di Riccardo Petrella
(apparso sul Wall Street International Magazine il 29/12/2019)
Non c’è nessuna ragione per pensare che le previsioni demografiche dell’ONU riguardo il 2050 (fra soli 30 anni) saranno lontane dalla realtà.
I dati sollevano una legittima domanda. Quante persone di queste popolazioni saranno resilienti alle “emergenze” (un’espressione cara ai gruppi sociali dominanti) che già sconquassano la vita della Terra sul piano climatico, ambientale ,economico, sociale e la sconquasseranno ancora di più, si dice, nei prossimi decenni? Il mondo è già abbastanza malconcio dal punto di vista dell’eguaglianza rispetto ai diritti di ed alla vita. Sarà ancora peggio? La domanda non è né ingenua né provocatoria. Precisiamo anzitutto cosa s’intende per “resilienza”.
Il “principio di resilienza”. Le “sorgenti” della resilienza
Da alcuni anni la resilienza è entrata con forza nell’agenda politica locale e mondiale soprattutto in relazione alle conseguenze dei cambiamenti climatici sulla vita ed il divenire degli abitanti della Terra: “Come diventare resilienti?” “Costruire le città resilienti”, “Agricultura resiliente”, “l’Africa resiliente”, “La resilienza, agenda 2030”.
Il concetto di resilienza viene dalla fisica e indica il grado di resistenza di un metallo ad uno shock. È stato poi allargato alla psicologia ed al mondo comportamentale (individuale collettivo) per indicare la capacità di un essere vivente a resistere e sopravvivere ad uno shock traumatico. È diventato sempre più popolare nell’ultimo decennio a livello mondiale in tutti i campi. Più il mondo è diventato preda di sconvolgimenti maggiori, di grande insicurezza, di rischi naturali e tecnologici, più la resilienza è stata percepita come la soluzione ottimale necessaria in termini di capacità di resistenza e di adattamento agli shock.
Secondo gli innumerevoli e proficui lavori realizzati dalle varie agenzie delle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, per resilienza si deve intendere “the ability of any system to maintain continuity through all shocks and stresses while positively adapting and transforming towards sustainability.
Alla fonte della concezione della resilienza odierna, c’è sopratutto il rischio, percepito come una delle condizioni chiave dell’esistenza umana e delle sfide da affrontare. Nelle società a tendenza capitalista, rischi e sfide sono visti come il recto/verso di una stessa realtà delle società umane del XXI secolo. Non è un caso che uno dei rapporti più letti dai dirigenti mondiali e divulgati dai grandi media è il Global Risks Reportannuale prodotto sin dal 2006 dal World Economic Forum. Un rapporto utilizzato a buoni e cattivi fini soprattutto dalle grandi imprese multinazionali per “spiegare” le loro scelte con argomenti più “nobili” di quelli del profitto e della conquista dei mercati. Il titolo del rapporto 2019 è piuttosto drammatico Out of control.
Il mito di Prometeo di oggi è riassunto nelle due facce. La differenza. con il Prometeo “eroe-uomo” della tradizione greca sta nel fatto che ieri Prometeo fu punito dagli dei non tanto perché rubò loro il fuoco della conoscenza ma perché osò darlo agli esseri umani1. Oggi è punito, da solo, non tanto perché si è reso conto che concepisce ed utilizza la conoscenza senza precauzione e quindi sta bruciado la vita ma perché (è mia convinzione) ha venduto il fuoco ai mercanti della vita.
Tre le sorgenti di rischio che, secondo i gruppi dominanti, sono alla base delle sfide e delle conseguenti strategie che definiscono il ruolo funzionale del principio di resilienza, troviamo:
- il rischio di disastri detti naturali. Ciò ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro sulla necessità, non rispettata, di praticare una politica di prevenzione e, su questa base, di riduzione (in termini di occorrenza del rischio e di contenimento degli effetti indesiderabili);
- il rischio di mutamenti causati dai cambiamenti climatici. Ciò ha creato un consenso piuttosto generale sull’importanza della duplice strategia detta della mitigazione delle conseguenze e dell’adattamento alle nuove condizioni createsi (senza però, ad oggi, nessun impegno di azioni risolutive radicali come si dovrebbe fare. Vedi il fallimento incredibile della COP25) 2;
- il rischio di conflitti sulle risorse del Pianeta. Ciò richiede una strategia di prevenzione e di risoluzione che sembra di difficle attuazione tanto gli imperativi di accaparramento e di dominio dei beni del Pianeta animano ancora la predazione economica e la difesa della sovranità/sicurezza nazionale.
