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sabato 9 agosto 2014

EQUIVOCI DA DISSIPARE SU VICINO E MEDIO ORIENTE, di Pier Francesco Zarcone

A ingarbugliare ancor di più l’immagine della già complicata situazione nel Vicino e Medio Oriente contribuiscono certe superficiali generalizzazioni, diffuse dai grandi mezzi di comunicazione in modo martellante e quindi ormai diventate luoghi comuni. Sostanzialmente esse causano due equivoci di base: la riduzione delle vicende siriane, irachene, libanesi ecc. a un “conflitto settario” tra Sunniti e Sciiti; e la presentazione dell’Islam in quanto tale come irrimediabilmente inconciliabile con la distinzione tra sfera politica e sfera religiosa.


Il conflitto settario c’è, ma non basta
Intendiamoci: non si nega l’esistenza di questo conflitto, e nemmeno si mette in dubbio lo sviluppo di un processo di riscossa sciita iniziato in Libano anche prima della rivoluzione iraniana. Il problema, invece, è che si tratta di un fenomeno inidoneo da solo a esaurire l’intreccio d’insieme. In genere di questo non si parla, o se ne parla troppo poco; e del pari – almeno fino a pochi giorni fa – sono state scarsamente rivelate la dimensione e l’efferatezza delle imprese del settarismo jihadista e la barbarie della sua propaganda, a motivo di una perdurante ambiguità occidentale verso di esso. L’azione propagandistica di fanatici predicatori e le fatawa di rozzi ulema contro gli “infedeli” (termine inclusivo di Sunniti di diverso orientamento, degli Sciiti e ovviamente dei non-musulmani), e addirittura le loro “legittimazioni” dello stupro a danno di donne sciite, cristiane e laiche, in linea di massima interessavano poco, nonostante il sottostante livello di abiezione.

