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giovedì 12 dicembre 2013

IL «CAOS CREATIVO» DEGLI USA NEL MONDO ARABO: LA SCHIZOFRENIA È SOLO APPARENTE, di Pier Francesco Zarcone

L’arte della menzogna
All’inizio del suo pregevole libro Divide et impera, Paolo Sensini ha posto una frase che riportiamo in quanto utile chiave di apertura del presente articolo:
«Viviamo in un tempo in cui gli eventi che accadono intorno a noi si fanno di giorno in giorno più labili, oscuri e circonfusi da un alone di incomprensibilità. Un tempo in cui, se muniti degli opportuni “mezzi di comunicazione di massa”, si può sostenere ciò che si vuole. Anche le cose apparentemente più inverosimili. Basta solo disporre di un adeguato “volume di fuoco” mediatico e tutto, o quasi, può essere rappresentato nella maniera che più si desidera. (…) Oggi, nello spiegare un evento passato o presente, le argomentazioni generalmente addotte dai media non seguono un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli “spettatori”»[1].
Chi non ricorda le “commoventi” notizie sulla ferocia repressiva di Gheddafi e sull’eroismo dei ribelli di Misurata, con il conseguente plauso al salvifico intervento occidentale (che qui su Utopia Rossa abbiamo qualificato subito come aggressione) proprio mentre i ribelli erano alle corde? E come dimenticare i reportages sulla Siria incentrati sul numero dei civili morti (in particolare i bambini), tutti imputati all’esercito regolare? Ora gli stessi media scoprono che in realtà i ribelli di Misurata erano bande scatenate di radicali islamici, e si comincia a dire (ma ancora un po’ in sordina) che erano organizzati, armati e finanziati dalla solita triade imperialista occidentale: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. In Siria, soprattutto dopo il primo attacco di al-Nusra al paese cristiano ortodosso di Maalula (questione su cui il Vaticano non poteva non intervenire, a prescindere dalla diversità di confessione delle vittime), non è stato possibile passare sotto silenzio i crimini commessi dai ribelli locali, e adesso iniziano a circolare (ma sempre con cautela) notizie sulle inenarrabili atrocità da loro commesse a carico di uomini, donne e bambini, degne di un romanzo dell’orrore e nel “perfetto” atroce stile collaudato in Algeria.
Questi radicali combattenti dell’Islam sono chiamati (dai musulmani che la pensano diversamente) takfiri, parola che in arabo dice tutto. In buona sostanza sono gli autoproclamati unici veri musulmani, contrapposti a tutti gli altri ed educati dai loro “maestri spirituali” alla legittimazione – come atti religiosamente meritori – degli omicidi, degli stupri e delle torture a danno di atei (tutti i laici per loro sono tali), cristiani (infedeli per definizione) e islamici di diverso orientamento (in quanto considerati cripto-apostati). Continua a essere taciuto che la maggior parte del popolo siriano sta con Bashar al-Assad, quanto meno visto come il male di gran lunga minore rispetto alle sicure “delizie” che deriverebbero dalla vittoria dei ribelli. Altresì aumentano i resoconti di quanti argomentano che in Siria sarebbero stati proprio i ribelli a usare i gas. Continuano a essere assenti le notizie sulla situazione militare in terra siriana; per corollario nulla si sa dai grandi media sull’apporto all’esercito regolare da parte delle milizie popolari volontarie formatesi per autodifesa. Chi ragiona con la sua testa, ad ogni modo, capisce bene che senza l’appoggio popolare (in aggiunta ovviamente agli aiuti militari iraniani, russi e cinesi) il regime di Damasco sarebbe stato già spazzato via. Infine si comincia a parlare – con giusta preoccupazione – di un tema già accennato in precedenza sulle pagine di Utopia Rossa: che succederà al rientro in patria dei reduci jihadisti dalla Siria (molti sono muniti di cittadinanze europee)? Preoccuparsi ora, però, è tardivo.
Intanto (si direbbe gergalmente “senza saper né leggere né scrivere”) un Paese alquanto defilato come l’Angola – con scarsità di musulmani autoctoni, ma con presenza crescente di islamici immigrati dall’Africa Occidentale – ha pensato bene di organizzarsi in prevenzione: semplicemente il ministero della Giustizia ha negato la legalizzazione della religione musulmana e più di 60 moschee sono state chiuse d’autorità. Tuttavia si tratta di un precedente eccessivo che non potrà essere imitato in Occidente.
