Le recenti elezioni hanno dimostrato quanto fossero
sbagliate e politicamente fuorvianti le analisi della situazione italiana che
insistevano sulla formazione di un particolare «regime» berlusconiano,
variamente aggettivato come populistico, bonapartistico, carismatico,
patrimoniale, videocrazia ecc.
Queste analisi non coglievano la portata strutturale e
irreversibile della trasformazione contemporanea nel senso della
postdemocrazia; peggio ancora, rimuovevano o sottovalutavano, per l’interesse
alla collaborazione subalterna, le decisive responsabilità del centrosinistra
quale attore postdemocratico e protagonista dell’introduzione massiccia di
norme «neoliberiste» in Italia negli anni Novanta del secolo scorso. In altri
termini, le interpretazioni correnti del berlusconismo riducevano a fatto
personale e di parte un fenomeno che coinvolgeva l’intero sistema dei partiti,
ora compiutamente costituito in casta partitico-statale del regime
postdemocratico.
Di questa casta è parte (e aspira tuttora ad esserlo con tutte
le sue sempre più deboli e inutili «forze») il quadro dirigente della sinistra
post-Pci: di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani, dei Verdi, ora
anche di Sel. Come Utopia rossa definimmo tempestivamente i parlamentari e i
dirigenti di questi partiti (dal luglio 2006, dal momento del voto per il
rinnovo della missione militare in Afghanistan) i «forchettoni rossi».
La degenerazione ideale e politica dei dirigenti della
sinistra post-Pci e dei suoi satelliti si spiega appunto con il suo essere una
sottocasta subalterna della più ampia casta politica; e il rovinoso tracollo
dei voti per questi partiti è la prova indiscutibile che i cittadini italiani
hanno ben compreso cosa sono i «forchettoni rossi».
Inoltre, le dette interpretazioni del berlusconismo
sorvolavano sul fatto che l’avvento dei regimi postdemocratici è un fenomeno
internazionale caratterizzante, in misura più o meno forte, tutti i paesi a
capitalismo avanzato. E che in quanto fatto internazionale e strutturale può
ben dirsi anche irreversibile.
La particolarità italiana è che la nostra postdemocrazia è
particolarmente corrotta, degradata e nauseante: e questo non solo sul versante
di «destra» ma anche di «sinistra». In passato abbiamo parlato di crisi
strisciante di rappresentatività: con queste elezioni la crisi è finalmente
esplosa, manifesta nella crescita dell’astensione e nel successo del Movimento
5 stelle. Sommando astensione e voto per il M5s si deve dire che circa metà
dell’elettorato si è rifiutato di dare il proprio consenso alla casta politica.
In poche parole, è proprio considerando questa crisi
strisciante e il suo potenziale esplosivo che come Utopia rossa abbiamo
proposto, in Italia, la prospettiva dell’Antiparlamento dei movimenti sociali:
fuori delle istituzioni postdemocratiche e in rottura totale con il complesso
della casta politica di centrodestra e centrosinistra, con le loro
ramificazioni marginali dei «forchettoni rossi» (ma esistono anche i
«forchettoni neri»). Si tratta di un’indicazione ancora propagandistica ma la
cui correttezza è stata corroborata dalla massiccia e inaudita protesta che si
è variamente espressa nelle ultime elezioni.
Il testo che pubblichiamo sotto circolò a suo tempo
(maggio 2010) nell’area di Utopia rossa e costituisce ora un capitolo del libro
di Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, di Michele Nobile, Massari
editore 2012, volume che fa parte della collana di Utopia rossa.
Lo proponiamo perché, a fronte del crollo di consensi per
Pdl e Pd, è ora più che mai opportuno fare i conti con le chiacchiere che per
quasi vent’anni sono state propinate circa l’esistenza o la formazione di uno
specifico regime politico berlusconiano; si trattava, invece, di collocare
correttamente Berlusconi e il centrodestra nel quadro di un processo
complessivo.
Altra importante ragione per cui proponiamo questo capitolo di Capitalismo e postdemocrazia è che
Berlusconi è stato per lo più caratterizzato come populista e di populismo sono
ora imputati anche Grillo e il M5s. È così che si sfogano frustrazione e
risentimento, che impediscono di comprendere la lezione impartita dallo
sviluppo del Movimento cinque stelle.
Ebbene, al di là della generica evocazione di una capacità
di comunicazione diretta, la caratterizzazione di Berlusconi e di Grillo come
populisti di destra è profondamente errata. Nel caso di Berlusconi questo
significa non aver compreso il populismo come categoria storiografica e della
teoria politica. Nel caso di Grillo e del M5s bisognerebbe almeno parlare di
populismo progressista e democratico, certamente non di destra. Tuttavia,
l’etichetta rischia di liquidare il significato concreto nella nostra determinata
congiuntura del successo del M5s. La questione non è affatto accademica perché
comporta un’interpretazione del nostro presente e un concreto atteggiamento
politico.
In secondo luogo, la caratterizzazione negativa del
populismo e la sua assimilazione a movimenti reazionari rivela quanto la
sinistra intellettuale e politica, inclusa gran parte di quella che si vuole
estrema o antagonistica, sia intrisa di pregiudizi liberali. Solo da un punto
di vista liberale ha senso connotare negativamente e aprioristicamente
l’appello alla mobilitazione popolare contro la casta partitica e le istituzioni cosiddette
rappresentative. A questo pregiudizio si accoda necessariamente quella sinistra
che intende integrarsi nello Stato, che equipara democrazia a parlamentarismo
(in obsolescenza) e a delega ai partiti, che vede nel successo elettorale lo
sbocco e il fine dell’iniziativa politica. Ma anche quella sinistra più avvezza
a giudicare le parole che i fatti, forte dei dogmi e dell’identità ideologica
ma cieca a fronte dei processi molecolari di presa di coscienza collettiva. I
grandi movimenti populistici, quali quello russo e statunitense a cavaliere del
XIX e del XX secolo, furono movimenti politici democratici e progressisti e,
nel caso dei russi, sicuramente socialisti e rivoluzionari (nel senso di
antizaristi). Fascismo e nazismo nulla hanno a che fare col populismo
autentico.
Ed è appunto questo il terzo motivo per riproporre
l’intervento. Etichettare come populista destrorso, reazionario, ecc. Grillo e
il M5s significa non aver compreso nulla di un processo sociale spontaneo della
massima rilevanza politica: il fatto che milioni e milioni di cittadini
italiani, in gran parte giovani, precari, disoccupati, operai, di diverse
provenienze politiche ed elettorali (in ampia maggioranza di centrosinistra e
sinistra; ma si pensa che ai grandi fenomeni sociali progressivi partecipino
solo coloro che hanno un pedigree di sinistra?), sono in rivolta etico-politica contro
l’oligarchia del sistema partitico-statale. Significa non aver compreso che non si tratta di rivolta
nazionalista, xenofoba, anti-democratica e reazionaria ma, al contrario, di
rivolta che pretende più ed autentica democrazia, che è spesso nata sul terreno
di iniziative locali d’opposizione e di mobilitazione sociale, non solo sul
web, che tra gli elettori del M5s si trovano tanti giovani e meno giovani che
hanno alimentato le lotte di questi anni e che sono fuggiti da, o mai si sono
accostati, ai partiti dei forchettoni rossi. In questo senso il successo elettorale
del M5s costituisce un complemento dell’astensionismo da noi proposto, un fatto
progressivo
perché dà voce - per la prima volta con questa forza e con queste dimensioni
nella storia italiana! - all’indignazione sociale e politica di milioni di persone.
Se non si riesce a comprendere un fatto così macroscopico, come si può pensare
di «dirigere» il conflitto di classe?
Se non si parte dalla natura progressiva del successo del M5s ma ci si
ostina a interpretarlo con nozioni errate, non solo non si riuscirà ad avere un
rapporto costruttivo con questo movimento-partito ma non si riuscirà neanche a
coglierne limiti e contraddizioni e a incalzarlo giustamente su quel che fa o
non fa, sugli eventuali cedimenti e compromessi con la casta partitico-statale.
D’altra parte, è probabile che parte del ceto di
professionisti della politica della sinistra post-Pci cercherà, avendo compreso
da che parte spira il vento, di intrufolarsi nel M5s. Se questo accadrà, la
loro nefasta influenza si aggiungerà ai problemi che il M5s dovrà affrontare.
