RIFLESSIONI SUL MONDO E LA NOSTRA EPOCA, di Michele Nobile
Le riflessioni di Roberto Savio toccano problemi la cui radice non è recente e che col passare del tempo divengono sempre più gravi. I suoi argomenti incontrano i miei, che sono diretti sia al presente che a una rilettura del passato alla luce delle urgenze contemporanee. Senza alcuna pretesa di esaustività, quelle che seguono sono alcune considerazioni che l’articolo di Savio mi ha stimolato.
1) Quando ci si chiede seriamente se siamo in transizione verso un mondo nuovo, allora vuol dire che con ogni probabilità un passaggio è già stato compiuto. Il concetto segue l’idea, ma il reale non è razionale: è pieno di contraddizioni. Ed è per questo motivo, e per le sfasature tra diverse scale temporali e spaziali, che si aprono delle possibilità di azione.
Su una scala temporale e spaziale più lunga e più ampia, il mondo in cui viviamo è contraddistinto da due transizioni. La prima è quella segnata da Hiroshima e Nagasaki, dallo sviluppo degli arsenali nucleari e dalla loro proliferazione. Con l’arma atomica siamo entrati in un’era in cui concepire la fine dell’umanità o della civiltà non è più una fantasia mistica o una visione letteraria, ma una possibilità reale: l’umanità può por fine alla propria storia non per giudizio divino o per il moto casuale di un asteroide, ma per propria mano.
Che dal 1945 l’arma atomica non sia più stata utilizzata per colpire un nemico non significa che essa non abbia effetti molto concreti. Ne ha, molti e pervasivi, anche se spesso non sono facilmente percepibili nella vita quotidiana. Dietro l’uso delle forze convenzionali esiste sempre la minaccia dell’arma nucleare; e questa è formalmente l’ultima risorsa per difendere il potere: ragion per cui - oltre a Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele, India e Pakistan - la «bomba nazionale» è utile a un regime tirannico come quello della Corea del Nord e costituisce una speranza per la teocrazia iraniana.
Il possesso dell’arma nucleare dimostra che il potere dello Stato in questione ha natura anti-umana e potenzialmente sterminicida. Sono convinto che la lotta contro tutti gli arsenali nucleari, di qualsiasi Stato, dovrebbe essere al primo posto nella battaglia contro il militarismo e l’imperialismo. La distruttività dell’arma nucleare è l’esatto contrario della solidarietà internazionale dei popoli in lotta contro i loro oppressori; la difesa dalla minaccia nucleare è un potente mezzo per giustificare il militarismo e raccogliere il consenso intorno alle classi e alle caste politiche al potere.
Anche la seconda transizione è già avvenuta, ma come per la prima si tratta di controllarne gli effetti e ridurne i danni, se è ancora possibile.
Si discute sull’importanza cumulativa degli effetti ecologici della Prima rivoluzione industriale, ma tutto fa pensare che i pochi decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale - un periodo infinitesimale su scala geologica - abbiano prodotto lo straordinario effetto di determinare quella che è ormai considerata da gran parte degli specialisti una nuova e particolare epoca geologica: l’Antropocene. Con ciò s’intende che l’impatto dell’attività umana sul pianeta è così diffuso e profondo da rivaleggiare con le forze della natura e meritare un posto nella scala del tempo geologico. Non è una buona notizia per l’umanità: è un progresso, per così dire, di cui non si può essere orgogliosi, in quanto minaccia catastrofi.
La battaglia contro il riscaldamento globale ha la sua specificità, ma nello stesso tempo è il condensato delle contraddizioni interne alla società mondiale e nel rapporto fra i sistemi sociali moderni e la natura. Per esempio, quella battaglia passa anche attraverso la riduzione della crescita demografica, ma il passaggio su scala mondiale a un regime demografico di bassa natalità e bassa mortalità richiede pure che si affronti sulla stessa scala il dramma della diseguaglianza delle condizioni di vita fra i popoli del pianeta. Si tratta di qualcosa che richiede sia il cambiamento sociale che quello tecnologico. Un’impresa senza precedenti, per la quale tutti i poteri economici e politici esistenti sono assolutamente inadeguati.
Arsenali nucleari e cambiamenti climatici sono la dimostrazione dell’insostenibilità del sistema mondiale attuale. Essi sono il prodotto della tecnologia e della scienza più moderna, ma non sono determinati da queste. La tecnologia è una causa materiale, ma la causa efficiente risiede interamente nella sfera dei rapporti fra gli esseri umani, cioè nei rapporti e nelle istituzioni in cui si concentrano il potere economico e politico.