Sensini non è l’unico a parlare di un “obiettivo caos” perseguito dall’imperialismo statunitense (appoggiato dai soliti alleati); anzi taluni hanno coniato l’espressione “caos creativo” o “geopolitico” per indicare l’azione imperialista volta a suscitare – a proprio uso e consumo - frammentazioni politiche, disunioni intrastatuali e guerre civili in aree strategicamente di rilievo sotto il profilo delle risorse energetiche e della geopolitica. È accaduto in Libia con palese successo; ma in Siria, le cose non vanno tanto bene per chi ha provocato il caos; comunque in entrambi i casi ad avvantaggiarsene sono stati i gruppi più estremisti del radicalismo islamico: vale a dire i presunti conclamati “nemici” dell’Occidente (contraddizione formale solo apparente, come diremo in seguito).
Nel secolo XIX Rudyard Kipling, a proposito delle manovre di Gran Bretagna a Russia per l’egemonia in Asia Centrale, parlò di “Grande Gioco”: ebbene, un nuovo Grande Gioco non da ieri viene sviluppato dagli Stati Uniti dall’Africa del Nord fino all’Estremo Oriente. Trattarne in un unico articolo non è possibile per ragioni di spazio, tuttavia il perdurare di queste manovre consente di diluire la trattazione nel tempo, senza che ciò pregiudichi nulla; semmai consente di dare contenuto attuale agli scritti. Per cui in questa sede trattiamo essenzialmente del mondo arabo. 
Un indubbio esperto di propaganda, il dott. Joseph Goebbels nel 1933 definì in questo modo il segreto della sua attività:
«intridere delle proprie idee l’individuo di cui essa vuole impadronirsi senza che egli si accorga minimamente d’essere imbevuto».
E sottolineò pure l’essenzialità di fare in modo che il destinatario della propaganda non percepisca quali ne siano i fini. Al riguardo, oggi come ieri è fondamentale l’apporto capillare e ripetitivo dei mass media, la loro opera di banalizzazione ad ampio raggio e di diffusione a livello di luoghi comuni dell’ideario dei “maestri del pensiero” ed esperti vari al servizio del sistema. Per esempio, ormai lo “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington è – grazie a come i media presentano gli avvenimenti – ben più di un luogo comune, e non solo per l’uomo della strada senza qualificazioni ulteriori, e un’indiscriminata islamofobia è sentimento altrettanto diffuso. Il bombardamento mediatico è tale da non fare accorgere che in realtà lo scontro in atto è più fra musulmani (ovvero a danno dei musulmani non takfiri) che non fra Islam e civiltà giudaico-cristiana. Una statistica sull’entità dei morti ammazzati in base alla loro religione ufficiale sarebbe rivelatrice al di là di qualsiasi discorso.

Dove va a parare il “Grande Gioco” statunitense, con l’apporto franco-britannico e israeliano
La spartizione del Vicino e Medio Oriente, a uso e consumo degli interessi economici e politici delle grandi potenze dell’epoca (Francia e Gran Bretagna) inizia con il primo dopoguerra mondiale grazie alla sconfitta dell’impero ottomano. Fu effettuata in base alla situazione dell’epoca, alla forza e alle esigenze degli spartitori. Comunque, la frantumazione artificiale realizzata – alla fine l’impero ottomano fu diviso in ben 19 Stati internamente disomogenei - ha posto le basi per l’avvento di nuove destabilizzazioni in favore dell’imperialismo. La situazione seguita alla Seconda guerra mondiale e le lotte di liberazione hanno determinato il ritiro di Francia e Gran Bretagna dal controllo diretto dei propri domini e l’avvento degli Stati Uniti come superpotenza imperialista. Storia nota, di cui è superfluo parlare. I veri disastri sono stati possibili dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Forse un domani gli storici studieranno meglio i devastanti effetti mondiali di questo crollo che, oltre a rendere possibili le politiche antisociali attualmente devastanti l’Europa e non solo, ha lasciato campo libero alle azioni degli Stati Uniti & Co. per la concretizzazione di piani da lungo tempo già esistenti nei cassetti delle alte sfere di Washington. Ovviamente si tratta di piani contro i paesi che mettono in pericolo gli interessi degli Usa; termine che indica i paesi i cui governi sono di ostacolo al controllo statunitense delle risorse energetiche altrui, all’acquiescenza politica verso gli Stati Uniti, alla diffusione degli asseriti “valori” dell’american way of life.
