di Michele Zizzari
Ѐ da oltre mezzo secolo che – per e con lo spauracchio della destra – la cosiddetta sinistra e presunte forze democratiche e progressiste (che ora preferiscono addirittura definirsi solo europeiste) hanno scelto di spostarsi sempre più a destra per inseguire sondaggi e consenso nel tentativo di ambire e restare al governo. Certo, una destra soft, di sinistra (oh scusate riformista), oserei dire liquida, dal volto e dagli argomenti meno truci e rozzi, un po’ green e un po’ digital hi tech, ma con ricette politiche ed economiche non così diverse nella sostanza: libero mercato, sviluppo, crescita, privatizzazioni, finanziamento dell’impresa privata, produttività, competitività e flessibilità del lavoro.«La discussione in Parlamento sul nuovo governo del Grande
drago con i suoi piccoli draghetti»
Le stesse ricette che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe umana, sociale e ambientale, oltre che al quadro politico attuale; e tutto indipendentemente dal Covid, che ha solo aggravato le cose e reso palese – se ancora ve ne fosse bisogno – che il sistema economico, politico e sociale al quale siamo disgraziatamente consegnanti da secoli è incapace di affrontare, gestire e risolvere i problemi che assillano l’Umanità, e neppure ne ha voglia. C’è chi s’illude che l’emergenza pandemica possa cambiare o abbia cambiato qualcosa. Forse avrebbe potuto, o ancora potrebbe, ma non ne sarei così sicuro. Basta guardare le vergognose speculazioni sui vaccini delle solite multinazionali del farmaco, cui la politica internazionale che conta non ha opposto resistenza, neppure in presenza di una crisi globale così grave. Certo, sono stati stanziati fondi mesi fa neppure pensabili, dato il regime di rigore finanziario vigente, ma temo più per rianimare un’economia capitalistica ormai in apnea che per un cambiamento di visione.
In ogni caso mi riferivo prima a quell’area politica in odor di sinistra ormai fritta e indistinta, che non sa più da che parte stare o guardare, e che alla ricerca dell’identità perduta rincorre le nuove forze populiste, che vivono (come le vecchie) di opportunismo, di trasformismo,
d’acrobazie dialettiche e di un frullato di demagogia, parole d’ordine e slogan pescati un po’ a destra e un po’ a manca, o tirati fuori dal cappello magico del leader, dell’opinionista o del prestigiatore/influencer di turno.
Già la democrazia, quella mai esistita, sempre chiamata in causa da tutti e mai applicata nei fatti. Una democrazia-miraggio sempre pronta a ricorrere a soluzioni istituzionali dall’alto o a pasticci elettorali, ridotta a invocare “l‘uomo forte e dall’alto profilo”, quello con le mani in pasta, che sa come vanno le cose e dove mettere le mani, preparato, competente, già direttore della Banca d’Italia e della BCE, consigliore speciale delle politiche del rigore, del vincolo di bilancio e dei tagli alla spesa pubblica (quelle tutte lacrime e sangue per intenderci), ben imbazato con le élite finanziare europee e non solo, conosciuto e rispettato dai poteri forti, con le chiavi del Paradiso dei Fondi Europei già nel portafoglio, pioniere e capitano integerrimo di sanguinose privatizzazioni e concessioni ai privati che sono costate lo smembramento, la svendita e la perdita di grandi aziende pubbliche nel campo delle telecomunicazioni, delle infrastrutture, delle autostrade e così via…
Un curriculum oggi considerato molto positivamente, ma che in altri tempi e contesti sarebbe l’identikit del perfetto referente di una potentissima cupola politico-economico-finanziaria di stampo mafioso. Non so perché, ma mi vengono in mente Cuccia, Sindona, Licio Gelli e Andreotti.
Parliamo invece di Draghi, figura rassicurante e dalle mille qualità, insieme tecnico e politico, esperto burocrate, ragioniere-commercialista e sapiente mediatore: uno che insomma saprà bene come spartire la grande torta che dovrebbe arrivare a momenti dall’Europa; mica come quelli appena dimessi, incapaci a tutto, perfino di mettersi d’accordo sulla lista della spesa! Un Draghi forse utile anche a Biden, visto che negli Usa le torte sono molto più grandi e che la tentazione di spartirsi il bottino come nel vecchio West (a colpi di fucile e cannonate) resta sempre viva.
Una democrazia, dicevo, che invoca il governo dei migliori, dei primi della classe, quelli di classe superiore… Una cosa che in storia, in politica e in filosofia si è sempre chiamata aristocrazia, come ha ricordato anche lo storico dell’arte Tomaso Montanari: una forma di governo già invisa agli ateniesi della Grecia antica, e che – almeno in parte dell’Occidente – si pensava superata con la Rivoluzione francese del 1879 e con l’avvento della repubblica, e ancor più con la (seppur repressa) Comune di Parigi del 1871.
Ma a quanto pare, di questi tempi, la regressione delle coscienze politiche non trova più limiti o paletti. In nome della governance, perfino figure di fede e militanza democratica reclamano un miracoloso salvatore della Patria, l’italico Noè che prima del diluvio faccia salire sull’arca della loro salvezza parlamentare un’ammucchiata di presunti rappresentanti del popolo, tutti già seduti con le forchette in mano intorno al tavolo del grand chef che detta il menu d’una probabile grande abbuffata. Di questo passo la democrazia e quel che resta delle incerte (per usare un eufemismo che non infierisca troppo) forze democratiche (ormai all’alka seltzer) arriveranno a invocare il re, l’imperatore o un Napoleone in doppio petto!
So bene che ne abbiamo già avuto uno che si credeva tale, quel Berlusconi che ora è di nuovo nel governo insieme agli altri. Come so che le destre sono ancora e sempre orfane del duce o di un dittatore.