5. Regime berlusconiano o postdemocrazia bipolare?
Fin dalla «discesa in campo» di Berlusconi, la principale preoccupazione della sinistra fu la possibilità che si formasse un nuovo regime berlusconiano o di «populismo autoritario». Non mancavano le analogie fra gli intenti di Berlusconi e il regime populista e bonapartista di Perón: tuttavia, più come evocazione di uno spauracchio che nella forma di un confronto ben informato. Ciò è palese quando si confrontino le politiche economiche e sociali del populismo e dei partiti della postdemocrazia.
Un esempio illustre che mi piace citare è quello dello storico Nicola Tranfaglia, che con tanti altri ritenne - in modo del tutto errato - che l’affinità tra Perón e Berlusconi fosse tanto pertinente da temere che gli italiani possano essere «costretti a sopportare ancora per molti anni l’egemonia trionfante dell’erede (peggiorato) di Perón nel nostro Paese»; tuttavia, precisò poi che «quello che differenzia il populismo berlusconiano rispetto agli esempi latinoamericani è la politica economica a cui si ispira la coalizione di centro-destra»21.
Al che chiedo: ma la politica economica non è l’espressione condensata dei rapporti di forza tra le classi sociali? Non è anche il risultato di un determinato disegno politico? Non è da rapportarsi a specifici assetti istituzionali, alla formazione e ristrutturazione di apparati amministrativi, ad una forma storica specifica dello Stato e del regime politico? Come è possibile separare il populismo politico dalla politica economica e sociale e dalle relazioni industriali dello stesso regime populista? Specialmente a un marxista dovrebbe essere chiaro che non è possibile. E dovrebbe quindi risultare chiaro - al di là del giudizio sul populismo autentico, che comunque non si riduce affatto a Perón - che è infondata l’analogia con partiti e movimenti cosiddetti populisti dell’Europa contemporanea.
Berlusconi avrebbe voluto essere il Reagan - non il Perón - italiano, ma il suo primo governo durò solo otto mesi (dal maggio al dicembre 1994); dal 1995 al 2001 il centro-sinistra governò invece per cinque anni (o sei, considerando che era il principale sostegno del governo «tecnico» di Dini, ex ministro del Tesoro di Berlusconi), anche con l’appoggio di partiti ed esponenti «comunisti» e dei Verdi. E fra 2006 e 2017 il centro-sinistra ha governato nel complesso più a lungo del centro-destra.
Ebbene, la periodizzazione ci dice che nell’ultima decade del secolo scorso fu il centro-sinistra, non il centro-destra, a realizzare le più importanti (contro)riforme dette liberistiche: dal più grande processo di privatizzazioni dell’industria, delle banche e dei servizi pubblici nei Paesi a capitalismo avanzato alla manovra di convergenza sui parametri di Maastricht, con quel che comportò quanto a livelli di disoccupazione, relazioni industriali e riforma delle pensioni. Fu il centro-sinistra a introdurre nuove tipologie di contratti di impiego (il «pacchetto Treu», 1997) - destinate a diventare la norma - che hanno precarizzato il lavoro, specialmente dei giovani. Né si può cogliere una differenza sostanziale tra le due coalizioni nella logica della legislazione sociale. Ad esempio, non per quanto riguarda la riforma dell’istruzione né per la gestione dell’immigrazione: fu il centro-sinistra a istituire i Centri di permanenza temporanea (Cpt) con la legge Turco-Napolitano del 1998. Dal punto di vista del capitale - nazionale e internazionale - il centro-sinistra ha insuperabili meriti storici.
Quel che può sembrare un paradosso si spiega col fatto che la mutazione del Pci avvenne quando la socialdemocrazia aveva già abbandonato le tradizionali posizioni «keynesiane» a favore di quel che fu poi teorizzato come the Third Way/die neue Mitte da Tony Blair e Gerhard Schröder.
Questa assumeva la stabilità e l’efficienza del mercato; una politica macroeconomica orientata alla lotta all’inflazione e alla riduzione del debito pubblico, non all’obiettivo della piena occupazione; la flessibilità salariale e nell’organizzazione del lavoro è esaltata, perché occorre mantenere un tasso di disoccupazione tale che non acceleri l’inflazione22. La «terza via» non è un fondamentalismo del mercato, ma sicuramente rompe con la tradizione socialdemocratica: l’intervento pubblico è ammesso a fronte di «fallimenti del mercato» e di «esternalità negative»; e al principio della riduzione della diseguaglianza sociale si oppone quello dell’eguaglianza delle opportunità. Ma la pratica è stata anche peggiore della teoria.
