1. Un radicale cambiamento nell’approccio ai fenomeni detti populisti
Populista! è ingiuria assai frequente, direi quanto il prezzemolo in cucina, tanto che fra le battute del teatro politico ha preso il posto di un’altra, che pare obsoleta: comunista!
Tuttavia, gli epiteti populismo e populista sono straordinariamente versatili.
Populisti sarebbero Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders, Beppe Grillo e Matteo Salvini, il turco Recep Tayyip Erdoğan e i britannici Nigel Farage e Boris Johnson; ma alla lista possono aggiungersi anche Alexīs Tsipras e Syriza prima maniera, Jeremy Corbyn e Bernie Sanders. Se poi lasciamo vagare l’etichetta del populismo nel tempo e nello spazio, vedremo che essa si appiccica a Gandhi e Nasser, a Frantz Fanon, Julius Nyerere e Thomas Sankara e, ovviamente, ai tanti populisti latinoamericani: Víctor Raúl Haya de la Torre, Lázaro Cárdenas, Juan Domingo Perón e sua moglie Evita, Víctor Paz Estenssoro e Fidel Castro, fino ai più recenti neopopulismi: il subcomandante Marcos, Hugo Chávez, Evo Morales e Rafael Correa. Sul lato destro abbiamo invece Alberto Fujimori, presidente del Perù dal 1990 al 2000, e Abdalá Bucaram, presidente dell’Ecuador per sei mesi fino alla destituzione - nel febbraio 1996 - per motivi che si possono intuire dal soprannome: el loco. Non sarebbe giusto trascurare come populisti la coppia genitoriale del neoliberismo, Margaret Thatcher e Ronald Reagan, oppure i padrini della «terza via» social-liberista, Bill Clinton e Tony Blair. E che dire di Barack Obama, il messia nero della redenzione, sicuramente la vedette (pseudo)populista di maggior successo da diversi anni a questa parte?
Dimenticavo: proprio l’Italia ha avuto due grandi esempi di partiti popolari e diversamente populisti, il Partito comunista e la Democrazia cristiana - l’uno all’opposizione l’altro al potere - il cui breve e ultimo abbraccio fu il «compromesso storico» moroteo e berlingueriano.
Dal combattente contro il colonialismo al Presidente della prima potenza imperialista, da una parte o dall’altra tutti i personaggi elencati sono stati tacciati di populismo. La lista può allungarsi ancora, secondo il gusto personale.
E allora, cosa vuol dire populismo? Il concetto è sempre stato oggetto di discussione, ma nell’ultimo quarto di secolo il suo uso si è dilatato in modo da risultare incomprensibile. Dal punto di vista teorico, il motivo di questo fenomeno è uno stravolgimento radicale del metodo prevalente con cui si definisce il populismo. Tuttavia, ciò è la conseguenza del prevalente uso politico strumentale dell’etichetta.
Pur non trascurandone l’ideologia e la psicologia, le migliori analisi del populismo tra gli anni ‘50 e ‘70 del secolo scorso vertevano sulle condizioni strutturali del fenomeno e sulla dinamica del conflitto politico, sia interno che internazionale. Si trattava, allora, del grado più o meno avanzato di modernizzazione del paese, degli effetti delle migrazioni interne, dell’urbanizzazione, della stratificazione sociale e del mercato del lavoro, di sostituzione delle importazioni, di scambio ineguale, della collocazione del paese nell’economia mondiale. Di qui poi l’analisi della forza relativa e della dinamica del conflitto tra le classi sociali, della crisi di rappresentanza dei partiti tradizionali e di legittimità delle istituzioni, del rapporto dei partiti o dei governi populisti con le organizzazioni sindacali e i movimenti contadini, del come le vicende nazionali incidevano sulla scena politica internazionale e di quale fosse la linea delle grandi potenze a questo proposito. Si consideravano gli obiettivi e i metodi della trasformazione istituzionale, della riforma sociale e della politica economica, industriale e monetaria dei partiti populisti.
Vero è che l’epoca d’oro del populismo e dei regimi nazional-popolari si sovrapponeva grosso modo a quella della teoria della modernizzazione attraverso successivi stadi di sviluppo. Viceversa, l’epoca del declino dei regimi populisti iniziò all’incirca con il trionfo della Rivoluzione cubana e continuò con lo sviluppo delle guerriglie di liberazione sociale e nazionale - non solo in America latina - la critica della teoria della modernizzazione e dei partiti comunisti legati all’Unione Sovietica, la discussione intorno alla dialettica di sviluppo e sottosviluppo o dello sviluppo ineguale e combinato nell’economia mondiale capitalistica1.
