Il documento della minoranza congressuale, denominato
"La CGIL è un'altra cosa" e firmato da cinque componenti del
direttivo nazionale della CGIL, merita di essere analizzato attentamente visto
che, rispetto ai documenti passati elaborati dalle minoranze congressuali nei
precedenti congressi della CGIL, si caratterizza in modo più coerente con
un’impostazione politica di classe.
La mia adesione a detto documento, tuttavia, è un’adesione
critica poiché, a mio personale avviso, malgrado il documento sia migliore dei
precedenti, continua ad avere fondamentali limiti sul piano dell'analisi
politica e della proposta conseguente.
In primis considero errate le analisi politiche nei confronti
dell'Europa di Maastricht e del rapporto che, secondo gli estensori del
documento, esisterebbe tra la borghesia italiana e le altre borghesie
nazionali.
Non mi convincono neanche i compiti che il movimento
operaio dovrebbe assolvere rispetto alle conseguenze sociali della crisi
capitalistica e quanto addotto sul tema del debito pubblico.
Dopo il preambolo iniziale, il documento comincia ad
entrare nel merito delle questioni politiche sopramenzionate e, per quanto
concerne la questione dell'Europa monetaria, il tema viene sviscerato nel
capitolo intitolato "Contro l'Europa dell'austerità e del Fiscal
Compact".
Il capitolo inizia nel modo seguente: "Per difendere il proprio potere e i propri
guadagni, le caste politiche e manageriali e i grandi poteri economici hanno
scelto di sottomettere la politica economica e sociale italiana agli ordini
della troika, cioè di quel comando privo di qualsiasi legittimazione
democratica formato da Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo
Monetario Internazionale.
Quindi, da quanto sopra riportato, si evince che, le
politiche di austerity, non sono il
frutto di scelte politiche autonome della classe politica italiana, che opera
in rappresentanza degli interessi di classe della propria borghesia; al
contrario, le politiche di distruzione dello stato sociale, della
precarizzazione del mondo del lavoro, dell'abbattimento dei salari, secondo gli
estensori del documento sono state invece imposte dal Fondo Monetario
Internazionale, dalla Banca Europea e dalla Commissione europea.
Per quanto mi riguarda, come già avevo scritto tempo fa
in risposta all'appello del comitato No-debito, la Comunità Europea continua ad
essere la pura sommatoria - ancora nemmeno federativa - delle singole borghesie
nazionali più forti, le quali mantengono la piena autonomia politica, e che
decidono in sede europea le misure comuni da adottare nelle situazioni di crisi
economica del sistema capitalistico, mantenendo un accordo di fondo sul fatto
che le misure di austerity o i costi sociali della crisi debbano gravare sulle
spalle dei lavoratori, paese per paese.
Nel nostro paese, per esempio, possiamo constatare non
solo che non vi è nessuna contraddizione importante tra la Confindustria e la
BCE, vale a dire la portavoce sul piano economico-finanziario degli Stati
imperialistici europei, ma al contrario vi è una sostanziale convergenza
riguardo ai soggetti sociali che devono pagare i costi principali della crisi
(lavoratori, pensionati, precari, migranti) e le strategie di risanamento del
bilancio.
La dialettica tra i rappresentanti politici del governo
delle larghe intese, al proprio interno, è ovviamente finalizzata a costruire in modo strumentale una sorta di dipendenza
dall'Europa per giustificare le politiche antipopolari; ma questo scontro
sull'Europa, tra i maggiori partiti della borghesia italiana, PD e PDL, è la rappresentazione del gioco delle parti di
chi vuole mischiare le carte per nascondere le proprie responsabilità politiche
a fini elettorali.
Difatti, la costruzione della Comunità Europea e dei
trattati di Maastricht, sono stati il frutto del processo di ristrutturazione
capitalistica avvenuto prima su base nazionale in ogni singolo paese europeo e
solo successivamente, attraverso una concertazione tra le singole borghesie
europee, si è operato per costruire gli organismi sovranazionali, come la
Comunità Europea e la BCE, che svolgono unicamente il ruolo di coordinatori
delle cosiddette politiche neoliberiste.