Inserendosi nel processo di trasformazione della sinistra europea, il Pci passò direttamente dalla tradizione statalista del riformismo togliattiano al social-liberismo, saltando uno stadio che possa dirsi socialdemocratico nel senso classico. Il social-liberismo del Pds-Ds-Pd non è identico al neoliberismo del centro-destra, ma si tratta di prospettive che convergono nei risultati. Secondo il centro-sinistra, la ri-regolazione del mercato del lavoro secondo criteri di flessibilità salariale e occupazionale dovrebbe beneficiare i lavoratori. Tuttavia, il capitalismo italiano è ormai da decenni su una traiettoria declinante nei settori tecnologicamente più innovativi e dalla domanda più dinamica, con importanti economie di scala. La compressione della domanda interna e della spesa pubblica hanno accresciuto l’importanza dei mercati esteri, ma con l’impossibilità di svalutare e la ridotta crescita dell’investimento e della produttività - in gran parte conseguenti alle privatizzazioni - diminuisce anche la competitività. Un circolo vizioso. Il punto di forza del Pds-Ds-Pd è che ha potuto gestire meglio del centro-destra queste contraddizioni grazie alla moderazione dei maggiori apparati sindacali. Per esempio: l’attacco berlusconiano all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (sui licenziamenti per «giusta causa») causò grandi proteste; l’operazione è invece riuscita al governo «tecnico» di Monti e a quello Pd di Renzi. D’altra parte, Berlusconi è stato accusato dai liberali più lucidi - ad esempio da The Economist, in modo insolitamente mordace - d’essere troppo occupato a proteggere se stesso, maldestro nell’azione di governo, polemico con le istituzioni europee e alleato di un partito euroscettico (la LN). Dal punto di vista del lavoro, il centro-destra ha rigirato il coltello in ferite già aperte.
Quanto alla macroeconomia dei regimi populisti storici, essa era espressione di un’instabile alleanza tra frazioni di classi - la dominante e quelle dominate - con l’obiettivo di rompere i vincoli della dipendenza economica e di promuovere lo sviluppo del capitalismo nazionale. Ne conseguivano politiche di sostituzione delle importazioni, di nazionalizzazione, di assistenza sociale e di sindacalizzazione burocratica, da cui derivavano contrasti con l’imperialismo e i suoi alleati interni, in particolare nei tradizionali settori esportatori. Di qui le lotte nell’alleanza populista e le contraddizioni dei regimi, spesso spezzati da un colpo di Stato militare sostenuto dall’imperialismo. Teoricamente, il populismo latinoamericano è associabile allo strutturalismo economico di Celso Furtado e Raúl Prebisch e alla Cepal delle Nazioni Unite: una prospettiva alternativa sia al neoliberismo che al social-liberismo della «terza via». Politicamente, il bonapartismo dei regimi populisti esprime una contraddizione interna all’economia mondiale capitalistica: quella fra dipendenza internazionale dai centri imperialisti e aspirazioni di sviluppo della borghesia nazionale.
E dovrebbe esser chiaro che, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, il nazionalismo economico del populismo è cosa qualitativamente diversa da quel presunto populismo che privatizza servizi e industrie statali, deregolamenta il mercato del lavoro e liberalizza il sistema finanziario. Il Washington consensus fu appunto concepito per smantellare il nazionalismo populista latinoamericano. Il populismo è assai poco liberale, ma sicuramente non è liberista; e malgrado le uscite retoriche sulle istituzioni europee, Forza Italia e Lega Nord sono invece partiti ultraliberisti, almeno per quanto riguarda lavoratori salariati e diritti sociali.
La postdemocrazia neo e social-liberista esprime invece la volontaria incorporazione nella politica degli interessi immediati del capitale - interno e internazionale - in un contesto di intensificata concorrenza mondiale, instabilità finanziaria e squilibrio tra domanda - alimentata da bolle speculative negli Stati Uniti - e offerta mondiale. Per il controllo disciplinare della classe dominata usa come strumenti i vincoli alla spesa pubblica, la mercificazione dell’erogazione dei servizi, le privatizzazioni e la subordinazione della crescita della domanda aggregata e della stabilità dell’occupazione al contenimento dell’inflazione e del costo del lavoro.
