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mercoledì 5 aprile 2017

SUL DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI, di Pier Francesco Zarcone

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

Per molto tempo persone benintenzionate di vari paesi hanno cercato di introdurre il principio di legalità nelle relazioni fra Stati, confidando a tal fine nello strumento del diritto internazionale.
Uno strumento imperfetto, fragile, in parte di natura convenzionale e in parte di natura pattizia, funzionante solo operando il timore di rappresaglie efficaci da parte di altri Stati.
Nella situazione odierna, più che mai, parlare di diritto internazionale ha il sapore di una beffa, giacché nel cosiddetto "nuovo ordine mondiale" dell'imperialismo le questioni di legalità e di illegalità risultano ormai relegate a materia di studio e discussione per gli specialisti del diritto, ma senza rilevanza pratica. Oggi, chi può fa quel che vuole.
Allora, qual è il senso del parlare di diritto di autodeterminazione dei popoli in un quadro del genere?
Semplicemente si tratta di argomentare che il diritto internazionale - seppur rispettato - non può tutelare esigenze anche fondamentali, presentate e sentite come veri e propri "diritti", trattandosi di un sistema giuridico formato dagli Stati e in base alle loro esigenze; soprattutto se si tratta di Stati potenti.
Cinicamente, ma in modo veritiero, va ricordato che il diritto nasce dalla forza e non dal riconoscimento di esigenze etiche. Di modo che è vano appellarsi al diritto di autodeterminazione dei popoli: semmai, avendo forza e volontà lo si deve solo affermare e lottare per esso con tutti i mezzi a disposizione.
Per questo l'indipendentismo catalano che si ostina a operare per vie legali è destinato a sicura sconfitta; il cambio di registro non dà sicurezze, ma può creare grossi fastidi allo Stato nazionale (oltre a ridurre le spese e il tempo perso per sterili battaglie legali).
In fondo, attivare il diritto di autodeterminazione dei popoli comporta una rivoluzione rispetto all'ordine precedente, e ogni rivoluzione è per sua natura extra-legale o anti-legale.
Un'ultima annotazione. I giuristi posseggono un proprio linguaggio tecnico (al pari di qualsiasi altro specialista) formatosi nel tempo in base all'esigenza della maggior precisione possibile, tanto che spesso vengono accusati (dai non-giuristi) di spaccare il metaforico capello in quattro.
Al di fuori di costoro tutti, soprattutto i politici, non si devono invece attenere alle limitazioni implicate dal tecnicismo giuridico e quindi possono andare a ruota libera, anche col rischio di suscitare illusioni non proficue per gli interessati; spesso e volentieri dimenticando che i contenuti presentati sotto la copertura del termine "diritto" sono essenzialmente di due tipi: o costituiscono una rivendicazione morale, in assenza di previsioni al riguardo da parte di un ordinamento giuridico a cui gli interessati possano rivolgersi (e quindi in tal caso il diritto non esiste), oppure si tratta di qualcosa di davvero esistente sul piano giuridico.
In quest'ultimo caso, però, è necessario accertare quali ne siano (vale a dire di che portata) le inevitabili limitazioni, tanto per aver chiaro come agire quanto per operare - eventualmente - al fine di modificare tali limiti.
Nulla di diverso accade per il diritto di autodeterminazione dei popoli. Generalmente si ritiene trattarsi di un vero diritto riconosciuto e che quindi ogni diniego alla sua applicazione sia illegittimo, oltre che ingiusto. Purtroppo questo non è vero, e infatti ogniqualvolta si è cercato di attivare questo diritto per vie legali è scattato il diniego. D'altro canto si tratta di un diritto estremamente delicato, con implicazioni e ristrutturazioni geostrategiche e anche economiche.
Comunque nel caso in ispecie si tratta di un diritto tutt'altro che definito negli aspetti essenziali, di contenuto e di procedura: tanto per cominciare, non è ben chiaro chi ne sia il titolare, non bastando dire al riguardo che esso è il popolo; inoltre sono inesistenti le procedure per la sua attivazione, e infine non è assistito da qualsivoglia garanzia.