Non si deve dimenticare, poi, che il compito
dell’offensiva antipopolare capitalistica in Italia è stato svolto
rispettivamente sia dal Centrodestra sia dal Centrosinistra, in egual misura.
L'ex estrema sinistra italiana, purtroppo, non è nuova
ad elaborare analisi finalizzate a mettere in risalto la subalternità degli
Stati nazionali alle strutture sovranazionali. In passato sempre il gruppo
dirigente vicino a Giorgio Cremaschi - che insieme a lui ha condiviso anche
l'esperienza del No-debito - accusava i politici che sostenevano il governo
Monti di essere gli agenti del "governo unico delle banche".
In un recente appello del "Comitato no-debito"
a proposito della presunta dittatura delle banche recitava quanto segue: "
Nell'Unione Europea la costruzione miope
e autoritaria dell'euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno
prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto
sociale e civile.
La democrazia
viene cancellata da questa dittatura, perché tutti i governi, quale che sia la
loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati.
I politici, quelli
italiani in particolare, privi di vero potere e coperti di piccoli e grandi
privilegi di casta, pensano di proteggere se stessi, facendosi tutelare dalla
dittatura bancaria...Il governo unico delle banche e della finanza che impone
le sue misure a tutto il potere politico europeo non ha paura di noi...occorre
fare uno sforzo per mettere insieme le nostre forze e per costruire un fronte
comune, sociale e politico, che sia alternativo al governo unico delle banche".
Se mettiamo in raffronto i due scritti, vediamo che la
dittatura delle banche è scomparsa ed è stata
sostituita dalla Troika mantenendo inalterato la sostanza dell'analisi
politica che adesso viene trasferita in ambito sindacale.
Tale visione dei processi economici, è profondamente
sbagliata perché si fonda sull'idea unilaterale di una dittatura della finanza
come unico soggetto che starebbe distruggendo la democrazia e il lavoro,
perdendo di vista l’intreccio di interessi (produttivi, improduttivi, di
rendita parassitaria ecc.) che costituisce il “rapporto sociale di produzione”
dell’imperialismo italiano (e quindi del suo Stato, parte integrante di tale
rapporto). Essa fa credere che sia possibile, in un’economia di mercato,
svincolare il rapporto di interdipendenza tra capitale finanziario parassitario
e capitale produttivo veicolando così ai lavoratori un’idea deforme dello
scontro di classe. Nei luoghi di lavoro lo scontro di classe apparirebbe così
inutile se non controproducente, avendo in ultima istanza le controparti reali
nei consigli di amministrazione delle banche e non nelle associazioni
padronali, di categoria ecc. e nello Stato che le difende. Ovviamente si pensa
ai soggetti finanziari organizzati nella presunta “dittatura delle banche” e
nel presunto “governo unico delle banche”, ieri in Italia oggi a livello
europeo. Un modo indiretto e poco convincente di scaricare le responsabilità
del padronato italiano (e dello Stato borghese che lo rappresenta) su altri
soggetti, più lontani, impalpabili, per giunta stranieri, alimentando in tal
modo l’isteria nazionalistica che da tempo domina gli ambienti della ex
sinistra e della ex estrema sinistra.
In relazione alla precedente esperienza del No-debito,
finita com’era prevedibile (e alcuni di noi avevano previsto) in un nulla di
fatto, Cremaschi e il gruppo dirigente sindacale a lui collegato hanno comunque
inserito nel documento congressuale un richiamo a quella posizione
nazionalistica (e tanto cara alla borghesia italiana, se non fosse stata del
tuto impraticabile), insistendo ancora una volta sulla richiesta di non
pagamento del debito pubblico da parte dello Stato italiano.