Riprendendo un’analisi di Mark Blyth e Richard S. Katz23 si possono così stilizzare due epoche della politica economica dal punto di vista del funzionamento del sistema dei partiti. Nel modello del partito pigliatutto teorizzato da Otto Kirchheimer24 già nei primi anni ‘60 erano presenti gli elementi che solitamente confluiscono nella definizione corrente del populismo, idealmente completata dall’assunzione del popolo come modello di virtù opposto alla corruzione della politica e alla costruzione della dicotomia fra un «Noi» e un «Loro»:
- la riduzione del bagaglio ideologico;
- la convergenza sulle questioni fondamentali della politica economica e sociale;
- il ridimensionamento - se non l’abbandono - del riferimento a una specifica classe sociale o clientela culturale;
- la concentrazione del potere nelle mani dei leader del partito;
- la centralità dell’immagine del leader e delle sue capacità comunicative;
- la spettacolarizzazione della politica e la personalizzazione drammatizzante della competizione, esaltate dall’importanza e dal format dei programmi televisivi;
- il ricorso a tecniche di marketing per definire il prodotto da vendere agli elettori e l’importanza della politica simbolica;
- il ridimensionamento degli apparati del partito, come del ruolo e del peso degli iscritti;
- la parallela riduzione della partecipazione elettorale.
Il richiamo della concettualizzazione di Kirchheimer e il confronto con l’autentico populismo storico dovrebbe essere utile a chiarire che in Italia non abbiamo a che fare con partiti populisti ma con lo pseudopopulismo, fenomeno qualitativamente diverso.
Schematicamente, la grande differenza tra i partiti pigliatutto e i partiti pseudopopulisti della postdemocrazia contemporanea è che per estendere il proprio mercato elettorale i primi reagivano a domande sociali in espansione con la distribuzione di risorse crescenti o con la promessa di farlo; pure per questo erano importanti i rapporti con associazioni fiancheggiatrici che organizzavano categorie sociali, anche delle classi subalterne: sindacati, cooperative e agricoltori. Nel sistema postdemocratico e liberista del cartel party, invece, i partiti riducono l’offerta di servizi pubblici e la spesa sociale, compensando con politiche simboliche poco costose l’azione di riduzione delle aspettative e di stretta selezione delle domande sociali. Agiscono come imprese oligopolistiche, partiti-cartello.
Concretamente, ciò può essere spiegato in relazione ai rapporti di forza tra le classi - ora decisamente sbilanciati a vantaggio del capitale - e alle trasformazioni dell’economia mondiale, quel che si suole designare come globalizzazione. A loro volta, questo insieme di cambiamenti - per ciascun paese diversi nei tempi e nei modi - ha portato all’avvento delle politiche neoliberiste e social-liberiste (del tipo della «terza via»). In breve: si tratta della compiuta riduzione della democrazia a procedura di scelta fra i candidati di diverse fazioni di un’unica élite politica.
Questa prospettiva implica trasformazioni delle funzioni dei partiti, della definizione del popolo e dei termini della legittimazione politica. Non si tratta più di rappresentare e mediare gli interessi di una classe (per la sinistra) o di categorie sociali e culturali, ma di proporre «soluzioni» sulla base di criteri «oggettivi» nel presunto interesse della nazione come impresa economica25. Una logica a cui non si sottrae neanche il sovranismo nazional-monetario di sinistra, che antepone in modo velleitario la «soluzione nazionale» alla realtà dei rapporti di forza tra le classi e al compito prioritario di contribuire al conflitto sociale e alla lotta contro partiti e governi postdemocratici secondo obiettivi autonomamente elaborati da movimenti reali.
L’appello elettorale dei partiti pseudopopulisti è rivolto a un popolo che non presenta fratture di classe, ma «problemi» individuali. Ad esempio, la polarizzazione pro o contro Berlusconi non si deve al fatto che i partiti si richiamino a classi o categorie sociali diverse, e neanche alla divisione fra destra e sinistra in senso proprio. Il popolo elettorale di centro-sinistra ha contorni confusi, avendo coalizzato social-liberisti, democristiani, liberali, tecnocrati, comunisti, verdi, regionalisti e perfino micropartiti nati da scissioni della LN (nelle politiche del 2006); dei governi di Renzi e Gentiloni è stato ministro l’ex segretario del Pdl e successore designato di Berlusconi, Angelino Alfano.
Quanto alle funzioni del partito, quella di governo prevale decisamente sulla funzione di rappresentanza; conseguentemente, decade la necessità di un partito strutturato e ben radicato nel territorio. Non solo gli iscritti si riducono spontaneamente, ma la militanza è in gran parte sostituita deliberatamente da sondaggi e tecniche di marketing affidate a ditte specializzate e dalla centralità della costruzione dell’immagine del leader fondatore (Berlusconi, Bossi e altri) o consacrato dal popolo con elezioni primarie aperte (per il Pd). Il M5S si rivolge direttamente al popolo degli elettori atomizzati attraverso la televisione, il Web e i social networks.