Uno dei primi obiettivi presi in considerazione fu proprio la Siria, come risulta da un rapporto anglo-statunitense del 1957, dal titolo Collision Course for Intervention. Di rilievo è poi stata l’opera di un personaggio i cui scritti nell’offerta della grande editoria internazionale – per lo più improntata a quell’orientalismo deprecato dall’ormai classico libro di Edward Said – sono diventati quasi “d’obbligo” per il grosso pubblico interessato al mondo islamico: si tratta di Bernard Lewis. Di questo orientalista e storico famoso – che imputa l’antioccidentalismo diffuso nel mondo islamico non alle conseguenze dell’imperialismo, bensì solo agli oscuri meandri dell’Islamismo – non tutti sanno che si tratta di un ex ufficiale dei servizi segreti britannici da molti anni apprezzata testa d’uovo per i cosiddetti esperti dei servizi segreti degli Usa e di Gran Bretagna, oltre che per il brain trust dei neoconservatori. Di Lewis si possono dire molte cose, ma certo non che sia un cattivo osservatore dei processi internazionali in corso.  Importante è un suo articolo del 1992 scritto per il periodico Foreign Affairs del Council on Foreign Relations, col titolo «Ripensare il Medio Oriente», redatto ovviamente alla luce degli interessi esclusivi dell’imperialismo in rapporto agli scenari aperti dalla fine della Guerra Fredda, e in particolare alla possibilità per Washington di instaurare un suo “Nuovo Ordine Mondiale”. Lewis capì il ruolo l’estremismo islamico era utilizzabile ai fini dell’accelerazione di quanto oggi chiamiamo “libanizzazione” nel Vicino e Medio Oriente; regioni caratterizzate dall’esistenza di Stati tanto recenti quanto artificiali, senza una società civile capace di essere la base della politica in assenza di un potere governativo forte, quale che sia, a motivo della mancanza di una reale identità nazionale. Il punto di arrivo delle possibilità occidentali per lo sfruttamento di tale situazione è lo smembramento degli attuali Stati orientali, dal Nord Africa al Pakistan.
A detto fine l’ideale “formula politica” (rubiamo il termine a Gaetano Mosca) è la guerra di civiltà contro il pericolo islamico. Come tutte le guerre essa va condotta con pazienti mosse tattiche basate sui movimenti del nemico; poi seguono a ruota le azioni militari per aprire la strada alle compagnie petrolifere e alle grandi centrali finanziarie dell’Occidente. La logica strategica voleva – come è infatti accaduto – che una delle prime vittime del “Grande Gioco” imperialista fosse l’Iraq, entità statale del tutto disomogenea, ricca di petrolio e militarmente ben più forte della Siria (almeno sulla carta). Che infatti è stata colpita in tempi successivi.
Il quadro completo degli intendimenti statunitensi è stato tracciato dagli “specialisti” del Council on Foreign Relations, forti anche dell’esperienza della disintegrazione jugoslava. Nel 2006 l’Armed Force Journal ha pubblicato un articolo di un tenente-colonnello statunitense in congedo, Ralph Peters, in cui si propugnava l’esigenza di ridisegnare globalmente i confini dell’area di cui parliamo: smembramento dell’Arabia Saudita, dell’Iran e del Pakistan; costituzione di un Azerbaigian unificato, di un Kurdistan libero, di uno Stato arabo sciita in Mesopotamia e di un Beluchistan indipendente; perdita di Herat per l’Afghanistan a vantaggio dell’Iran di cui molti decenni fa era parte. Vale a dire la previsione di una vera e propria mazzata anche per i maggiori attuali alleati degli Stati Uniti, Turchia compresa.
Questa balcanizzazione dell’area non produrrebbe certo entità statali forti, cioè capaci di sfuggire all’egemonismo statunitense; quindi – in siffatto scenario teorico (si spera) – Washington acquisirebbe il controllo di una regione enorme ed energeticamente ricca, oltre a minacciare direttamente la Cina, che con la sua espansione economica e politica in Africa crea un’indubbia e indesiderata concorrenza ai locali interessi degli Stati Uniti e, subordinatamente, di Gran Bretagna e Francia. 


