L’Oms e la crisi della sanità internazionale
di Michele Nobile
Continua:
n. 4 «Biopolitica e contraddizioni dei regimi sanitari internazionali»
1. Il Preambolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, ovvero delle buone intenzioni
2. La realtà: i limiti dei diritti socioeconomici
3. Il regime sanitario internazionale fino al «1968» mondiale
4. Interludio: il «1968» della sanità mondiale e le illusioni di un Nuovo ordine economico mondiale: la Dichiarazione di Alma Ata
5. La Restaurazione: la rinnovata centralità degli Stati più potenti e l’interiorizzazione dei criteri economici nella sanità internazionale
6. Lo sviluppo ineguale-combinato e l’inesistenza di un regime sanitario globale
1. Il Preambolo dell’Organizzazione mondiale della sanità, ovvero delle buone intenzioni
Così recita il preambolo della carta costitutiva dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), approvato dal comitato tecnico preparatorio nel 1946 ed entrata in vigore con la creazione dell'organizzazione nell’aprile 1948:
«Gli Stati partecipanti alla presente costituzione dichiarano, conformemente alla Carta delle Nazioni Unite, che alla base della felicità dei popoli, delle loro relazioni armoniose e della loro sicurezza, stanno i principi seguenti:
La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solo in un’assenza di malattia o d’infermità.
Il possesso del migliore stato di sanità possibile costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano, senza distinzione di razza, di religione, d’opinioni politiche, di condizione economica o sociale.
La sanità di tutti i popoli è una condizione fondamentale della pace del mondo e della sicurezza; essa dipende dalla più stretta cooperazione possibile tra i singoli e tra gli Stati.
I risultati raggiunti da ogni Stato nel miglioramento e nella protezione della sanità sono preziosi per tutti.
La disparità nei diversi paesi per quanto concerne il miglioramento della sanità e la lotta contro le malattie, in particolare contro le malattie trasmissibili, costituisce un pericolo per tutti.
Lo sviluppo sano del fanciullo è d’importanza fondamentale; l’attitudine a vivere in armonia con un ambiente in piena trasformazione è essenziale per questo sviluppo.
Per raggiungere il più alto grado di sanità è indispensabile rendere accessibili a tutti i popoli le cognizioni acquistate dalle scienze mediche, psicologiche ed affini.
Un’opinione pubblica illuminata ed una cooperazione attiva del pubblico sono d’importanza capitale per il miglioramento della sanità dei popoli.
I governi sono responsabili della sanità dei loro popoli; essi possono fare fronte a questa responsabilità, unicamente prendendo le misure sanitarie e sociali adeguate».
Nel Preambolo sono programmaticamente fondamentali le idee che la salute non sia solo assenza di malattia e che essa costituisca un diritto umano fondamentale; che occorre superare le differenze epidemiologiche tra i Paesi, implicitamente tra quelli più ricchi e i territori coloniali o il «resto del mondo»; che la salute sia un bene pubblico internazionale indivisibile e che tutti devono perseguirlo, anche in nome dell’armonia delle relazioni tra gli Stati; che le conquiste della medicina debbano essere accessibili a tutti i popoli; che questo bene pubblico internazionale sia responsabilità degli Stati; è aperta la possibilità che la salute dei popoli non dipenda solo dalla politica sanitaria ma dall’attuazione di più ampie riforme sociali.
Il Preambolo della carta costitutiva dell’Oms esprime bene quanto fosse mutata la visione complessiva dei diritti sociali nell’età delle catastrofi, dopo le esperienze della Depressione, delle guerre mondiali, della crisi dello Stato liberale, in un momento storico in cui i lavoratori e i popoli del mondo premevano per cambiamenti sostanziali della loro vita, per la conquista e il consolidamento dei diritti sociali, per la liberazione dal colonialismo e l’indipendenza nazionale. I creatori della carta e i più importanti dirigenti della Oms erano convinti sostenitori della medicina sociale, del nesso tra condizioni sociali e stato di salute, con esperienza di lavoro nei servizi sanitari militari (come lo psichiatra Brock Chisholm, che aveva diretto quelli del Canada durante la guerra, uno degli autori del Preambolo, presidente della commissione ad interim preliminare alla fondazione della Oms e suo primo direttore generale), nelle agenzie del New deal statunitense (come Milton Roemer, a capo della sezione sulla salute sociale), negli interventi sanitari della Società delle nazioni in Cina, come il croato Andrija Stampar; tra gli altri importanti nel plasmare la missione della Oms figurano il belga René Sand, che nel 1913 aveva fondato l’Associazione belga di medicina sociale, e il socialista norvegese Karl Evang. Nel primo dopoguerra si poteva guardare con interesse ai modelli del National health service britannico e al sistema sanitario sovietico.