Nei primi decenni del XXI secolo la precedente problematica pare del tutto evaporata dall’uso del termine e dalla discussione intorno al populismo, forse perché al tempo della società dello spettacolo e del postmoderno tutto ciò appare irrimediabilmente «moderno» e sorpassato, se non deprecabile. Sicché il populismo è diventato uno stile politico, una mentalità, un atteggiamento, una «categoria dello Spirito», una strategia discorsiva, un «significante vuoto» aperto a qualsiasi contenuto, un epiteto. Il populismo è diventato molte cose, tranne che un concetto operativo risultante da un’analisi che possa dirsi fondata sulla determinazione storica e sociale del fenomeno considerato. Nella polemica politica, nei commenti giornalistici e nell’attuale letteratura più o meno accademica, il denominatore comune peculiare dei fenomeni populisti è per lo più individuato nello stile comunicativo di un leader carismatico centrato sulla costruzione discorsiva della contrapposizione tra un noi virtuoso - il popolo - e un loro corrotto - l’élite. La definizione di cosa sia popolo per il populismo può così coprire un amplissimo spettro politico e di società perché, col medesimo stile o con la medesima logica discorsiva, da una parte si possono porre gli oppressi, i lavoratori, i produttori, i poveri, gli uomini e le donne semplici, gli sfruttati, i nazionali, la razza; dall’altra i potenti e l’élite, le «banche» e/o la finanza, i ricchi, gli intellettuali, «i burocrati di Bruxelles» e i fautori dell’euro, i capitalisti, gli imperialisti, gli stranieri e i migranti invasori, gli ebrei. Che il lettore disponga pure i termini in coppie di opposti noi-loro secondo le sue preferenze.
Il concetto di populismo è sempre stato controverso, ma l’approccio alla questione ora prevalente appare assai povero e formalistico, un regresso intellettuale e un’arma per la polemica politica spicciola invece che uno strumento d’analisi di una situazione determinata su cui, eventualmente, fondare una strategia politica.
L’uso corrente dell’attributo populista non solo violenta la realtà storica - non differenziando movimenti sociali e regimi politici, confondendo in una notte buia situazioni di grande complessità, ambiguità, contraddizioni e potenzialità, in effetti diseducando alla riflessione storica e politica - ma blocca e distorce la riflessione sulle più significative trasformazioni e contraddizioni dei sistemi politici contemporanei.
Eppure, la posta in gioco intorno al concetto di populismo è grande.
2. L’iperinflazione del termine populismo
Nel miglior saggio che mi sia capitato di leggere sul significato dell’antipopulismo odierno, Marco D’Eramo riporta una statistica che mostra la crescita esponenziale dell’uso del termine populismo nella saggistica fra il 1920 e il 2013 (comprendendovi articoli in riviste): su 6.370 titoli (con duplicati), ben 5.183 (l’85%) sono stati pubblicati a partire dagli anni ‘90 del XX secolo, di cui 2.801 nel primo decennio del nuovo secolo; dal database risultano invece solo 53 titoli pubblicati fra il 1920 e il 1940 e 1.134 nei quattro decenni successivi2. Significativa perché nuova è anche l’associazione fra populismo e fascismo: 4 titoli (in effetti due duplicati) fra il 1920 e il 1950; 29 fra anni ‘60 e ‘80; 177 (l’84%) fra l’ultimo decennio del XX secolo e il 2013. È palese lo slittamento della connotazione del termine, presumibilmente perché impiegato con diversa metodologia e applicato a fenomeni diversi dai precedenti. Questa statistica non è che la conferma di una tendenza che avevo già percepito nel corso del tempo. Ho fatto anch’io una piccola ricerca, sul catalogo del Servizio bibliotecario nazionale italiano. Ho rintracciato 301 titoli contenenti la parola populismo, compresi articoli su riviste. Escludendo volumi in lingue diverse dall’italiano e diverse edizioni della stessa opera, i risultati sono questi: 4 titoli fra il 1938 e gli anni ‘50; 8 negli anni ‘60; 17 negli anni ‘70; 21 negli anni ‘80; 17 negli anni ‘90; 121 dal 2000 in avanti. È evidente il balzo quantitativo nell’impiego del termine, ma anche la qualità degli argomenti è interessante. Fino all’ultimo decennio del secolo scorso predominavano i titoli sul populismo russo, statunitense e latinoamericano: la grande opera di Franco Venturi sul populismo russo, e titoli come «Classe, generazione e popolo nel pensiero di José Carlos Mariátegui» (Antonio Melis, 1967); Diderot: un letterato dall'assolutismo illuminato al populismo democratico (Paolo Alatri, 1972); Momenti dell’esperienza politica latino-americana. Tre saggi su populismo e militari in America latina (a cura di Ludovico Garruccio, 1974); Rivoluzione permanente e populismo. Ipotesi su Trockij (Marisa Forcina, 1976); Il populismo americano. Movimenti radicali di protesta agraria nella seconda metà dell’800 (Valeria Gennaro Lerda, 1980); Marxismo e populismo, 1861-1921. Attualità del più importante dibattito teorico-politico del secolo scorso (Franco Battistrada, 1982); Vasilij Pavlovič Voroncov e la cultura economica del populismo russo, 1868-1918 (Alberto Masoero, 1988). Dagli anni ‘90 in avanti la grande maggioranza dei titoli riguarda invece l’Italia e l’Europa, con un taglio prevalentemente politologico e di preoccupazione per il pericolo costituito dal populismo per la democrazia. Nessuna pretesa di esaustività e scientificità in questa mia ricerca, ma la tendenza è chiara.
