello stesso tempo a riconvertire l’eccesso di lavoratori nel settore ittico. Invece dal 2009 i pattugliamenti repressivi delle guardie costiere, prima fra tutte quella della Rpc, sono aumentati notevolmente, con le conseguenze che si possono immaginare per i pescatori.
Attivismo politico e maggior frequenza degli incidenti sono in parte conseguenti dal fatto che la Commissione sui limiti della piattaforma continentale, incaricata dell’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti marittimi (Unclos), aveva stabilito il 13 maggio 2009 come data ultima per la presentazione delle domande territoriali da parte degli Stati che si affacciano sul Mar cinese meridionale. In vista di questa scadenza, a marzo il parlamento filippino approvò la legge che definisce la linea di base dell’arcipelago (un lavoro iniziato due anni prima), suscitando la protesta della Rpc in quanto comprendente isole che pretende essere sotto la sua «sovranità e giurisdizione». Il sei maggio Malesia e Vietnam presentarono insieme domanda per una parte della piattaforma continentale entro le 200 miglia nautiche e il giorno dopo il Vietnam presentò domanda per un’area a nord della prima: le Filippine contestarono le richieste affermando che le zone economiche esclusive (Eez) si sovrapponevano alle proprie (il che non pare, se le mappe delle domande di Malesia e Vietnam includevano le 200 miglia nautiche calcolate dalla linea base dell’arcipelago filippino).
Tuttavia, non furono queste le iniziative diplomatiche che fecero notizia. A fare il giro del mondo fu invece la nota verbale della Rpc del sette maggio 2009. Per la prima volta la Cina presentò ufficialmente alle Nazioni Unite una mappa con nove trattini che delimitano un’area equivalente all’80% o al 90% del Mar cinese meridionale sulla quale afferma la propria sovranità. Questa pretesa si sovrappone quasi completamente alle Eez del Brunei, delle Filippine e della Malesia orientale, dimezza la Eez del Vietnam, interseca parte di quella dell’Indonesia. E tra marzo e maggio del 2009 navi e aerei della Rpc svolsero manovre intimidatorie nei confronti di navi della U. S. Navy (Bowditch, Impeccable, Victorious); altri incidenti simili avvennero nel luglio-novembre 2010. Nel gennaio 2010 il governo cinese reagì in modo insolitamente duro contro la vendita di armi a Taiwan - operazione di routine - minacciando per la prima volta sanzioni contro le società statunitensi, e nei confronti dell’incontro tra il Presidente americano e il Dalai Lama.
I fatti sopra indicati e in particolare la mappa con i nove trattini sono spesso presentati come se delineassero una situazione qualitativamente nuova, una svolta della Rpc in direzione dell’aggressiva affermazione del proprio potere e delle proprie rivendicazioni territoriali nel Mar cinese, il sintomo dell’emergere di una volontà d’egemonia nella regione, pericolosamente destinata a scontrarsi con quella degli Stati Uniti.
Questa interpretazione enfatizza le azioni cinesi ma non le colloca adeguatamente nel contesto.
Indubbiamente, la marina cinese ha dimostrato d’aver molto ampliato le proprie capacità operative, aeronavali e anfibie: ma per un colosso dell’industria mondiale dalle disponibilità finanziarie molto ampie sarebbe ben strano il caso contrario. La crescita delle capacità militari non corrisponde automaticamente alla messa in atto di una minaccia reale.
Come in passato, stante la loro superiorità qualitativa e quantitativa relativamente a quelle dei Paesi vicini, tra il 2007 e la metà del 2012 le forze della guardia costiera, paramilitari e della marina militare della Prc hanno avuto l’impatto coercitivo maggiore nei controlli nel Mar cinese meridionale. Tuttavia, questo accadde allora in un quadro in cui anche gli altri Stati intensificavano le loro operazioni nelle industrie del petrolio e della pesca, affermavano con visite d’alto livello la loro sovranità sulle isole occupate, aumentavano i pattugliamenti marini e aerei. Ciò configura una situazione diversa da quella tra la fine del XX e il primo decennio del XXI secolo, ma che non può ricondursi alla sola iniziativa della Rpc: la tensione crebbe a causa di un impulso da più lati. Ciò vale anche per la famigerata mappa con la linea dei nove trattini: entro maggio 2009 tutti gli Stati dovevano presentare le loro posizioni e informazioni e la Rpc non fece altro che riaffermare la sua posizione tradizionale. Questa volta anche con un’ufficiale rappresentazione cartografica, però ufficiosamente nota almeno dal 1947 perché pubblicata dal governo del Kuomintang (con 11 linee; ma la prima versione non ufficiale risale al 1914)3. La vera svolta sarebbe stata la rinuncia da parte della Rpc a rivendicare la sovranità sulle isole del Mar cinese e sulle acque ad esse adiacenti. È però vero che la forza coercitiva maggiore fu esercitata dalla Rpc, come si vede dall’impatto della repressione dei pescatori stranieri nelle acque che considera proprie.
Un discorso simile può farsi per the pivot to Asiastatunitense. Questo non mette in discussione la linea «una sola Cina», che risale a Nixon: riconoscere diplomaticamente soltanto la Rpc ma, nello stesso tempo, garantire l’indipendenza di Taiwan, anche con forniture militari. Politica ambigua, soggetta a sporadiche crisi ma che da sempre la Rpc accetta, pur protestando ogni qual volta sembra esserci un implicito riconoscimento diplomatico di Taiwan. La svolta di Obama non costituì l’«invasione» di un’area geopolitica sotto il controllo della Rpc - quale era l’Europa centro-orientale per l’Unione Sovietica - o sotto la sua l’influenza dominante, quale può essere considerata l’Asia centrale per la Russia di oggi, se si sottovaluta la crescente influenza cinese, in competizione con la russa.
Al contrario, la minaccia potenziale percepita dalla maggior parte dei governi nell’arco che va dal Giappone all’India è la possibilità che, forte dello sviluppo delle capacità militari e finanziarie, la Rpc metta in atto una variante asiatica della dottrina Monroe. Da questo punto di vista la svolta verso l’Asia di Obama fu un modo per aggiornare relazioni e presenza degli Stati Uniti in un’area da tempo relativamente trascurata, recentemente anche a causa della «diversione» mediorientale della «guerra al terrorismo».