Il Preambolo è una carta delle buone intenzioni, né poteva essere altrimenti. Ignora del tutto il problema dei dislivelli di potere, su tutte le scale: tra le classi sociali all’interno di ciascun Paese; tra le differenti parti costitutive dell’economia mondiale; tra gli Stati imperialisti e le loro colonie e semicolonie; tra gli Stati capitalisti e quelli pseudosocialisti. La guerra fredda produsse subito i suoi effetti anche sulla Oms: in conseguenza della crisi di Berlino, nel febbraio 1949 l’Unione Sovietica e i suoi satelliti comunicarono l’uscita dalla Oms. Fino al 1956 costruirono indipendentemente la loro rete sanitaria e una sorta di divisione internazionale del lavoro: ricerca e produzione farmaceutica in Polonia, apparati medici in Cecoslovacchia e in Germania est, sieri e vaccini in Unione Sovietica, stabilendo relazioni con i territori coloniali che diventavano Stati indipendenti.
La sanità è sempre stata un campo di competizione diplomatica tra le grandi potenze; ma è stato anche una sorta di territorio neutro attraverso il quale si potevano gettare ponti di collaborazione quando la Guerra fredda oscillava verso la collaborazione e nella fase della Distensione1.
2. La realtà: i limiti dei diritti socioeconomici
Dunque, l’istituzione della Oms e le definizioni programmatiche del Preambolo segnalavano un cambiamento qualitativo della concezione della sanità internazionale, parte integrante di quel momento di riconoscimento ed ascesa dei diritti socioeconomici elencati all’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che inizia con l’affermazione «ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia». La Oms aveva tutte le ragioni per concepirsi come una delle agenzie al centro della realizzazione dei diritti sociali.
Tuttavia, se le Nazioni unite sancivano come umani - universali e inviolabili - i diritti politici e socioeconomici (con l’astensione dell’Unione sovietica sulla Dichiarazione universale), formalizzando un progresso nell’ideale storico di quel che può dirsi civiltà, «viceversa, i diritti collettivi, invocati da (o per) nazionalità subordinate e popolazioni indigene soggiogate non vengono considerati in genere tra i diritti dell’uomo. Essi non sono inclusi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite»2.
O in termini più generali: quei diritti, il cui formale riconoscimento era il risultato di decenni di lotte del movimento operaio e dei popoli oppressi e di una straordinaria congiuntura politica, rimanevano subordinati alla dinamica dell’accumulazione del capitale e alle compatibilità finanziarie dei bilanci statali. Ma il motivo fondamentale dei limiti inerenti ai diritti sociali, tra cui anche quello alla salute (proprio perché la salute nel senso più ampio può considerarsi sintetico risultato dell’insieme delle condizioni di vita e di lavoro), venne bene esposto da Kalecki:
«Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego».
«Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale»3.
Il punto decisivo è a mio parere il terzo, che richiama immediatamente il problema del cambiamento dei rapporti di forza tra le classi sociali e la possibilità di movimenti che forzino le possibilità del sistema in un momento dato, col rischio di dar luogo a una grave crisi politica. Ciò che vale per la piena occupazione può applicarsi agli altri diritti sociali. Nel caso della salute, questo diritto è sottoposto a forze che lo limitano perché sia compatibile con la riproduzione del sistema: quelle della individualizzazione, della mercificazione, della sua utilità per l’ordinato svolgimento degli scambi sociali e della funzionalità allo sviluppo economico. Questo significa che la politica sanitaria può essere disgiunta dagli altri campi dell’intervento socioeconomico statale ed essere concepita in termini essenzialmente utilitaristici invece che come un diritto prioritario in sé, attuata con mezzi tecnologici applicati alla cura dei singoli pazienti, definita sulla base di rischi individuali conseguenti dallo «stile di vita» e da particolari mansioni di lavoro, integrata nella domanda aggregata di merci, eventualmente sovvenzionata dallo Stato ma entro i limiti dei vincoli di bilancio stabiliti dal ceto politico e dal mercato finanziario internazionale.