Evidentemente la fortuna del termine populismo è radicalmente cambiata. Non solo l’uso del termine è proliferato esponenzialmente, uscendo dalla discussione in circoli politici abbastanza ristretti e dagli studi accademici, ma ha mutato natura. Da strumento d’analisi di movimenti, partiti e regimi specifici - certo, per nulla univoco - esso è diventato essenzialmente un’arma di polemica e, direi, di esorcismo politico. A nulla valgono le recenti escursioni per i rami della storia: quel che domina è l’approssimazione. Non mi riferisco tanto al contenuto dei testi, che va valutato nel merito, ma proprio al concetto a cui fanno riferimento: il populismo, che è diventato uno spettro.
Il cileno Alejandro Pelfini scrive: «come dice Pierre-André Taguieff, la categoria populismo ha sofferto un’avventura ironica e particolare: è diventata popolare. Cioè, si nota un uso inflazionistico e iperbolico che, non solo nei mezzi di comunicazione di massa ma anche nelle scienze sociali in generale, serve a screditare regimi, leader e movimenti politici. Raramente uno di questi definisce se stesso come populista. In questo modo un concetto con una grande tradizione, che ha dato impulso a buona parte della miglior riflessione del subcontinente nelle decadi ‘50 e ‘60, finisce per essere usato semplicemente come sinonimo di demagogia»3.
Pelfini continua sviluppando due osservazioni circa il paradossale cambiamento delle nozioni di populismo e di élite: da un lato è divenuto usuale l’uso elitista del termine populismo, ragion per cui «i populisti sono sempre gli altri, ai quali si attribuisce di continuare a mescolare cinicamente, in forma stravagante e per proprio vantaggio, il politico e il sociale, sfere che erano state separate per sempre dal neoliberalismo e dall’istituzionalismo»; dall’altro lato si estende l’uso populista della nozione di élite. Ad esempio quando la Banca mondiale insiste sui progetti locali e comunitari, gestiti dal basso, in contrapposizione a iniziative statali e nazionali, sicché, se lo local es hermoso, «quelli in basso» diventano una nuova versione del «buon selvaggio», mentre le élite diventano un tutto unico, si sottovaluta la formazione di élite locali e cadono questioni macroeconomiche come quelle poste dal modello di sviluppo per sostituzione delle importazioni o dalla teoria critica della dipendenza neocoloniale.
L’iperinflazione dell’uso del termine populismo è ben noto agli studiosi, ma non direi che ciò abbia portato a una riflessione autocritica sul fatto.
3. Il significato antipopolare della polemica antipopulistica
D’Eramo fa altre osservazioni che condivido e che aiutano a comprendere il motivo dell’iperinflazione del termine. La prima è che durante la Guerra Fredda l’evocazione del populismo costituiva un ponte tra fascismo e comunismo, marcando l’opposizione fra le sedicenti «democrazie popolari» - totalitarie e populiste come il fascismo - e il sedicente «mondo libero». Si può precisare che nei primi decenni del secondo dopoguerra l’interesse per il populismo era anche conseguenza dei suoi sviluppi in America latina. Resta però il fatto che negli anni ‘50 del secolo scorso, in particolare a causa della caratterizzazione del populismo statunitense da parte di Richard Hofstadter, il termine iniziò ad allontanarsi dalla designazione di un determinato fenomeno sociale e politico e da una connotazione controversa, ma spesso positiva e rivendicata con orgoglio, per farsi più comprensivo e vago, uno stile politico paranoide con una connotazione decisamente negativa4.
In secondo luogo, D’Eramo nota che la recente inflazione dell’epiteto populista è contemporanea al moltiplicarsi di misure antipopolari, al doppio binario nell’amministrazione della giustizia e allo svuotarsi della democrazia, simultaneo all’accusa per chi protesta d’essere animato da «istinti autoritari»5. A ragione egli definisce oligarchico l’attuale regime politico; è un modo per caratterizzare la postdemocrazia, i cui tratti sono la convergenza dei partiti di destra e di sinistra sulle questioni fondamentali della politica economica e sociale, il declino dei diritti sociali, la compiuta riduzione della democrazia a procedura di scelta fra i candidati di diverse fazioni di un’unica élite politica, la personalizzazione e spettacolarizzazione della politica6.
Infine, se populista è un insulto, ragion per cui nessuno si autodefinisce tale, «allora il termine populismo definisce coloro che lo usano invece di coloro che con esso sono etichettati». E questo è il punto che spiega l’inflazione del termine e la dissoluzione di una sua concettualizzazione.
Oggi ancor più che in passato, l’attribuzione dell’etichetta «populista» serve a caratterizzare negativamente sia movimenti sociali che partiti politici, sia all’opposizione sia al potere; sia partiti di estrema destra, fascistoidi, xenofobi, sia partiti e movimenti collocabili alla sinistra del centro postdemocratico e dei partiti social-liberisti. Il filo conduttore è l’associazione - non concettuale ma apparentemente ovvia e naturale - a una soggettività illiberale, autoritaria, tendenzialmente totalitaria.