Come si può notare, la concezione predominante limita le sorgenti della resilienza a rischi e shock legati a fenomeni detti naturali (disastri, cambiamenti climatici, inevitabilità dei conflitti sulle risorse “vitali”). Ciò è sempre meno corretto nell’era dell’antropocene, la nostra, definita tale proprio perché la vita della Terra è sempre più “man made” e la sua evoluzione è dettata prevalentemente da fattori antropici. Siamo di fronte ad una visione della resilienza che deve essere necessariamente corretta e riconoscere che la strategia della resilienza non riguarda più principalmente fattori esterni alla specie umana (vecchia concezione della “natura”) ma a fattori interni al sistema societario umano. Si tratta di un cambiamento considerevole di prospettiva, soprattutto sul piano economico, sociale e politico. Il rischio “maggiore” è nei sistemi costruiti dalle società umane nel campo energetico, dei trasporti, in agricoltura, nel campo della farmaceutica, nelle guerre, nelle regole di cittadinanza, nel campo della finanza o del lavoro. Per questo si può dire che non v’è resilienza senza cambiamento dei sistemi umani e che la parola chiave è soprattutto cambiamento di sistema anziché mitigazione e/o adattamento agli shock. Una verità che è stata ben captata dai movimenti per una Terra sostenibile con il motto “Cambiare il sistema, non il clima” ma che i dirigenti mondiali rifiutano ostinatamente di vedere ed ammettere.
Questa prima conclusione è altresì validata da una seconda serie di considerazioni a partire da ulteriori evidenze.
Solo i più forti saranno resilienti
I dirigenti del mondo considerano che per essere resilienti occorrerà soprattutto disporre:
1) di grandi capacità economico-finanziarie per finanziare gli enormi investimenti di lungo periodo in nuove infrastrutture, nuovi processi produttivi, sostituzione di prodotti, promozione di nuove reti di relazioni tra gli abitanti della Terra in tutti i campi
2) di grande potenza tecnologica (potere d’innovazione e di controllo delle priorità di sviluppo e delle modalità di uso delle tecnologie, messa in piedi di nuovi sistemi istituzionali ed educativi, non solo formativi, nuovi media...) 3. La potenza tecnologica è considerata alla base della costruzione del futuro del mondo (“Information society”, “Smart economy”, “AI based society”....) di cui i capi delle imprese GAFA4prefigurerebbero i “signori” e le “signorie globali” di domani.
I dati disponibili, di una certa affidabilità, riguardo le previsioni economiche e la potenza tecnologica nel mondo attorno al 2050, in quanto fragili e sommari non ci consentono di fare solide affermazioni. Essi gettano una luce piuttosto debole, sufficiente però per dare una vaga idea di quel che rischia di diventare nel 2050 uno stato delle cose. In questo caso quel che conta non sono le cifre ma il senso delle tendenze a vasto raggio.
Sulle tendenze economiche si puo dire che il senso va in una riduzione relativamente importante del peso “grezzo“ delle economie autodettesi “sviluppate” nell’economia mondiale. Sui 10 Paesi più pesanti in termini di PIB nel 20505 4 apparterebbero al mondo occidentale (USA, Giappone, Germania e UK) rispetto a un solo paese (gli USA) in termini di popolazione. Il che significa (e ciò vale ancora di più se si prendono i top 30 Paesi per il PIB), che i Paesi “sviluppati”, rischiano di mantenere la loro relativa supremazia in termini di potenza economica (e soprattutto finanziaria).
Riguardo i Paesi chiamati “emergenti” da parte dei dominanti, è interessante notare che, al momento, gli scenari futuri privilegiano anch’essi la continuità delle tendenze attuali. Per cui non sorprende di vedere fra i primi 10 la Cina, l’India (al primo e secondo posto), l’Indonesia(4°), il Brasile (5°), la Russia (6°) ed il Messico (7°)6.