Quanto agli incidenti marini e aerei tra unità della U.S. Navy e della Rpc, essi sono conseguenza del fatto, in sé non una novità, che Cina e Stati Uniti interpretano in modo differente il «passaggio inoffensivo» (innocent passage) di navi, aerei e sommergibili nelle acque del mare territoriale e della Eez. A determinate condizioni il «passaggio inoffensivo» è un diritto ammesso dalla Unclos, come anche le «libertà di navigazione e di sorvolo, di posa in opera di condotte e cavi sottomarini» nella zona economica esclusiva4. Per gli Stati Uniti la libertà di navigazione è intoccabile; la Rpc tende invece a limitarla in quella che ritiene essere la propria Eez, con ciò entrando in contrasto anche con altri Stati come l’India e il Vietnam, che più volte hanno fatto dichiarazioni congiunte affermando la libertà della navigazione e dell’accesso alle risorse del Mar cinese meridionale, in cui hanno progetti petroliferi in collaborazione. Lo sviluppo quantitativo e qualitativo della flotta cinese è una condizione che rende possibili più frequenti incidenti - per lo più in forma di manovre aggressive - tra forze navali cinesi e statunitensi nelle acque del Mar cinese: marzo e aprile 2001 (collisione tra un aereo cinese e un Ep3 di sorveglianza elettronica statunitense), settembre 2002, marzo e maggio 2009 (coinvolti navi e aerei cinesi e i vascelli di sorveglianza statunitensi Impeccablee Victorious); luglio e dicembre 2013 (rischio di collisione con l’incrociatore Cowpens), il 19 agosto 2014, il 17 maggio 2016 (con un aereo di sorveglianza elettronica Ep-3); dicembre 2016 (un drone sottomarino statunitense prelevato e poi restituito dai cinesi) e infine, per quel che mi risulta, il nove febbraio 2017 (quando al largo di Scarborough Shoal un aereo di sorveglianza elettronica cineseKJ-200 si è avvicinato fino a 304 metri al «collega» statunitense P-3C); nel luglio 2011 e giugno 2012 si verificarono incidenti anche con navi militari dell’India5. Più gravi lo scontro – senza vittime - tra navi della Corea del Sud e del Nord al largo dell’isola Daecheong nel novembre 2009 e le azioni della Corea del Nord nel marzo e nel novembre 2010: nel primo caso venne attaccata una nave della marina sud-coreana, causando una dozzina di morti; nel secondo caso, dopo un’esercitazione militare sud-coreana, venne bombardata l’isola di Yeonpyeong, causando morti e feriti.
Tuttavia, non vennero mai meno il dialogo e la cooperazione internazionale tra Stati Uniti e Cina, necessari anche per trattare la questione del programma nucleare della Corea del Nord, problematico anche per la Rpc. Le preoccupazioni per l’atteggiamento della Cina espresse nel forum dell’Asean tenutosi in Hanoi nel luglio 2010 probabilmente contribuirono a frenarne le iniziative per un paio d’anni. Ad esempio, nonostante il Vietnam fosse tra i Paesi più danneggiati dalle misure della Rpc, nel 2011 il Segretario del suo Partito comunista incontrò il corrispettivo cinese a Pechino e durante la visita venne firmato un accordo ispirato all’attuazione del Codice di condotta non vincolante tra Rpc e Asean del 2002; più avanti nello stesso anno, le parti sottoscrissero un Memorandum d’intesa sulle questioni della difesa6. Si tratta di un’ambiguità tipica della diplomazia nel Mar cinese su tutti i livelli, compreso quello delle relazioni tra Stati Uniti e Rpc.
2. 2012-2018: l’offensiva marittima della Rpc
Mentre la febbre aumentava in mare, sulla terra continuavano gli estenuanti e inconcludenti negoziati per l’implementazione della non vincolante DeclarationontheconductofpartiesintheSouth China Seaconcordata tra Rpc e Asean nel 2002. Filippine e Vietnam puntavano a un codice di comportamento delle parti nel Mar cinese meridionale che fosse giuridicamente vincolante; la Rpc era decisamente contraria, considerandolo prematuro. Nel gennaio 2011 il governo filippino di Benigno Aquino III elaborò una bozza di codice in linea con la sua proposta di una Zona di pace, libertà, amicizia e cooperazione nel Mar cinese meridionale. Al di là dell’ambiziosa speranza, il centro della proposta filippina era che si separassero nettamente le zone soggette a dispute dalle altre e la previsione di un meccanismo per la soluzione delle controversie secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del mare del 1982 (Unclos). Il senso della bozza era che lo «sviluppo congiunto» sarebbe stato attuato solo nelle aree disputate, come prevede l’articolo 87, terzo comma della Unclos, per cui gli accordi di cooperazione hanno natura transitoria fino alla soluzione definitiva delle controversie. Posizione inaccettabile per la Rpc che, al contrario, intende lo «sviluppo congiunto» come un modo per legittimare le proprie pretese di sovranità, privilegia i rapporti bilaterali e si oppone al ricorso a procedure legali obbligatorie. La proposta filippina non venne accettata dal XX vertice Asean nei primi di aprile 2012 a Phnom Penh, in particolare per le obiezioni della Cambogia: poiché l’Asean decide all’unanimità, si può dire che la Cambogia abbia svolto il ruolo di cavallo di Troia diplomatico per conto della Rpc nell’associazione.
Si deve tener conto che sul finire del 2011 le Filippine avevano lanciato un’offerta internazionale per l’esplorazione sottomarina del Reed Bank, un rilievo sommerso a nord-est delle isole Spratly, la cui area pare ricca di petrolio e gas, fatto per cui la Rpc protesò perché lesivo dei suoi diritti sovrani; inoltre, il governo cinese protestò anche contro la Legge vietnamita approvata nel giugno 2012 che rivendicava l’arcipelago delle Spratly - come la Rpc - e, come mossa politica simbolica, elevò la «città» di Sansha (meno di mille abitanti) nell’isola Woody a prefettura con responsabilità amministrativa per il Mar cinese meridionale.
Dal 2012 non solo continuarono gli incidenti del tipo indicato prima, ma si verificarono alcuni eventi che permettono effettivamente di individuare una prassi della Rpc volta a modificare in modo duraturo i rapporti di forza con i Paesi del Mar cinese meridionale: è questo il significato della seconda fase.
Il primo di questi eventi ebbe luogo tra il 10 aprile e i primi di luglio del 2012 dentro e intorno Scarborough Shoal, un grande atollo corallino ben dentro il limite delle 200 miglia nautiche della Eez delle Filippine e a distanza di oltre 500 miglia dalla costa più vicina della Rpc.