Il punto è che l’assimilazione del populismo alla patologia politica è una forma di difesa dei regimi liberaldemocratici e, più recentemente, del regime postdemocratico in cui la governabilità prevale decisamente sulla rappresentatività e in cui si svaluta la razionalità delle rivendicazioni del demos. Le caste partitocratiche si autolegittimano insistendo sulla «ragionevolezza» delle loro politiche e sull’inevitabile necessità dell’adattamento ai cambiamenti socioeconomici globali, quindi sull’esaltazione del costituzionalismo non come difesa della libertà dei singoli e della collettività dal sovrano statale, ma come strumento per contenere l’eccedenza delle aspirazioni democratiche e sociali dei comuni cittadini. Per questo motivo è più vicina alla realtà l’idea che l’autentico populismo non sia una patologia della democrazia, bensì il sintomo che qualcosa non funziona nell’ordine politico e sociale7.
Non bisogna farsi ingannare dal fatto che la polemica antipopulista sia rivolta prevalentemente contro partiti di destra e xenofobi, come già accadde con i saggi di Richard Hofstadter sullo stile paranoide e il populismo nella politica statunitense ai tempi del maccartismo e di Barry Goldwater. Il presupposto da cui nasce la polemica antipopulista può ritorcersi facilmente e immediatamente contro qualsiasi movimento sociale che metta in discussione da sinistra la corrente ortodossia economica e i partiti centristi e social-liberali al governo, il regime postdemocratico. La polemica antipopulista in fondo non è altro che il riproporsi in una nuova veste dell’antica idea del popolo irrazionale, infantile, femminile, pericoloso per la proprietà e la libertà dei benestanti e dei benpensanti, per il potere della classe dominante, si sarebbe detto una volta.
Nella formula prevalente nello spettacolo politico quel che conta è poter dare un colpo a destra e uno a sinistra e continuare la marcia progressiva al centro. La normatività implicita nell’indiscriminata connotazione negativa del populismo e nella sua riduzione a stile, discorso, mentalità è ora la difesa della «governabilità» e della divisione liberale dei poteri pubblici - in effetti del potere esecutivo - dai pericoli del popolo - che pure è il presunto sovrano - e ciò, non a caso, proprio mentre gli interessi della maggioranza della popolazione sono sommersi dalle compatibilità del bilancio statale e della competizione globale, esclusi perfino dalla rappresentanza parlamentare. Ma forse quello di interessi oggettivamente fondati e antagonistici è concetto essenzialista e sgradevolmente polemico, per cui è bene metterlo da parte. Quindi, avanti tutta con il discorso sul discorso.
È comico - o tragico - vedere come tanta sinistra - che un tempo sfoggiava orgogliosamente la volontà o il fatto d’essere popolare e si identificava col mitico proletariato, il moderno popolo minuto - si ficchi con entusiasmo nella trappola antipopulistica e antipopolare, prendendo come ovvia l’etichetta, senza discriminare tra fenomeni di diversa origine e di opposto significato politico.
4. Populismo e pseudopopulismo: due fenomeni qualitativamente diversi
Prendendo atto della grande eterogeneità dei fenomeni che si dicono o sono indicati come populisti, alcuni studiosi hanno in sostanza rinunciato a una definizione univoca di cosa sia il populismo. Margaret Canovan, ad esempio, arrivò alla conclusione che la strategia migliore per gli studi nel campo fosse rinunciare del tutto a una spiegazione teorica del populismo, delle sue caratteristiche essenziali, delle condizioni in cui si verifica, per limitarsi a proporre una tipologia descrittiva: populismo dei farmers; degli intellettuali rivoluzionari; dei contadini; dittatura populista; democrazia populista; populismo reazionario; populismo dei politici8. È questa una posizione intellettualmente onesta, perché logico risultato delle contraddizioni del metodo empirista di addizionare le caratteristiche che definiscono il populismo estraendole da realtà politiche assai diverse, senza differenziare movimenti sociali che si politicizzano e partiti politici ispirati da una determinata ideologia, movimenti di rivolta e partiti al governo, nazionalismi di destra e nazionalismi «socialisti» e via elencando. Più si enumerano i caratteri distintivi del populismo più si moltiplicano le eccezioni e, infine, la nozione di populismo si svuota di significato, risulta una categoria vuota, adattabile a contenuti contraddittori. In questo ha ragione Ernesto Laclau: la vicenda intellettuale della nozione populismo esemplifica i limiti della teoria politica. Peccato, però, che egli sia stato il più coerente teorico del consapevole svuotamento di significato del populismo. Molto apprezzato a sinistra, il percorso di Laclau iniziò con una forma di nazionalismo populista «marxista» e con l’adesione nel 1963 al Partido Socialista de la Izquierda Nacional, sostenitore critico del peronismo, e terminò in un postmarxismo postmodernista in cui l’identità politica - e in effetti il rapporto sociale - si riduce alla costruzione retorica del discorso. In tale contesto teorico non ha senso parlare di interessi obiettivi, di sfruttamento, di classi sociali in senso marxiano; e diviene abusivo l’uso della categoria gramsciana di egemonia9. E quindi, coerentemente, il populismo diviene un «significante vuoto» - privo di sostanza sociale e storica - che può essere riempito di qualsiasi contenuto.