Problemi che non sono piccoli né pochi: l’influenza corruttrice delle
istituzioni dette rappresentative; le pressioni esercitate dai partiti perché
il M5s sia «responsabile»; le lusinghe della società dello spettacolo e dell’industria
culturale; le tensioni interne derivanti dalla coesistenza di un leader di
grande carisma e di una base che si ispira alla democrazia orizzontale del web
(con grandi ma generose illusioni), e le tensioni tra iniziativa locale e
centralizzazione nazionale; la contraddittorietà inerente alla dinamica di un
movimento che di fatto si trasforma in partito e che, a sua volta, può dar vita
a un nuovo strato di professionisti della politica (tanto più che ora esiste un
folto gruppo parlamentari M5s); la contraddizione maggiore di voler combattere
la partitocrazia dall’interno di istituzioni postdemocratiche e attraverso le
elezioni.
Vedremo e valuteremo i fatti. Intanto può essere utile far
chiarezza sulle categorie teoriche, in particolare sul populismo, e sul metodo d'analisi, rileggendo alcune interpretazioni del berlusconismo.
PAROLE AL VENTO: POPULISMO, BONAPARTISMO,
CARISMA. L’INTERPRETAZIONE DEL BERLUSCONISMO, di Michele Nobile
Maggio 2010.
1. I politologi hanno notato l’anomalia per cui
in un sistema bipolare come quello italiano (ma non bipartitico), nel quale
l’alternanza di governo dovrebbe essere riconosciuta come fatto normale e
scontata la legittimità del competitore, le campagne elettorali (quasi
permanenti) comportano invece una forte componente di contrapposizione
«ideologica» (le virgolette sono d’obbligo perché un vero scontro di ideologie
o tra alternative visioni del mondo sarebbe benvenuto; ma non è il nostro caso).
L’effetto risulta contraddittorio: da una parte si può avere una «mobilitazione
drammatizzante» dell’elettorato,
«dall’altra, l’accresciuto senso di disincanto di un elettorato che
sembra percepire ambiguità e debolezze, “splendori e miserie” dei leader
mediatici, così impegnati a costruire eventi televisivi e controversie di
campagna da apparire sempre più ai suoi occhi come le fragili vedettes di un lungo,
sconclusionato “spettacolo politico»1.
I gridi circa l’avvento di un regime
peculiarmente berlusconiano sono parte di questa «mobilitazione
drammatizzante». Essa verte, essenzialmente, su due punti:
- sul tipo di rapporto corrente tra l’elettorato
e il capo della coalizione di governo, definito con termini come carismatico,
populistico, bonapartismo soft;
- e sulla creazione di una cintura di immunità
per il capo stesso, sia attraverso leggi ad personam, sia attraverso la
delegittimazione di settori della magistratura e la sua riforma, in modo da
invalidare il principio di eguaglianza davanti alla legge e da alterare i
rapporti tra i diversi poteri dello Stato.
La connessione tra i due punti è costituita
dalla concentrazione berlusconiana del controllo sui mass media, con quel che
ne consegue sulle potenziali capacità di influenzare unilateralmente l’opinione
pubblica e in termini di conflitto di interessi; e dal conseguente rafforzamento del potere
dell’esecutivo, funzionale alla «personalizzazione» della direzione politica. È
dunque possibile un discorso secondo il quale la coalizione di centrodestra,
nell’insieme estranea all’esperienza della unità antifascista e della
Costituente, comprensiva di un partito di originaria matrice neo-fascista e di
un altro dai connotati populisti, xenofobi e retoricamente secessionisti, attui
in direzione opposta allo spirito e alle norme e istituti di garanzia propri
della Costituzione repubblicana. La lesione berlusconiana dello Stato di
diritto è completata dalla diffusa corruzione dei suoi seguaci
nell’amministrazione pubblica e dalla tesi della «patrimonializzazione» della
stessa oppure, come si diceva in riferimento alla Dc, dall’«occupazione dello
Stato», nonché dall’obiettivo incentivo all’illegalità diffusa a favore e da
parte dei più ricchi.
Resta ancora da comprendere perché la
competizione nel mercato politico italiano possa raggiungere i livelli della
reciproca delegittimazione e se si possa utilmente caratterizzare il
berlusconismo, almeno per affinità o analogia, con una delle categorie in uso
nella storiografia e nella sociologia politica quali populismo, bonapartismo,
potere carismatico.
2. La profonda crisi di legittimazione dei partiti del centrosinistra
storico (Dc e Psi) obiettivamente assegnava al mutante del vecchio Pci, solo
grande partito sopravvissuto alle inchieste di tangentopoli, la responsabilità
di stabilizzare la scena politica. Tuttavia, in assenza di una forza opposta e
paragonabile, il rischio era che si liberassero delle energie sociali che
iniziassero a fare i conti con gli squilibri, i dualismi, le «patologie» che
affliggono la società italiana più che altri paesi di analogo livello di
sviluppo capitalistico. Ciò, sia chiaro, non a causa ma nonostante l’orientamento degli ex-Pci:
questi, dal canto loro, fecero quanto potevano per mantenere la crisi del
regime democristiano entro i limiti della riforma istituzionale, facendo della
modifica regressiva della legge elettorale il perno del nuovo Risorgimento
nazionale (se ben ricordo così titolava a caratteri cubitali La repubblica dopo il referendum
anti-proporzionale; comunque quello era lo spirito del tempo).
Quali che siano stati i calcoli di interesse personale,
Berlusconi scese in campo per evitare che l’Italia finisse in mano ai
«comunisti». Demagogia pura, certo. Per farsi principe dei gattopardi
Berlusconi dovette improvvisare con tempi da record una macchina elettorale con
quel che aveva a disposizione, l’apparato del suo gruppo mediatico e
finanziario. E necessariamente non poteva che mettere insieme «cani e porci» e
puntare sulla convergenza di aree elettorali, motivi ideologici e interessi
socio-economici disparati e finanche contraddittori.
Così Berlusconi dovette assemblare il settore di
elettorato democristiano più clericale e coloro che più erano attaccati al
vecchio centrosinistra e al Psi craxiano decisionista e della «Milano da bere»,
ma anche quegli elettori che avevano sviluppato un’avversione nei confronti
della Dc e del vecchio centrosinistra, rappresentati dalla Lega nord (che nel
1992 aveva, in assoluto, più votanti che nel 2008, 3,3 milioni contro 3 o, in
percentuale sugli elettori, il 7,1% contro il 6,4%, dati delle elezioni per la
Camera. Doveva riuscire a combinare l’antistatalismo della rivolta fiscale del
ricco Nord contro «Roma ladrona» con il clientelismo statalista nel
Mezzogiorno, il nazionalismo dei nostalgici fascistoidi e ultranazionalisti del
Msi, in parte «sdoganati» da Craxi, con il secessionismo padano, l’amorale
volgarità televisiva con il bigottismo tradizionalista, il familismo cattolico
e il familismo imprenditoriale.
Berlusconi ha saputo far leva su una parte importante
della biografia della nazione: e la parte peggiore, in termini di valori e di
dis-valori. Ma bisogna tener presente che ciò in cui crede un elettore non
risponde automaticamente a quel che è la natura del partito di riferimento: il
centrodestra non è una formazione politica che semplicemente promuove il self-made
man padano, né è
semplicemente clericale e meno che mai nostalgica del fascismo. Non è realmente
una formazione di «destra», non più di quanto il centrosinistra abbia un cuore
di «sinistra». Prendere sul serio la «preoccupazione per la disoccupazione» del
centrosinistra e la sua critica dell’inerzia del governo Berlusconi a fronte
della crisi è cadere in preda a un miraggio, esattamente quanto credere nel
«buon governo» e nelle promesse, con tanto di «contratto» firmato in
televisione, di Berlusconi.
Dal
punto di vista del marketing politico nella società dello spettacolo e della
spettacolarizzazione politica, il centrosinistra soffre della difficoltà di
offrire l’immagine di un prodotto forte e simpatico. Berlusconi è invece un
«animale spettacolare» per eccellenza. Ma è anche «animale politico» che gioca
senza scrupoli sulla dicotomia tra amico e nemico, per Carl Schmitt fondativa
del politico, e in un modo che, in definitiva, per ora si è risolto a suo
vantaggio [scrivevo nel maggio 2010]; o, perlomeno, gli permette di ridurre
danni che in altro paese sarebbero irreparabili. Si
tratta di uno dei paradossi del personaggio, già paladino della libera impresa
eppure oligopolista, difensore della famiglia cristiana e utilizzatore di escort.