Individuati dall’aeronautica filippina otto pescherecci cinesi nella laguna, il governo di Benigno Aquino inviò una fregata per bloccarli. Tuttavia, i filippini non riuscirono ad arrestare i pescatori a causa dell’interposizione di due navi della guardia costiera della Rpc; la fregata venne ritirata e sostituita con vascelli della guardia costiera. Ne seguì un lungo stallo durante il quale numero e qualità delle imbarcazioni cinesi dentro la laguna dell’atollo e nei suoi pressi variò fino a un massimo di circa 97 verso la fine di maggio. L’invio della fregata non rientrava nelle regole del gioco: in genere i governi evitano il confronto tra vascelli delle marine militari, ricorrendo invece a imbarcazioni della guardia costiera, di agenzie di controllo della pesca, di paramilitari (nel caso della Rpc). Nello stesso periodo la Rpc bloccò le importazioni di banane e altri vegetali dalle Filippine e limitò i viaggi turistici, mentre in entrambi i Paesi vi furono proteste nazionaliste davanti ai consolati. La pressione della Rpc durante lo stallo aveva lo scopo di bloccare l’intento del governo filippino di internazionalizzare la disputa, in particolare facendo ricorso a un arbitrato. Durante la crisi Filippine e Stati Uniti mantennero contatti ad alto livello, anche con incontri diretti tra i Presidenti; gli Stati Uniti ribadirono l’esistenza di un trattato d’alleanza con le Filippine e si impegnarono a rafforzarne la difesa ma senza precisare se il trattato copriva anche le dispute nel Mar cinese, sollecitando invece il ricorso a una soluzione diplomatica o mediante arbitrato. Il modo in cui infine si concluse la vicenda non è chiaro, perché a fianco del negoziato ufficiale il presidente Aquino si servì segretamente anche di un suo inviato personale a Pechino. Pare che gli Stati Uniti abbiano fatto da mediatori, ma che il negoziato avvenisse mediante due canali deve aver generato confusione circa i tempi del ritiro dei vascelli dei due Paesi. Il dato di fatto è che le due navi della guardia costiera filippina si ritirarono, salvando la faccia con la scusa di un tifone in arrivo, ma d’allora l’atollo rimane sotto controllo cinese. Anche in questo caso la Cambogia, che presiedeva il vertice Asean del luglio 2012, impedì che l’associazione si pronunciasse sulla crisi: per la prima volta nella storia dell’Asean l’incontro ministeriale si concluse senza un comunicato comune.
In conseguenza di questi fatti le Filippine iniziarono un procedimento d’arbitrato legale come previsto dalla Unclos7, conclusosi nel 2016. Gli dedico la prossima sezione, sia per i princìpi che stabilisce in applicazione della Unclos nel Mar cinese meridionale sia perché la condotta della Rpc a proposito è rivelatrice di un modo di intendere il diritto internazionale e indicativo di quanto possa essere problematica la terza e recentissima fase dei rapporti tra Rpc e Asean.
Tra il 2010 e il 2014 la tensione aumentò anche intorno alle Senkaku/Dyaoyu, in seguito all’arresto da parte guardia costiera giapponese dell’equipaggio di un peschereccio cinese nel settembre 2010 (detenuto per meno di una settimana, ma il comandante del peschereccio venne trattenuto durante le indagini per tutto il mese) e all’acquisto da parte del governo giapponese di tre delle isole Senkaku/Diaoyu da un imprenditore privato nel settembre 2012,fatto considerato come provocatorio dai cinesi ma che, in realtà mirava a impedire che le isole venissero acquistate dai nazionalisti giapponesi e utilizzate per i loro particolari fini propagandistici. Nella Rpc il nazionalismo popolare si fece sentire e il governo ridusse, senza una decisione esplicita, l’esportazione di terre rare in Giappone (elementi necessari per molti campi dell’alta tecnologia) di cui la Cina è di gran lunga il massimo produttore mondiale. Lo stesso anno pescherecci e vascelli della marina cinese violarono in modo plateale e con copertura giornalistica a fini propagandistici il limite delle 12 miglia nautiche intorno alle Senkaku/Diaoyu. Il governo giapponese ha rafforzato l’apparato di difesa, tra l’altro costituendo un corpo integrato tra le diverse armi simile a quello dei marines statunitensi.
Da parte sua, nel novembre 2013 il governo della Rpc stabilì unilateralmente una zona d’identificazione per la difesa aerea (Air defense identification zone, Adiz) sul Mar cinese orientale, posta sotto l’amministrazione del Ministero della difesa, che vincola il traffico aereo civile all’identificazione, comunicazione e controllo da parte delle autorità cinesi. Queste zone, che per motivi di sicurezza si estendono oltre il territorio nazionale, sono di discutibile legalità ma non straordinarie nell’arena internazionale. In questo caso, però, l’Adiz della Rpc si estende su due terzi del Mar cinese orientale e sulle contestate isole Senkaku/Diaoyu e Socotra rock (formazione sommersa rivendicato dalla Rpc ma sulla quale la Corea del Sud ha costruito una stazione metereologica), interseca le Adiz del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan: in pratica è un atto di sovranità. Le reazioni del Giappone e della Corea del Sud furono molto forti.
Le autorità cinesi stabilirono anche l’obbligo per le imbarcazioni da pesca straniere di richiedere un permesso su un’area equivalente a circa i 2/3 del Mar cinese meridionale. Attacchi alle imbarcazioni da pesca con cannoni ad acqua, arresti e sequestri continuarono.
Nel maggio dello stesso anno iniziò una delle crisi maggiori nel Mar cinese meridionale, ancora una volta tra Filippine e Rpc, per il controllo di Second Thomas Shoal, un atollo a 105 miglia nautiche dalla costa filippina. La crisi si protrasse per circa un anno: in questo caso la Rpc cercò d’interrompere senza successo i rifornimenti per un piccolo gruppo di militari filippini che utilizzavano una nave fatta deliberatamente arenare nel 1999, essendo l’atollo emergente solo con la bassa marea. La presenza di giornalisti stranieri a bordo delle imbarcazioni filippine probabilmente fu d’aiuto a frenare le mosse cinesi.
Si ricordi la centralità dell’industria petrolifera per lo sviluppo economico del Vietnam: nel dicembre 2013 annunciò con ExxonMobil il progetto d’investire 20 miliardi di dollari per una centrale elettrica destinata a utilizzare le riserve marine di gas naturale.
Tra il due maggio e il 15 luglio 2014 si verificò quello che si ritiene il più grave incidente di questi anni: il confronto durissimo tra forze navali della Rpc e del Vietnam intorno all’area di sicurezza della piattaforma petrolifera Haiyang Shiyou 981 della China national offshore oil corporation (Cnooc), portata a 120 miglia dalla costa vietnamita (e 180 miglia da Hainan, dunque in un’area dove le Eez si sovrappongono), vicino alle isole Paracelso8. Tra marina militare, guardia costiera e paramilitari, la Rpc schierò almeno 80 vascelli, 130 secondo Hanoi; il Vietnam circa 35 imbarcazioni, o 60 secondo Pechino. La Rpc istituì un’area di sicurezza intorno alla piattaforma petrolifera, più volte estesa durante la crisi - fino a 15 miglia nautiche - e organizzata per cerchi concentrici: nella parte più esterna imbarcazioni paramilitari, poi della guardia costiera, infine della marina militare. Nonostante l’inferiorità numerica e qualitativa le imbarcazioni vietnamite furono estremamente determinate nei tentativi di forzare lo sbarramento cinese, con conseguenti manovre pericolose, speronamenti e attacchi con cannoni ad acqua. Il 10 maggio i ministri degli esteri dell’Asean espressero collettivamente «seria preoccupazione» per gli eventi, e più esplicite critiche alla Rpc vennero dalle Filippine e dall’Indonesia, il cui Presidente qualificò l’azione della Rpc come «diplomazia delle cannoniere».