Certamente, nella difficoltà di definire concettualmente il populismo entra in gioco il fatto che il riferimento al popolo - e alla nazione - è integrale e necessario al discorso moderno della legittimazione politica, perfino per le dittature. Questa è la prima e obiettiva ragione della confusione intorno al populismo. È ovvio che il senso che dava Salvador Allende alla parola pueblo non era lo stesso di Augusto Pinochet. Se ci si basa sulla mera contrapposizione formale noi-loro, allora certamente il termine popolo si svuota di ogni determinazione storica e politica e il comprendere sotto l’etichetta «populismo» fenomeni molto diversi genera una confusione non risolvibile. Conseguentemente, non sarà neanche possibile una critica ragionata dei populismi reali. E sì, critica. Perché se il mio intento è difendere i movimenti sociali populisti dall’attacco elitista della postdemocrazia e della riduzione del termine populismo a un’ideologia e a una politica di destra ed estrema destra, chiarire il punto è anche una condizione necessaria per criticare i partiti e i regimi populisti - più precisamente definibili come bonapartisti - che delle aspirazioni e della mobilitazione di massa fanno un uso strumentale. È il problema di tutti i governi populisti - in America latina - e in genere dei regimi scaturiti in seguito a una rottura del precedente ordine politico. È il caso, ad esempio, del Venezuela di Chávez, ancor più chiaro sotto Maduro.
Riconsideriamo la tipologia dei populismi di Margaret Canovan. Essa è meramente descrittiva, ma mi è utile per evidenziare alcune differenze fondamentali tra le sue diverse categorie. Canovan pone sotto lo stesso ombrello movimenti sociali e regimi statali; movimenti e organizzazioni democratiche e riformiste o rivoluzionarie, e partiti e regimi conservatori.
Movimenti sociali sono quelli dei farmers che «favoriscono misure economiche radicali da parte di un governo del popolo»; questa categoria è vicina a quella del populismo contadino, «movimenti per “la terra e la libertà” che favoriscono la piccola proprietà, le cooperative e il tradizionalismo contro capitalisti, burocrati e socialisti». Canovan porta l’esempio dell’Unione Nazionale Agraria Bulgara, partito scaturito dal movimento contadino, contrario all’intervento nella Prima guerra mondiale e che durante la grave crisi del dopoguerra, nel 1920, riuscì a costituire un proprio governo, rovesciato da un colpo di Stato nel 1923. Ma si può anche ricordare il movimento di occupazione delle terre e di collettivizzazione agraria durante la Rivoluzione spagnola. Il generico gruppo del populismo degli intellettuali rivoluzionari allude alle organizzazioni politiche. Senza fare i distinguo che pure sarebbero indispensabili, per il fine che qui mi propongo si può dire che nel miscuglio possono entrare non solo i narodniki e i socialrivoluzionari russi, ma anche la grande Confederación Nacional del Trabajo/Federación Anarquista Ibérica e i partiti comunisti che nell’agitazione e mobilitazione - altro è considerare cosa abbiano fatto una volta al potere - hanno fatto leva anche sui contadini, da quello di Lenin a Mao.
Questi populismi della tipologia di Canovan, già assai eterogenei, hanno però un tratto fondamentale in comune: nascono come movimenti sociali oppure come organizzazioni e partiti che sono inseparabili da movimenti che contestano i rapporti socioeconomici e l’ordine politico esistente. L’enfasi della studiosa cade su movimenti rurali e contadini e su formazioni sociali arretrate e periferiche nell’economia mondiale capitalistica. Ma il caso della grande Farmers’ Alliance statunitense, che diede poi vita al People’s Party, evidenzia che non ci si può riferire solo alle regioni sottosviluppate e che questi movimenti rurali e populisti non sono - non sempre - alieni al tentativo di stabilire un’alleanza con gli operai urbani. Rimanendo al livello elevato di genericità della tipologia di Canovan, si può comunque concludere che questi sono populismi d’opposizione, movimenti sociali con una loro autonomia - al punto di costituire loro partiti - per lo più non socialisti ma suscettibili, in determinate circostanze, di radicalizzazione anticapitalista.
Di tutt’altro genere sono i populismi delle altre categorie: le dittature populiste, per le quali sono citati Perón e Huey Long, stranamente perché quest’ultimo fu governatore della Louisiana nel 1928-1932, quindi in uno Stato liberale e segregazionista; il populismo reazionario che fa leva sul razzismo, per cui sono portati gli esempi dello statunitense George Wallace - candidato indipendente nelle presidenziali del 1968, ma a lungo governatore segregazionista dell’Alabama per il Partito democratico - e il conservatore britannico Enoch Powell - ministro della Sanità nel 1960-1963; la democrazia populista, intesa come movimenti per accrescere la responsabilità del governo nei confronti del popolo, ad esempio mediante i referendum: i «progressisti» statunitensi, il sistema svizzero. Infine, il populismo dei politici di partiti pigliatutto che usano vaghe nozioni di «popolo»: de Gaulle, Jimmy Carter e - ma dovrebbero rientrare nelle dittature - «molti leader di Stati a partito unico».
Si noterà che in questo secondo miscuglio si tratta di forme di esercizio del potere e di competizione elettorale, non di movimenti sociali che si politicizzano o di populismi d’opposizione. Per questi populismi l’entità popolo è oggetto di propaganda, organizzazione e manipolazione politica, non soggetto autonomo; per la maggior parte delle categorie di questo gruppo le finalità sono socialmente e politicamente conservatrici, non riformatrici - non nel senso progressista e democratico.