La transizione nell’epoca del possibile annientamento atomico della civiltà è stata voluta e coscientemente organizzata dai detentori del potere politico, innanzitutto - ma non solo - Stati Uniti ed Unione Sovietica. La transizione verso l’Antropocene è stata invece un prodotto spontaneo dovuto in primis a una forma di ricchezza astratta, e quindi senza limiti nella sua accumulazione: la ricerca del massimo profitto. È dunque il risultato dello sviluppo del capitalismo e della mercificazione universale, a partire dal lavoro umano.
Tuttavia, all’Antropocene ha contribuito anche l’industrializzazione degli Stati sedicenti socialisti come mezzo per consolidare ed accrescere la potenza delle caste dominanti degli Stati stessi; e le particolari contraddizioni di quell’industrializzazione, che si possono compendiare nello spreco enorme di tutte le risorse possibili, da quelle umane a quelle naturali, con un ritmo (da distinguere dal volume complessivo) perfino superiore a quello del capitalismo, per il quale contribuisce positivamente al saggio del profitto il risparmio di tempo di lavoro, ma anche - secondo le circostanze - il risparmio di materia e di energia.
Arsenali nucleari e cambiamenti climatici globali hanno questo in comune: sono il risultato della razionalità tecnologica e scientifica applicata in un tipo di società complessivamente irrazionale, cioè non finalizzata a soddisfare consapevolmente i bisogni della maggioranza della popolazione e a mantenere un equilibrio nel rapporto fra società e natura.
Tecnologia come causa materiale, classi capitalistiche e caste politiche come causa efficiente, riproduzione dei rapporti e delle istituzioni di potere economico e politico come causa finale: è così che le forze di produzione si sono convertite in forze di distruzione.
Per quanto siano forme sociali distinte, capitalismo e pseudosocialismo hanno anche questo in comune: la riproduzione dei rapporti di potere - concentrati nello Stato e nelle imprese - attuata mediante il «libero» mercato o la pianificazione statale, nega la possibilità del controllo sociale sulle dinamiche politiche ed economiche. In modi diversi negano la possibilità dell’autogestione consapevole della società su tutte le scale. In questo senso condannano l’umanità a vivere in una sorta di preistoria.
Le considerazioni precedenti si pongono a un alto livello di generalità, ma sono pure necessarie per prendere coscienza del salto qualitativo nella storia umana realizzatosi nel corso del XX secolo. Sono anche ragioni sufficienti per concludere che il controllo e il rovesciamento delle due transizioni richiede il rigetto delle due forme sociali che le hanno prodotte: il capitalismo e lo pseudosocialismo totalitario.
2) Paradossalmente, l’avvento dell’era atomica e il progressivo intensificarsi dei processi risultanti nel cambiamento climatico globale coincidono con la creazione di un insieme di istituzioni multilaterali e, col tempo, di accordi internazionali regionali di varia natura: le Nazioni Unite e le sue varie agenzie, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Comunità economica europea, la Nato, il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), il Patto di Varsavia, l’Asean e via elencando.
Mai come nel secondo dopoguerra la società internazionale è stata così ampiamente strutturata e istituzionalizzata. E, altro fatto paradossale, mai come nel secondo dopoguerra la società internazionale ha negato la legittimità della guerra come mezzo per risolvere le controversie fra gli Stati e affermato il diritto dei popoli e degli individui all’eguaglianza, alla libertà, all’autodeterminazione e perfino a taluni diritti economico-sociali.
Ciò mentre i missili nucleari, le alleanze militari e le dinamiche del potere economico limitavano fortemente - lì dove esistevano (vale a dire in una piccola parte del mondo) - l’ampiezza e le possibilità dell’esercizio dei diritti democratici e della sovranità del popolo.
In questi paradossi si manifesta la contraddittorietà delle forme sociali della modernità: promessa di progresso e liberazione, ma allo stesso tempo intensificazione dei rischi e dei problemi su scala globale.
Il fatto è che la vera globalizzazione non è economica né politica, ma dei rischi e dei problemi. Mentre l’incorporazione dell’arma nucleare nei missili, lo sviluppo del capitalismo e l’industrializzazione degli pseudosocialismi totalitari producevano rischi e problemi globali per tutta l’umanità, gli istituti del potere sono rimasti particolari e nazionali, sia pure con un raggio d’azione che travalica i confini territoriali e con fitti rapporti diplomatici.
La forma e la dinamica della società mondiale non sono statiche, ma continuano a reggersi sulla riproduzione delle differenze nei livelli di sviluppo socioeconomico e della potenza economica e politica. Mentre cresce l’interdipendenza, si riproduce la diseguaglianza sociale e si complicano le sue forme.
Se ne deduce che la risposta ai rischi e ai problemi globali non può darsi al livello nazionale. O meglio, lo Stato territoriale costituisce l’àmbito in cui l’azione politica inizia un processo di cambiamento - rovesciando le istituzioni del potere - che può però realizzare pienamente e stabilmente i propri obiettivi soltanto su scale superiori: regionali, continentali e mondiale.