Non casualmente quest'assenza, già nella Carta dell'Onu, fu dovuta a Gran Bretagna e Francia, all'epoca ancora grosse potenze coloniali. Ragion per cui non ha alcun significato pratico, ma è solo retoricamente enfatico, definirlo ius cogens, ovvero diritto inderogabile da qualsiasi trattato o norma statuale interna. In realtà, nell'attuale ordinamento internazionale si tratta di un diritto assai più virtuale che effettivo.
In epoca contemporanea l'autodeterminazione fu originariamente espressa dal Presidente statunitense Woodrow Wilson nel suo discorso al Congresso dopo la Grande Guerra, in cui proclamava: «Bisogna rispettare le aspirazioni nazionali, i popoli ora devono essere dominati e governati solo previo consenso degli stessi. L'"autodeterminazione" non è solo una frase. È un principio d'azione imperativo e, se gli statisti lo ignoreranno, d'ora innanzi lo faranno a loro rischio e pericolo».
Ma al suo pathos non corrispose nell'immediato alcun principio di chiarezza, e anzi la sua applicazione nella definizione dei nuovi confini europei - in parte opportunista e in parte dissennata - portò a tali squilibri e problemi da poter essere annoverata fra le concause del secondo conflitto mondiale.
Dopo il 1945, su questo diritto non sono mancate affatto le pronunce giuridiche con pretesa di "basilarità", e quindi abbiamo (tra i documenti più importanti) la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione dell'Assemblea generale sull'indipendenza dei popoli coloniali (1960), il Patto internazionale sui diritti civili e politici, voluto dall'Onu nel 1966, la Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall'Assemblea generale nel 1970, e l'Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1975).
Tuttavia, come già detto, i firmatari di tutte queste norme e dichiarazioni sono i rappresentanti di Stati, molti dei quali suscettibili di avere a che fare con rivendicazioni secessioniste, e quindi non deve stupire se in linea di principio si sia affermata la tendenza a escludere effetti retroattivi all'autodeterminazione in ordine agli assetti territoriali originati quanto meno dai maggiori conflitti del XX secolo.
Ma non solo. Ne è stata applicazione la sentenza del 1996 con cui la Corte suprema del Canada, investita della questione dell'indipendenza del Québec, sostenne che del diritto di autodeterminazione possono avvalersi ex colonie, popoli soggetti a dominio militare straniero e gruppi sociali ai quali le autorità nazionali neghino il diritto a vari tipi di sviluppo: politico, economico, sociale e culturale. Ma non altri. Conclusione ineccepibile alla stregua della dottrina dominante.
Ne deriva quanto segue: in teoria il principio di autodeterminazione non tutela le regioni o le parti di popolazione che intendano staccarsi da un determinato Stato, bensì solo quelle realtà che sono soggette a discriminazioni di tipo coloniale o assimilabili, con la conseguenza del venir meno in questi casi dell'obbligo di non ingerenza negli affari interni di uno Stato, e quindi della liceità (sempre alla stregua del diritto internazionale) degli aiuti esterni agli indipendentisti di turno.
Restano invece fuori da questo quadro tutti gli altri casi, i quali - al precipitare delle situazioni - vengono considerati "insurrezioni". Li si colloca cioè in una fattispecie giuridica diversa, a cui compete una diversa valutazione alla stregua del diritto internazionale.
Effettivamente, nel caso di un evento considerabile insurrezione, vale in teoria il principio della non ingerenza negli affari interni dello Stato in cui questa si verifichi; fatte salve le ipotesi di repressioni lesive dei diritti umani (valutazione spesso suscettibile di estrema arbitrarietà, più che di discrezionalità, e quindi di scelte politiche opportuniste).
Infatti, particolarmente dalla seconda metà del XX secolo, varie insurrezioni sono state trattate come secessioni basate sull'autodeterminazione e viceversa.