È interessante notare un particolare poco conosciuto, non a caso: i piani di spartizione del Vicino e Medio Oriente non sono esclusiva dei “classici dell’imperialismo”: anche Israele ci si dedica da un pezzo. E difatti oggi Washington e Tel Aviv marciano di concerto. Qui siamo nel campo della convergenza di interessi. Fin dai primi governi israeliani era chiaro per i sionisti che l’immaginario arabo (governi a parte,  magari) non avrebbe accettato la ferita inferta dall’impossessamento di una regione araba da parte di stranieri in nome di asseriti diritti divini e storici. Alla pragmatica e spregiudicata lucidità politica di Ben Gurion non sfuggivano i pericoli derivanti dall’essere lo Stato sionista circondato dagli Stati arabi nati dalla Grande Guerra e decolonizzati. L’ideale da lui espressamente teorizzato era la frantumazione di questi Stati in micro entità suscettibili di soggiacere facilmente all’egemonia di Israele quale indiscussa potenza regionale, con prospettive mondiali grazie alla lobby sionista a Washington. Con questo presupposto, poi mai abbandonato dai vertici dello Stato sionista, era implicita la convergenza operativa con gli Stati Uniti. E così è stato. Come esempio dei contributi israeliani basti solo ricordare gli ansiosi e ansiogeni rapporti agli Usa circa le armi di distruzione di massa irachene, risultate poi inesistenti. La convergenza continua, e in atto è operativa in Siria, a fianco dei radicali islamici.

La “primavera” araba
Sugli eventi che ricadono sotto questa suggestiva denominazione si comincia a discutere – al di là delle emozionali superficialità con cui i grandi media li hanno accompagnati – sul punto se fossero diretti (come vorrebbe l’apparenza) contro certi regimi locali, oppure contro i popoli arabi. A favore della prima tesi giocano le situazioni interne: in concreto i regimi più o meno “laici” (tali alla maniera araba), che in genere avevano dominato nella fase post-coloniale, avevano collezionato una serie di fallimenti politici (non avevano saputo resistere a Israele; non avevano realizzato l’unità araba; socialismo, giustizia sociale e sviluppo economico erano rimasti vuoti slogan; la corruzione dominava).
Il quadro, tuttavia, cambia se si considera il ruolo degli Stati Uniti. Pur se formalmente alleati dei regimi in questione, intanto “zitti zitti” – utilizzando Cia e Ong  avevano organizzato e finanziato gruppi di opposizione, e in particolare quelli che in nome della religione si opponevano a tali regimi. I risultati sono noti, e visibilmente la prima vittima è data dalle popolazioni coinvolte: in Tunisia e Libia la violenza islamista dilaga, in Siria c’è una guerra di aggressione; l’Egitto è nel caos ed economicamente al collasso.
Certo, gli Stati Uniti hanno dato un dimostrazione di forza, dimostrando la propria formale capacità di intervento; inoltre la situazione che ne è derivata è tale da lasciare aperta la porta anche a interventi militari, ovviamente “umanitari”.
Vi è però un elemento di debolezza, che non si esaurisce nell’ampio spazio lasciato i movimenti islamisti – radicali e non – ma si sostanzia nel fatto di aver destabilizzato una regione senza aver prima inciso in altro modo nella sua posizione strategica globale. Inoltre (e taluni osservatori lo hanno rilevato), ancora una volta dopo il Vietnam, Washington si è affidata ad alleati subalterni: nella specie, Gran Bretagna, Francia e Turchia.
C’è da chiedersi contro chi si sviluppi questa politica. Contro la Russia, è fuori discussione; ma non si può escludere che sia principalmente contro la Cina. In una prospettiva d’insieme si riscontra che: l’abbattimento di Gheddafi corrisponde all’eliminazione di un punto forte dell’Unione Africana; la secessione del Sud Sudan avviene contro il governo di Khartum che ha rapporti strettissimi con la Cina; gli interventi francesi nelle loro ex colonie riportano in forza l’imperialismo nell’Africa subsahariana.