Nel preambolo del documento congressuale, in merito a
questo tema, si legge quanto segue: "Bisogna
non pagare più il debito pubblico alle banche e alla finanza e perciò bisogna
nazionalizzare tutte le grandi banche, prima di tutto la Banca d'Italia.
Bisogna rompere con l'Europa delle banche, della finanza, dei tecnocrati e
delle multinazionali, bisogna stracciare subito il fiscal compact e tutti i
trattati europei che ci impongono l'austerità".
La prima considerazione che mi viene in mente, per
l’impegno che ho sempre avuto e continuo ad avere sul terreno della lotta
sindacale, è constatare la distanza di queste rivendicazioni nazionalistiche,
filocapitalistiche e irrealistiche con lo stato delle mobilitazioni in atto nel
mondo del lavoro.
Come si fa a rivendicare la nazionalizzazione del
sistema bancario nazionale se ad oggi non siamo in grado neanche di organizzare
uno sciopero generale che si ponga un obiettivo minimo e lo raggiunga, per es.
riuscendo a strappare un qualche misero aumento salariale? (misura
ultradifensiva, in questa fase, ma che comunque non viene nemmeno posta come
obiettivo di lotta generale). Si invita a lottare per dei sogni (per giunta
negativi dal punto di vista del movimento operaio) visto che non possiamo
lottare per la difesa elementare del valore della forza-lavoro? Ma allora si
scelgano dei sogni migliori, qualitativamente più significativi.
Per giunta si crea l’illusione che queste
nazionalizzazioni si possano realizzare senza aver prima estirpato il potere
politico ed economico della borghesia.
Una vecchia storia che continua ad angustiare chi oscilla tra programma
massimo e programma minimo, senza porsi la prospettiva di obbiettivi transitori
che non sono dati una volta per tutte, ma si ricavano dall’analisi del contesto
politico, dalle necessità materiali più importanti del momento, dal grado di
mobilitazione dei lavoratori.
Su questo terreno il documento è a dir poco insufficiente
e forse anche per questo indica un mondo di sogni come obiettivi concreti dei
lavoratori nella fase che ci sta di fronte. Per degli operatori sindacali si
tratta di gravi limiti.
La questione del debito pubblico deve essere trattata
con estrema chiarezza sul piano politico facendo ben capire ai lavoratori
dipendenti che il debito che la borghesia italiana ha contratto con le banche
estere non li riguarda, è la borghesia che si deve far carico di pagare il
debito da lei stessa contratto, perché la crisi economica è la crisi dello
stato borghese. I lavoratori devono solo
impedire che i costi del debito vengano fatti pagare a loro, ma non devono
assolutamente chiedere che il debito di un settore della borghesia italiana
venga annullato a favore di un altro settore, o, peggio ancora che il debito
complessivo contratto dalla borghesia italiana e dal suo Stato venga annullato
per favorirne la concorrenza con altre borghesie e altri Stati capitalistici.
Insomma, il documento ripete l’errore ormai molto diffuso in quella che fu un tempo l’estrema
sinistra, quando si mette a dare consigli alla borghesia italiana su come deve
muoversi in questo o quel problema finanziario. Ridicolo, sia perché la
borghesia dispone di sue teste pensanti molto superiori al mondo intellettuale
che ritroviamo in ambienti sindacali e gruppettari, sia perché i lavoratori non
saranno mai disposti a lottare per linee politiche che considerano irreali e
non-proprie. Magari non lottano nemmeno per obiettivi più semplici e
realistici, ma questo è un argomento in più contro parole d’ordine demagogiche,
sbagliate e irrealistiche.
I guai della borghesia italiana non riguardano
direttamente i lavoratori. I compiti
politici di un sindacato di classe nel contesto dato devono essere finalizzati
a contrastare il tentativo della borghesia di far pagare i costi sociali della
crisi ai lavoratori italiani, tenendo gli occhi bene aperti nei confronti di
proposte politiche nazionalscioviniste che vorrebbero scaricare i costi della
crisi italiana sui lavoratori di altri paesi.