3. Il regime sanitario internazionale fino al «1968» mondiale
Le grandi aspirazioni del Preambolo della carta della Oms e l’approccio d’integrazione della politica sanitaria con gli altri campi della politica sociale vennero fortemente ridimensionati in capo a pochi anni, senza per questo mai sparire. A questo contribuirono anche i grandi progressi della medicina nell’anteguerra e specialmente durante la guerra mondiale. Il massacro mondiale aveva dato grande impulso all’integrazione della ricerca scientifica e tecnologica nell’industrializzazione della produzione di strumenti di morte, rappresentata nel modo migliore dalla creazione degli arsenali nucleari, il culmine della razionalità strumentale asservita alla irrazionalità macrosociale dei poteri statali. Tuttavia, diede grande slancio anche a importantissime innovazioni nella cura dei corpi, ponendo le basi materiali per sviluppare ulteriormente l’approccio biomedico, tecnologico, individualizzato o diretto a specifiche malattie e vettori: la produzione di massa di penicillina (scoperta negli anni Venti), dal 1943 la streptomicina, utile anche contro la tubercolosi; la clorochina per il trattamento della malaria e il «miracoloso» insetticida Ddt. Packard riassume così le tendenze fondamentali che hanno operato negli interventi sanitari nelle ex colonie e nel quadro del neocolonialismo, sottolineando i motivi di continuità nel corso dell’intero XX secolo, che si sono trasformate ma niente affatto scomparse nel XXI:
1) gli interventi sanitari sono stati ampiamente formulati all’esterno dei Paesi interessati, con pochi seri tentativi di includere nella loro pianificazione i punti di vista locali e la partecipazione delle comunità locali: «dopo la seconda guerra mondiale, nuovi centri di pianificazione e governance della salute internazionale sono emersi a Ginevra, Atlanta, New York City, presso i centri congressi di Bellagio in Italia, Talloires in Francia e Alma-Ata nell’ex Unione Sovietica»;
2) sono stati privilegiati gli approcci basati sulle tecnologie biomediche per trattare i problemi medici individualmente;
3) è stata posta poca attenzione allo sviluppo dei servizi sanitari di base;
4) la pianificazione degli interventi sanitari è spesso accaduta in situazioni critiche che, imponendo un’azione rapida, hanno portato a privilegiare modalità semplici, di facile applicazione, «che hanno scoraggiato gli interventi a più lungo termine, finalizzati alla costruzione di infrastrutture sanitarie, alla formazione del personale e alla risoluzione dei fattori alla base della malattia».
5) «gli interventi per la salute globale sono stati potenziati dalla fiducia nella superiorità delle conoscenze e tecnologie mediche occidentali e da una svalutazione delle conoscenze e delle capacità delle popolazioni locali»;
6) «La salute è stata collegata allo sviluppo sociale ed economico, ma questa connessione si è concentrata principalmente su come i miglioramenti nella salute possono stimolare lo sviluppo economico, ignorando l’impatto che gli sviluppi sociali ed economici hanno sulla salute. Quelli che ora chiamiamo determinanti sociali della salute hanno ricevuto poca attenzione»4.
Quindi, dalla seconda metà del XX secolo il regime sanitario internazionale è attraversato dalla tensione tra approcci essenzialmente tecnologici e clinici, basati sull’individuo e sulla mercificazione di cure e prodotti sanitari, e approcci consapevoli dell’influenza delle condizioni sociali sulla distribuzione delle malattie nella popolazione, a cui si può anche far risalire la salute come diritto da assicurare mediante sistemi sanitari pubblici e accessibili a tutti. I due approcci si sono combinati variamente nei diversi Paesi, ma il primo è stato di gran lunga dominante: una delle ragioni dei dislivelli della qualità e della disponibilità di cure mediche tra i Paesi capitalistici più avanzati e il resto del mondo. Se da una parte la salute è una merce, d’altra parte almeno la metà dell’umanità non è né in grado di procurarsela né è adeguatamente assistita dallo Stato: come già ricordato nel precedente articolo, più della metà dell’umanità non ha accesso ai servizi sanitari essenziali e oltre 2 miliardi di persone non hanno accesso neanche a servizi igienici collegati a un sistema fognario5.
Sia sotto l’aspetto strutturale della riproduzione dello sviluppo ineguale e combinato che sotto l’aspetto delle variazioni congiunturali dei flussi di capitale, è onnipresente la contraddizione fra salute e profitto e tra salute mondiale ed economia mondiale capitalistica. Tuttavia, il problema non si riduce a quello degli interessi economici immediati e settoriali, ad esempio dell’industria farmaceutica e della sanità privata, che pure sono importantissimi.
È anche questione di metodo biopolitico che, a sua volta, prima esprimeva direttamente la medicina dei colonizzatori e il loro potere coercitivo e ora il potere d’un complesso d’apparati nazionali e internazionali, pubblici e privati, che poggia sul fatto che i popoli non sono padroni del loro destino, anche quando sono oggetto di necessarie e benemerite campagne sanitarie e sono chiamati a responsabilmente attivarsi per il loro successo.
Le campagne sanitarie internazionali sono state per lo più condotte dall’alto verso il basso, su un modello che ricorda quello delle campagne coloniali, senza la loro retorica e coercizione ma con scarsa considerazione della gestione diretta da parte di comunità e popolazioni. È quanto si vede in alcuni dei grandi successi della sanità del XX secolo, come le campagne mondiali per l’eradicazione del vaiolo (riuscita, anche per le particolarità della malattia e della vaccinazione, che non richiede un’azione continua) e della malaria (che invece è stata ridimensionata: 228 milioni di casi nel 2018, 405 mila morti, il 93%in Africa ma endemica in 80 Paesi), il cui stile deriva dalle campagne condotte all’inizio del secolo nelle colonie, in particolare dagli Stati Uniti a Cuba e nelle Filippine.