Anche più notevole fu che dal 12 maggio inVietnam si scatenarono vere e proprie sommosse nazionaliste, con aggressioni a cittadini cinesi e distruzione delle loro proprietà - al punto che a migliaia fuggirono o furono evacuati - e incendi di almeno 15 fabbriche, tra cui alcune scambiate erroneamente per proprietà cinesi. Un’anziana donna si suicidò dandosi fuoco in segno di protesta contro la violazione della sovranità del Vietnam9; il governo vietnamita intervenne con centinaia di arresti, appelli a manifestare pacificamente e divieti di manifestare. L’amministrazione Obama condannò l’operazione della Rpc e il 19 luglio il Senato statunitense approvò una risoluzione che chiedeva il ritiro della piattaforma petrolifera. Infine, questo avvenne poco dopo e con un mese d’anticipo sul termine previsto di agosto. Tra gli effetti di questo confronto fu l’annuncio all’Asean da parte del primo ministro Modi che l’India avrebbe condotto nel sud-est asiatico una politica più incisiva e poi, in visita a Washington, una dichiarazione in linea con la posizione statunitense sulla sicurezza marittima nell’area.
Durante la crisi tra Rpc e Vietnam si verificarono alcune intercettazioni di aerei statunitensi da parte di quelli della Rpc, con una manovra particolarmente pericolosa il 19 agosto (nei confronti di un aereo antinavi e antisommergibili di tipo P-8 della U.S. Navy, a 135 miglia dall’isola di Hainan, territorio della Rpc). Questo condusse a negoziati tra Stati Uniti e Cina per la notifica delle attività militari più importanti e per definire le regole di comportamento per la sicurezza degli incontri aerei e marittimi tra unità dei due Paesi: vennero avviati durante la visita di Obama a Pechino a metà novembre 2014 e completati, nella parte relativa allo spazio aereo, durante la visita di Xi Jinping a Washington nel settembre dell’anno dopo.
Infine, l’operazione della Rpc che altera in modo duraturo i rapporti di forza con i Paesi del Mar cinese meridionale è la trasformazione in isole artificiali degli atolli occupati, in particolare Fiery Cross Reef, Subi Reef e Mischief Reef. Iniziata verso la fine del 2013, l’artificializzazione è stata dichiarata conclusa tra giugno e settembre 2015. La Rpc ne ha enfatizzato la funzione civile ma, oltre a poter fungere da piattaforme per aerei e vascelli militari, gli atolli sono ora difesi da batterie di missili antiaerei e anti-nave e dispongono di capacità per la guerra elettronica.
Piccole, fisicamente esposte e ben localizzate, lontane dalle difese poste sulla massa terrestre, in caso di guerra le installazioni cinesi negli atolli verrebbero con ogni probabilità cancellate dal mare al primo colpo. Un grande problema militare per la Rpc è che, per quanto sviluppi potenti capacità d’interdizione dello spazio, non dispone di basi militari all’estero: nel 2016 ha firmato un contratto per un avamposto a Gibuti, ma 300 militari isolati non sono gran cosa. È possibile possa disporre di una base per un posto d’ascolto e sorveglianza vicino Gwadar in Pakistan, un esempio di come la «nuova via della seta» sia sinocentrica e possa essere usata a fini militari, ma che non risolve il problema delle basi navali ed aeree fuori del territorio nazionale necessarie ad assicurare alla Rpc il dominio delle sue linee di rifornimento attraverso il Mar cinese.
La risposta statunitense alle iniziative cinesi sono state, tra l’altro, il lancio nel 2015 della Southeast Asia maritime security initiative, finanziata con 425 milioni di dollari, per l’assistere le marine di Filippine, Indonesia, Malesia e Vietnam per cinque anni; un accordo con le Filippine per un più ampio accesso alle basi militari ed esercitazioni congiunte; il permesso di vendere armi più sofisticate al Vietnam; pattugliamenti con base a Singapore; cinque indisturbate operazioni per la libertà di navigazione - violando divieti della Rpc - tra l’ottobre 2015 e il maggio 2017. Gli Stati Uniti, il Giappone, l’Australia e gli altri Paesi a capitalismo avanzato non sono certo disposti a rinunciare alla libertà di navigazione o ad accettare l’esclusione dallo sfruttamento economico delle risorse del Mar cinese: si veda a proposito la dichiarazione congiunta dei ministri degli esteri di Australia, Giappone e Stati Uniti del 5 agosto 201810.
Di assai dubbio valore in guerra, gli atolli artificializzati sono però utili per azioni coercitive che si mantengano nella zona grigia al di sotto della soglia del conflitto aperto, finalizzate a utilizzare in modo discrezionale la superiorità militare della Rpc per sostanziare la pressione politica sui Paesi dell’Asean. Del resto, la Rpc non ha né l’intenzione né la capacità di sostenere un conflitto con gli Stati Uniti, nel quale godrebbe solo di un vantaggio tattico iniziale e che in ogni caso si risolverebbe nella disastrosa estinzione del «sogno cinese» di moderata prosperità, con il possibile risultato di una crisi del regime molto più grave di quella del giugno 1989.
Tutto ciò riporta al centro la questione politica11.
3. 2016: il giudizio del tribunale d’arbitrato internazionale, sfavorevole per la Rpc
Il12 luglio 2016 il tribunale costituito presso la Corte permanente di arbitrato de L’Aia si è pronunciato sul ricorso presentato dalle Filippine nel 201312, articolato in 15 punti, che può considerarsi come una sorta di ultima difesa politica a fronte dei fatti di Scarborough Shoale della superiorità militare della Rpc. Fin dall’inizio la Rpc negò qualsiasi validità a questo arbitrato, impegnandosi in una campagna propagandistica, politica e accademica, nazionale e internazionale, per delegittimare non solo l’iniziativa filippina ma la stessa Corte13.