Dietro il berlusconismo ci sono i dualismi peculiari
dell’Italia e la strana saldatura, in un blocco solidamente controllato dal
centrodestra, di due aree territoriali agli antipodi, non solo geografici: il
nord, specialmente il nord-est, e la Sicilia; l’area più sviluppata, ricca e
competitiva dell’economia italiana e una delle aree meno sviluppate, più
povere, più clientelari, più sfruttate dal padronato legale e da quello
mafioso. Oltre la zona rossa dell’Italia centrale, nel quale il vecchio Pci e
il nuovo centrosinistra sono anch’essi saldamente al potere (nonostante le recenti
incursioni elettorali leghiste), le altre regioni sono contendibili.
3. S’intende bene perché chi prenda sul serio il principio «la legge è
uguale per tutti» e il parlamentarismo, e sia sinceramente e onestamente
antifascista e antirazzista, debba odiare Berlusconi e il centrodestra. Non
credo che nel secondo dopoguerra, in Italia e probabilmente in Europa
occidentale, ci siano stati uomini di Stato che più di Silvio Berlusconi
abbiano contribuito a screditare il potere giudiziario e l’istituzione parlamentare
come luogo di elaborazione ideologica dell’«interesse generale»; un paragone
forse si può fare con Richard Nixon, più che con De Gaulle. Nella sua persona e
nella sua qualità di capo di una coalizione, Berlusconi incarna la crisi del
parlamentarismo italiano. E l’incarna nel modo più rozzo così come,
nell’origine, nel comportamento e nella retorica, il centrodestra incarna
quanto di peggio e di schiettamente incivile possa rintracciarsi nella
biografia della nazione. Nazione (o proto-nazione) che quasi due secoli or
sono, e in particolare nei suoi ceti benestanti, Leopardi vedeva intrisa di
cinismo e portata a ridere senza ritegno di sé e del prossimo. Tuttavia, con
un’inconsapevole applicazione di quella che molto più tardi si dirà legge dello
sviluppo ineguale e combinato, pur nella sua arretratezza e mancanza di «società
stretta», secondo Leopardi l’Italia non faceva che esprimere, nella filosofia
di vita del suo popolo e specialmente dei ceti superiori, la meschina verità della ragione calcolatrice della
più moderna ed avanzata Europa2.
4. Quel che sfugge agli anti-berlusconiani è però il fatto che in Italia
il parlamentarismo è in crisi per motivi che vanno ben oltre Berlusconi e soci,
che hanno un’origine e una dimensione internazionale e che implicano, con
responsabilità determinanti, anche la coalizione di centrosinistra, in
particolare il partito in essa più importante. Paradossale,
ad esempio, la non volontà del
centrosinistra di risolvere la questione del conflitto di interesse e della concentrazione
televisiva, quando era in grado di farlo: frutto di miopia o di opportunismo
tattico o di una combinazione dei due elementi ma, in fondo e obiettivamente,
espressione del politicismo elitario che accomuna la casta politica.
I ripetuti attacchi delegittimatori all’operato di settori
della magistratura, le proposte di riformarne la struttura, le leggi ad
personam e a
protezione dei vertici del potere politico, i condoni e le depenalizzazioni
tentati o attuati a favore dei più ricchi, nell’insieme configurano un attacco
al principio di eguaglianza davanti alla legge. Questa spudoratezza è cosa
grave anche dal punto di vista dell’opinione pubblica internazionale
sinceramente liberale; ed è significativa della continuità di fatto tra il
berlusconismo e il clientelismo associati alla vecchia Dc o, meglio, della
continuità con i dispositivi e la mentalità corruttivi dilaganti negli anni
Ottanta. Non è un caso che la sedicente «capitale morale» d’Italia fosse base
sia per Berlusconi che per Craxi: tra i due (ancor più che tra Berlusconi e la
Dc) furono strettissimi sia la reciproca complicità e sostegno sia la visione e
lo stile politici.
Questo, al di là dell’apparenza di Berlusconi
come «uomo nuovo», è il più importante aspetto di continuità reale con il
regime democristiano nel formato degli anni Ottanta ed è il paradosso della
seconda repubblica. Ma, nello stesso tempo, è anche un grave fattore limitante
per la costruzione di un regime berlusconiano. Nonostante i caratteri
postdemocratici dello Stato italiano esso resta, e non può che restare, uno
Stato parlamentare e di diritto (per quanto leso, anche da quel diritto penale
d’emergenza al quale il Pci tanto contribuì): in questo quadro, la persistenza
del conflitto di interessi e la protervia con cui Berlusconi si scaglia su
parte della magistratura, muovono in senso contrario alla stabilizzazione
politica, alla sua legittimazione e alla capacità di integrare e dare coerenza
all’insieme degli apparati statali. La contraddizione rimarrà anche se il centrodestra
riuscirà a produrre una cintura protettiva intorno alle più alte cariche dello
Stato.
Il problema di fondo della coalizione di
centrodestra è proprio andare oltre la troppo rigida personalizzazione dello
scontro politico: di questo sono consapevoli i centristi e Fini. Si tratta però
di una contraddizione che è difficile superare, almeno fino alla morte del caudillo. Quando tale
contraddizione fosse superata verrebbe meno un grave fattore «distorsivo» e
polarizzante della scena politica e istituzionale italiana, intorno al quale si
concentrano grandi energie e attività istituzionali, e che rende più
problematica l’alternanza di governo.
Bisogna ricordare che il fenomeno del
conflitto di interessi e di scandali che interessano i più alti livelli del
governo non è peculiare dell’Italia, ma che da noi si presenta in forma
esasperata, con facce che più che nel bronzo paiono forgiate nell’acciaio inox.
E ricordare anche che la corruzione non è esclusività del centrodestra, come
mostrano i fatti della Campania e dell’Abruzzo, o i sogni di voli finanziari
intorno alla Unipol.
5. Insieme allo stile politico di
Berlusconi, la crisi di legittimazione e di rappresentatività partitica del
regime democristiano costituiscono, in prima approssimazione, argomenti
favorevoli a caratterizzare il berlusconismo mediante analogie con categorie
quali populismo, bonapartismo, fascismo. È il caso di prendere in
considerazione testi non giornalistici e con un impianto teorico e storico.
Delle tre categorie quella del populismo è la più ambigua,
la meno definita e autonoma, ma anche la più utilizzata.
Se per populismo si intendono la demagogia, il fare
promesse o creare aspettative che poi non saranno mantenute, uno stile del
linguaggio verbale e non verbale nella comunicazione di massa, un modo di
rivolgersi direttamente al popolo da parte di una personalità, si può
concordare che Berlusconi sia, in questo senso determinato, populista. Ma questa è accezione
molto riduttiva e mistificante del termine.
Innanzitutto perché se il Cavaliere è il populista di
maggior successo sulla scena politica italiana, oltre che un ghiotto bersaglio
per la satira, certamente non è l’unico. Anzi, la retorica nazional-populista è
stata massicciamente immessa nella politica italiana proprio dai
«progressisti», da coloro che fecero della riforma della legge elettorale il
nuovo Risorgimento del popolo italiano.
Populista è la retorica della sinistra di «terza via», che
ha abbandonato ogni riferimento alle classi; populista è Barack Obama. Strumento
di populismo plebiscitario sono le elezioni primarie; il successo di Vendola
può essere letto in chiave populista, e populista era sicuramente il manifesto
di Rifondazione sui ricchi che piangono e altre trovate retoriche analoghe.
Questa è una fenomenologia che può essere detta populista;
ma è populismo giornalistico e che si riferisce al linguaggio e
all’organizzazione dello spettacolo politico. Nel nostro caso presuppone che
sua Emittenza si rivolga unilateralmente al popolo atomizzato degli spettatori
televisivi.
Ma il populismo vero è molto di più.
Il populismo per eccellenza, il più grande e appassionante
fenomeno politico e culturale che sia così definito, fu quello russo, vivo tra
gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi anni della rivoluzione sovietica.