Sostenere che lo Stato italiano dovrebbe smettere di
pagare il debito nei confronti delle banche private, degli Stati esteri o delle
agenzie internazionali - equivale a caricare la classe lavoratrice di un
problema che non è il suo: e cioè il salvataggio del capitalismo e della
propria borghesia nazionale dalle sue crisi.
Forse non ci si accorge che così facendo, magari in modo
del tutto ingenuamente, ci si colloca in pieno all'interno delle compatibilità
capitalistiche, tante volte a voce condannate.
Inoltre, anche se non lo si dice apertamente, è del
tutto implicito che, se si richiede alla propria borghesia o Stato
imperialistico di non pagare il debito pubblico, e quindi si disattende a uno
dei più importanti dettami di Maastricht, di fatto si sta chiedendo di essere
espulsi dall'Eurozona, con conseguente abbandono dell'euro per tornare alla
lira o comunque a un'espressione monetaria nazionale.
Su questo fronte, l'ingenuità demagogica porta a non
saper prevedere quali contraccolpi si avrebbero sul piano economico e sociale,
con chiusura delle fonti di credito, crisi di settori produttivi, autarchia nel
senso peggiore, nazionalistico e mussoliniano del termine. A parte il fatto che
non si comprende come qualcuno possa considerare la lira una moneta meno
capitalistica dell'euro e come possa lontanamente immaginare un ritorno alla
lira in un solo paese, mentre il resto dell’Europa continua a veleggiare (male,
malissimo) sulla moneta extranazionale.
O forse si pensa che in un sistema economico
integralmente fondato sulla circolazione monetaria (è il caso del capitalismo e
lo è ogni giorno di più), la cosiddetta economia produttiva possa essere
separata dal finanziamento dell'investimento e dallo sviluppo del circuito
finanziario mondiale?
Si pensa veramente di poter liberare l'economia
capitalistica italiana dai condizionamenti del mercato?
In primo luogo dei mercati dei capitali?
Nella società del capitale (Italia compresa) la moneta
racchiude in sé l'essenza del rapporto sociale dominante, la forma dello
sfruttamento del lavoro salariato: ieri la lira, oggi l'euro, domani chissà.
Durante la vigenza della lira, sempre con la scusa di
dover far fronte alla crisi economica (seconda metà degli anni ‘70), il
padronato italiano non è riuscito forse a togliere ai lavoratori la scala
mobile dei salari e attaccato pesantemente i diritti che i lavoratori avevano
conquistato con le lotte del 1968-69 e poco oltre?
E il debito economico, il deficit di bilancio, le
disavventure della lira, non erano forse anche allora il pretesto per esigere,
come nel 1992 sotto il governo Amato, i sacrifici ai lavoratori per ripianare
il debito?
Continuando nella lettura del documento di minoranza,
arriviamo più concretamente all'analisi politica sindacale in cui si indicano
le responsabilità politiche della CGIL degli ultimi vent'anni, le sconfitte del
più grande sindacato italiano che hanno caratterizzato il suo agire politico
sul piano della concertazione sindacale.
Nell'elencare le
responsabilità della CGIL di fronte alla sconfitta epocale subita dai
lavoratori italiani non vi può essere che una convergenza sostanziale: ne siamo stati testimoni partecipi diretti e su questo non può non
esserci accordo.
Ciò che invece non mi convince, risiede nel fatto che
nel documento, oltre ad elencare le sconfitte ricevute dai lavoratori su temi
di fondamentale importanza - pensioni, salari, democrazia e contrattazione - si
propone una piattaforma rivendicativa che prevede la riappropriazione di quanto
perso dai lavoratori negli ultimi 30 anni di concertazione sindacale.