Che il moderno jihadismo sia un fenomeno essenzialmente sunnita è fuori discussione: il problema, tuttavia, consiste nel suo grado di rappresentatività dell’Islam sunnita, a prescindere dalle pretese di esserne gli esponenti esclusivi. Per meglio intendere ciò si deve preliminarmente soffermare l’attenzione su quali siano le parti in campo e le vittime dell’estremismo jihadista; neppure sarebbe male effettuare un esame storico e culturale complessivo del mondo islamico. Sotto questo punto di vista è interessante quanto scrisse Mohamed Omar nell’articolo I Sunniti sono oppressi in Arabia Saudita, non in Siria, comparso su “Eurasia” del 13 agosto 2012. Detto in sintesi - nel confutare la ricorrente identità diffusa in Occidente fra Sunnismo e Wahabismo saudita (a cui peraltro egli finisce con l’avvicinare l’ideologia dei Fratelli Musulmani), a motivo del fatto di essere questa corrente islamica la matrice ideologica del jihadismo – questo autore ricorda come il Wahabismo sia una corrente “religiosa” affermatasi fra beduini rozzi e ignoranti, che in oltre 200 anni abbia direttamente causato la morte più di Musulmani sunniti che di “infedeli”, e che in definitiva si sia rivelato oppressivo proprio per i Sunniti, tant’è che in Arabia Saudita tutte le moschee sono wahabite (non v’è ne è alcun’altra di diverso orientamento sunnita) e nelle scuole si insegna solo l’ideologia wahabita. Da qui la contrapposizione tout court fra Wahabiti e Sunniti fatta da Mohamed Omar.
Il tratto più caratteristico dei Wahabiti, e dei jihadisti in genere che obiettivamente ne condividono l’ideologia senza nemmeno esasperarla più di tanto, non è – come in genere si crede – l’interpretazione ultraletteralista del Corano e dei Detti del Profeta, quanto e soprattutto la loro pretesa (sostenuta, oltre che dalla violenza, da un’enorme disponibilità economica) di essere loro gli unici autentici musulmani, a scapito di tutti gli altri, sostanzialmente considerati apostati e quindi meritevoli di essere uccisi (fu questo il retroterra ideologico del grande scannatoio algerino alla fine del secolo scorso, senza riguardi per donne e bambini; anzi!). Eppure, a ben considerare e per tragica ironia storica, questa fu la caratteristica tipica degli antichi Kharigiti, cioè della frazione più estremista del proto-Sciismo, dalle cui fila provenne l’assassino del 4° Califfo e primo Imam sciita, Ali.
Per quanto riguarda le attuali forze in campo si individuano elementi contrari allo schema del conflitto settario fra Sunniti e Sciiti. Quand’anche non si aderisca del tutto all’impostazione di Mohamed Omar (che finisce con l’espungere dal corpo sunnita sia i Wahabiti sia i Fratelli Musulmani), lo scontro in atto è rappresentabile come contesa mortale fra il radicalismo jihadista da un lato, e il resto del mondo - musulmano e non – dall’altro lato.
Prendiamo il caso siriano, presentato come lotta fra Alawiti e Cristiani contro i Sunniti locali. Tale impostazione non dà conto della recente notizia (il 2 di questo mese di agosto) che in Siria combattenti della tribù sunnita al-Shaitat hanno liberato dai jihadisti vari villaggi strategici nei dintorni di Deir Ezzour, dopo Abu Hamam, Kashkiyeh e Ghranij. Prezzolati. Né deve sfuggire che l’esercito governativo siriano è pieno di soldati sunniti, e l’appoggio della popolazione sunnita al governo è valutato sull’80% di essa (difatti nella stragrande maggioranza i jihadisti operanti in questo paese non sono siriani, tant’è che nella stampa francese e libanese si parla di conflitto che di siriano ormai ha solo il nome).
Passando al Libano, sempre a mo’ di esempio, non solo di recente Beirut è stata teatro di scontri armati con gruppi wahabiti, terminati solo con un consistente intervento dell’esercito libanese, ma per giunta nei giorni scorsi a Ersal (nel nord del paese) si sono svolti lunghi e impegnativi combattimenti fra militari e jihadisti, conclusisi con la sconfitta di questi ultimi. Si è trattato di scontri limitati ai due soggetti sopra indicati, senza coinvolgimento della popolazione sunnita. Risulta anzi che il clima politico locale, ben lungi dal fare emergere un settarismo di massa, abbia rafforzato le tendenze contrarie ai jihadisti proprio nella comunità sunnita. Già nei mesi scorsi i capi dei principali blocchi politici libanesi – quand’anche di diverso orientamento religioso e su posizioni opposte in relazione al conflitto in Siria – hanno concordato un piano di emergenza per la sicurezza nazionale contro il comune nemico jihadista.
Incidentalmente va rilevato il fatto “anomalo” di un prestito dall’Arabia saudita di 2.200.000 dollari alle Forze Armate libanesi; forse da qui in seguito si capirà cosa ci sia sotto: l’inizio di una presa di distanza del governo saudita rispetto a un jihadismo che non controlla più? Staremo a vedere, anche se non esistono dubbi circa l’intrinseca capacità di destabilizzazione anche dell’Arabia Saudita da parte del jihadismo dopo la costituzione del califfato di al-Baghdadi (da un lato risibile, ma da un altro lato capace di far piangere molti). 
Tornando a noi, anche i maggiori esponenti religiosi dei bastioni sunniti libanesi (Tripoli a nord, Sidone al sud e Ersal alla frontiera siriana) si sono dichiarati contro il pericolo jihadista. Atteggiamento sincero, oppure timore di una pericolosa concorrenza? A leggere un recente reportage di Natalia Sancha su El País dell’8 agosto si dovrebbe propendere per la seconda ipotesi. Intervistato da questa giornalista, l’influente sceicco sunnita di Bab al-Tebene (Tripoli), Abu Mazen, ha sostenuto che traendo i leader sunniti la loro forza da finanziamenti locali, lasciare spazio ai jihadisti vorrebbe inevitabilmente dire perdere sia la capacità di mobilitazione sia i predetti finanziamenti. Comunque sia, se alla fine a contare sono i risultati più delle intenzioni, “ci si può anche stare”.
In definitiva si deve concordare col Gran Mufti di Damasco (sunnita), Ahmad Badr ad-Din Hassun, il quale ha sottolineato l’esistenza di una campagna di aggressione esterna, voluta da potenze straniere regionali e occidentali, che incentivano e/o si avvalgono dello scontro confessionale in termini strumentali .