Fu vicenda assai complessa, magistralmente ricostruita nella monumentale opera
di Franco Venturi3. Personalmente ritengo che la storia dell’«andata
nel popolo» della
giovane intellighenzia russa sia tra le più appassionanti e commoventi
dell’Europa moderna. Ma quel che conta ora è che il movimento populista per
eccellenza non fu affatto di destra: fu anche anarchico; il terrorismo
antizarista fu
approvato e visto con speranza da Marx ed Engels; i socialisti rivoluzionari di
sinistra furono parte integrante della rivoluzione russa e del primo governo
sovietico: la loro espulsione da quel governo fu parte dell’involuzione della
rivoluzione.
Aleksandr Ulianov venne impiccato nel 1887 per aver
progettato, con altri militanti della populista Narodnaja volja (La volontà del popolo), la
liquidazione fisica dello zar Alessandro III: suo fratello Vladimir, allora
diciassettenne, sarà poi noto con lo pseudonimo Lenin.
Corretta e applicabile anche al campo politico è la
definizione di Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo (1965) , sottotitolo Il
populismo nella letteratura italiana:
«L’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia
presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo
ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è
necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello»4.
La storia di Asor Rosa inizia con Gioberti e Mazzini e
termina con Pasolini (nel capitolo sulla crisi del populismo): e in mezzo si
trova il populismo resistenziale del Pci, il più autentico e importante della
storia italiana del Novecento. E poiché Asor Rosa populista non era, definì i
limiti politici dei populisti in termini validi anche per il Pci:
«Il loro programma potrebbe essere riassunto nella
formula: contro il grande capitale (quindi, spesso, anche contro la grande
borghesia), in nome del popolo, contro ogni organizzazione autonoma della
classe operaia»5.
Espressione questa della relativa arretratezza di gran
parte della cultura italiana.
Fatto è che il termine populismo da solo non può affatto
servire per caratterizzare in modo peculiare fenomeni politici di destra ed
autoritari. Nel caso del termine nazionalismo si deve distinguere tra partiti o
correnti orientati alla liberazione nazionale e alla lotta all’imperialismo e
partiti o correnti volti all’imperialismo e all’oppressione di altre
nazionalità; così per il populismo si devono distinguere partiti o correnti
anti-oligarchiche, progressiste, orientate in senso democratico (non
equivalente a liberale) e partiti o correnti nei quali il richiamo al popolo è
la copertura di politiche volte a ristabilire il dominio di classe.
Fino a questo punto il discorso riguarda i movimenti populisti: e nell’Italia di fine
XX secolo il solo movimento populista era lo
pseudonazionalismo padano e retrogrado della Lega lombarda. E scrivo era perché non mi pare proprio che
nei comuni e nelle regioni dove la Lega è una forza di potere essa abbia creato
un regime
populista. Certo, i suoi capoccia possono fare discorsi immondi; le
amministrazioni comunali possono negare moschee e diritti agli immigrati, e
scrivere le indicazioni stradali anche in lingua locale (che a malapena
capiranno gli indigeni); e la Lega può anche conquistare il federalismo, ma in
chiave opposta a quella del grande lombardo Carlo Cattaneo. Tutto ciò è però
cosa diversa sia da un vero e militante nazionalismo di liberazione da «Roma
ladrona», che è ridotto ad annuale liturgia anche perché capita che i leghisti
proprio da Roma governino l’Italia, sia, e specialmente, dal tessuto di
istituzioni che costituiscono uno specifico regime politico. Perché il punto
è proprio questo: caratteri e possibilità di un potere, di una politica
statale, di istituzioni, che sulla base dell’esperienza storica possano dirsi
propriamente populisti.
6. Per Nicola Tranfaglia, ad esempio, quello di Berlusconi è un
«populismo autoritario» nel senso di un vero e proprio regime personale6.
Come storico di professione Tranfaglia non può fare a meno
di ricordare il populismo russo, ma solo en passant. Ritiene, invece, che «nel
Novecento il populismo abbia trovato la sua espressione maggiore e più evidente
nel nazionalsocialismo tedesco di Adolf Hitler» e, subito dopo, precisa che nel
populista coesistono due visioni del popolo:
«una è l’immagine del popolo come massa salvifica, l’altra
come massa incolta. Il popolo incarna, in ogni caso, valori salvifici e se è
incolto, entra in gioco il capo carismatico che dichiara che la cultura di
quella razza è superiore e universale»7.
Direi che ciò mutila la caratterizzazione del nazismo e
riduce il populismo a fatto della destra estrema, con conseguenze
concettualmente disastrose per l’interpretazione storiografica e la politica
contemporanea. Qui lo storico ha ceduto completamente il campo al militante
politico.
L’assimilazione di populismo e autoritarismo è indicativa
dell’inconsapevole (?) assorbimento di un pregiudizio vetero liberale (che però
può conciliarsi con il mito della guida illuminata del partito e la nostalgia
per Togliatti): quello per cui il potere esercitato direttamente dal popolo,
cioè la democrazia, coincida con il dispotismo. In questo caso, il
restringimento dell’ambiguità connessa al termine populismo confonde, invece
che chiarire, il senso dell’eventuale populismo berlusconiano.
Ma in fondo Tranfaglia si rende conto di quanto sia debole
la sua prima caratterizzazione del populismo. Deve precisare (contraddicendo la
precedente schematizzazione) che l’equiparazione delle dittature di destra con
il populismo è un errore; e allontanarsi dall’Europa del fascismo e del
nazismo, per ricorrere agli archetipi sudamericani del brasiliano Getulio
Vargas e dell’argentino Juan Domingo Perón. Specie al peronismo, per cui
«una forte personalizzazione che esalta la guida
carismatica, distrugge la democrazia e instaura un regime autoritario nel quale
la divisione dei poteri diventa una parola vana e il leader comanda su tutto,
senza controlli né freni»8.
Secondo Tranfaglia l’affinità tra Perón e Berlusconi è
tanto forte che egli teme che gli italiani possano essere «costretti a
sopportare ancora per molti anni l’egemonia trionfante dell’erede
(peggiorato) di Perón
nel nostro paese»9.
Ma dal «populismo» nazista a quello sudamericano, da Hitler
a Vargas o a Perón, esiste una distanza enorme, qualitativa, non semplicemente
geografica. Tanto grande che mi trovo in imbarazzo: una seria comparazione del
peronismo con altri populismi, veri o presunti, richiederebbe prima che si
spiegasse cosa era il peronismo, e troppe pagine in più. Me la cavo con una
citazione, dall’Introduzione di Roberto Massari a Il peronismo, secondo il quale una serie di
circostanze favorevoli, nazionali e internazionali,
«abbiano contribuito insieme ad altri elementi a produrre
un fenomeno senza precedenti e cioè il fatto che nella più grande mobilitazione
operaia della storia latinoamericana il ruolo di guida sia spettato per quasi
un decennio al partito dell’ala più dinamica della borghesia nazionale, sulla
base di un programma economico-sociale di pura ripartizione del reddito e di
aggiornamento della legislazione esistente.
Ciò spiega perché, a differenza di altri movimenti
nazional-popolari latinoamericani (come l’aprismo, il varghismo ecc.),
all’interno del peronismo sia potuta proseguire la lotta delle correnti più
propriamente operaie (per composizione ed ideologia) contro la direzione e il
programma borghese del movimento, nell’ambito di un quadro unitario e senza che
le divergenze politiche arrivassero ad esprimersi in programmi alternativi
(...)
Il peronismo è stato dal 1945 in poi, fino agli ultimi
anni del primo governo (1955), una forma particolare di bonapartismo, fondata sull’equilibrio instabile
tra una borghesia nazionale ricca e interessata a ricontrattare il rapporto di
dipendenza, e un movimento operaio combattivo, ma riformista, e quindi
interessato ad aumentare la propria quota di partecipazione nella ripartizione
dei benefici prodotti da una serie di circostanze eccezionali»10.
Gino Germani, invece, enfatizzava gli effetti,
per ampiezza e specialmente per rapidità, delle trasformazioni strutturali
dell’Argentina negli anni 1935-1947, in particolare la disponibilità alla
mobilitazione politica derivante dalla migrazione interna e dalla crescita
degli addetti all’industria. In questa prospettiva il peronismo è una fase
di integrazione nazionale, politica, culturale e sociale: «gli strati popolari
trovarono un loro posto riconosciuto e legittimo – nella misura normale per una
avanzata società di classe»11.