La Cina è spazialmente lontana, ma in Africa è vicinissima, per la sua espansione commerciale, i suoi investimenti e la politica di concessione di prestiti di gran lunga più convenienti di quelli occidentali. In più vari economisti (in Italia, Attilio Folliero) prevedono che – visti gli standard di crescita  tra 5 o 6 anni il Pil cinese sarà superiore a quello statunitense. A ciò si aggiunga che la Cina (ma anche la Russia), attraverso organismi regionali integrati, sta incrementando la compensazione dei propri scambi non più in dollari, ma in valute nazionali. Il che, vista l’attuale “egemonia del dollaro” non può che far preoccupare gli Stati Uniti. Certo, la Cina ancora non fa impensierire sul piano militare, ma gli armamenti cinesi sono in pieno sviluppo, e tanto per premunirsi la Nato (organismo diretto da Washington) ha pensato bene di costituire un comando militare per l’Africa (l’Africom).     

Al-Qaida: nemico o strumento?
Sulla questione dei rapporti tra Stati Uniti e la galassia di al-Qaida (molto probabilmente, ormai, questo nome indica una specie di franchising del terrorismo) sfuggono all’uomo della strada. Questi si trova fra un Ayman al-Zawahiri (presunto successore di bin Ladin) che invita a colpire il nemico occidentale nei suoi propri territori, e i continui all’erta di Washington sulla minaccia terrorista islamica e i conclamati propositi di guerra a oltranza a questi radicali islamici. La conclusione dovrebbe essere ovvia, alla luce dell’ordinaria razionalità, magari integrata da un po’ di etica. Tuttavia poi emergono molti fatti che sconvolgono il quadro e manifestano una “razionalità” imperialista che si muove su proprie lunghezze d’onda. E così registriamo la collaborazione operativa tra gli Stati Uniti e al-Qaida & Co. in Libia e in Siria. Allora?
Nessuno mette in dubbio che causare il maggior male possibile a Usa e Occidente in genere faccia parte dei progetti di al-Qaida, ma ciò non ne toglie l’oggettiva utilità contingente per l’imperialismo. E l’incalcolabile numero vittime già collezionate dal radicalismo jihadista, e quelle che seguiranno? Ma quando mai l’imperialismo si è curato delle perdite di vite umane proprie e altrui nel perseguimento dei suoi interessi! È ovvio che l’installarsi dei jihadisti al governo di un territorio qualsiasi sarebbe fonte di grossi problemi in primo luogo per gli Usa; tuttavia, gli attuali mezzi a disposizione dei servizi di intelligence – se usati appieno – consentirebbero di parare molte iniziative, e comunque se le cose assumessero una brutta china nulla vieterebbe di riportare quell’ipotetico paese all’età della pietra (espressione già usata dagli imperialisti statunitensi). I problemi sarebbero tutti a carico delle popolazioni; ma qui torniamo alla considerazione precedente.
Uno degli persistenti luoghi comuni dice che l’appoggio statunitense alla resistenza islamica in Afghanistan sarebbe avvenuta per aiutare la popolazione locale contro l’invasione sovietica. Un’ulteriore menzogna. In realtà questo appoggio precedette l’invasione sovietica con il deliberato proposito di provocarla. E Mosca cadde nel tranello. Le prime truppe sovietiche entrarono in Afghanistan il 24 dicembre del 1979, ma è datata 3 luglio 1979 la decisione di Jimmy Carter di inviare aiuti militari ai ribelli contro il regime comunista di Kabul.
Nel corso del tempo il radicalismo islamico (al-Qaida compresa) ha assunto varie connotazioni a seconda dei particolari interessi statunitensi: combattenti per la libertà in Afghanistan, Bosnia, Cecenia; poi terroristi arcinemici; di nuovo combattenti per la libertà in Libia e Siria. Qual è la logica? Fedeli alla lezione di Hegel, una logica ci deve essere – altrimenti si dovrebbe parlare di epidemia di pazzia ai vertici di Washington – e va cercata. Per trovarla si deve abbandonare la palude delle contraddizioni, porsi ab origine nell’angolo si visuale dell’imperialismo e domandarsi se gli convenga o no l’esistenza di Stati arabi laici e nazionalisti, a prescindere dall’essere progressisti o dittature in fase di stasi. La sicura risposta è no. Infatti nei confronti di questi Stati l’atteggiamento di fondo statunitense è sempre stato o ostile o sostanzialmente diffidente, e finalizzato all’appoggio a Israele. L’eventualità che un governo laico potesse far accostare il proprio paese alla modernità, o addirittura farvelo entrare, è sempre stata decisamente negativa per gli Usa; mentre le estreme condizioni di arretratezza e sottosviluppo derivanti da vittorie locali degli estremisti islamici sarebbero una manna. Senza contare gli enormi introiti ricavabili dal complesso militare-industriale degli Stati Uniti sia con le forniture militari al pur pericoloso strumento islamista sia (e a maggior ragione) con la produzione a cui verrebbe chiamato in caso di guerra contro di esso. L’alleanza con le ultrareazionarie monarchie della penisola araba rientra nella stessa logica. Come pure gli elegiaci rapporti di fatto oggi esistenti fra queste e Israele.