Tipico esempio di pragmatica confusione opportunista è stata la ex Jugoslavia, in cui gli interventi delle potenze occidentali sono avvenuti nel più totale prescindere dal diritto internazionale, ma in base a convenienze politiche geostrategiche: la secessione croata è stata così appoggiata e riconosciuta, ma non quella dei Serbi della Krajina; sì alla secessione della Bosnia, ma non a quella dei Serbi locali che avevano costituito una propria repubblica; sì alla secessione del Kosovo, ma diniego alla sua unione con l'Albania.
Indispensabile in ogni caso è sempre la reiterazione di un diffuso "cancan" mediatico, indipendentemente dalle realtà effettuali.
Ma questo non è tutto. Esiste un grande (e insospettato) problema: attribuito il diritto di autodeterminazione ai "popoli", resta da stabilire (sempre giuridicamente, ma com ricadute politiche) cosa sia "un popolo", al di là di ogni retorica. Ciò in quanto - nel quadro dell'attuale diritto internazionale - c'è la tendenza a non attribuire diritti a popoli, ma a Stati.
Può sembrare paradossale, tenuto conto di quanto stiamo parlando, ma il fatto è che la dottrina internazionalista dominante vede ancora soltanto negli Stati i titolari di diritti internazionalmente rilevanti (e di obblighi). Questo sistema, però, mostra le sue falle in tutti i casi in cui emerge l'intenzione di tutelare le popolazioni dai rispettivi governi.
Se non vi è dubbio che senza autodeterminazione sarebbe impossibile parlare di sovranità popolare, è tuttavia possibile sostenere che l'autodeterminazione e la sovranità appartengano a un popolo nel suo insieme, ma non già a una determinata porzione di esso (quella secessionista), e che quindi le deliberazioni sull'indipendenza non spettino solo alla parte che la rivendica, bensì alla totalità della popolazione statuale a cui ancora appartenga.
In sostanza è questa la tesi di Mariano Rajoy sul referendum catalano: decida al riguardo tutto il popolo spagnolo, e non solo la Catalogna.
Dicevamo del dibattito sulla definizione di popolo. Se fosse tutto pacifico sarebbe stata una perdita di tempo l'aver dedicato a questo tema il seminario dell'Unesco tenutosi a Parigi nel 1989. In quella sede fu concordato che si ha un popolo quando un gruppo umano presenta determinate caratteristiche: tradizione storica comune, identità razziale o etnica, omogeneità culturale, identità linguistica, affinità religiose e/o ideologiche, legami territoriali e vita economica comune.
Inoltre deve trattarsi di un gruppo non necessariamente considerevole sul piano numerico, ma non riducibile a una mera associazione di persone entro uno Stato; deve presentare - almeno a determinati livelli - la coscienza di essere un popolo e avere istituzioni comuni.
Si badi bene: siamo in presenza di un'elaborazione puramente intellettuale che nella prassi politica internazionale lascia il tempo che trova.
Lo stesso dicasi anche per convenzioni internazionali che vorrebbero avere una portata concreta: si pensi alla Convenzione internazionale contro il sequestro di ostaggi del 1983, nel cui art. 12 se ne stabilisce la non applicazione in caso di atti di sequestro di ostaggi commessi nel quadro di conflitti contro un regime coloniale o razzista, oppure contro un'occupazione straniera, nell'esercizio del diritto di autodeterminazione conforme alla Carta delle Nazioni Unite.
Norma da interpretare, con interpretazioni la cui efficacia dipenderà di volta in volta dai rapporti di forza internazionali. Per esempio: soggiace il popolo basco a occupazione straniera spagnola, oppure no? Per la Spagna no, per i Baschi sì. Finora la partita l'ha vinta Madrid.
Per quanto sembri paradossale in base al mero buonsenso, il diritto internazionale odierno non riconosce la nozione di minoranza nazionale, bensì la assorbe in quella generica di popolo, inteso come popolazione di un dato Stato.
Quindi concretamente, e al di là delle teorizzazioni dei giuristi, la situazione è la seguente: in linea di massima gli Stati (cioè i vari soggetti che contano) danno prevalenza al principio di integrità territoriale attuale, salvo non considerarlo nei casi in cui ciò convenga o sembri convenire. Di conseguenza i giochi continuano solo se lo vogliono i ribelli, potenziali o effettivi.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.