Perón era un militare, ma il fondamento del suo potere era
il proletariato urbano, organizzato in sindacati, molti dei quali creati dallo
stesso regime. Questo lo pone in tutt’altra logica politica di quella di
Berlusconi: si riesce a immaginare un berlusconismo che abbia come nocciolo
duro la burocrazia sindacale?
Arrestato dai militari il 9 ottobre 1945, quando non era
ancora Presidente, Perón venne liberato a furor di popolo. Berlusconi,
l’oligarca e plutocrate oligopolista, «liberista», antisindacale e prono
all’imperialismo Usa, circondato da «azzurri» in giacca e cravatta, non ha
nulla a che fare con il peronismo dei descamisados argentini. Semmai, in quei
contesti,
Berlusconi sarebbe stato tra i golpisti anti-Perón o anti-Allende o tra quelli
anti-Chávez (pure citato semplicisticamente da Tranfaglia, ma almeno in questo
caso la comparazione con Perón è meno fantastorica). La differenza tra
peronismo e berlusconismo traspare in un accenno nel libro di Tranfaglia:
«quello che differenzia il populismo berlusconiano rispetto agli esempi
latino-americani è la politica economica a cui si ispira la coalizione di
centro-destra»12.
Appunto: ma la politica economica non è un accessorio
secondario che si aggiunge alla politica: si può dire che ne esprima la sostanza, le
contraddizioni, il quadro delle alleanze e dei conflitti sociali. Il regime
peronista era una forma di bonapartismo, di una complessità e contraddittorietà
che col berlusconismo non ha nulla a che fare. Ma chi può riuscire a concepire
un «berlusconismo di sinistra» (o anche un «leghismo di sinistra») che pratichi
la lotta armata per l’indipendenza nazionale e la giustizia sociale, come fu
per diverse organizzazioni e frazioni del «peronismo di sinistra», dal Movimiento
revolucionario peronista (1964), di cui le Fuerzas armadas peronistas erano il braccio militare, ai montoneros? A sentire una cosa del genere
temo che un argentino con conoscenza delle cose italiane si metterebbe le mani
nei capelli, o più probabilmente si sbellicherebbe dalle risate.
7. Il peronismo, si è detto sopra, può essere inteso come una variante
del bonapartismo. Ma anche questa categoria può essere definita e usata in modi
diversi.
Per Nicos Poulantzas prima maniera, in Pouvoir
politique et classes sociales (1968), il bonapartismo è
quanto caratterizza il tipo capitalistico di Stato nella sua autonomia relativa dall’economia. Il
bonapartismo è qualità intrinseca dello Stato capitalistico in quanto, da una
parte solo eccezionalmente la borghesia giunge a dominare direttamente sul
piano politico, a causa anche della sua divisione in frazioni in lotta;
dall’altra, per esercitare la propria funzione egemonica nei confronti delle
classi dominate, lo Stato capitalista deve mantenere la sua autonomia dalla
borghesia.
Anche per Domenico Losurdo il bonapartismo è
una costante della politica nella società capitalistica, ma in modo molto
diverso che in Poulantzas. Per quest’ultimo il bonapartismo è una costante strutturale dello Stato, direi il
risultato, peculiare del modo di produzione capitalistico, della separazione e
concentrazione dei poteri economici e di quelli politici in sfere ed in
apparati distinte. Per Losurdo il bonapartismo è piuttosto la risposta della
borghesia liberale alle istanze democratiche della classe dominata,
«un nuovo modello di controllo politico e
sociale delle masse, nell’ambito del quale il suffragio universale è
neutralizzato dalla posizione assolutamente eminente del presidente della
repubblica o del capo dell’esecutivo che, da una parte cerca di ingraziarsi le
classi considerate pericolose mediante alcune limitate concessioni (sviluppo
dei lavori pubblici, calmiere ai fitti nelle grandi città ecc.), dall’altra
cerca di incanalare e deviare il malcontento verso l’esterno, inalberando lo
stendardo della Francia nel mondo»13.
Su Poulantzas (del 1968) Losurdo
guadagna in specificità storica e rende meglio l’idea marxiana che l’ascesa di
Luigi Bonaparte fu la vittoria «del potere esecutivo sul potere legislativo,
della forza senza frase sulla forza della frase», che con lui «lo Stato sembra
essere diventato completamente indipendente», al punto di poter cadere preda di
un avventuriero che ha comprato la soldataglia con acquavite e salsicce.
Per Losurdo il bonapartismo soft berlusconiano è
l’aspirazione al presidenzialismo combinata con un enorme potere mediatico, il
modellarsi della propaganda politica sulla pubblicità commerciale, il sistema
elettorale uninominale, la campagna ossessiva e «terroristica» contro i partiti
e le organizzazioni pesanti. Egli assimila il passaggio dalla prima alla
seconda Repubblica a due altri «movimenti reazionari» italiani, quello della
fine del XIX secolo e il fascismo, tutti caratterizzati da un «colpo di Stato o
tentativo di colpo di Stato [che] si dispiega su un arco di tempo abbastanza
prolungato», come successione di «strappi istituzionali»14.
Qui abbiamo diversi problemi:
a) il bonapartismo soft non è il fascismo, ma
l’inserimento nella medesima categoria dei «movimenti reazionari», che
procedono per golpes più o meno striscianti, non è affatto innocente. Il punto
è che il fascismo non fu solo «uno dei periodici movimenti di reazione con cui
la borghesia depura o cerca di depurare il più possibile il regime liberale
degli elementi di natura democratica o sociale considerati spuri»15.
Non è scoperta di chi scrive che il fascismo, germogliato sotto uno Stato
liberale, fu una forma di Stato (capitalistica) diversa da quella liberale, e
che esso non «depurò» ma annientò le organizzazioni del movimento operaio.
Questo Losurdo ovviamente lo sa, ma, di nuovo, la passione politica gioca
brutti scherzi.
b) I libri di Losurdo citati risalgono al 1993
e al 1994. Da allora il colpo di Stato strisciante ha concluso il suo corso
oppure no? O ci stiamo avvicinando, dopo alcuni lustri, al momento fatale? La
tempistica è importante per comprendere la natura del regime politico, per la
ragione che dirò avanti.
c) Nel passaggio dalla prima alla seconda
Repubblica hanno certamente svolto un ruolo importante attori reazionari, quali
Cossiga, «il picconatore» già ministro degli interni nei governi appoggiati dal
Pci, e la Lega. Ma non solo loro. Alla campagna reazionaria di riforma del
sistema elettorale in senso maggioritario parteciparono non solo gli organi di
stampa «progressisti» ma esponenti del Pds (Augusto Barbera, innanzitutto); il
Pds, con Cesare Salvi capo gruppo nella commissione parlamentare per le riforme
istituzionali, sosteneva per il Senato un sistema al 70% maggioritario con
doppio turno alla francese, e un sistema più arzigogolato per la Camera,
maggioritario-uninominale a un turno per il 52% dei seggi, il resto con
attribuzione proporzionale tra i non eletti. Il risultato del referendum
abrogativo relativo al sistema elettorale del senato, 82,7% di sì, e il 77%
degli elettori, non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della «sinistra
progressista». Il neo (o post) fascista Msi, da cui derivò An, invece, era
contrario.
d) Come già detto, presidenzialismo e/o
sistema uninominale non sono esclusivi dell’Italia: il che dice molto sulla
liberaldemocrazia, ma meno sui «movimenti reazionari» in senso proprio. I
presidenti Kennedy o Mitterand erano reazionari? Per pura ipotesi: Bertinotti
presidente in una Repubblica presidenziale sarebbe reazionario?
La concezione dello Stato di Poulantzas (del
1968) ha, su Losurdo, il pregio di evidenziarne la natura capitalistica
indipendentemente dal regime politico e dai dettagli istituzionali, quella
«separatezza bonapartistica» che fa anche del regime parlamentare una forma non-democratica, e di demistificare
la nozione di sovranità popolare facendo del popolo qualcosa che si costituisce
attraverso la rappresentanza degli elettori atomizzati. Rappresentanza che
per norma costituzionale, dottrina e prassi non è affatto sottoposta a un qualche
vincolo contrattuale o imperativo da parte degli elettori.