Il che non significa che la capacità di resilienza delle loro popolazioni aumenterà. Forse si può immaginare che 400 milioni d’indiani riusciranno ad essere resilienti su una popolazione di 1,6 miliardo di persone. Forse in Cina essi saranno 500 milioni su 1,4 miliardo. È inoltre difficile immaginare che, allo stato delle cose, in Paesi come il Brasile, l’Indonesia, la Russia, il Messico, caratterizati da enormi ineguaglianze sociali, economiche e politiche interne, riusciranno in 30 anni a capovolgere la situazione. Ciò potrebbe solo accadere qualora una classe di dirigenti alla Lula si moltiplicasse e restasse saldamente al potere per una o due generazioni.
Per quanto riguarda la potenza tecnologica ho preso il numero di brevetti richiesti (ed ottenuti) nel campo degli organismi viventi (molecole, cellule, genomi... nel mondo vegetale, animale, umano) e degli algoritmi (intelligenza artificiale) come un indicatore piuttosto significativo di quel che promette di bollire in pentola.
Secondo l’ultimo rapporto dell’OMPI (Organizzazione Mondiale sulla Propriétà Intellettuale) 6 gli USA, il Giappone ed i Paesi dell’Unione Europea (in particolare Germania, UK, Francia, NL ed i Paesi Scandinavi) rappresentano il 70% dei brevetti depositati soprattutto nelle “famiglie” di brevetti strategicamente più sensibili e determinanti. Solo 5 Paesi del resto del mondo (Cina, India, Israele, Singapore e Corea del Sud) sono riusciti ad occupare una posizione crescente in seno al 30%, grazie anche al fatto che i Paesi occidentali, per ragioni di competitività e di convenienza, tendono a depositare parte dei loro nuovi brevetti anche in Cina, India, Corea del Sud...). Altrimenti detto, occorre modificare le regole sulla legalità della brevettabilità a titolo privato e a scopo di lucro del vivente e del’intelligenza artificiale, introdotte solo nel 1980 dagli Stati Uniti e poi, a suo seguito, nel 1998, dall’Unione Europea. L’obiettivo dovrebbe essere la sottrazione della conoscenza dalle logiche del mercato e del capitale finanziario e la sua ripubblicizzazione come bene comune planetario da mettere al servizio del diritto di ed alla vita di tutti gli abitanti della Terra.
Se ciò non dovesse avvenire non sono pronto nemmeno a scommettere un euro sul futuro della resilienza come soluzione collettiva, per tutti, di fronte ai disastri in corso e prossimo venturo. L’impoverimento di tante centinaia di milioni e milioni di esseri umani è stato in tutti questi secoli il modo efficace di rubare loro la vita spiegando loro che la causa principale è stata il loro non-adattamento al sistema ed ai suoi prerequisiti. Allo stesso modo, la strategia della resilienza, in assenza di un cambiamento strutturale globale del sistema imperante (predominio dei principi della società capitalista, mantenimento del principio della sovranità nazionale assoluta sulle risorse del Pianeta, fede totale nella tecnoscienza come motore principale della storita della vita della Terra) rappresenterà una maniera cinica di legittimazione del furto planetario della vita a vantaggio esclusivo dei gruppi sociali resilienti dei Paesi forti sul piano economico, finanziario e tecnologico.
Chi osa pensare, onestamente, che gli abitanti di Lagos, oggi 18 milioni, e quelli del Bangladesh (180 milioni) potranno essere resilienti come lo saranno gli abitanti dei Paesi Bassi (oggi 18 milioni di esseri umani) se le fondamenta e le regole del sistema economico e politico mondiale restano strutturalmente immutate?
Come è concepita e prevista oggi, la resilienza contribuirà non a soluzionare i problemi ma ad aggravare le condizioni di esistenza per tutti gli esseri umani che non saranno forti tecnologicamente e economicamente. È inaccettabile di considerare inevitabile che ci siano sempre i dannati della Terra.