Octavio Ianni definì la differenza tra la politica economica del populismo brasiliano e quella dei generali golpisti come contrasto fra sviluppo (nazionale) e modernizzazione (dipendente)26; Stuart Hall caratterizzò la politica della signora Thatcher come «populismo autoritario» e «modernizzazione regressiva»27. In Italia non abbiamo avuto un regime «populista» berlusconiano, ma insieme una «modernizzazione regressiva» e una postdemocrazia strutturata intorno a due poli - neo e social-liberista - in competizione e in osmosi, e quattro importanti forme differenti di pseudopopulismo (FI, LN, Pd e M5S), più diverse varianti minori.
Mentre le politiche economiche e sociali dei governi convergono nell’esaltazione del libero mercato - ma con diversa coerenza a seconda che si tratti degli interessi dei lavoratori o delle banche - i partiti cooperano ad accrescere i poteri del governo e a distanziare le istituzioni che si dicono rappresentative dalle pressioni popolari.
Lo pseudopopulismo è la manifestazione di un processo di trasformazione della statualità e della politica in direzione autoritaria già colto e teorizzato in diversi modi a cavaliere degli anni ‘70 e ‘80 da diversi studiosi - ad esempio da Nicos Poulantzas, Alan Wolfe e Claus Offe, in Italia da Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo28 - ma anche auspicato dalle note tesi del rapporto sulla governabilità delle democrazie scritto per la Commissione Trilaterale, nel 1975.
Quindi, lo pseudopopulismo ha carattere sistemico ed esprime la natura e le interne contraddizioni di quella che Colin Crouch ha definito postdemocrazia29. Tratti caratteristici della postdemocrazia sono la convergenza dei partiti di destra e sinistra sulle questioni fondamentali della politica economica e sociale e il declino dei diritti sociali in nome della competitività e delle compatibilità finanziarie; l’ulteriore concentrazione del potere nell’esecutivo; la compiuta riduzione della democrazia a procedura di scelta fra i candidati di diverse fazioni di un’unica élite politica; la centralizzazione ulteriore del potere nelle mani dei leader del partito; la personalizzazione drammatizzante della competizione politica; l’uso massiccio della televisione – un mezzo che, a sua volta, promuove la personalizzazione e la drammatizzazione; il conseguente ridimensionamento degli apparati del partito, come del ruolo e del peso degli iscritti; la crescita dell’astensionismo.
Tutti questi aspetti si ritrovano anche nella politica italiana, ma l’Italia - è vero - rimane un caso particolare, si potrebbe dire «all’avanguardia» nel dispiegarsi dello pseudopopulismo postdemocratico e delle sue contraddizioni.
6. Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano e la postdemocrazia nazionale
Nonostante le differenze, esiste un concetto che può applicarsi sia ai populismi storici e latinoamericani che alla situazione italiana per comprendere la condizione strutturale per cui in Italia lo pseudopopulismo sia così forte e variegato relativamente ad altri paesi europei a capitalismo avanzato. Si tratta del concetto di sviluppo ineguale e combinato.
Strutturalmente, si può dire che il populismo sia tipico di paesi che sono inglobati nell’economia mondiale in una posizione dipendente, relativamente sottosviluppata dal punto di vista capitalistico e che emerga in congiunture in cui le contraddizioni della modernizzazione capitalistica della società periferica si fanno più acute. Ebbene, l’Italia è un Paese a capitalismo avanzato, ma per molti aspetti il suo capitalismo è relativamente arretrato rispetto ad altri paesi europei.
Allo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano nel suo complesso nell’economia mondiale corrisponde lo sviluppo ineguale e combinato interno alla stessa formazione sociale italiana. Si tratta di un complesso di fatti spesso presentati, nella logica della teoria della modernizzazione per stadi o del riformismo di sinistra, come «tare» dell’arretratezza, ma che in effetti sono la forma specifica dello sviluppo capitalistico italiano a partire dall’unificazione statale del Paese: il Risorgimento.
Innanzitutto, abbiamo lo squilibrio tra il Nord e il Mezzogiorno. Le partecipazioni statali e l’intervento straordinario per il Mezzogiorno sono stati strumenti non solo del potere democristiano, ma anche della stabilizzazione sociale, di grandi affari per le imprese e della regolazione dei flussi migratori che hanno alimentato il «miracolo italiano».
E poi - con cambiamenti che non rovesciano il quadro - abbiamo i dualismi intersettoriali e infrasettoriali, l’alto peso specifico della piccola borghesia tradizionale, del piccolo commercio e della piccola proprietà, la struttura proprietaria famigliare dei grandi gruppi, le risorse umane «congelate» nella bassa produttività e nella disoccupazione nascosta in agricoltura, il tasso basso della popolazione attiva, il dualismo fra consumo pubblico e consumo privato e servizi sociali e amministrazione pubblica poco efficiente30. Insomma, una serie di contraddizioni secolari in cui l’arretratezza si combina con lo sviluppo ed è funzionale alla riproduzione di un determinato tipo di modello sociale.