L’argomento fondamentale del governo cinese contro il ricorso filippino era che questo vertesse sulla definizione della sovranità delle formazioni marine in oggetto, questione sulla quale il tribunale d’arbitrato in effetti non ha competenza14; per la Rpc la sovranità della Cina sulle isole Spratly è indiscutibile ed è giustificata dai suoi «diritti storici» sull’arcipelago. Tuttavia, questa posizione è infondata perché, se è vero che i diritti marittimi in definitiva si riconducono alla sovranità è anche vero che le due questioni non sono identiche. E se non fossero separabili diventerebbe assai problematico, se non impossibile, risolvere controversie sui diritti mediante arbitrato, ad esempio quando due Eez si sovrappongono. Sia il ricorso delle Filippine che il tribunale chiarirono che la controversia riguardava esclusivamente il fatto se i diritti marittimi delle Filippine fossero stati lesi, non la contesa sulla sovranità15. Legalmente più fondato è invece l’argomento secondo cui per alcune categorie di controversie il governo della Rpc aveva già dichiarato, nel 2006, di non accettare le procedure obbligatorie sfocianti in decisioni vincolanti, così valendosi della possibilità disposta dall’art. 298 della Unclos16. Tuttavia, il tribunale ha ritenuto di poter procedere comunque. È un problema procedurale di grande interesse per i giuristi ma sul quale qui non importa soffermarsi. Qui interessano invece i presupposti politici dell’atteggiamento della Rpc nei confronti delle procedure d’arbitrato - non solo di questa specifica - e le decisioni sostanziali del tribunale. Queste ultime possono così riassumersi:
- il tribunale ha enfaticamente chiarito che non è in suo potere pronunciarsi su questioni di sovranità ma che può e deve decidere a proposito dei diritti marittimi;
- il tribunale ricorda che secondo la Legge sul mare territoriale del 4 settembre 1958 della Rpc essa si applica «alle isole Dongsha, Xisha, Zhongsha, Nansha e tutte le altre isole appartenenti alla Cina che sono separati dalla terraferma e dalle sue isole costiere dall'alto mare». In altri termini, la stessa legge della Rpc stabilisce che l’utilizzo storico del Mar cinese meridionale, da parte di navi e pescatori cinesi come di altri Paesi, ricade nella libertà di navigazione in alto mare ma non in un qualche peculiare «diritto storico»; né si può dire che prima della Unclos la Cina abbia mai intrapreso attività che limitino i diritti dell’alto mare con l’acquiescenza degli altri Stati, condizione indispensabile perché si possa argomentare un «diritto storico». Ragion per cui non esiste alcuna ragione legale per cui la Rpc possa attribuirsi diritti entro l’area della mappa delle nove linee17. D’altra parte, i «diritti storici» sono superati dalla zonizzazione della Unclos18;
- il tribunale ha considerato anche se dopo l’adozione della Unclos si sia in pratica creata una situazione che modifichi quanto stabilito dalla Convenzione. A questo scopo non è sufficiente l’azione unilaterale ma occorre l’acquiescenza degli altri Stati per un tempo sufficientemente lungo: condizione che evidentemente non esiste nel Mar cinese meridionale. Inoltre, la Corte nota che solo nel 2009 sono stati chiariti i diritti rivendicati all’interno della «linea dei nove trattini»19;
- per quanto riguarda i diritti marittimi derivanti dalle formazioni geografiche delle isole Spratly, il tribunale ha determinato che la condizione naturale di Subi Reef, Hughes Reef, Mischief Reef, Second Thomas Shoal è - era, oramai - quella di bassifondi emergenti solo con la bassa marea e che come tali non danno titolo a mare territoriale. Importantissima decisione della Corte è che «tutte le formazioni delle isole Spratly non sommerse dall’alta marea (incluse, ad esempio, Itu Aba, Thitu, West York Island, Spratly Island, North-East Cay, South-West Cay) ai sensi dell’art. 121-3 della Unclos sono legalmente “scogli” che non generano una zona economica esclusiva o una piattaforma continentale»20. Il giudizio del tribunale si riferisce alla condizione naturaledi queste formazioni. Questa decisione è perfettamente coerente con le definizioni di isola e di scogli della Unclos, ma la Corte ha precisato che per quanto le «isole» in passato fossero utilizzate da pescatori di diversi Paesi e anche da una società giapponese per l’estrazione di guano, negli anni ’20 del secolo scorso, esse non sono legalmente isole perché non hanno mai avuto alcuna comunità stabile e autosufficiente (ragione del fallimento dell’impresa nipponica) e perché l’attività economica in loco è sempre stata puramente estrattiva;
- in relazione al punto precedente: il tribunale ha stabilito che la trasformazione delle formazioni delle Spratly in isole artificiali - attuata dalla Rpc su ampia scala - non ne altera lo status legale, anche perché esse continuano a dipendere da rifornimenti esterni;
- il tribunale ha deliberato che Mischief Reef, Second Thomas Shoal e Reed Bank (quest’ultimo, interamente sommerso, non genera diritti) rientrano nella Eez delle Filippine21: la Rpc ha dunque violato i diritti marittimi della Eez, interferendo nelle esplorazioni petrolifere, nella pesca e con la costruzione di isole artificiali. Scarborough Shoal genera un mare territoriale ma non una Eez, e i tradizionali diritti di pesca sia filippini che cinesi e di altri Paesi non sono estinti dalla Unclos né possono essere ristretti;
- per determinare i diritti marittimi né la Rpc - che ovviamente non è neanche uno Stato arcipelago - né le Filippine possono considerare le isole Spratly come un tutto: l’art. 47 della Unclos stabilisce che questo può farsi solo quando il rapporto tra area del mare e area della terra non superi il rapporto 9:1. Il che non è proprio il caso: l’arcipelago delle Spratly copre un’area di 410 mila km2ma ha in tutto una superficie di 5 km2con elevazione massima di sei metri22;
- la Rpc ha violato le norme sulla protezione dell’ambiente marino della Unclostollerando e proteggendo la pesca di specie protette e metodi di pesca illegali (anche utilizzando esplosivi) e trasformando in isole artificiali le formazioni occupate23;
- per quanto riguarda l’azione a Scarborough Shoal, il tribunale ha giudicato che la condotta delle navi della Rpc abbia determinato «grave rischio di collisione e pericolo per le navi e il personale delle Filippine»24: fatto che prescinde - anche in questo caso - dalla considerazione di quale sia la parte titolare della sovranità e che è determinata unicamente dalla Convenzione del 1972 per prevenire le collisioni in mare e dall’art. 94 Unclos;
- il tribunale ha osservato che il comportamento della Cina dall’inizio dell’arbitrato con le Filippine aveva aggravato la situazione, creando isole artificiali, danneggiando irrimediabilmente l’ambiente marino25, ostacolando i rifornimenti filippini a Second Thomas Shoal.
4. La reazione cinese al giudizio d’arbitrato
Da quanto sopra si comprende la furibonda reazione della Rpc alle deliberazioni del tribunale.
Il giorno stesso del giudizio il Ministro degli esteri della Rpc dichiarò che la sentenza d’arbitrato «è nulla e senza forza obbligante» e quindi «la sovranità territoriale della Cina e i suoi diritti ed interessi marittimi nel Mar Cinese Meridionale non saranno in nessun caso influenzati da tali giudizi»26. Meno diplomatiche furono alcune dichiarazioni,il giorno dopo, del vice ministro Liu Zhenmin, durante la conferenza stampa di presentazione del Libro bianco della Rpc: che il giudizio del tribunale «èsolo un pezzo di carta straccia» e che «i cinque giudici sono stati pagati dalle Filippine o probabilmente da altri»27. In altri articoli scritti da funzionari della Rpc si possono leggere cose esilaranti come questa, pubblicata dall’ambasciatore Sun Xianghua sul giornale del LesothoPublic eyeil tre giugno 2016:
«durante i 2000 anni trascorsi da quando la Cina ha scoperto e amministrato il Mar cinese meridionale, la sua sovranità sulle isole e sulle barriere coralline non è mai stata messa in discussione se non in anni recentissimi. Quando la marea del colonialismo occidentale ha travolto il mondo, compresi i paesi africani, anche i paesi dell'Asia sud orientale sono caduti vittime delle potenze coloniali. I coloni inglesi, francesi, tedeschi e giapponesi si sono dilettati con l'invasione delle isole e delle barriere coralline cinesi nel Mar cinese meridionale, la maggior parte dei loro tentativi falliti di fronte alla forte resistenza della Cina»28. Il «socialismo con caratteristiche cinesi» rivendica addirittura l’assai problematica continuità amministrativa con le dinastie imperiali della Cina, ma tralascia i popoli del sud-est asiatico e le loro lotte di liberazione, il lavoro dei pescatori e i progetti contemporanei di sviluppo economico degli altri Paesi.