4. Interludio: il «1968» della sanità mondiale e le illusioni di un Nuovo ordine economico mondiale: la Dichiarazione di Alma Ata
Non è stato un caso che i momenti di gloria degli approcci meno verticistici e più consapevoli del nesso tra condizioni sociali e malattie siano stati negli anni Trenta e negli anni Settanta del secolo scorso. Alla fine degli anni Sessanta divenne evidente che il grande programma di sradicamento (di totale eliminazione, non di mero controllo) della malaria lanciato dalla Oms nel 1955 non avrebbe conseguito l’obiettivo, sicché fu abbandonato nel 1968. Nello stesso tempo, poiché la mancanza di infrastrutture sanitarie di base era stata riconosciuta come la ragione principale della crisi del programma di sradicamento, iniziò un processo di critica della priorità data a programmi mirati a specifiche malattie e di rilancio della sanità a livello delle comunità, in modo integrato con altri interventi sociali - nell’educazione, i servizi igienici, l’acqua potabile, le abitazioni - e, specialmente, con la partecipazione attiva delle collettività. Questa linea era anche fortemente critica dell’establishment della professione medica e dell’esclusione dell’aspetto sociologico dalla formazione dei medici, della burocratizzazione della sanità, dell’enfasi sull’alta tecnologia e la costruzione di grandi ospedali nelle città a detrimento dell’ambiente rurale.
Il cambiamento di prospettive della Oms (meglio: di una sua parte, ma ben rappresentata al vertice) era certo il risultato d’un processo interno all’organizzazione, di un bilancio critico dell’indirizzo seguito fino a quel momento. Tuttavia, appare inconcepibile al di fuori dei processi geopolitici e politici esterni di grandissima rilevanza storica: delle lotte di liberazione nazionale e del processo di decolonizzazione tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta, della contestazione della «società affluente», dello scientismo tecnocratico, dell’autoritarismo statalista, delle lotte sociali negli stessi Paesi a capitalismo avanzato. Di un insieme di processi che si riassumono nell’idea di un lungo «1968», che precede e segue quell’anno emblematico, di destabilizzazione dell’imperialismo e di crisi di legittimazione dei sistemi politici; negli anni Settanta l’economia mondiale dominata dai Paesi a capitalismo avanzato attraversò la crisi più grave del dopoguerra. Inoltre, la rapida moltiplicazione degli Stati conseguente dalla decolonizzazione - con i loro gravi problemi sociali e sanitari - avevano modificato profondamente la composizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite e della Oms, a favore dei Paesi del «Terzo mondo». La constatazione della crescente disuguaglianza nella salute e nell’accesso ai servizi sanitari di base tra i Paesi a capitalismo avanzato e quelli «in via di sviluppo» e all’interno dei singoli Paesi portò ad associare esplicitamente la nuova prospettiva di puntare sulla costruzione dei servizi di base primari a livello delle comunità locali all’idea di costruire un Nuovo ordine economico mondiale, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 19746. Questa linea venne promossa da Halfdan Mahler, medico danese direttore-generale della Oms dal 1973 al 1988, in stretta collaborazione con Kenneth Newell, direttore della divisione per il rafforzamento dei servizi sanitari.
Le idee fondamentali del nuovo approccio vennero espresse in diversi rapporti e decisioni della Oms, in particolare nel rapporto congiunto Oms-Unicef del 1975, Alternative approaches to meeting basic health needs in developing countries, e dal libro a cura di Newell dello stesso anno, Health by the people, in cui si esponevano esempi di sanità in comunità rurali da Cina, Cuba, Guatemala, India, Iran, Niger, Tanzania, Venezuela. Nella sua prefazione Mahler sottolineò che Health by the people, era stato scritto da «un gruppo di persone vicine agli abitanti dei villaggi» e Newell che
«abbiamo studi che dimostrano che molte delle “cause” di comuni problemi di salute derivano da parti della stessa società, che un approccio settoriale e strettamente sanitario è inefficace e che azioni esterne al campo della salute possono avere su essa effetti maggiori degli interventi strettamente sanitari»7.
Il culmine del movimento per lo sviluppo dell’assistenza sanitaria primaria, decentralizzata e comunitaria, fu la Conferenza internazionale del 1978 ad Alma-Ata che, almeno dal punto di vista programmatico e simbolico, può considerarsi la più importante dell’organizzazione, tuttora un riferimento. La Conferenza è passata alla storia per la Dichiarazione che stabiliva come obiettivo «il raggiungimento, entro l'anno 2000, di un livello di salute che permetta a tutti i popoli del mondo di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva. L'assistenza sanitaria primaria è la chiave per conseguire questo risultato dentro la cornice dello sviluppo in uno spirito di giustizia sociale»8.