Lo sviluppo ineguale e combinato del capitalismo italiano è fra i motivi della cronica distanza tra «Paese legale» e «Paese reale», del difetto di egemonia culturale borghese, delle dimensioni dell’organizzazione e della subcultura del Pci, dell’esplosione della conflittualità nel 1968-1969…
Si tratta di problemi secolari, ma che pur trasformati continuano a influire sulla vita quotidiana e la politica. Sono la ragione per cui, se postdemocrazia e pseudopopulismo sono fenomeni strutturali internazionali, in Italia hanno forma e sostanza più intense e perverse che in altri paesi.
7. Sintesi parziale: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente
La grande illusione della politica italiana è che i problemi della nostra società siano principalmente di natura politica o generati dalla politica: statalismo, assistenzialismo, clientelismo, corruzione, elitarismo e via elencando.
L’illusione non è soltanto al centro e a destra: è anche a sinistra. Forse specialmente a sinistra, nonostante la retorica sui diritti sociali e l’insistenza su un modello alternativo al neoliberismo, perché dentro quella retorica c’è l’idea che i drammi sociali si possano affrontare condizionando «da sinistra» il quadro politico. Concretamente, questo ha significato avere il centro-sinistra come punto di riferimento: le differenze tra Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi sono state solo di tattica, non strategiche. Divergenze e scissioni hanno sempre ruotato intorno alle questioni dell’opportunità o meno - in un dato momento - di fare cartello elettorale e di partecipare a maggioranze di governo - locali e nazionali - con il centro-sinistra. Il tutto rafforzato dalla «narrazione drammatizzante» circa il rischio di un regime berlusconiano e del «populismo autoritario». Non credo proprio che l’illusione sia tramontata. Essa continua a vivere nell’ansia di costruire un «soggetto» che possa avere un buon risultato alle elezioni; il tutto condito non più dalla velleitaria pretesa di «far da ponte tra Piazza e Palazzo», ma dall’ancor più velleitaria speranza che la rappresentanza parlamentare in regime postdemocratico serva a qualcosa.
Detto in poche parole, quel che l’illusione politicista impediva di prendere sul serio - o proprio di vedere - è che i problemi della società italiana sono il prodotto del capitalismo italiano e della sua posizione nelle diverse configurazioni storiche dell’economia mondiale, e che la ristrutturazione del sistema politico italiano è parte di una trasformazione internazionale dei sistemi di partito e dei regimi politici. Non che manchino corrette analisi parziali: del resto, non è difficile criticare il neoliberismo, la destra e la globalizzazione neoliberista. Le questioni cruciali sono: da una parte, un’analisi semplicistica, dall’altra - ancor più grave - l’incoerenza politica. Perché, ad esempio, se si denuncia la globalizzazione neoliberista come fatto «epocale» che tende a omogeneizzare verso il basso le condizioni di vita e di lavoro e a ridimensionare drasticamente la sovranità nazionale e popolare, allora bisognerebbe assumere come nemici politici quei partiti che della suddetta globalizzazione si fanno agenti. In Italia questo significava anche - se non principalmente - il centro-sinistra, non solo il centro-destra. Si è puntato il dito verso il trasformismo berlusconiano, ma non si è voluto vedere - o trarne la logica implicazione politica - la trasformazione del mutante del Pci in agente della postdemocrazia e dell’imperialismo italiano. È stato denunciato il «populismo autoritario» di Berlusconi e il pericolo di una sua egemonia, ma non lo pseudopopulismo del centro-sinistra e il suo indispensabile contributo alla costruzione di un regime postdemocratico.
Nel suo piccolo - che tanto piccolo non era, visto che nel 2006 riuscì a far eleggere la bellezza di 110 forchettoni rossi nel centro-sinistra - la cosiddetta «sinistra radicale» italiana ha fatto da stampella al centro-sinistra e quindi alla postdemocrazia31. Di questo hanno preso atto gli elettori che l’hanno abbandonata in massa: una catastrofe meritata e, come si diceva, «che viene da lontano».
Il risultato è stato il rapido successo di una rivolta elettoralistica e pseudopopulista contro i pilastri della postdemocrazia, espressasi nel voto per il Movimento 5 Stelle.