Qui non si tratta di non essere d'accordo con il merito
delle proposte formulate, ma di essere in sostanziale disaccordo sul metodo
impiegato per formulare le richieste avanzate nel documento. Nel documento,
infatti, spiccano ben 91 punti rivendicativi che spaziano dalla questione
dell'Europa di cui ho già detto, passando per le pensioni, la scuola pubblica,
la privatizzazione della sanità, il diritto alla casa, la riconquista della
scala mobile, l'esproprio e nazionalizzazione delle fabbriche che chiudono (da
porre sotto il controllo operaio!!), fino ad arrivare alla richiesta
dell'uscita dalla Nato dell'Italia e ovviamente alla riconquista dello sciopero
generale come strumento di mobilitazione dei lavoratori.
Siamo di fronte al più classico dei documenti costruiti
con lo stile della lista per la spesa
(per usare un’espressione che mi è molto cara e che purtroppo si rende sempre
più necessaria col passare dei decenni…) in cui si elencano punto per punto tutte le questioni che i lavoratori
dovrebbero affrontare e risolvere, senza tenere alcun conto lo stato dei
rapporti di forza tra le classi. Facile potrebbe essere la battuta: e a chi
non piacerebbe avere tutte quelle cose là? Perché non ci dite come si fa a
conquistarle: tutte insieme o una alla volta? E che fare se le controparti
(Stato e padronato) rifiutano di darcele?
Nella fase attuale
non c’è posto per i sogni e i grandi proclami. Ciò che invece bisogna fare al
più presto è indicare i passi concreti da compiere con cui avviare una vera
lotta difensiva, concreta, autogestita e di massa dei lavoratori e lavoratrici
italiane. Obiettivi pochi, minimi, ma raggiungibili, senza illudersi che anche
questi siano facili da raggiungere. Se la direzione
nazionale della CGIL non vuole impegnarsi nemmeno sul terreno dei diritti e dei
bisogni più elementari dei lavoratori, sarà forse più facile denunciare la loro
collusione con il padronato e lo Stato borghese. Anche questo non sarà facile,
ma se non si parte di lì, il resto è solo fumo.
Se non riparte la lotta rivendicativa dal basso in
alcuni importanti settori, ci si dovrà limitare al terreno della propaganda:
questa è la dura verità, che piaccia o no. E la propaganda, per essere efficace
dovrà essere costruita su pochi ma qualificanti punti comprensibili all'intero
mondo del lavoro, immigrati compresi: 1) difesa della contrattazione nazionale
e dello Statuto dei lavoratori, 2) lotta alla disoccupazione (soprattutto
giovanile); 3) difesa dello stato sociale (sanità in primo luogo), 4) difesa
dei beni pubblici (acqua, servizi, territorio), 5) difesa del potere d'acquisto
dei salari, 6) autorganizzazione di massa contro il precariato, 7) difesa della
democrazia a partire dai luoghi di lavoro.
Sono temi vecchi, per nulla originali, ma sono anche i
temi decisivi sui quali la maggioranza CGIL non sta riportando alcun risultato
positivo. Anzi…
In poche parole bisogna lottare contro gli effetti
immediati della crisi cercando di costruire una prospettiva all'interno di tale
lotta. Il resto cari compagni, sono chiacchiere e demagogia.
Nell'ultima pagina del documento, si affronta un
problema spinoso, ma di fondamentale importanza per la costruzione di un
sindacato di classe, e cioè la democrazia.
Da questo punto di vista, spicca l'assenza di un
bilancio sulle passate esperienze delle cosiddette sinistre sindacali o aree programmatiche, e il ruolo dei delegati
di base continua ad essere subalterno sul piano degli incarichi politici alle
burocrazie sindacali e di apparati politici.
Malgrado ci siano delle aperture sul riequilibrio dei
poteri all'interno dell'organizzazione per accorciare le distanze tra apparato
e lavoratori, lo sforzo fatto ci sembra tutto incentrato nel rispetto delle
compatibilità con le logiche burocratiche di cui la CGIL continua a vivere.