Losurdo, invece, è attaccato all’idea dei
partiti di massa come mandatari del popolo. E questo non solo contrasta con la
realtà della sovranità del sistema dei partiti sul popolo, ma elimina la
questione della burocratizzazione e dell’interna mutazione dei partiti nati dal
movimento operaio.
8. Il problema dei concetti di bonapartismo di
Poulantzas (del 1968) e di Losurdo, e che è comune ad altri modi di definire il
berlusconismo, è che il bonapartismo
è una forma di regime (capitalista) d’eccezione. Dopo Pouvoir
politique, in Fascisme et dictature (1970) lo stesso Poulatzas pose il
problema di comprendere come «specie differenti e particolari di crisi, sfocino
ciascuna in forme di regime d’eccezione – bonapartismo, dittature militari,
fascismo – specifiche della forma dello Stato d’eccezione»16.
Condizione minima perché si possa usare in modo sensato la
nozione di bonapartismo è una situazione di crisi
acuta del conflitto tra le classi sociali, tale che tra esse esista una sorta
di equilibrio, anche se non paritario, sicché il Bonaparte di turno possa
atteggiarsi ad arbitro e «salvatore della nazione».
Negli ultimi quattro decenni qualcuno ha visto
una crisi di questo genere in Italia?
Sorge allora la domanda: a che genere di crisi
corrisponderebbe un regime berlusconiano? Non certo alla crisi del regime
democristiano, giacché negli anni Novanta il nostro candidato Bonaparte governò
poco più di sei mesi e in modo inconcludente, al contrario del lungo e
tristemente fruttuoso regno dei suoi competitori. Peraltro, negli anni decisivi
della crisi egli era stato preceduto dai governi di Amato e Ciampi, «governi
tecnici» ma riconducibili all’area ampia di centrosinistra, e garantiti dal
Presidente Scalfaro: ecco, lo spazio nel quale avrebbe dovuto inserirsi un
novello Bonaparte italiano venne occupato dal Presidente democristiano di
centrosinistra. Si può ben dire che di fatto nel 1993-1994 il regime politico
italiano sia stato di fatto presidenzialista, che Scalfaro abbia
sganciato il governo dalla crisi di legittimità e rappresentatività del vecchio
centrosinistra, così garantendo l’autonomia dello stesso, nella logica del
bonapartismo come tratto generico dello Stato nel Poulantzas di Pouvoir politique.
Ma... Scalfaro come Bonaparte? Non scherziamo.
Fu l’area dell’attuale centrosinistra,
centrata sul partito mutante derivato dal Pci, ad essere protagonista della
neutralizzazione della crisi del regime democristiano.
Berlusconi può aver riorganizzato parte del
vecchio elettorato democristiano e craxiano, rivendicando una certa continuità
anti-giustizialista, ma ciò è l’opposto del bonapartismo che, per definizione,
si contrappone ai vecchi partiti facendo giustizia contro di essi.
Si può dire che il sistema elettorale proporzionale e un
regime parlamentare puro rafforzino sia la «rappresentatività» che la
democraticità di un regime liberaldemocratico e, viceversa, che l’introduzione
del sistema elettorale maggioritario, grazie al sostegno del maggior partito
della «sinistra» italiana, e il presidenzialismo di un Berlusconi sono fatti,
tra numerosi altri, indicativi del degrado del livello di democraticità del
sistema politico italiano. Ma in quanto tali non hanno un carattere eccezionale
né preludono a un regime d’eccezione, quale la dittatura, il bonapartismo o il
fascismo. In Italia non esiste alcuna ragione per cui si abbia un regime
d’eccezione.
Piuttosto, il sistema politico italiano sembra allinearsi
a quello di altri paesi a capitalismo avanzato e proprio le peculiarità
italiane drammatizzano, con ciò evidenziandole, tendenze internazionali.
Meglio che in altri paesi a capitalismo avanzato, in
Italia è più chiaro che siamo in presenza di un’involuzione storica della
liberaldemocrazia [che
ha ceduto il posto alla postdemocrazia; si vedano gli altri capitoli di Capitalismo
e postdemocrazia],
che le «riforme» istituzionali puntano a rafforzare i privilegi della casta
politica e la governabilità e che, specialmente le «riforme» avanzate dal centrodestra, sono viziate
da palese strumentalità, quali l’autodifesa di Berlusconi, e da contingenze
tattiche, quali la necessità di dare soddisfazione alla Lega nord.
Eppure, nonostante la retorica e il narcisismo megalomane,
a Berlusconi e soci manca l’ampiezza della visione politica necessaria a
costruire un regime peculiare come il fascismo o il peronismo; e, in realtà, gli
mancano perfino gli strumenti politico-economici, in forza delle privatizzazioni e
dell’unione monetaria. Per esercitare un ruolo politico direttivo nei processi
socio-economici era meglio e più attrezzata la Dc fanfaniana della seconda metà
degli anni Cinquanta del secolo scorso. Valendosi di nuovi investimenti
nell’industria di Stato la Dc fu protagonista di un’iniziativa di alta politica, riuscendo, sia pur parzialmente,
a modificare i rapporti interni al capitalismo italiano e tra questo e il
capitalismo internazionale.
Il berlusconismo, non meno del centrosinistra, è invece
vittima consenziente e godente del cosiddetto liberismo: il che significa che sia
il centrosinistra che il centrodestra sono meno capaci di direzione politica
dei processi socio-economici, quindi di grande iniziativa politica. Ad entrambe le coalizioni
mancano grandi politici; i dirigenti di entrambe le coalizioni si pongono,
invece, come amministratori di tendenze spontanee.
Ma, se rispetto al grande capitale ed alle istituzioni
internazionali il centrosinistra può vantare, e gli viene riconosciuto, il
successo politico per l’opera di privatizzazione e di convergenza intorno ai
parametri di Maastricht, migliori capacità amministrative e di rigore fiscale,
nonché nella neutralizzazione delle tensioni nei sindacati, il successo interno
del berlusconismo risiede, più che nelle sue capacità «creative», nel suo essere
in sintonia con queste tendenze spontanee, con gli interessi immediati e
diffusi del capitale «nazionale» più bisognoso di protezione. E, senza più la
possibilità di svalutazioni competitive, la protezione più facile risiede
nell’avere la mano più libera possibile nello sfruttamento della forza-lavoro e
pagare meno tasse che si può. Questo è il capitalismo più piccolo, non solo nel senso dimensionale:
quello meno capace di grandi operazioni finanziarie, che meno accede ai
circuiti del credito, che non ha capitale da impiegare nella ricerca e
nell’innovazione, che meno sopporta anche un minimo di tutela sindacale. È un
capitalismo perdente.
L’argomentazione recentemente portata dalla ministra della
pubblica istruzione, secondo la quale lo spostamento a ottobre dell’inizio
dell’anno scolastico sarebbe nell’interesse dell’industria del turismo, è un
esempio grottesco dell’adeguamento all’interesse immediato di un settore del capitalismo nazionale a danno
dell’«interesse generale» dello stesso. Su un piano diverso, si possono
ricordare la rivendicazione, leghista e di Tremonti, di misure protettive
dell’industria tessile e dell’abbigliamento italiana a fronte della concorrenza
cinese, quando arrivò a scadenza (2005) l’accordo multifibre, le critiche alla
passività dell’Unione europea e le affermazioni, demagogiche, sull’euro: tutti
segni del disagio di un capitalismo «nazionale» la cui struttura delle
esportazioni è irrimediabilmente arretrata, che è preso tra l’incudine della
concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione e con salari
irragiungibilmente competitivi e il martello del neomercantilismo tedesco e
delle esportazioni a più alto contenuto tecnologico.
Come imprenditore Berlusconi stesso è l’emblema vivente
delle caratteristiche e dei limiti del capitalismo italiano: non solo è vicino
ad una posizione monopolistica, non solo ripete il controllo familiare sul gruppo, ma opera in
mercati obiettivamente protetti dalla concorrenza estera, quali l’edilizia e le
comunicazioni.