Panarabismo vs. jihadismo
Un’ulteriore considerazione riguarda un aspetto ormai trascurato: per quanto, come ideologia trainante, il vecchio panarabismo (di origine cristiana e sunnita) risulti decisamente fuori moda, tuttavia in vari paesi dell’area (almeno in Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Siria) le vicende di secoli e secoli di storia hanno prodotto un forte senso di identità nazionale peraltro inquadrata nell’appartenenza alla più ampia famiglia di lingua araba; sentimento da non trascurare nonostante appaia “sotto traccia” per non essere evidenziato né ricordato dai media. Tutto ciò cozza decisamente con l’ideologia del jihadismo, incentrata come è su una totalizzante affermazione dell’Umma (la comunità dei fedeli Musulmani; parola che viene da um, madre) rispetto a qualsiasi altra realtà identitaria. Si tratta di un’ideologia incentrata su una escludente “madre-patria musulmana” transnazionale, in urto radicale sia contro l’ipotesi stessa del panarabismo, sia contro qualsiasi “nazionalismo” locale; e infatti li considera entrambi sacrilega eresia, giacché l’unica vera nazione per i Musulmani sarebbe l’Umma. Si tratta di una concezione per la quale sarebbe da considerare eretica tutta la storia dell’Islam, quantomeno quella successiva ai primi quattro Califfi.
È facile immaginare quanto poco possa piacere tutto questo a Sunniti affezionati al loro passato e al loro essere arabi, alla loro identità nazionale - che per secoli hanno vissuto l’Umma essenzialmente come realtà spirituale (metafisica, si potrebbe dire) ed elemento di unione coesistente con qualsiasi particolarismo, in quanto al di sopra di essi ma senza escluderli.  
Un ulteriore aspetto idoneo a distanziare i jihadisti dai comuni Sunniti è di natura esistenziale. Gli osservatori più avveduti hanno sottolineato, fin dall’inizio, lo sprezzo per la morte nei combattenti jihadisti; e se si leggono le dichiarazioni di costoro ne risulta un panorama mentale del tutto alienato verso la prospettiva del Paradiso quale ricompensa per le loro gesta. Qualcuno ha detto che a tali personaggi non interessa tanto vincere quanto combattere per Allah. È quindi legittimo chiedersi – retoricamente - quanti Sunniti condividano un’impostazione che svalorizza in modo assoluto la vita terrena, peraltro contrariamente alla stessa dimensione coranica.   
Tirando le somme: il conflitto settario esiste, ma nei termini predetti; lo stesso dicasi per lo sforzo politico di riscossa delle comunità sciite dopo secoli di oppressione da parte di poteri sunniti, colonialisti e (in Libano) cattolico-maroniti, coniugato con i progetti iraniani di tornare a essere una potenza regionale di tutto rispetto; ed esiste pure l’esclusivismo politico sciita di al-Maliki che ha creato notevoli problemi in Iraq. Altro ancora si potrebbe aggiungere, ma senza modificare il quadro d’insieme. Volendo continuare a parlare di “scontro di civiltà”, è imprescindibile dire che esso si svolge fra il radicalismo islamico e tutto il resto dell’universo umano, Sunniti compresi. Vedere gli avvenimenti attuali nell’ottica del mero scontro settario è erroneo e anche fuorviante, in quanto suscettibile di non far più distinguere – insieme alle reali parti in causa – i nemici dai semplici avversari e dai potenziali alleati.
 
La distinguibilità fra sfera politica e sfera religiosa
Apparentemente la posizione jihadista contro gli Stati non basati esclusivamente sulla Legge coranica, dovrebbe essere propria di tutti i Sunniti, dalla semplificazione occidentale accreditati come portatori della indistinguibilità fra religione e politica. Visione facilmente argomentabile con la pregnanza e pervasività del fattore religioso nel mondo islamico. Tuttavia, ancora una volta, con l’approfondimento e i riscontri storici le cose non si amalgamano con tale semplificazione.
In primo luogo nell’Islam non s’individua una specifica teoria politica di origine  coranica. Talché con riferimento alla delicata questione della distinzione tra religione e potere statale, sono state e sono le singole situazioni locali a determinare il grado di laicità “digeribile” da ciascuna società musulmana in base al proprio modo di essere. Si potrebbe quindi parlare di “digeribilità variabile” giacché, per esempio, l’Islam arabo e quello indonesiano non sono la stessa cosa, e all’interno del primo la Siria non è lo Yemen o l’Arabia Saudita.
Tale “digeribilità” prescinde dalla dogmatica islamica in sé e per sé, dipendendo essenzialmente dalle superfetazioni culturali storicamente formatesi, alle quali comunque viene attribuito un fondamento religioso il più delle volte arbitrario. Ragionando diversamente si cade nella trappola degli islamisti più ottusi, non casualmente condivisa dai fondamentalisti cristiani. Nella stessa trappola cadono sovente anche certi noti e interessati “orientalisti” (come per esempio Bernard Lewis) giustamente oggetto degli strali lanciati a suo tempo da Edward Said nel suo ormai classico Orientalismo[1]. Non solo nel caso dell’Islam vale sempre la distinzione fra religione-testo (con la sua oggettività non più storica) e il cosiddetto vissuto religioso (eminentemente storico-dinamico e determinato da processi socio-economici e politici).
La nostra conclusione sopra esposta trova riscontro in quanto sostenuto dal teologo dell’università sunnita cairota di al-Azhar, Ali Abd ar-Raziq, in L’Islam et les fondements du pouvoir. Egli, mediante un lavoro sistematico di rivisitazione delle fonti (Corano e Detti del Profeta), ha confutato la tesi che la laicità sia globalmente respinta dall’Islam e che esista un preteso “sistema politico islamico”. Altrettanto importante è la distinzione da lui fatta tra Islam (come frutto della rivelazione divina) e musulmani (soggetti storici), il cui il retaggio di mentalità, abitudini e costumi formatisi in determinati luoghi e momenti non va confuso col messaggio religioso.
Neppure va trascurato che nel corso della storia e fino a oggi in tutti i paesi musulmani le necessità concrete e/o gli opportunismi politici hanno piegato a loro favore anche la Legge religiosa, mediante prassi, comportamenti e iniziative di assai dubbia ortodossia, o giustificati con interpretazioni delle fonti alquanto opinabili, oppure non giustificati affatto. Pur tuttavia questo ha anche costituito un varco per l’avvento di elementi laico-secolari.  
Che la tradizione culturale islamica sia alquanto refrattaria alla laicità nei termini in cui essa viene intesa nel mondo occidentale, è fuori discussione. E lo manifesta anche la lingua araba: la peggiore traduzione di laicità consiste nell’uso del termine laa diinii (senza religione); in un dizionario della fine del secolo XIX, a opera del cristiano libanese Butrus al-Bustaanii, è comparsa la parola ‘almaaniyya, prima inesistente, derivante da ‘aalam, mondo, che esprimendo mondanità è più affine a secolarizzazione che non a laicità. Oggi è più usata la parola ‘ilmaaniyya, derivante da ‘ilm, conoscenza, in definitiva riferita allo spirito razionale. Ci sarebbe anche laaikiyya, formalmente la migliore di tutte se però non avesse assunto una connotazione un po’ dispregiativa.
La necessità di uno Stato islamico per la vita religiosa dei credenti non è affatto dogma di fede e i veri punti critici coinvolti da impostazioni di tipo laico sono in definitiva solo due: il diritto di famiglia e il contenuto della sfera dei diritti civili. Cose non da poco, certo; ma non insormontabili, tant’è che in materia una legislazione assai avanzata esisteva in Tunisia prima della cosiddetta “primavera araba” ed esiste ancor oggi nel Marocco monarchico.
 