Su questo aspetto bisognerebbe rilanciare un proposta
politica organizzativa che metta al centro il protagonismo dei lavoratori che
nei propri posti di lavoro rischiano concretamente il licenziamento da parte
del padrone per l'attività sindacale che svolgono con totale abnegazione.
Per valorizzare
concretamente il lavoro di questi compagni, non penso assolutamente che essi
debbano essere assorbiti nell'organizzazione, come funzionari o segretari di
categoria o confederali, ma penso che ciò di cui i lavoratori hanno bisogno,
anche in CGIL, è la costruzione di un organismo sullo schema dei consigli
strutturato in modo orizzontale.
Da tempo ho smesso di credere che per cambiare la CGIL
si debba cambiare il gruppo dirigente con una mera operazione di sostituzione
del gruppo burocratico dominante con un altro gruppo cresciuto in seno agli
apparati e destinato a sua volta a diventare parte del meccanismo burocratico
(quando non ne è già parte da tempo o non ne è stato parte come vediamo nella
situazione attuale). Del resto anche i quadri migliori, ammesso e non concesso
che abbiano avuto esperienze di conduzione di lotte vittoriose e che siano
stati a un certo momento espressione diretta della base, sarebbero subito
riassorbiti nelle logiche della burocrazia una volta entrati a far parte dei
meccanismo di apparato. Sono decenni che assistiamo a questo fenomeno
drammatico e negativo che ha tolto ai lavoratori qualsiasi possibilità seria di
rappresentanza sindacale. L’esperienza delle ultime correnti di critica
alternativa alla direzione dell’apparato CGIL sono state da questo punto di
vista fallimentari.
Anche per questo mi dimisi meno di un anno fa dalla Rete
28 Aprile. E il tempo mi ha confermato nella giustezza di quella decisione: una
decisione certamente sofferta, visto che alla costruzione della Rete 28 Aprile
avevo dedicato il meglio delle mie energie sindacali, pagato prezzi durissimi
sul luogo di lavoro e vivendo sotto la costante minaccia di licenziamento.
Per parlare di una vera e reale democrazia, non si può
eludere il tema della democrazia diretta, la quale, non si deve limitare soltanto a rivendicare
la partecipazione dei lavoratori e lavoratrici alla costruzione delle
piattaforme sindacali e all'esercizio del referendum sugli accordi per la loro
eventuale validazione o per il loro respingimento, ma bisogna costruire la
possibilità concreta per i lavoratori, per i delegati e per le delegate di
incidere veramente sui comportamenti del gruppo dirigente, esercitando un
controllo continuo e rigoroso sui loro comportamenti. Ciò può avvenire solo
attraverso la possibilità per i lavoratori di revocare i funzionari e i
segretari sindacali nel momento in cui non rispondono alle istanze della base,
anche sulla semplice base di una metà dei voti più uno dei lavoratori di
riferimento.
Per questo penso
che prima, durante e dopo il congresso della CGIL, si dovrà continuare a
lavorare alla prospettiva politica della costruzione di una rete di delegati e
delegate, lavoratrici e lavoratori presenti nei luoghi di produzione e di
lavoro (quindi non funzionari sindacali) che operi sul piano politico per
connettere tutte le vertenze sociali presenti nel paese in un’unica vertenza
generale contro le politiche antipopolari e contro l’aggressione sociale della
borghesia italiana e del suo Stato, avallata dai partiti politici di
Centrodestra e di Centrosinistra. Senza questa rete
dal basso e senza alcune prime vittorie locali e generali su obiettivi anche
minimi, non si potrà fare nulla per cambiare la CGIL, il suo gruppo dirigente,
le mire carrieristiche dei suoi funzionari.
Non credo che questo congresso potrà incidere in tale
direzione, ma forse proprio questa constatazione da parte del mondo dei
lavoratori e delle lavoratrici potrà favorire la formazione di settori critici
all’interno e all’esterno del sindacalismo tradizionale.
RSA Cosp Tecno Service
Andrea Furlan.
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