9. Prima ho indicato il materiale con cui Berlusconi doveva
necessariamente partire. Ma il Cavaliere non ha solo assemblato pezzi
preesistenti. Ha realizzato una sintesi. Per questo carattere sintetico è
difficile restringere la caratterizzazione del principe dei gattopardi in
un’etichetta esaustiva, in una categoria politologica tradizionale. Grande
comunicatore e venditore di sogni, caso esemplare di personalizzazione della
politica, potrebbe far pensare a un politico carismatico17.
Ma per Max Weber
«il carisma è una potenza in linea di principio
straordinaria, e quindi necessariamente extra-economica, ma minacciata nella
sua virulenza non appena gli interessi della vita economica quotidiana
prevalgono come minaccia di accadere ovunque»18.
Il carisma è un dono che conferisce potere non per scelta
ma per doveroso riconoscimento dei destinatari del messaggio; è qualcosa che è
pertinente al campo dello straordinario e a una missione con la quale il capo è
identificato, è congenitamente instabile e in opposizione al potere di tipo
patriarcale o burocratico. Ora, se è vero che
«Il condottiero e il suo seguito cercano la preda; il
detentore del potere plebiscitario o il capo carismatico di partito cercano i
mezzi materiali della loro potenza, ed il primo soprattutto cerca lo splendore
materiale del potere per consolidare il prestigio del suo dominio»
è pur vero che
«Ciò che
tutti disprezzano – finché esiste un genuino potere carismatico – è l’economia
ordinaria di carattere tradizionale o razionale, con l’obiettivo di “introiti”
regolari conseguiti mediante un’attività continuativa diretta a tale scopo»19.
Dunque, per alcuni tratti il personaggio politico
Berlusconi somiglia a un capo carismatico; ma per altri decisivi ne diverge. Un capo carismatico
non dispone di un’organizzazione burocratica razionale quale un’impresa
capitalistica, meno che mai di un grande gruppo finanziario; non può vantare un
successo economico né presentare un conflitto d’interesse. Non è uomo
dell’economia ordinaria e razionale. È antitetico al capitalismo; è invece, per
Weber, un sostegno del «comunismo, se con questo termine intendiamo la mancanza della “contabilità” nel
consumo dei beni e non l’organizzazione razionale della produzione dei beni in
vista di un “calcolo” in qualche modo comune (“socialismo”)»20.
Neanche il potere di tipo patrimoniale si presta a
concettualizzare la figura politica di Berlusconi. Volendo se ne può vedere un
tratto nell’utilizzo dell’apparato amministrativo personale per estendere il
potere del signore al di fuori della sfera «domestica», ma il patrimonialismo
tende a rompere con la razionalità formale, cioè di tipo capitalistico,
orientata al profitto: o regolamentando l’economia «in senso materiale, cioè in
base a ideali “culturali” di carattere utilitaristico o etico-sociale e
materiale» o in forza dell’arbitrio fiscale21.
Insomma, per un certo verso Berlusconi potrà anche essere
un sultano «patrimonialista», ma il vero patrimonialismo cozza con il
neoliberismo, la deregolamentazione, la detassazione.
In effetti, presi in se stessi i tipi ideali weberiani del
potere carismatico e del potere patrimonialistico non si prestano a
caratterizzare la politica di uno Stato capitalistico, per il semplice motivo che
queste forme del potere legittimo vennero concepite in contrasto con la moderna forma razionale
del potere burocratico, nel quale la razionalità è condotta dominata dalla regola,
impersonalità della gerarchia contrapposta al potere personale, obiettività
della legge contrapposta all’arbitrio soggettivo. Per Weber il potere
burocratico può svilupparsi compiutamente solo in un’economia monetaria, sia
perché solo questa può assicurare le entrate necessarie a retribuire i
funzionari, sia perché l’agire economicamente razionale, tale perché basato sul
calcolo monetario, richiede che anche il funzionamento del potere politico sia
«calcolabile» e prevedibile.
10.
Weber fu teorico del potere burocratico
come «guscio d’acciaio» della modernità, dell’analogia tra la macchina
inanimata «come spirito rappreso» e la burocrazia come «macchina vivente»,
ineliminabile anche con la scomparsa del capitalismo.
Ma
Weber, e se non bastasse il resto qui fu veramente grande, riconobbe pure la
necessità del potere carismatico ai vertici della società capitalistica.
Perché se la burocrazia, pubblica e privata, è l’ossatura del potere nel mondo
moderno, il funzionario-macchina può fare osservazioni su un ordine ma in
definitiva è un esecutore tenuto all’obbedienza. Fantasia, coraggio e innovazione
non sono, diciamo così, il suo forte, non devono esserlo. Ma per il dirigente, politico o imprenditore, che sia
effettivamente tale, le cose stanno altrimenti:
«Il funzionario deve stare «al di sopra dei partiti”, cioè
in realtà al di fuori della lotta per acquisire una potenza propria. Invece la lotta
per la conquista della potenza e della responsabilità personale di fronte alla
propria causa, che da essa deriva, costituisce l’elemento vitale del politico e
dell’imprenditore»22.
Il punto venne riconosciuto da Marcuse: il dominio
formalmente razionale dell’amministrazione burocratica non è altro che
l’apoteosi della reificazione della ragione e della ragione reificata come
mezzo, strumento. Ma questo strumento formalmente razionale deve avere uno
scopo fuori di se: e questo è dato dalla « lotta per la conquista della potenza
e della responsabilità personale». Così la razionalità formale dell’apparato
come mezzo richiede l’irrazionalità del potere carismatico del dirigente
impegnato nella lotta come fine. E mentre l’apparato burocratico si sottomette
al capo carismatico, il carisma stesso si rovescia modernamente in dominio di
interessi. L’amministrazione «effettivamente razionale tenderebbe ad eliminare
il dominio», ma essendo l’apparato costruito «sul terreno del dominio», è
necessario limitare e manipolare la «democratizzazione» (formale) che
l’amministrazione richiede. La soluzione della contraddizione
«ha la sua espressione classica nella democrazia
plebiscitaria, in cui le masse destituiscono periodicamente i loro capi e ne
determinano la politica, sotto condizioni predeterminate e ben controllate dai
capi. Così per Max
Weber il suffragio universale non è soltanto risultato, ma anche strumento del
dominio nel periodo della sua perfezione tecnica. La democrazia plebiscitaria è
l’espressione politica dell’irrazionalità diventata ragione»23.
Penso che queste osservazioni di Marcuse siano utilissime,
oggi più che al momento in cui vennero formulate, per porre in relazione il
carisma e la burocrazia partitica e statale (o meglio, partitico-statale). Qui
la questione non è tanto quella del carisma del capo in condizioni di crisi e
dello Stato d’eccezione anti-parlamentare, ma del carisma in regime
parlamentare, con regolari e periodiche elezioni, l’esistenza di un’opinione
pubblica, insomma della vita politica in una democrazia rappresentativa matura.
Quale, ad esempio, quella italiana.
In questa prospettiva il personaggio Berlusconi potrà
essere visto nella sua peculiarità ma anche nella sua normalità, per quel che
lo rende più carismatico rispetto ai grigi burocrati di centrosinistra, ma
anche per quel che essi hanno in comune.
In entrambi i casi i capi puntano al riconoscimento
carismatico, all’investitura popolare, ma non possono essere compresi al di
fuori della crescita del potere dell’amministrazione e dello svuotamento del
parlamentarismo.
Questo discorso può integrarsi con quello di Debord circa
la società dello spettacolo, non come mero risultato dell’evoluzione dei mezzi
di comunicazione di massa, ma del rapporto sociale capitalistico.
Sotto il profilo socio-economico, «lo
spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale
della vita sociale», apoteosi del consumo di massa alienato, sussunzione totale
del valore d’uso al denaro come valore che valorizza se stesso e che, in quanto
equivalente generale della totalità delle merci perviene a un grado di
autonomia tale da divenire protagonista di uno spettacolo di cui guardare, e
subire, le conseguenze.
Sotto il profilo politico lo spettacolo è il
momento dell’unificazione che riproduce la separazione, della
istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro e del potere rispetto
agli spettatori:
«È la più vecchia specializzazione sociale, la
specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo
è quindi un’attività specializzata che parla per l’insieme delle altre. È la
rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove
ogni altra parola è bandita. Il più moderno qui è anche il più arcaico»24.