Quali possibili contrappesi?
Le operazioni di destabilizzazione sono sempre ad alto rischio per chi le subisce: immaginiamo le possibili conseguenze di un ipotetico deciso impegno statunitense in favore degli Uiguri musulmani della Cina. Ma ci sono destabilizzazioni che si risolvono senza necessità di interventi sul campo da parte del destabilizzante, e altre che invece li rendono indispensabili. I sogni imperialisti e balcanizzatori di Lewis e Peters implicano entrambi i casi, e questo ne rende non sempre agevole la concretizzazione. Innanzi tutto ci sono i problemi finanziari, da cui non è immune nemmeno l’amministrazione statunitense. Obama, in un periodo di restrizioni economiche ha deciso di tagliare la spesa militare e di ritirarsi da scenari bellici incontrollabili sia dal punto di vista militare che politico per concentrarsi sullo scenario del Pacifico.
I progetti imperialisti devono confrontarsi anche con una realtà globale che – per il numero dei giocatori (a piccolo o ampio raggio) – è addirittura multipolare in un’area dall’enorme vastità. Ciascuno fa spregiudicatamente il suo gioco e le contingenti intese sono dettate – è ovvio  da interessi specifici a prescindere dalle ideologie, politiche e religiose. Al nuovo “Grande Gioco”, oltre agli Usa, partecipano – ben al di là delle proprie frontiere e con gradi variabili di autonomia – Russia, Cina, Iran, Turchia, Arabia Saudita, monarchie del Golfo, Pakistan, India.
Se nel Vicino Oriente gli Stati Uniti (e alleati) hanno destabilizzato appieno Iraq, Libia e Siria, e lasciato cadere i loro tradizionali partner in Egitto e Tunisia, tuttavia la mancata vittoria in Siria e le gesta dei radicali islamici non solo hanno portato all’intervento esterno sciita e all’impegno russo e cinese, ma altresì hanno avviato nei settori islamici anti-imperialisti prese di distanza dai jihadisti disposti a farsi aiutare dall’Occidente. Sotto questo profilo è interessante la recente presa di posizione dello storico leader di Hamas Mahmud Zahar (sunnita) ai microfoni di al-Manar, emittente libanese di Hezbollāh. In buona sostanza Zahar ha avuto il coraggio di additare la “nudità del re”, condannando decisamente le cosiddette “primavere arabe” considerandole teste d’ariete che hanno favorito elementi settari, takfiri e wahabbiti (leggasi Arabia Saudita) e indebolito le nazioni nel mirino degli Stati Uniti, così facendo il gioco dell’imperialismo.
I possibili contrappesi – piaccia o no – sono la Russia e la Cina. Nel Vicino Oriente soprattutto la Russia, che con Putin (anche qui piaccia o no) ha superato la fase di rassegnazione al declino che aveva caratterizzato la presidenza di Yeltsin ed è impegnato (politicamente e militarmente) a un recupero di potenza. E nel Vicino Oriente la Russia – forte anche del fatto di aver evitato l’aggressione alla Siria – sta agendo a tutto campo, cercando di ritessere una rete di alleanze e di amicizie. In primo luogo in Egitto, che resta il più importante centro del mondo arabo.
I rapporti del Cairo con gli Stati Uniti attualmente sono più che freddi, il governo egiziano ha accusato gli Usa di essere dalla parte della Fratellanza Musulmana, e qui la Russia opera per inserirsi, col palese intento di fare da contrappeso a Washington. Pare con un certo successo, inizialmente nel campo degli armamenti. Gli Stati Uniti di recente hanno congelato una notevole parte considerevole degli aiuti annuali (1,5 miliardi di dollari); a ciò hanno fatto seguito la sospensione della consegna di quattro jet da combattimento F-16 e dall’annullamento delle esercitazioni militari biennali Usa-Egitto. I colloqui svoltisi a novembre fra i ministri degli Esteri e della Difesa russi  Sergej Lavrov e Sergej Shojgu – con al-Sisi al Cairo, oltre a vertere sull’insieme dei rapporti fra i due paesi anno affrontato il tema della cooperazione tecnico-militare, e l’Egitto ha chiesto di poter acquistare dalla Russia aerei da combattimento, sistemi di difesa aerea e missili anticarro, sistemi di difesa missilistici terra-aria a breve raggio e a medio raggio Buk-M2, Tor-M2 e Pantsir-S1, nonché 24 caccia MiG-29M2.
