di Antonio Marchi
A mio padre
Venerdi alle 10 e 40 è morto mio padre: sicuramente per lui è meglio così.
Io che non sono un cattolico e non credo in D-io, posso capire la sua più recente insofferenza del vivere; non tanto i dolori, che diventano superabili soltanto se esiste qualcosa che li possa trascendere, ma l’assoluta dipendenza da chi, pur amorevolmente, lo assisteva.
Mio padre non è stato per me un padre esemplare, tuttavia, lui non è stato inutile per nessuno, tanto meno per me, che gli sono riconoscente di avermi dato la vita e, con essa, la possibilità di comprenderla, di viverla tutta nelle sue difficoltà e nelle sue felicità.
Lui, mio padre, anelava di raggiungere mia madre, la sua donna, che certamente dovrebbe avere un posto nella vita riservata, dopo la morte, a coloro che credono in D-io.
Per me è un'impresa faticosa descrivere battito dopo battito, il cuore pulsante di quest'uomo del primo Novecento che ha rischiato di compiere 101 anni, dal passato carico di storia tragica e di risorgimento, fedele come un cane al lavoro dei campi fino alla fine.
Mi limiterò a rastrellare sul prato dei ricordi erba di vita contadina del cavaliere di Villorba, anche se nel tirare il rastrello, succede che s’incastra sulla gramigna - “erba cattiva che non muore mai”.
Quello che c'è da rimanerne meravigliato, è il contadino, orgogliosamente contadino, manutentore del territorio, dalle memorie ancora visibili del mio passato del trascorso lavoro umano e/ma anche il custode del paesaggio agrario, capace di badare a se stesso, di offrire compagnia a sua moglie Filomena e sostegno alla famiglia e di resistere con dignità alle rughe del tempo.
Cento anni sono tanti che a contarli ci si stanca, un traguardo che a pochi è consentito raggiungere.
Traguardo di una vita passata tra la stalla e i campi - poco in cucina e poco nella società civile - e poco anche a letto - il tanto che basta a ritemprarsi. Vita vissuta all'insegna della fatica, dell'attesa, sempre con lo sguardo in su a spiare il cielo: per i raccolti, per i figli, per i soldi che devono bastare… vita che dura dall'alba al tramonto nella piccolezza del tempo che si riduce di ora in ora fino ad accendere la lampada precaria della notte; perché l'arte di coltivare la terra non ammette sconti, non è arte povera; ma come tutte le arti, ha bisogno di essere coltivata con passione, pazienza, costanza, serenità e disciplina se si vogliono ottenere frutti.
Un uomo fortunato dunque, mio padre, con un pieno d’immagini da copione cinematografico, rigide come il ferro che lo sostiene, solo un poco maltrattato dalla sua usura.
Caro papà, ho visto nei tuoi occhi spenti morire lentamente la tua vita. Hai dato la tua giovinezza, il tuo corpo, la tua forza alla “patria” che non merita nulla. Tu ti sei dato, come tocca a tutti. E come non tocca tutti, perché non tutti nascono poveri, il tempo della spensieratezza, se è arrivato, passa presto, risucchiato in un vortice continuo di conti da saldare e da fare, con l'impossibilità di concedersi uno svago che non sia la partita di bocce alla domenica.
Ora che sei morto, quella patria “si gloria”, ti faranno gli onori militari perché sei figura istituzionalmente nobilitata (in ritardo), per drammi e fatiche di deportato… ma io non starò sull’attenti, come non lo sono mai stato con te anche se ormai è troppo tardi per dirtelo e tu non lo saprai mai. La vita non ci ha trovati alleati, non è mai stato facile trovare un linguaggio per iniziare un percorso di (ri)conciliazione, perché quell’umiltà che non abbiamo avuto e le rigidità reciproche, ci hanno messo a dura prova e per tutti e due è sempre stato troppo tardo un chiarimento e una prova d'amore.
Ora però, puoi finalmente essere al fianco di Filomena mia madre, la tua donna, che ti ha preceduto di 10 anni, perché alle donne bisogna sempre dare, per gentilezza, la precedenza.
La precedenza alla vita, o la precedenza alla morte? Cioè, lo spero per loro, all’aldilà.