La nausea nei confronti dell’opportunismo trasformista è una delle principali ragioni di quella che impropriamente e con fuorviante connotazione moralistica si usa definire «antipolitica». Tuttavia, se la politica nel suo senso più alto è il confronto e lo scontro fra modelli alternativi di società - o almeno tra proposte di politica economica, sociale e culturale che siano fra loro qualitativamente alternative, pur nel quadro della società capitalistica - ad essere antipolitici sono in realtà i partiti di governo, sia di centro-destra che di centro-sinistra, i cui obiettivi programmatici sono sostanzialmente convergenti nei campi delle politiche economiche e sociali e della politica estera. E questa è anche la ragione della popolarità di Grillo e dello spettacolare successo del M5S. Ma il trasformismo coinvolge ora anche il «partito non-partito» di Grillo, visto sempre più come nuovo veicolo per iniziare dal nulla una carriera politica.
E i fatti dimostrano inequivocabilmente che non basta appellarsi per via elettorale al potere al popolo per dar vita a un populismo degno di questo nome. Ripeto ancora una volta: senza «un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose», quel che rimane è uno pseudopopulismo impotente.
1 Giosuè Carducci, «Libertas», Don Chisciotte, 4 gennaio 1883.
2 Massimo L. Salvadori, Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana, il Mulino, Bologna 1994.
3 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Einaudi, Torino 1975, p. 962.
4 Perry Anderson, L’Italia dopo l’Italia. Verso la Terza Repubblica, Castelvecchi, Roma 2014; la tesi di Anderson è nel capitolo sull’Italia del suo The new old world, Verso, London/New York 2009, p. 323.
5 Cfr. Renato Mannheimer, «Le elezioni del 2001 e la “mobilitazione drammatizzante”», in Dall’Ulivo al governo Berlusconi. Le elezioni del 13 maggio 2001 e il sistema politico italiano, a cura di Gianfranco Pasquino, il Mulino, Bologna 2002; Paolo Mancini, «The Italian public sphere: a case of dramatized polarization», Journal of Modern Italian Studies, vol. 18, n. 3, 2013.
6 Massimo D’Alema, Un Paese normale. La sinistra e il futuro dell’Italia, Mondadori, Milano 1995.
7 Discorso intitolato «Per il mio Paese», in L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, Mondadori, Milano 2001, pp. 273-6. Tranne diversa indicazione, tutte le citazioni di Berlusconi si riferiscono a questo discorso.
8 Jonathan Hopkin-Caterina Paolucci, «The business firm model of party organisation: cases from Spain and Italy», European Journal of Political Research, vol. 35, n. 3, 1999; Mauro Calise, «The personal party: an analytical framework», Italian Political Science Review / Rivista Italiana di Scienza Politica, vol. 45, n. 3, 2015.
Su Forza Italia e il Pdl: Patrick McCarthy, «Forza Italia: nascita e sviluppo di un partito virtuale», in Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni (edizione 1995), a cura di Piero Ignazi e Richard S. Katz, il Mulino, Bologna 1995; Emanuela Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna 2001; Paul Ginsborg, Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003; Caterina Paolucci, «Forza Italia», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, a cura di Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari, Università Bocconi editore, Milano 2007; Id., «From Democrazia Cristiana to Forza Italia and the Popolo della Libertà: partisan change in Italy», Modern Italy, vol. 13, n. 4, 2008; Chiara Moroni, Da Forza Italia al Popolo della libertà, Carocci, Roma 2008; Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, a cura di Paul Ginsborg ed Enrica Asquer, Laterza, Roma/Bari 2011; Piero Ignazi, Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, il Mulino, Bologna 2014.
Come introduzioni al populismo in Italia segnalo solo pochi testi complessivi che ritengo di particolare interesse: Alfio Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2000; Id., La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Bollati Boringhieri, Torino 2005; Marco Tarchi, «Populism Italian style», in Democracies and the populist challenge, a cura di Yves Mény e Yves Surel, Palgrave, Basingstoke/New York 2002; Id., «Italy: a country of many populisms», in Twenty-first century populism: the spectre of Western European democracy, a cura di Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell, Palgrave Macmillan, Houndmills/New York 2008; Id., Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, il Mulino, Bologna 2015; Id., «Italy: the promised land of populism?», Contemporary Italian Politics, vol. 7, n. 3, 2015; Roberto Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a Renzi, Mimesis, Milano/Udine 2015; Fabio Bordignon, Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2014.
9 Silvio Berlusconi, «Decennale della caduta del Muro di Berlino», Roma, Palazzo dei Congressi, 9 novembre 1999, in L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, cit., p. 64.
10 Chiara Moroni, Da Forza Italia al Popolo della libertà, cit., p. 163 (corsivo mio).
11 Marco D’Eramo, «Populism and the new oligarchy», New Left Review, II/82, 2013. Mi permetto di rimandare anche ai miei Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012, «Pseudopopulismo e stile paranoide in politica», Utopia Rossa, 3 agosto 2017 e «Postdemocrazia, pseudopopulismo e la trappola dell’antipopulismo», Utopia Rossa, 14 gennaio 2018.