5. Un confronto fra il populismo latinoamericano e lo pseudopopulismo contemporaneo
Non si tratta solo di distinguere fra movimenti sociali e partiti populisti all’opposizione dell’ordine politico e sociale esistente, ma anche tra i diversi regimi o quadri istituzionali. Confrontiamo alcuni dei regimi populisti dell’America latina e i populismi contemporanei in Europa e negli Stati Uniti. Per l’America latina ho presente in particolare i casi del Messico dopo la rivoluzione, dell’Argentina sotto Juan Domingo Perón, del Guatemala con Jacobo Árbenz Guzmán, della Bolivia di Víctor Paz Estenssoro, del Brasile sotto Getúlio Vargas; volendo si possono aggiungere all’elenco i casi più particolari della Rivoluzione cubana e del Nicaragua sandinista.
Spesso si confondono particolari regimi statali in paesi neocoloniali e partiti e correnti che agiscono all’interno del sistema dei partiti dei paesi a capitalismo avanzato con regimi liberaldemocratici o - adesso - postdemocratici. Non solo sono qualitativamente diversi i contesti sociali e istituzionali, ma diversi, per molti versi opposti, sono i problemi e le finalità di queste forme di populismo. Nell’uso corrente del termine la differenza qualitativa tra i regimi di paesi neocoloniali e dipendenti e paesi a capitalismo avanzato e imperialisti - che pure si può ancora cogliere in una tipologia come quella di Canovan - è oscurata o per astuzia politica o a causa della postmodernista riduzione dell’oggettività sociale e politica al discorso o per cruda ignoranza.
Ciascuno dei regimi populisti latinoamericani citati ha la sua specificità per genesi e organizzazione; tuttavia, facendo astrazione dai particolari ma mantenendosi a un livello di generalità accettabile, si può dire che tutti scaturirono da situazioni di crisi politica acuta - spesso da insurrezioni armate - e dalla lotta extraparlamentare di grandi movimenti popolari alleati con frazioni della piccola e media borghesia per obiettivi di riforma sociale, libertà politica, indipendenza nazionale (una parziale obiezione si può muovere al caso del populismo brasiliano: in effetti chi - sbagliando - attribuisce l’etichetta di fascista o fascistoide ai regimi populisti potrebbe errare meno se si riferisse allo Estado Novo getulista, invece che all’Argentina di Perón). In questi casi la «rivoluzione» nazionale e antioligarchica presentava potenzialità e tensioni interne tali che essa minacciava di oltrepassare l’obiettivo della modernizzazione del capitalismo nazionale per sfociare in una rivoluzione antimperialista e anticapitalista. I regimi statali populisti latinoamericani si consolidarono nel tentativo - più o meno riuscito - di neutralizzare tali tensioni: di qui anche le loro contraddizioni interne e la formazione di correnti di sinistra, in definitiva il loro fallimento, spesso concluso da un colpo di Stato reazionario con il supporto di potenze straniere, in particolare degli Stati Uniti. Con una formula sintetica si può dire che i regimi populisti esprimono i limiti della realizzazione degli obiettivi di una «rivoluzione borghese» nazionale (riforma agraria, democratizzazione politica) mantenendo rapporti sociali capitalistici nell’epoca dell’imperialismo. Tuttavia, l’economia politica dei regimi populisti latinoamericani fu molto diversa da quella dei cosiddetti populismi contemporanei: comprendeva nazionalizzazioni, politiche di sostituzione delle importazioni, estensione dei servizi pubblici, sindacalizzazione burocratica e contrasti con l’imperialismo e i suoi alleati interni, in particolare nei tradizionali settori esportatori.
Tornando all’eclettica tipologia di Canovan - e ad altre simili - quel che la studiosa definiva il «populismo degli uomini politici» e il «populismo reazionario» sono fenomeni qualitativamente diversi dai populismi storici. Tutt’al più si può concedere che siano pseudopopulismi. I partiti pseudopopulisti fanno leva sulle contraddizioni ideologiche e sociali dei regimi postdemocratici ma puntano a rafforzarli, seppur pretendendo di farlo in modo diverso da quello dei partiti dominanti: sono essenzialmente opportunisti, ben disposti a modulare il loro pseudopopulismo a seconda che siano dentro o fuori il governo.
In questo caso il cosiddetto populismo è solo una strategia di comunicazione a fini elettorali nello spettacolo politico. A questi partiti manca del tutto la condizione indispensabile di un autentico regime populista, alla quale si opporrebbero con tutte le loro forze, all’avanguardia della reazione più conservatrice: un grande movimento sociale che costituisca, almeno potenzialmente, una minaccia per i pilastri politici e socioeconomici dell’ordine esistente.