Apparentemente la conferenza di Alma Ata fu un successo di diplomatico sovietico, ma la realtà è diversa. Innanzitutto, la proposta della conferenza internazionale venne fatta alla direzione della Oms dai delegati della Repubblica popolare cinese, che allora era acerrima nemica dell’Unione Sovietica, con cui ebbe anche scontri armati sulla frontiera. Si sarebbe dovuta svolgere in uno dei Paesi del «Terzo mondo»: l’Egitto, ad esempio, nel 1975 si tirò indietro all’ultimo momento. Fu in seguito a questa mossa della diplomazia cinese che i rappresentanti sovietici, inizialmente contrari, si fecero avanti con una generosa offerta finanziaria. E tuttavia, da una recente ricerca pare che l’offerta sovietica non fosse parte di una organica strategia diplomatica9. In secondo luogo, Mahler riteneva che la conferenza fosse prematura, perché ancora mancavano esempi concreti che fossero generalizzabili e, comunque, sondò molti Stati nel tentativo di trovare una sede diversa per la conferenza; i Paesi occidentali riuscirono a rinviare la conferenza, decisa dall’Assemblea mondiale della sanità nel 1970, fino al 1978 e poi a far sì che non si tenesse a Mosca. Infine, e questo è il punto più importante, l’aspetto più specifico e qualitativamente nuovo del movimento per la sanità di base era l’insistenza sul fatto che dovevano essere le comunità dei Paesi sottosviluppati a decidere gli obiettivi della politica sanitaria. Da questo punto di vista, invece, il sistema sanitario sovietico era simile a quello «occidentale»: per la sua verticalità, per l’enfasi sui progressi tecnologici e scientifici, per il considerare i fattori sociali determinanti della salute già risolti e quindi in pratica slegati dalla pratica medica, per l’approccio dall’alto verso il basso ai pazienti. Nel capitolo conclusivo di Health by the people Newell insistette sulla varietà degli approcci comunitari e sul carattere sperimentale del movimento, la cui filosofia comune si può riassumere in passi come questi:
«Le questioni più ampie presentate [nel volume] comprendono: produttività e risorse sufficienti per consentire alle persone di mangiare e di istruirsi; un senso di responsabilità e di coinvolgimento della comunità; un’organizzazione comunitaria funzionante; autosufficienza in tutte le questioni importanti e dipendenza da risorse esterne solo per le emergenze; comprensione dell’unicità di ogni comunità unita all’orgoglio e alla dignità individuali e di gruppo ad essa associati; e, infine, la sensazione delle persone di una vera unità tra la loro terra, il loro lavoro e la loro famiglia»;
«È facile dire che il cibo è ciò di cui un bambino malnutrito ha bisogno e che lo sviluppo della comunità è un meccanismo che può essere utilizzato per fornirlo. È difficile dire che lo sviluppo della comunità è un obiettivo e che le comunità in procinto di svilupparsi trovino un modo per far sì che i bambini ottengano il nutrimento».
Il presupposto di tutti i casi riportati in Health by the people era la formazione, rafforzamento o riconoscimento dell’organizzazione della comunità locale, che svolgeva queste funzioni:
«Stabiliva le priorità; organizzava azioni comunitarie per problemi che non potevano essere risolti dagli individui (ad es. approvvigionamento idrico o servizi igienico-sanitari di base); “controllava” il servizio sanitario primario selezionando, nominando o “legittimando” l’operatore sanitario primario; sosteneva il finanziamento dei servizi; e collegava le azioni sanitarie agli obiettivi più ampi della comunità»10.
L’aspetto più profondo del movimento per l’assistenza sanitaria primaria era il suo intento antiautoritario, si trattasse dell’autoritarismo statale o del mercato: di democratizzare la sanità attribuendo potere all’organizzazione delle comunità di base. È da questo che discendevano le scelte operative, non meramente tecniche. Retrospettivamente Newell scrisse che
«La descrizione della crisi imminente e le critiche della scena dell’esistente assistenza sanitaria non era diretta allo stato di salute attuale delle popolazioni o di determinate malattie, ma all’indegnità che la salute e l’assistenza sanitaria fossero “proprietà” di gruppi particolari e che la forma e gli obiettivi di questi sistemi fossero imposti sulle popolazioni per motivi semi-razionali»11
5. La Restaurazione: la rinnovata centralità degli Stati più potenti e l’interiorizzazione dei criteri economici nella sanità internazionale
La conferenza di Alma Ata fu l’equivalente dell’ultimo canto del cigno. La distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica di fatto era già terminata e si sarebbe rapidamente inasprita la seconda guerra fredda; la Cina era uscita dalla Rivoluzione culturale e iniziava la transizione guidata al capitalismo. L’anno seguente, la vittoria elettorale del partito conservatore nel Regno Unito segnò l’avvento al potere della new right e l’inizio di quel che si dice «neoliberismo», decollato con l’elezione di Reagan a presidente degli Stati Uniti nel novembre 1980; nello stesso arco di tempo, l’aumento dei tassi d’interesse statunitensi fece esplodere la crisi del debito internazionale, dal Messico alla Polonia. Il Nuovo ordine economico internazionale era seppellito, mentre iniziava una nuova epoca di Restaurazione dell’ordine capitalistico mondiale.