In Iraq la Russia è diventata il secondo fornitore di armamenti, anche perché il governo locale – diversamente da quanto accade in relazione agli Stati Uniti – non ha di che preoccuparsi sul versante di Mosca, non avendo la Russia interesse alcuno alla cooperazione militare con i curdi iracheni. Certo, è triste che la ripresa di collaborazione in questa fase verta sulle armi, ma tant’è. La situazione regionale è tale che più armi si hanno, meglio si dorme.
Sostanziosi accordi in campo militare si stanno sviluppando anche con la Giordania; quindi al di fuori dalle tradizionali aree di influenza dell’Unione Sovietica. Ma qui si va anche oltre al commercio militare: per raggiungere l’indipendenza energetica riguardo all’elettricità (la Giordania importa il 97% del proprio fabbisogno, con un costo pari al quinto del Pil) a ottobre la Giordania ha annunciato la scelta dell’azienda statale russa Rosatom per trattare la costruzione di due centrali nucleari da 1000 megawatt (MW) nei pressi di Qusayr Amra (circa 60 chilometri a nordest di Amman, ai margini del deserto) entro il 2022. L’accordo finale con i russi dovrebbe avvenire nel 2015. Con tale accordo la Giordania diventerebbe il terzo paese arabo a volere il nucleare civile (dopo gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto), e c’è da scommettere senza rischio che in questi casi gli Stati Uniti non faranno storie (qualche dubbio – a seconda di come si evolveranno i rapporti – può forse sollevarsi per l’Egitto).   
Finora gli Stati Uniti non hanno avuto remore a far sentire la loro pesante mano militare. Ma dopo l’Afghanistan e l’Iraq alcune cose sono cambiate. Intendiamoci, la capacità statunitense di deterrenza non è finita ma, pur non trattandosi affatto di una tigre di carta, gli Stati Uniti hanno una forza imbattibile solo per eserciti regolari in guerra convenzionale. Laddove può concentrare i suoi mezzi contro nemici visibili non è possibile vincerli; ma il discorso cambia nelle cosiddette guerre asimmetriche, quando cioè il nemico è senza volto e morde e fugge, come hanno dimostrato Vietnam, Iraq e Afghanistan. È quando i militari statunitensi devono impegnarsi in operazioni di polizia alla ricerca di un nemico mobile e invisibile in ambiente ostile che il potenziale bellico Usa diventa inefficace. Oggi la rifocalizzazione dell’impegno Usa si basa su un concetto fondamentale esposto da Berry Posen: Command of the Commons. Con questo termine si intende la capacità di controllare gli spazi comuni, cioè oceani, spazio aereo, spazio siderale e cyberspazio. Il controllo conferisce un vantaggio competitivo fondamentale agli Usa: la possibilità di negare ad altri stati l’accesso a tale spazio e la possibilità di proiettare le proprie forze ovunque nel globo ed in tal modo esercitare la deterrenza estesa. Ciò che dimostra queste tesi è il potenziamento delle forze aeree, navali e informatiche, tutti mezzi che possono contrastare la libertà di movimento. Ma anche lo sviluppo di nuovi droni per colpire a distanza il nemico e non dispiegare le truppe è un segno estremamente importante del cambiamento della strategia americana. Una strategia che permette tattiche militari flessibili e veloci basate sui cosiddetti hubs, cioè i nodi di una rete di controllo di networks di comunicazione, suscettibili di diventare basi di partenza degli attacchi.
Tuttavia la guerra elettronica non è monopolio degli imperialisti, e quando ancora si conservano vecchie tecnologie a esse si può ricorrere per i casi di emergenza, come di recente è accaduto all’esercito regolare siriano, colpito da attacchi elettronici o degli Stati Uniti o di Israele e di entrambi.



[1] Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente, Mimesis, Milano/Udine 2013, p. 9.


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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.