Le obiezioni legali della Rpc all’arbitrato e al giudizio finale sono significative del modo in cui essa intende le relazioni con gli altri Stati della regione, in particolare quelli con cui disputa gli arcipelaghi, e il diritto internazionale. In gioco è la questione dell’egemonia regionale, intesa come combinazione di forza dell’egemone e di consenso al suo ruolo da parte degli altri Stati e popoli - e quindi dei rapporti tra Cina e Stati Uniti.
La formula tipica della Rpc è che le dispute nel Mar cinese debbano risolversi «nel rispetto dei fatti storici e in conformità con il diritto internazionale». L’ordine delle frasi non è casuale: sono i «diritti storici» ad avere la priorità e questi consistono nell’indiscutibile presupposto della sovranità cinese sugli arcipelaghi, da cui ovviamente conseguono i diritti marittimi. Prima ho accennato alla fragilità delle pretese storiche di sovranità reale, ma la questione cruciale èche senso abbia ricondurre un problema politico contemporaneo a una questione storiografica, per di più con basi, se esistono, alquanto remote. Era anche in questo modo che il nazismo giustificò l’invasione della Polonia nel 1939 o che, in futuro, si potrebbe motivare l’invasione dell’oblastdi Kaliningrad, enclaverussa in territorio polacco, annessa dall’Unione Sovietica nel 1945 ma che prima era parte della tedesca Prussia orientale il cui capoluogo non si chiamava Kaliningrad ma Königsberg,città dove nacque e visse Immanuel Kant.E poiché all’epoca della sua massima estensione territoriale a metà del XVIII secolo l’impero dei Qing copriva undici milioni e mezzo di km2, a fronte dei poco meno di dieci milioni di km2dell’attuale Rpc, si comprende che, come in passato, la logica dei «diritti storici» potrebbe essere causa di guerra con la Russia. Gli esempi sono assurdi ma, nel caso del Mar cinese meridionale, avanzare «diritti storici» risalenti alla dinastia Tang - terminata all’inizio del X secolo d.C. - è un po’ come se l’Italia rivendicasse ora il Mediterraneo come mare nostrum. Un «diritto storico» può esistere ma deve essere pacificamente accettato dagli altri Stati interessatie non oggetto di calde controversie; o, aggiungo, almeno rivendicato da un movimento di massa di liberazione nazionale. Altrimenti è cosa pericolosissima e inaccettabile perché si presta a giustificare l’espansionismo e il fanatismo nazionalista. L’argomento dei «diritti storici» salda l’interesse interno della casta politica della Rpc alla legittimazione in chiave di grandezza nazionale con un’utile flessibilità nell’arena internazionale.
I«diritti storici» permettono di porre come un a prioril’esistenza da sempredella sovranità della Rpc sugli arcipelaghi. Conseguentemente l’occupazione di isole e atolli da parte di altri Stati può essere arbitrariamente qualificata come un’invasione illegale: è esattamente quanto la Rpc contesta abbia fatto la repubblica filippina dagli anni ’70 del secolo scorso, nonostante la Rpc abbia per la prima volta messo piede nelle Spratly dopo la battaglia navale col Vietnam nelle vicinanze dello Johnson South reef (1988). Tuttavia, posta la sovranità come un postulato, la Rpc può magnanimamente aprirsi al negoziato diplomatico: ma in rapporto bilaterale con ciascun singolo Stato, in modo che la propria potenza militare ed economica possa pesare molto più che in un contesto di negoziato multilaterale - del resto necessario per il sovrapporsi delle pretese di molti Stati - e ancor più che in un tribunale d’arbitrato internazionale. È quindi paradossale ma comprensibile che la Rpc abbia contestato alle Filippine d’aver unilateralmente iniziato una procedura d’arbitrato che definisce illegale perché in violazione della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar cinese meridionale del 2002, pur essendosi a suo tempo impegnata - contro l’intento di Filippine e Vietnam - affinché essa non avesse valore di trattato giuridicamente vincolante; e comunque nel suo primo punto la Dichiarazione del 2002 fa esplicito riferimento all’impegno delle parti contraenti a rispettare la Convenzione del mare, platealmente violata dalla Rpc. I rapporti tra Rpc e Stati membri dell’Asean sono del tutto diversi da quelli tra l’Unione europea e i suoi membri: è per questi ultimi che vale la norma per cui le controversie marittime possono risolversi in sede di Corte di giustizia dell’Unione europea, che comunque è un organo giurisdizionale, invece che secondo le procedure indicate nell’art. 287 della Unclos.
Nonostante i continui richiami al diritto internazionale e alla soluzione pacifica delle controversie, iprincìpi che regolano la politica della Rpc nel Mar cinese sono quelli del «diritto storico» e della negoziazione bilaterale, sicché la conformità del comportamento concreto alle norme del diritto internazionale vale solo dopo che sia stato affermato il «diritto storico» e il negoziato bilaterale si sia svolto all’interno dei parametri predeterminati dal rapporto di forza con l’altra parte. Questo è un buon esempio di come si possa interpretare o aggirare le norme di diritto internazionale in modo selettivo secondo la convenienza e in forza della capacità d’imporre uno stato di fatto. Si dirà, come il governo cinese, che gli Stati Uniti (in buona compagnia) violano il diritto internazionale o lo interpretano a proprio piacimento. Il che è vero, ma che un brigante abbia colleghi in competizione o che di essi sia meno fortunato o possente non cessa per questo d’essere un brigante. La realistica constatazione di questa realtà delle relazioni tra gli Stati è la ragione per cui la soluzione dei problemi dell’umanità non passa attraverso le procedure legali, dovendosi prima liquidare i poteri economici e politici che quelle norme e quelle procedure istituiscono e aggirano secondo i propri interessi economici e di potenza. Tuttavia, elevare la constatazione realistica a principio significherebbe semplicemente schierarsi a favore della reazionaria «legge del più forte», mettersi al di sotto dei princìpi di civiltà formalmente stabiliti - ad es.: «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» - e del livello «d’internazionalismo del capitale» esistente, privandosi della possibilità di utilizzare coerentemente la critica tra la prassi reale degli Stati e delle grandi potenze in particolare e i princìpi che esse formalmente sostengono. Da una prospettiva che abbia a cuore l’interesse dell’umanità la critica delle norme e delle istituzioni di diritto internazionale - a partire dal consesso oligarchico del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite - dovrebbe essere centrata non sull’eccesso d’internazionalismo ma sul suo difetto. Questo è un problema intrinseco alla logica politica che antepone la sovranità nazionale agli interessi dei popoli e dell’umanità a prescindere dalla nazionalità e dai poteri statali. La verità di questa logica nazionalistica è che, pur quando si dichiara osservante delle norme di diritto internazionale e del metodo della soluzione pacifica delle controversie, essa non è che l’alibi per proteggere e rafforzare gli interessi particolaridi caste politiche e classi dominanti non solo contro altri particolari interessi e popoli stranieri ma in definitiva anche contro i propri cittadini.