Qui c’è molto di quello che sarà poi il
postmoderno, ma senza il postmodernismo. Ciò di cui parlava Debord è la società
dello spettacolo come modalità d’esistenza del capitalismo avanzato (con un parallelo
circa il sedicente «socialismo realizzato» come «spettacolare concentrato» e
per questo dominato dalla polizia). In una società in cui «il più moderno qui è
anche il più arcaico», può darsi un movimento di banalizzazione per il quale la
repressione morale può «combinarsi come un’unica cosa con l’affermazione
ridondante del godimento di questo mondo, questo mondo essendo prodotto solo
come pseudogodimento che sostiene in sé la repressione»25. Ed ora,
«Concentrando in sé l’immagine di un ruolo possibile, la vedette, rappresentazione spettacolare
dell’uomo vivente, concentra dunque questa banalità. La condizione di vedette è
la specializzazione del vissuto apparente, l’oggetto d’identificazione alla vita apparente
senza profondità, che deve compensare il frazionamento delle specializzazioni
produttive effettivamente vissute. Le vedette esistono per rappresentare tipi
variati di stili di vita e di stili di comprensione della società, liberi di
esercitarsi globalmente (...) L’agente dello spettacolo messo in scena come vedette è il
contrario dell’individuo, il nemico dell’individuo per se stesso come
ovviamente per gli altri»26.
11. Oltre trent’anni fa Alan Wolfe notava, a proposito di un dibattito
televisivo del 1973 tra il segretario del Partito comunista francese Georges
Marchais e il futuro presidente Valery Giscard d’Estaing, che esso rivelava
«un singolare scambio tra i ruoli. Marchais era il più realista
che usava il linguaggio della concretezza dei programmi e delle tappe
necessarie all’ingresso al governo; Giscard appariva invece come l’utopista che
descrive le immagini di un futuro tecnocratico, finalmente immune dal conflitto
in campo sociale e tecnologico e in grado di offrire a tutti una vita migliore.
Una identica inversione di ruoli si verifica anche nel campo della teoria»27.
Traeva poi alcune conclusioni generali sulla politica nella
società tardocapitalistica:
«La paura del conflitto di classe trasforma i cultori dell’utopia
in pragmatisti, mentre l’ambizione del potere fa vestire a quest’ultimi i panni
degli utopisti (...)
A quel fenomeno che nel capitolo precedente ho descritto in
termini di “reificazione dello Stato” si accompagna perciò l’idolatria del
potere, che prescinde completamente dai fini cui esso è rivolto. Il potere non
va più temuto, ma esaltato. Il potere è bene, realizza, rende puri, e se è
potere assoluto, rende assolutamente puri (...) In una simile prospettiva,
unica finalità del sistema politico diviene l’accumulazione e distribuzione del
potere, e in tale sistema entra a far parte della élite solo chi adempie a
tali funzioni (...).
Nel capitalismo maturo, la reificazione dello Stato ed il taglio
operato sull’immaginario politico conducono al formarsi di una ideologia
rivolta ai mezzi della azione, non ai fini. E poiché non è affatto facile motivare
la gente su problemi di mezzi, una volta che la classe dirigente abbia distrutto i fini, sempre più
difficile diviene il compito di produzione ideologica dello Stato e dei suoi
apparati. Di fronte a questa difficoltà, come una persona impaurita che
riacquisti contemporaneamente la fiducia nelle proprie forze e nell’intervento
della provvidenza, le classi dominanti subiscono simultaneamente il fascino
della Realpolitik più spietata e della più caritatevole delle utopie.
La società tardocapitalistica insomma, di necessità fa virtù, del
cinismo un’utopia e del nichilismo una missione»28.
La personalizzazione della politica è tentativo di
costruire un’immagine carismatica, ma il carisma del moderno spettacolo
politico richiede un apparato, è fattore che presiede alla centralizzazione e
unificazione dell’amministrazione sotto un vertice, è costruzione artificiosa e
intrinsecamente contraddittoria perché legata a un processo di alienazione
politica in cui è la macchina d’apparato a dominare. Quali sono le missioni di
cui gli aspiranti leaders possono farsi portatori? La missione del
centrosinistra fu portare l’Italia «in Europa», nel secolo scorso. E ora?
Berlusconi ha dimostrato di essere il migliore «animale politico»
in campo perché, rispetto ai concorrenti, concentra e gestisce al meglio le contraddittorie
caratteristiche comuni dello statista tardocapitalistico: «di necessità fa
virtù, del cinismo un’utopia e del nichilismo una missione».
Il migliore, ma non tanto da berlusconizzare la società e
probabilmente non tanto da non rimanerne ammaccato.
Note
1 «Interesse per la
politica, appartenenza di coalizione e giudizio sui leader: gli effetti della
campagna elettorale», di Mauro Barisone, in Dall'Ulivo al governo
Berlusconi. Le elezioni del 13 maggio 2001 e il sistema politico italiano, a cura di Gianfranco
Pasquino, Il mulino, Bologna 2002, p. 178.
2 Si veda il Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, marzo 1824.
Leopardi opponeva al cinismo italiano la soggettività
attiva propria di una «società stretta» retta dagli intensi scambi mercantili
di un’articolata e crescente divisione sociale del lavoro i quali, per
svolgersi tranquillamente, richiedono un minimo di illusioni, di fiducia, di cura per la
pubblica opinione e, almeno, che non ci si rida in faccia. Questo, però, sulla
base di una complessiva valutazione critica dei costumi del tempo, ovvero della
modernizzazione capitalistica, e del riflusso dello slancio rivoluzionario
francese.
3 Si veda Il populismo russo di Franco Venturi, Einaudi,
Torino 1972, in tre volumi; Roberto Massari, Il terrorismo. Storia,
concetti, problemi,
Massari editore, Bolsena 1998, capitoli 1° e 2°.
4 Alberto Asor Rosa, Scrittori e
popolo, Samonà e
Savelli, Roma, ed. 1976, p. 13.
5 ibidem, p. 17.
6 Si vedano La resistibile ascesa di
Silvio B. Dieci anni alle prese con la corte dei miracoli e Il populismo autoritario.
Autobiografia di una nazione, entrambi per Baldini Castoldi Dalai, Milano,
rispettivamente 2004 e 2010.
7 Tranfaglia, Il populismo autoritario, op. cit., p. 29.
8 ibidem, p. 48.
9 ibidem, p. 138, corsivo mio.
10 Il
peronismo, a cura
di Roberto Massari Erre emme edizioni, Bolsena 1997, pp. 15-16, nuova ed. di Peronismo
e movimento operaio,
Jaca book, Milano 1975.
11 Gino Germani in Momenti
dell'esperienza politica latino-americana,
il Mulino, Bologna 1974, a cura di Ludovico Garruccio, con saggi anche sulla
Bolivia e il Brasile.
12
Tranfaglia, Il populismo autoritario, op. cit., 94.
13 Domenico Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e
decadenza del suffragio universale,
Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 60.
14
Domenico Losurdo, La seconda repubblica, Bollati Boringhieri,
Torino 1993, p. 52.
15
ibidem, p. 40.
16
Nicos Poulantzas, Fascisme et dictature, Maspero, Paris 1970,
qui dall’ed. Seuil/Maspero 1974, p. 66.
17 Una
lettura di Berlusconi attraverso le categorie weberiane in Paul Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una
democrazia mediatica,
Einaudi, Torino 2003.
18 Max Weber,
Economia e società. IV. Sociologia politica, Edizioni di comunità, 1995, p.
228.
19 Max Weber,
Economia e società. I. Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di comunità, 1995, p.
241, corsivo mio.
20 Max Weber,
Economia e società. IV. Sociologia politica, op. cit., p. 227.
21 Max Weber,
Economia e società. I. Teoria delle categorie sociologiche, op. cit., p. 235.
22 Max Weber,
Economia e società. IV. Sociologia politica, op. cit., p. 504.
23 Herbert Marcuse, «Industrializzazione e capitalismo
nell'opera di Max Weber», relazione del 1964, in Cultura e società. Saggi di
teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino
1969, p. 257, corsivo mio.
24 Guy-Ernest Debord, La società dello spettacolo, Massari editore, Bolsena 2002, p. 49.
25 ibidem, p. 66.
26
ibidem, p. 67.
27
Alan Wolfe, I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del
capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981, p. 462.
28
ibidem, pp. 463-464.
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