12 Roberto Massari, Problemi della Rivoluzione portoghese, Controcorrente, Roma 1976.
13 Istat, «Tavola 10.22 - Conflitti di lavoro, lavoratori partecipanti e ore non lavorate per settore di attività economica - Anni 1949-2009»; per gli anni 1946-1988 si veda il «Grafico n. 42» in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, p. 602. Tra 1948 e 1956: 80 lavoratori uccisi, 5.746 feriti, 69 mila arrestati, con un totale di 22.538 anni di prigione; VIII Congresso nazionale del Partito comunista italiano, Forza e attività del partito. Dati statistici, documenti per i delegati, Roma 1956. La maggior parte delle vittime e dei condannati erano comunisti.
14 È opportuna una precisazione circa il consenso reale dei partiti pseudopopulisti, in particolare di FI-Pdl e della LN. Con rarissime eccezioni, il consenso elettorale è solitamente espresso sulla base delle percentuali calcolate sui voti validi. Questo metodo è una buona approssimazione del consenso quando il tasso di partecipazione alle elezioni si attesta intorno al 90% o più, come è stato a lungo in Italia; ma quando l’astensionismo cresce e il tasso di partecipazione cade all’80% o meno - un fenomeno iniziato nel 1979 e che ha avuto impennate nelle elezioni politiche di 1996, 2008 e 2013 - l’immagine dell’opinione pubblica che si può ricavare dai risultati elettorali ne risulta deformata. Questo è quanto accaduto in Italia, con gravi implicazioni sul piano politico specialmente a sinistra, quando si parlava di «egemonia» o «regime» berlusconiano. Se si calcola il consenso elettorale sul totale dei cittadini con diritto di voto (adv) invece che sui soli voti validi, si vedrà allora che nel 1987 la Dc aveva il consenso del 29% degli adv (13 milioni di voti) e il Pci del 22% (10 milioni di voti). Nel 1994 il consenso per Berlusconi fu di 8 milioni di voti, il 17% degli adv. Il miglior risultato conseguito da FI fu nel 2001, col 22% degli adv (11 milioni di voti); nel 2008 il nuovo Pdl, risultato della fusione di FI e An, ottenne 13,6 milioni di voti, risultato pari al 29% degli adv e di poco inferiore a quelli di FI e An nel 2006 (anno di forte crescita dell’astensionismo). Il massimo successo elettorale della LN fu nel 1992, con 3,3 milioni di voti, pari al 7% degli adv; negli anni seguenti i voti per la LN si dimezzarono, risalendo a 3 milioni nel 2008 per dimezzarsi nuovamente nel 2013. Nel 2008 l’intera coalizione di centro-sinistra ottenne 13 milioni di voti e 17 milioni la coalizione di centro-destra; nel 2013, rispettivamente 10 e 9,9 milioni di voti (il 21% degli adv); il M5S di Grillo, 8,6 milioni di voti, il 18,5% degli adv. Soltanto nel 2008 il centro-destra si è avvicinato ai risultati della Dc nella sua fase discendente, per poi essere travolto - insieme al Pd - dal M5S.
15 Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982.
16 Sulla questione delle subculture si veda la discussione in La politica e le radici, a cura di Carlo Baccetti, Silvia Bolgherini, Renato D’Amico e Gianni Riccamboni, Liviana, Novara 2010: Ilvo Diamanti, «Le subculture territoriali sono finite. Quindi (r)esistono» e Antonio Floridia, «Le subculture politiche territoriali in Italia: epilogo o mutamento?».
17 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma 1976 (1ª ed. 1965), pp. 13 e 17 (corsivo mio).
18 Si leggano in particolare le pp. 153-64 del capitolo «La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo».
19 Alberto Asor Rosa, op. cit., p. 162.
20 Sulla LN: Laura Balbo-Luigi Manconi, I razzismi possibili, Feltrinelli, Milano 1990; Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Donzelli, Roma 1993; Id., «La Lega, imprenditore politico della crisi. Origini, crescita e successo delle leghe autonomiste in Italia», Meridiana, n. 16, 1993; Id., Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996; Id., Mappe dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro… e tricolore, il Mulino, Bologna 2009; Lorella Cedroni, «Lega Nord», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, cit.; Roberto Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma/Bari, 2010.
21 Nicola Tranfaglia, Il populismo autoritario. Autobiografia di una nazione, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010, pp. 138 e 94 (corsivo mio).