Questi partiti attaccano il ceto politico dominante aspirando però a farne parte o essendone in effetti già una parte. La retorica pseudopopulistica, o meglio nazionalistica e autoritaria, imputa deliberatamente la responsabilità dei problemi socioeconomici generali proprio a quelle che del sistema sono le vittime maggiori o i più svantaggiati e/o alla generica globalizzazione e/o alla moneta unica e ai burocrati di Bruxelles, allontanando ancor più l’individuazione delle responsabilità mediante una particolare definizione del «noi» e del «loro». Ragion per cui i cosiddetti partiti populistici della destra contemporanea sono nazionalisti e xenofobi - e in Europa sostenitori del ritorno al nazionalismo monetario - ma anche liberisti o ultraliberisti per quanto riguarda la politica sociale ed economica; non vanno oltre vaghe promesse del genere del compassionate conservatorism di George W. Bush o dell’America First del miliardario della speculazione finanziaria Donald Trump, in combinazione, se è il caso, con il nazional-monetarismo. Questa è una chiara indicazione della loro natura pseudopopulista. E, ancora una volta, è interessante notare come intorno allo pseudopopulismo nazional-monetario possa realizzarsi una convergenza di fatto tra una certa destra e una certa sinistra.
Tuttavia, la retorica pseudopopulista non è propria solo della destra.
6. Lo pseudopopulismo come tratto della postdemocrazia
Nei primi anni ‘60 Otto Kirchheimer individuò le caratteristiche del nuovo tipo di partito emergente nei paesi a capitalismo avanzato, il partito pigliatutto:
«Una drastica riduzione del bagaglio ideologico del partito […]; b) Un ulteriore rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice, le cui azioni e omissioni sono ora considerate dal punto di vista del loro contributo all’efficienza dell’intero sistema sociale, piuttosto che dell’identificazione con gli obiettivi della loro organizzazione particolare; c) Una diminuzione del ruolo del singolo membro di partito, ruolo considerato come una reliquia storica, che può oscurare la nuova immagine del partito pigliatutto; d) Una minore accentuazione della classe gardée, di una specifica classe sociale o di una clientela denominazionale, per reclutare invece elettori tra la popolazione in genere; e) Assicurare l’accesso a diversi gruppi d’interesse»10.
Si noterà che questi tratti dei partiti pigliatutto sono attribuiti anche ai partiti pseudopopulisti contemporanei. Il tempo però non trascorre invano: non solo essi sono generalizzati, sono anche qualitativamente intensificati dalla spettacolarizzazione della politica, dalla personalizzazione drammatizzante della competizione e dalla politica simbolica esaltate dai mass media - in particolare dalla televisione - e dal ricorso a tecniche di marketing per definire il prodotto da vendere agli elettori. Fenomeni come il ridimensionamento degli apparati del partito, del ruolo e del peso degli iscritti e la parallela riduzione della partecipazione elettorale esprimono una trasformazione qualitativa dei sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato nel senso della postdemocrazia o di quella che Peter Mair definì «democrazia populista»11, intesa come fatto sistemico fondamentale, centrato proprio sui partiti di governo - l’esempio che portò Mair fu quello del Partito laburista britannico di Tony Blair, ma l’argomentazione può estendersi a tutti i partiti di centro-sinistra o di «terza via».
La postdemocrazia si definisce con due trasformazioni correlate: la statalizzazione di fatto dei partiti, che comporta - oltre al finanziamento statale, ora indispensabile per la loro esistenza - il deciso spostamento a favore delle funzioni di governo rispetto a quella della rappresentanza di interessi e categorie sociali; e la convergenza programmatica, specialmente nel campo della politica economica e sociale - quel che impropriamente si dice liberismo - a favore del capitale nazionale ed estero.
In questo contesto cambiano anche i termini della legittimazione politica e la definizione del popolo. Non si tratta più di rappresentare e mediare gli interessi di una classe (per la sinistra) o di categorie sociali e culturali, ma di proporre «soluzioni» sulla base di criteri «oggettivi» nel presunto interesse della nazione come impresa economica. L’appello elettorale è rivolto a un popolo di elettori che non presenta fratture di classe, ma «problemi» individuali. Ciascun partito o coalizione di partiti cerca quindi di definire, consolidare ed estendere il proprio bacino elettorale facendo ricorso a una retorica antielitaria - con maggior coerenza quei partiti più o meno nuovi e che non hanno avuto esperienze nel governo nazionale - esaltando differenze marginali e la personalità del capopopolo di turno, e differenziandosi su politiche simboliche ma poco costose.
Nella polemica contro i presunti populismi elettorali europei - nella maggior parte dei casi di destra o estrema destra - o di Donald Trump, i regimi populisti latinoamericani sono spesso citati o evocati come esempi negativi e pericoli da evitare. Che se ne abbia consapevolezza o meno, in questo modo non solo si confondono fenomeni qualitativamente diversi, ma la critica alla demagogia e ai contenuti dei destrorsi europei o di Trump finisce in effetti per essere un’apologia della postdemocrazia neoliberista oppure una difesa nostalgica e perdente del regime liberaldemocratico. Infine, con curiosa ma pur tipica schizofrenia, la sinistra che si vuole radicale o anticapitalista che fa questo tipo di critica ai populismi o pseudopopulismi nostrani è poi incapace di cogliere le contraddizioni del «socialismo di Stato» cubano e dei neopopulismi odierni in America latina, schierandosi senza riserve anche quando dovrebbero essere chiari la loro involuzione e l’indirizzo autoritario - è il caso del Venezuela.