Quanto sopra vale per la situazione nel Mar cinese meridionale. In questo caso, da parte dei diversi soggetti statali è all’opera una logica nazionalistica e, ovviamente, a imporsi è lo Stato che nella regione è più potente.
Ci si può interrogare sulla giustizia dell’attribuzione agli Stati di zone economiche speciali, 200 miglia nautiche dalla linea di base del mare territoriale. Per quanto le sue norme vadano molto al di là, finalità esplicita della Unclos nel suo primo articolo è la limitazione dell’inquinamento dell’ambiente marino. Tuttavia, la modalità adottata è una sorta di privatizzazione dei diritti - qualcosa di analogo alla formula dei diritti d’inquinamento - applicata al mare e agli Stati: si può obiettare che tutto il mare costituisca un bene comune dell’umanità e che la sua gestione debba assumere forme collettive invece che nazionali. Detto questo, entro quella logica la normativa della Unclos è abbastanza razionale e chiara, quanto può esserlo una legge. Che si diano interpretazioni diverse di norme e fatti è normale - altrimenti non esisterebbero le controversie giudiziarie e gli avvocati - ma le azioni della Rpc sono state palesemente in violazione della Convenzione e su scala ben superiore a quella degli altri contendenti. Il che ci porta alla terza fase e alla questione della possibile transizione dell’egemonia nella regione.
5. Estate del 2018: la fragilità di una possibile terza fase delle relazioni fra la Cina e i Paesi dell’Asean
La posizione delle autorità della Rpc sul ricorso filippino al tribunale internazionale d’arbitrato potrebbe dirsi schizofrenica: fin dall’inizio cercarono di delegittimarlo, dichiarando poi il giudizio del tribunale nullo e invalido. Eppure, già durante l’affairedi Scarborough Shoal il governo cinese usò alternare bastone e carota proprio per evitare un procedimento legale, a quanto pare offrendo anche investimenti e di ritirarsi dall’atollo; la Rpc fece simili offerte di nuovo nel 2014, durante la crisi per lo Second Thomas Shoal; e il ministro degli esteri cinese pose come condizione per considerare la proposta filippino-statunitense di moratoria sulla costruzione di isole artificiali (portata al vertice Asean dell’agosto 2014 ma non discussa) l’abbandono del procedimento avviato presso la corte internazionale. Per quanto il governo della Rpc abbia finto che ricorso e giudizio fossero irrilevanti, lo sforzo diplomatico, propagandistico e perfino storiografico per contrastarlo inducono a ritenere che la valutazione reale fosse tutt’altra.
La pressione coercitiva per l’affermazione dei propri «diritti storici», la continua modernizzazione dell’apparato militare e la trasformazione di atolli nel Mar cinese, hanno determinato per la Rpc una situazione simile a quella della prima metà degli anni ’90 del secolo scorso ma più contraddittoria, di cui è appunto manifestazione l’apparente schizofrenia a proposito dell’arbitrato internazionale.
A cavaliere del XX secolo e del XXI le priorità dei dirigenti della Rpc erano concludere i negoziati per l’ammissione nella Wto, condotti innanzitutto con gli Stati Uniti; ottenere lo status di «economia di mercato», concesso dall’Asean nel 2004; attrarre il capitale estero e sviluppare l’integrazione nella divisione internazionale del lavoro delle società transnazionali; allargare la propria quota nel mercato mondiale: non si dimentichi che nel primo decennio del nuovo secolo l’economia cinese fu per la prima volta effettivamente trainata dalle esportazioni. Per questo, conquistate alcune posizioni nelle isole Spratly, la Rpc aprì la fase conciliativa con i Paesi dell’Asean nella forma dell’applicazione del concetto di «sviluppo congiunto», con i magri risultati già visti.
Dal 2009, inizialmente nel quadro di un generale attivismo ma poi per deliberata iniziativa cinese, crebbe la tensione tra la Rpc e diversi Stati del Mar cinese, mentre la discussione su un codice di condotta vincolante si protraeva senza risultati, principalmente a causa dell’opposizione della Rpc. Il rigetto dell’arbitrato internazionale è coerente con la linea cinese di privilegiare le relazioni diplomatiche e bilaterali, specialmente per le dispute territoriali, nelle quali può far valere tutta la differenza di potenza economica e militare rispetto alla controparte.
Tuttavia, la Rpc non può neanche prescindere dalle relazioni multilaterali, anzi: è proprio su questo livello che ha lanciato le sue più importanti e recenti iniziative, la Banca asiatica per l’investimento nelle infrastrutture e la «nuova via della seta» (per quanto, a ben vedere, nelle finalità queste siano iniziative estremamente sinocentriche). Se non per quel che riguarda gli obblighi giuridici, sul piano politico la Rpc non può semplicemente ignorare il giudizio della corte internazionale. Questo è, a mio parere uno, dei motivi dell’aprirsi di una possibile terza fase delle relazioni tra la Cina e l’insieme dei Paesi del sud-est asiatico.
Più importante è la grave contraddizione per la politica estera della Rpc prodotta dalla sua linea coercitiva e minacciosa nel Mar cinese. Da una parte la Cina ha modificato a proprio vantaggio i rapporti di forzacon i Paesi dell’Asean; ma per questo ha pagato un caro prezzo politico in termini di consensoa favoredegli Stati Uniti, che hanno consolidato precedenti alleanze e allargato la cooperazione anche militare con l’India e il Vietnam. Dunque, quel che appare come un significativo avanzamento sul terreno della potenza e dell’esercizio unilaterale della forza è in contrasto con la pretesa di assumere un ruolo centrale nell’economia regionale. Su questa scala i dirigenti cinesi hanno ora lo stesso problema in cui incorse l’amministrazione di Bush junior con l’invasione dell’Iraq e la «guerra al terrorismo»: quello della divaricazione tra hard power e soft power, ovvero tra il dispiegamento della forza e la capacità di mantenere e accrescere il consenso politico.
Infine, è chiaro che le iniziative della Rpc e l’atteggiamento nei confronti dell’arbitrato hanno creato diffidenza circa le sue intenzioni nel Mar cinese: la speranza che la proposta nuova «via della seta» marittima abbia qualche prospettiva nella regione richiede una linea diversa.
Sono questi l motivi per cui dopo 16 anni di sterili trattative intorno all’implementazione della Dichiarazione Cina-Asean del 2002, il sei agosto 2018 i ministri degli esteri dell’associazione e della Rpc hanno dichiarato che è stata messa a punto una bozza di discussione per giungere infine a un Codice di condotta giuridicamente vincolante.