22 Sul Pds-Ds-Pd: Carlo Baccetti, Il Pds. Verso un nuovo modello di partito?, il Mulino, Bologna 1997; Paolo Bellucci-Marco Maraffi-Paolo Segatti, Pci, Pds, Ds. La trasformazione dell’identità politica della sinistra di governo, Donzelli, Roma 2000; Roberto De Rosa, «Partito democratico della sinistra - Democratici di sinistra», in I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, cit.; Duccio Tronci, Chi comanda Firenze. La metamorfosi dei poteri e i suoi retroscena attraverso la figura di Matteo Renzi, Castelvecchi, Roma 2013; Michele Prospero, Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Bordeaux, Roma 2015.
Sulla «terza via» come fenomeno internazionale: Philip Arestis-Malcolm C. Sawyer (a cura di), The economics of the Third Way: experiences from around the world, Edward Elgar, Cheltenham (UK)/Northampton (US) 2001, con un capitolo sull’Italia di Augusto Graziani. Per la questione più ampia: Gerassimos Moschonas, In the name of social democracy: the great transformation, 1945 to the present, Verso, London/New York 2002. Su neoliberismo e social-liberismo nella crisi globale: Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra, entrambi per Asterios, Trieste 2012.
23 Mark Blyth-Richard S. Katz, «From catch-all politics to cartelisation: the political economy of the cartel party», West European Politics, vol. 28, n. 1, 2005. Sui partiti, il partito-cartello e i sistemi di partito: Peter Mair, Ruling the void: the hollowing of Western democracy, Verso, London/New York 2013 [Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016]; Id., «Ruling the void? The hollowing of Western democracy», New Left Review, II/42, 2006.
24 Otto Kirchheimer, «La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale», in Sociologia dei partiti politici, a cura di Giordano Sivini, il Mulino, Bologna 1971.
25 Questo è il senso dello pseudopopulismo o di ciò che Peter Mair definisce «democrazia populista» come fenomeno generale dei sistemi politici europei (in particolare portando l’esempio di Tony Blair) in «Populist democracy vs party democracy», in Democracies and the populist challenge, cit.
26 Utile anche per capire la differenza tra populismo e pseudopopulismo: «Ciò che differenzia la politica economica inaugurata nel 1964 [cioè dopo il colpo di Stato militare che rovesciò il populista João Goulart] è che essa ha sostituito l’ideologia della modernizzazione all’ideologia dello sviluppo. Nel modo in cui si stava attuando, lo sviluppo tendeva a rendere più dinamiche le forze produttive, implicava l’indipendenza politica e, in una certa misura, spingeva verso l’autonomia economica. Invece, l’ideologia della modernizzazione - posta in pratica dopo il 1964 - denota uno sforzo teso a perfezionare lo statu quo e a rendere più facile il funzionamento dei processi di concentrazione e centralizzazione del capitale» (Octavio Ianni, O colapso do populismo no Brasil, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1968 [La fine del populismo in Brasile, il Saggiatore, Milano 1974, p. 214]).
27 «Culturalmente, il progetto del thatcherismo si definisce come una forma di “modernizzazione regressiva” - il tentativo di “educare” e disciplinare la società in una versione particolarmente regressiva della modernità, paradossalmente trascinandola indietro attraverso una versione ugualmente regressiva del passato» (Stuart Hall, The hard road to renewal: Thatcherism and the crisis of the left, Verso, London/New York 1988, p. 2).
28 Nicos Poulantzas, L’État, le pouvoir, le socialisme, Presses universitaires de France (PUF), Paris 1978 [Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979]; Id., Il declino della democrazia, Mimesis, Milano/Udine 2009; Alan Wolfe, The limits of legitimacy: political contradictions of contemporary capitalism, Free Press, New York 1977 [I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, De Donato, Bari 1981]; Claus Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas, Milano 1977; Luigi Ferrajoli-Danilo Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano 1978.
29 Mi riferisco a Colin Crouch, Post-democracy, Polity Press, Cambridge 2004 [Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003]. Rimando inoltre alla seconda parte del mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, cit., pp. 217-405.
30 Questi aspetti del capitalismo italiano erano sottolineati da Augusto Graziani nella sua «Introduzione» al libro L’economia italiana: 1945-1970, il Mulino, Bologna 1972, ristampato in una nuova edizione aggiornata col titolo Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
31 Cfr. Roberto Massari (a cura di), I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale», Massari ed., Bolsena 2007. L’epiteto «forchettoni» è ovviamente spregiativo, ma non si riferisce alla corruzione personale. I testi del volume non sono moralistici, ma sviluppano un’analisi della sinistra post-Pci fredda, documentata e fondata su criteri scientifici.