Nel campo della sanità internazionale la Restaurazione iniziò dalla conferenza di Bellagio del 1979, promossa dalla Fondazione Rockfeller nella grande villa di sua proprietà e appoggiata dalla Banca mondiale. Lì venne lanciata la selective primary health care (assistenza sanitaria primaria selettiva) centrata sulla selezione di determinati interventi sanitari (vaccinazione, reidratazione orale, allattamento, farmaci antimalarici) oggetto di campagne internazionali e nazionali, basata sul calcolo costo/beneficio in termini finanziari. Questo nuovo - ma in effetti vecchio - orientamento finì col prevalere sulla linea che aveva portato ad Alma-Ata, che collegava l’obiettivo della salute per tutti alla riduzione delle disuguaglianze sociali, alla medicina di base e al potere delle comunità, riproponendo una logica simile a quella dei primi decenni del dopoguerra e che s’accordava col nascente neoliberismo. Della selective primary health care Newell scrisse che
«La sphc è una minaccia e può essere considerata una controrivoluzione. Non è un’alternativa, ma una forma di feudalesimo del servizio sanitario che può essere distruttiva invece che un’alternativa. Le sue attrattive per i professionisti e le agenzie di finanziamento e i governi alla ricerca di obiettivi a breve termine sono molto evidenti»12.
Il cambiamento d’atmosfera iniziò a vedersi anche sul piano del finanziamento. Dai primi anni Ottanta l’Assemblea mondiale della sanità stabilì d’azzerare la crescita reale del bilancio ordinario dell’organizzazione con la conseguente crescita d’importanza dei contributi volontari extrabilancio degli Stati membri e di altri donatori, che nel 1990-1 superarono per la prima volta i contributi ordinari stabiliti per gli Stati membri sulla base del loro Prodotto interno lordo. Attualmente i contributi volontari coprono l’80% del bilancio della Oms e di questi nel 2018-9 il 90% erano il 90% specified voluntary contributions, cioè contributi volontari vincolati a specifici programmi o aree geografiche13. Quanto all’importanza dei singoli donatori - dati del 2019 - gli Stati Uniti sono al primo posto col 15%, seguiti dalla Bill and Melinda Gates Foundation (12%), Gavi Alliance (8%), Regno Unito (7,9%), Germania (5%), Ufficio delle N.U. per gli affari umanitari (5%), Commissione europea, Rotary international e Giappone (3%). È sorprendente che la Repubblica democratica del Congo (1,28%) versi più della Francia, della Fondazione Bloomberg e della Federazione russa (0,54-0,55%), dell’Italia (0,48%) e della Repubblica popolare cinese (0,21%)14 . Ovviamente, il significato della crescita dei contributi volontari è che i maggiori contribuenti vincolano finanziariamente le scelte di politica sanitaria della Oms e rendono a priori impossibile una gestione effettivamente sovrannazionale. E s’intende che i Paesi sottosviluppati possono essere oggetto ma non soggetto della politica sanitaria dell’organizzazione.
Il ribaltamento della visione di Alma Ata si coglie qualitativamente nel modo in cui la Oms ha ridefinito il proprio discorso: dalla salute come diritto di tutti in base alle necessità alla salute come contributo allo sviluppo economico; e dalla centralità della disuguaglianza interna ai Paesi nell’accesso alle cure sanitarie alla disuguaglianza tra i Paesi: da un concetto sociale a uno inter-statale. La logica della selezione si ripropone anche con il Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria istituito nel 2002 su proposta del segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan, che ha moltiplicato in modo spettacolare finanziamenti e progetti nei Paesi sottosviluppati. Tuttavia, le campagne mirate non risolvono il problema di costruire sistemi sanitari nazionali efficaci per l’insieme delle patologie. Anzi, per i critici le campagne possono distogliere fondi e risorse per i servizi sanitari essenziali. Infine, ricordo l’importanza dei programmi di public-private health partnerships (pphps) a partire dall’International Aids vaccine initiative (Iavi) del 1996, in cui sono fondamentali i finanziamenti delle fondazioni e delle società dei Paesi a capitalismo avanzato e criteri di performance stabiliti a priori.