Un progresso diplomatico è stato fatto, ma è dubbio possa concretizzarsi anche perché l’Asean richiede il consenso unanime degli Stati membri. Da quel che è dato sapere di questa bozza, in cui sono riportate le proposte dei vari Stati su diversi punti, esistono differenze difficilmente conciliabili su questioni cruciali29. Non è definita l’area d’applicazione del possibile codice: il Vietnam vuole che esso si applichi anche alle isole Paracelso, ma la Rpc lo esclude e intende mantenere questa controversia entro negoziati bilaterali; l’Indonesia chiede l’impegno a rispettare le zone economiche esclusive come definite dalla Unclos, cosa poco compatibile con il nazionalismo marittimo cinese, la mappa dei «nove trattini» e la prassi della Rpc. Non è chiaro a quale organo possa affidarsi la soluzione delle controversie né il rapporto con le procedure della Unclos; il Vietnam propone che si specifichi esattamente cosa gli Stati possono e non possono fare, tra cui il divieto di costruire isole artificiali e di militarizzarle. Ancor più gravi e significative sono le richieste della Cina che dallo sfruttamento delle risorse del Mar cinese siano escluse le imprese di Stati che non fanno parte della regione, a cui la Malesia si è già opposta e si può presumere che neanche il Vietnam intenda subordinarsi alle imprese del capitalismo di Stato cinese, avendo già accordi con società estere, tra cui Gazprom. La Rpc pretende anche che si escluda la collaborazione militare con Stati esterni alla regione, fatto poco compatibile con le alleanze di Filippine e Tailandia con gli Stati Uniti e con l’interesse della maggior parte dei membri dell’Asean a bilanciare la potenza militare cinese con quella statunitense (e dell’India), anche a prescindere dall’alleanza formale; e a questo deve aggiungersi il fatto che i teatri meridionale e orientale del Mar cinese sono collegati e che, quali che siano le divergenze tattiche, è impensabile che Giappone, Corea del Sud e Taiwan rinuncino alla relazione strategica con gli Stati Uniti, sia a causa della Rpc che dell’inaffidabilità dei dirigenti della Corea del Nord.
Con i precedenti indicati e con contrasti di questa portata è del tutto fuori luogo ipotizzare un’egemonia politica della Rpc nel Mar cinese meridionale. Quel che si prospetta è, al più, il tentativo di mettere a punto un meccanismo di gestione delle crisi.
Note
1 Carlyle A. Thayer, «Vietnam and rising China. The structural dynamics of mature asymmetry», in Southeast Asian affairs, 2010, pp. 401-402.
3 Si veda Robert C. Beckman-Davenport, Tara, «Clcs submissions and claims in the South China Sea, East sea studies, in Tran Truong Thuy (a cura di), The South China Sea. Towards a region of peace, security and cooperation, Thế Giới Publishers, Hanoi, 2011, un volume molto interessante scaricabile dal sito vietnamita East Sea studies, http://nghiencuubiendong.vn/en/)
4 Rispettivamente: Unclos, Sezione 3, articoli da 19 a 32 e art. 58.
5 Ronald O'Rourke, Maritime territorial and exclusive economic zone (Eez) disputes involving China. Issues for the Congress, Congressional Research Service,2018 e China naval modernization. Implications for U.S. navy capabilities. Background and issues for Congress, Congressional research service,2018.
13 Per la posizione della Rpc sull’arbitrato: Ministry of foreign affairs of the People’s Republic of China, Position Paper on the Matter of Jurisdiction in the South China Sea Arbitration Initiated by the Republic of the Philippines, 7 dicembre 2014, http://www.fmprc.gov.cn/nanhai/eng/snhwtlcwj_1/t1368895.htm; e la posizione sulla sentenza: Statement of the Ministry of foreign affairs of the People's Republic of China on the Award of 12 July 2016 of the Arbitral Tribunal in the South China Sea Arbitration Established at the Request of the Republic of the Philippines, Xinhua, 12 luglio 2016, http://www.xinhuanet.com/english/2016-07/12/c_135507744.htm
14 Il 19 febbraio 2018 l’Ucraina ha fatto ricorso ai sensi della Unclos affermando che dal 2014 la Russia violi i diritti marittimi ucraini nel Mar Nero, nel Mar d’Azov e nello stretto di Kerch; il 22 maggio la Russia ha obiettato in modo simile alla Rpc, non nel merito delle accuse dell’Ucraina circa i diritti di quest’ultima ma sostenendo la non competenza del tribunale, in quanto l’Ucraina punterebbe a far riconoscere la sua sovranità sulla penisola della Crimea. Si direbbe che lo stile cinese abbia fatto scuola.
15 Paragrafi 153-156, pp. 58-59 della decisione sull’arbitrato, PCA Case n. 2013-19 op. cit.
17 Paragrafi 263-272. pp. 112-115 della decisione sull’arbitrato, PCA Case n. 2013-19 op. cit.
18 Paragrafo 278, p. 117, ibidem.
19 Paragrafo 275, p. 116, ibidem.
20 Paragrafi 626 e 646, pp. 230 e 254, ibidem.
21 Paragrafo 627, p. 254, ibidem.
22 Paragrafo 574, p. 237, ibidem.
23 Paragrafi 992 e 993, p. 397.
24 Paragrafo 1109, p. 435, ibidem.
25 Paragraf1 1110-1181, pp. 437-464, ibidem.
26 Statement of the Ministry of foreign affairs of the People's Republic of China on the award of 12 July 2016 of the Arbitral tribunal in the South China Sea arbitration established at the request of the Republic of the Philippines, in Xinhua,12 luglio 2016, http://www.xinhuanet.com/english/2016-07/12/c_135507744.htm)
27 Vice foreign minister Liu Zhenmin at the press conference on the white paper titled China adheres to the position of settling through negotiation the relevant disputes between China and the Philippines in the South China sea, 2016/07/13 https://www.fmprc.gov.cn/nanhai/eng/wjbxw_1/t1381980.htm; Ministry of foreign affairs of the People's Republic of China, China adheres to the position of settling through negotiation the relevant disputes between China and the Philippines in the South China Sea, 7 luglio 2016, https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/t1380615.shtml;per una versione in italiano della posizione ufficiale della Rpcsi veda «Gli appunti della posizione cinese su Mar Cinese Meridionale»,https://www.fmprc.gov.cn/ce/ceit/ita/xwdt/t1354657.htm.Questi appunti contengono diverse falsità, alcune risibili altre gravissime come quella per cui la Rpc «non ha mai rivendicato la propria sovranità sul territorio altrui, non ha mai invaso il territorio di altri Paesi con la forza armata», trascurando l’invasione del Tibet (1950) e successiva annessione, la guerra con l’India (1962) e quella con il Vietnam (1979), entrambe iniziate con un’offensiva cinese, contro Paesi come l’India e il Vietnam che non possono certo dirsi «servi dell’imperialismo americano» e meno che mai al momento dei conflitti.
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