Sfera religiosa e sfera politica: quali precedenti storici nel mondo islamico?
Nell’Islam non c’è mai stata una vera e propria teocrazia, oltre a non esistere niente di analogo a una Chiesa. Gli stessi mullah sciiti non costituiscono un clero vero e proprio, ma sono solo un corpo organizzato di dottori della Legge sacra (nel mondo sunnita ci sono gli ulema). Anche la vecchia istituzione del Califfato - i successori del profeta Muhāmmad alla guida della comunità islamica - non dev’essere fraintesa: non ebbe niente di analogo col Papato, ma fu solo un’istituzione a guardia della corretta applicazione dell’Islam e delle sue interpretazioni ortodosse. Quello del Califfato è un tema non secondario tenuto conto che la sua ricostituzione fa parte del bagaglio ideologico-programmatico del moderno radicalismo islamista, nel quadro del preteso ritorno alla purezza islamica originaria. Già in rapporto all’epoca califfale è possibile individuare una divisione almeno funzionale fra sfera religiosa e sfera temporale (o profana), sia per l’accentuazione del ruolo temporale dei Califfi (almeno finché ebbero la forza di esercitarlo) sia per la progressiva perdita di controllo sulle questioni religiose, controllo progressivamente assunto dagli ulema. Poi, con la formazione e l’affermazione delle grandi scuole giuridiche islamiche (o meglio, teologico-giuridiche) la divaricazione fu definitiva.
Va pure detto che i Sultani ottomani (ultimi Califfi sunniti) non dettero mai soverchio peso a questa loro carica, almeno fino alla fase terminale del loro impero, quando invece la riesumarono nel tentativo di rafforzarne la componente musulmana dell’impero per contrastare la disgregazione nazionalista operata dalle componenti cristiane. Il Califfo, quindi, non è mai stato il capo spirituale dell’Islam sunnita. A un certo punto fu l’imperialismo britannico ad avere l’interesse a presentarlo in questo modo, al fine di utilizzare l’amicizia con questa asserita “autorità religiosa” per tenere buone le popolazioni musulmane del suo impero coloniale.
Il radicalismo islamico contemporaneo – come detto altre volte - non vuole difendere né rafforzare l’Islam tradizionale bensì imporre una del tutto nuova concezione della vita religiosa, e non a caso lotta contro la religiosità popolare; tant’è che al riguardo qualcuno ha reputato più appropriato parlare di “neo-Islam”. L’Islam di questi radicali, paradossalmente, ha qualcosa di pre-laico, nel senso di separare la pratica religiosa dalla spiritualità, essendo privo di vero spessore spirituale e incentrandosi essenzialmente sulle pratiche esteriori, sul mero formalismo rituale e su determinati abbigliamenti. È solo grazie a questa specifica fazione che si diffonde nelle società islamiche un puritanesimo inquisitoriale magari supertecnologizzato.



[1] Feltrinelli, Milano 2008.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.