Il processo delineato è stato definito un adattamento strategico al cosiddetto neoliberismo: usarne gli argomenti per i propri fini. Per quanto la retorica di Alma Ata riaffiori, i mezzi prevalgono sul fine originario.
6. Lo sviluppo ineguale-combinato e l’inesistenza di un regime sanitario globale
Non per caso istituite dopo le due maggiori catastrofi umane del XX secolo, la Società delle nazioni e l’Organizzazione delle nazioni unite e il loro insieme di uffici e agenzie specializzate furono un formale riconoscimento dell’esistenza di un’unica società mondiale, prodotta dalla straordinaria capacità del capitalismo d’espandersi, di trasformare le formazioni sociali, di creare fitte interdipendenze e grandi flussi di capitale, merci e persone. Nello stesso tempo questa totalità mondiale è internamente strutturata da asimmetriche relazioni di potere e da forti differenziali socioeconomici, sia tra gli Stati che al loro interno. Per quanto nel corso di due secoli siano cambiate le concrete configurazioni di questa società mondiale, essa resta strutturalmente caratterizzata dallo sviluppo ineguale oltre che combinato, tanto che la dizione sviluppo ineguale-combinato è anche più appropriata perché enfatizza l’indissociabile unità dei termini e l’intrinseca contraddittorietà del processo storico. Che è poi la ragione per cui, malgrado il progredire dell’integrazione e delle interdipendenze, l’economia mondiale capitalistica rimane strutturata in distinti Stati territoriali che sono la condensazione dei rapporti di potere, sia tra le classi sociali sia tra gli Stati. Oltre che nella loro costituzione materiale, l’ineguaglianza era ed è inscritta anche nella costituzione formale della Sdn e ancor più in quella delle Nazioni unite, nel cui Consiglio di sicurezza cinque potenze hanno diritto di veto.
Lo sviluppo ineguale-combinato è la fondamentale ragione sociale delle grandi differenze epidemiologiche esistenti tra le grandi aree dell’economia mondiale, tra i Paesi a capitalismo avanzato e quelli detti sottosviluppati, nonché tra questi ultimi e altri «emergenti» come l’India e il Brasile o del tutto «emersi» come la Cina. Non si tratta solo di un retaggio dell’epoca coloniale né di una condizione statica dettata esclusivamente dalla natura. Si tratta di rapporti socioecologici che sono riprodotti e trasformati nel processo d’integrazione nell’economia mondiale e di modernizzazione capitalistica interna.
Tuttavia, lo sviluppo ineguale-combinato dell’economia mondiale ha anche effetti di parziale convergenza dell'epidemiologia e di nuova diffusione internazionale delle malattie. Lo si vede nel fatto che la Cina, l’India e il Brasile presentano un quadro epidemiologico ibrido tra quello tipico del sottosviluppo e quello dei Paesi a capitalismo avanzato, un fenomeno che non esprime tanto la successione di stadi epidemiologici quanto l’accentuarsi delle grandi differenze delle condizioni di vita tra le classi interne di quei tre Paesi, a sua volta conseguente dall’ascesa dei rispettivi capitalismi nella divisione internazionale del lavoro. È palese anche nell’estensione dell’area di alcune malattie portate da vettori, conseguenza del cambiamento climatico globale e dell’ecologia locale. Oppure nell’estensione del circuito del capitale dell’allevamento industrializzato d’animali nel quale, dagli Stati Uniti, al Messico e alla Cina, emergono nuovi ceppi virali e di batteri in grado d’infettare l’uomo. Infine, la relativa omogeneizzazione delle malattie infettive è anche un risultato dell’intensificazione ed accelerazione dei traffici commerciali e dei viaggi intercontinentali, come dimostrato per l’ennesima volta dalla pandemia di Covid-19.
Scrivendo dopo la crisi della Sars e la riforma del Regolamento sanitario internazionale, Fidler auspicava l’avvento di un regime sanitario non più internazionale cioè vestfaliano, centrato sugli Stati, ma globale, una global health governance di cui sarebbero stati protagonisti anche attori non-statali. Nel ruolo d’antagonisti, «gli attori non statali mobilitano membri e le risorse per cambiare la direzione dell’attuale politica della sanità pubblica. Le campagne antagoniste hanno come bersaglio uno status quo inefficace o sfidano nuove iniziative di policy che gli attori non statali percepiscono come insufficienti, controproducenti o regressive»15, influendo con la critica sia sugli Stati sia sulle società multinazionali private. D’altra parte, come esempio del ruolo di protagonisti degli attori non-statali Fidler portò gli accordi pubblico-privati per la gestione di determinati problemi sanitari globali.
Nonostante la Oms abbia capacità di gran lunga superiori alla Lnho e nonostante il Regolamento sanitario internazionale riformato nel 2005 per la prima volta permetta alla Oms di considerare anche rapporti provenienti da fonti non governative, le cui informazioni vanno comunicate allo Stato interessato, che deve rispondere entro 24 ore (artt. 9 e 10 Rsi), il regime sanitario internazionale rimane vestfaliano: centrato sugli Stati e sulle relazioni di potere tra essi e al loro interno.