E quindi, lasciamo perdere il populismo-regime, che se ai suoi tempi finì in tragedia ora è invece lo spettro di una farsa. Se si vuol proprio etichettare, che il nome corrisponda alla cosa: che è quella di scadenti attori pseudopopulisti, di demagoghi postmoderni della società dello spettacolo. Questo pseudopopulismo può fare danni, ma il problema politico dei paesi a capitalismo avanzato non è il rischio di regimi più autoritari di quelli postdemocratici: non ne esiste alcuna necessità. Agitare ora lo spauracchio populistico ha più o meno lo stesso senso che aveva in Italia la teoria degli «opposti estremismi» negli anni ‘70 del secolo scorso: chiamare a raccolta il popolo per difendere il centro postdemocratico. Con il bel risultato che, in nome del meno peggio, elettori più o meno idealmente di sinistra si trovano a votare per candidati di destra.
A svuotare di senso il parlamentarismo e la rappresentanza come forme in cui possano esprimersi almeno parzialmente interessi sociali diversi è già sufficiente la convergenza di centro-destra e centro-sinistra nella postdemocrazia cosiddetta neoliberista e l’assenza di un autentico movimento popolare, di base e radicale.
1 Il più noto studioso non-marxista del populismo latinoamericano è Gino Germani, italiano emigrato in Argentina durante il regime fascista, di cui diverse opere sono state pubblicate in Italia. La sua interpretazione centrata sulla sociologia della modernizzazione era molto più articolata di quella corrente. Ovviamente, anche le interpretazioni marxiste del populismo sono molto diverse dal metodo delle prevalenti analisi centrate sull’ideologia, lo stile oppure la mentalità: Michael Löwy, The politics of combined and uneven development: the theory of permanent revolution, Verso, London 1981 - in particolare la parte sulle rivoluzioni interrotte - e, a cura dello stesso, Populism in Latin America, International Institute for Research and Education, Amsterdam 1987; Carlos M. Vilas, «Latin American populism: a structural approach», Science & Society, vol. 56, n. 4, 1992-1993; Octavio Ianni, «Political process and economic development in Brazil», New Left Review, I/25-26, 1964; Id., O colapso do populismo no Brasil, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1968 [La fine del populismo in Brasile, il Saggiatore, Milano 1974]; Id., «Populismo y relaciones de clase», Revista Mexicana de Ciencia Política, XVIII/67, 1972 (anche in Populismo y contradicciones de clase en Latinoamérica, Era, Ciudad de México 1973, a cura dello stesso); Roberto Massari, Il peronismo, Erre emme, Roma 1997. Sul populismo statunitense: Lawrence Goodwyn, Democratic promise: the populist moment in America, Oxford University Press, New York 1976, una rilettura storica in antitesi a quella dello «stile paranoide» di Richard Hofstadter, un’anticipazione del metodo corrente e dell’uso del termine come difesa della «razionalità» del centrismo politico.
2 Marco D’Eramo, «Populism and the new oligarchy», New Left Review, II/82, 2013. D’Eramo ha utilizzato il database Library Network della University of California, che include articoli pubblicati su riviste.
3 Alejandro Pelfini, «Uso inflacionario de los conceptos “élite” y “populismo”: desventuras recientes de dos categorías claves de las ciencias sociales latinoamericanas», in Tomás Ariztía (a cura di), Produciendo lo Social. Usos de las ciencias sociales en el Chile reciente, Ediciones UDP, Santiago 2012, p. 107. Il riferimento è a Pierre-André Taguieff, «Las ciencias políticas frente al populismo: de un espejismo conceptual a un problema real», in F. Adler et al., Populismo posmoderno, Universidad Nacional de Quilmes, Buenos Aires 1996. Dello stesso: L’illusione populista. Dall’arcaico al mediatico, Bruno Mondadori, Milano 2003.
4 Il libro di Richard Hofstadter The paranoid style in American politics, and other essays (Alfred A. Knopf, New York 1965) raccoglie saggi scritti a partire dal 1951.
5 Al riguardo non posso che rinviare ai miei due precedenti articoli di questa «serie», pubblicati su Utopia Rossa e citati nel cappello introduttivo redazionale al testo.
6 Cfr. Michele Nobile, Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012.
7 Ad esempio Yves Mény, «Il malessere democratico. Paradossi ed equivoci dalle democrazie nazionali all’Unione europea», in La politica e le radici, a cura di Carlo Baccetti, Silvia Bolgherini, Renato D’Amico e Gianni Riccamboni, Liviana, Novara 2010.
8 Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982.
9 Ernesto Laclau, On populist reason, Verso, London 2005 [La ragione populista, Laterza, Roma/Bari 2008]. Per la critica di Laclau e di altri postmarxisti: Ellen Meiksins Wood, The retreat from class: a new ‘true’ socialism, Verso, London 1986; Nicos Mouzelis, «Ideology and class politics: a critique of Ernesto Laclau», New Left Review, I/112, 1978; Omar Acha, «Del populismo marxista al postmarxista: la trayectoria de Ernesto Laclau en la Izquierda Nacional (1963-2013)», Archivos de historia del movimiento obrero y la izquierda, n. 3, 2012; Id., «El marxismo del joven Laclau (1960-1973): una antesala del postmarxismo», Herramienta, n. 56, 2015.
10 Otto Kirchheimer, «La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale», in Sociologia dei partiti politici, a cura di Giordano Sivini, il Mulino, Bologna 1971, p. 191.