Il regime sanitario internazionale del XXI secolo presenta due novità: la prima è che di fatto l’Oms non ha più la centralità che aveva nei decenni precedenti, perché ad essa s’affianca una molteplicità d’altre iniziative indipendenti. Viceversa anche come apparato l’Oms è ora più e non meno dipendente dalle preferenze dei finanziatori.
La seconda novità è che la politica sanitaria internazionale non è più solo sottoposta dall’esterno ai vincoli dell’economia capitalistica: i criteri economici di selezione, gestione e valutazione degli interventi internazionali sono ora interiorizzati attraverso i programmi di public-private health partnerships.
Non è difficile criticare come illusorie le speranze della visione rappresentata nel processo che portò alla Dichiarazione di Alma Ata16: in definitiva non faceva i conti con la questione del potere economico e politico. Tuttavia, in quella visione c’è qualcosa che deve essere approfondito, non rimosso: lo spirito antiautoriario applicato alla politica sanitaria. Questo spirito va rivolto contro il dominio della logica del mercato capitalistico, della mercificazione della salute e dell’incorporazione della natura nella riproduzione allargata del capitale. Ma anche contro lo statalismo, che del dominio del mercato è condizione d’esistenza e indispensabile complemento. Anche questo è dimostrato dalla pandemia di Covid-19, che dappertutto ha seguito un canovaccio antico, che inizia col tentativo di occultare il problema, prosegue con la sottovalutazione e la rassicurazione, e culmina con misure drastiche imposte dall’alto che, per un periodo più o meno lungo, comportano la sospensione della vita sociale fino a quando, sotto la pressione delle esigenze economiche, non si procede alla «normalizzazione», nonostante il quadro d’insieme possa non essere affatto normale. Di questa vicenda i comuni cittadini e i lavoratori non sono soggetti ma oggetti delle misure sanitarie, secondo una logica non diversa da quella applicata dai dominatori nei Paesi coloniali.
Note
1 Per le informazioni sulla storia della Oms: Randall M. Packard, A history of global health. Interventions into the lives of other peoples, Johns Hopkins University Press, Baltimora 2016. Per il quadro generale della guerra fredda e delle sue diverse fasi rimando a Fred Halliday, The making of the second cold war, Verso, Londra, 1989 e a Michele Michele, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari editore, Bolsena 2006. Sull’Unione Sovietica e la Oms: A. Geltzer, «In a distorted mirror. The Cold war and U.S.-Soviet biomedical cooperation and (mis)understanding, 1956–1977», Journal of cold war studies, vol. 14, n. 3, 2012; Anne-Emanuelle Birn-Nikolai Krementsov, «Socialising’ primary care? The Soviet Union, WHO and the 1978 Alma-Ata Conference», BMJ Global Health, 2018.
2 C. B. Macpherson, Ascesa e caduta della giustizia economica, Edizioni lavoro, Roma 1985, p. 37.
3 Michał Kalecki, «Aspetti politici del pieno impiego», 1943; in Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti 1975, pp. 36 e 38.
4 R. M. Packard, A history of global health. Interventions into the lives of other peoples, op. cit., pp. 8-9.
7 Kenneth Newell, a cura di, Health by the people, World Health Organization, Ginevra 1975, p. XI.
9 Anne-Emanuelle Birn-Nikolai Krementsov, «Socialising’ primary care? The Soviet Union, WHO and the 1978 Alma-Ata Conference», op. cit., 2018.
10 K. W. Newell, « Health by the people», in Health by the people, op. cit., pp. 192 e 193.
11 K. W. Newell, «Selective primary health care: the counter revolution», Social science & medicine, vo. 26, n. 9, 1988, p. 904.
12 ibidem, p. 906.
15 David P. Fidler, SARS, governance and the globalization of disease, Palgrave MacMillan, 2004, p. 53. Si veda anche Jerem Youde, Biopolitical surveillance and public health in international politics, Palgrave Macmillan, 2009.
16 Per la critica politica delle illusioni sottostanti la linea di Alma Ata e del Nuovo ordine economico mondiale: di Vicente Navarro, «Political power, the state, and their implications in medicine», Review of radical political economics, vol. 9, n. 1, 1977 e «A critique of the ideological and political positions of the Willy Brandt report and the WHO Alma Ata declaration», Social science & medicine, vol. 18, n. 6, 1984; altri suoi testi: Medicine under capitalism, Prodist, New York 1976,Dangerous to your health. Capitalism in health care, Monthly Review Press, New York 1993. Navarro è stato consulente della Oms e ha insegnato politica sanitaria alla John Hopkins University.