3) Consideriamo la cupidigia e la paura menzionate da Savio.
Nel nostro tempo, la paura e l’insicurezza sono forze potenti in cui si fondono più timori: la precarietà del lavoro e della disoccupazione, il futuro dei figli, il mutuo, l’immigrato e il terrorismo. L’insicurezza e la paura dell’immigrato manifestate da tanti cittadini europei sono il risultato di precise politiche economiche e sociali europee, articolate nei diversi Stati dell’Unione e della zona euro. La paura dell’immigrato equivale alla definizione di capro espiatorio, a un falso bersaglio.
Le politiche regionali e nazionali, a loro volta, si inscrivono in una determinata configurazione strutturale degli squilibri macroeconomici secondo cui, schematicamente, gli Stati Uniti sono il polo della domanda mondiale e Germania, Cina e Giappone i poli dell’offerta mondiale. La precarietà dell’occupazione in Europa è dunque il risultato sia di una struttura che di decisioni (e non-decisioni) politiche. Ed è questa precarietà, mossa dalla cupidigia, che alimenta a sua volta la paura dell’immigrazione.
Come si può risolvere, restando sul piano nazionale, un doppio problema che risulta sia da una struttura dell’economia mondiale, sia da politiche e istituzioni che operano su una scala regionale quasi continentale?
La risposta è che il doppio problema non si può risolvere se non sulla scala appropriata, cioè quella regionale. Pensare che si possa risolvere su scala nazionale è velleitario e si presta facilmente a una vera e propria regressione reazionaria: che è appunto quanto avviene in buona parte dell’opinione pubblica continentale.
Se il doppio problema della paura dell’immigrato e della cupidigia che produce la precarietà non si può risolvere su scala nazionale, è su questa scala che si può iniziare ad affrontarlo. Tuttavia, non in un’ottica nazionalista e mettendo il carro davanti ai buoi, cioè non rivendicando l’uscita dall’Unione europea e dalla zona euro.
Si inizia ad affrontare con lotte parziali e settoriali, con movimenti difensivi, ma che con la loro unificazione inizino a cambiare i rapporti di forza con il potere economico e politico nazionale. Solo allora si può porre la questione del governo nazionale e del rapporto con gli altri governi dell’Ue e della zona euro, benché a dire il vero non si capisce quali partiti potrebbero governare in modo credibile secondo una prospettiva opposta a quella corrente, neoliberista oppure socialiberista di «terza via»: abbiamo visto pochi anni fa l’esempio di Syriza e del governo Tsipras, ultima tomba dei partiti di sinistra europei.
Oltre ad essere ridicolo porre l’obiettivo dell’uscita dall’Unione europea e dalla zona euro quando non si è neanche in grado di condurre lotte difensive né si dispone di un soggetto politico che possa governare (il carro davanti ai buoi di cui sopra), qualsiasi movimento sociale e qualsiasi governo che intenda seriamente combattere cupidigia e paura deve potersi rapportare ad altri movimenti e possibilmente ad altri governi in Europa.
In altri termini, problemi come quelli della precarietà e dell’immigrazione non possono essere risolti effettivamente se non su scala continentale. Ciò per cui occorre battersi non è la distruzione dell’Unione europea e dell’unità monetaria. Il fatto è che a questa mancano un bilancio e una politica economica e sociale comuni, orientati a soddisfare i bisogni della cittadinanza invece che quelli della competitività fra gli Stati della regione e nel mondo. In altre parole: occorre battersi per gli Stati Uniti d’Europa.
Un processo che deve essere pensato come conflittuale e diseguale, e il cui risultato dipende molto dal non chiudersi a priori in una presunta indipendenza nazionale. Dovunque il processo inizi, occorre fungere da stimolo per tutti i lavoratori e i cittadini europei affinché i movimenti convergano sugli obiettivi fondamentali. Se ciò avvenisse, obiettivamente si metterebbero in discussione anche i pilastri del potere economico e politico del capitalismo e dell’imperialismo degli Stati europei: gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili nel quadro dei diversi capitalismi e imperialismi europei.
E ciò è tanto più necessario per i motivi che seguono: primo, la precarietà non è risultato né della tecnologia né dell’immigrazione come tali, ma di politiche che non hanno l’occupazione come obiettivo; e, secondo, perché a sua volta l’immigrazione extracomunitaria non è solo il risultato della crescita demografica dei Paesi sottosviluppati - che pure è un problema - ma anche della loro povertà.
«Aiutarli a casa loro» non è un’idea sbagliata, ma suona del tutto ipocrita e impotente quando ciò non si traduca in modi diversi dallo sfruttamento imperialistico di persone e risorse naturali.
4) Quanto precede evidentemente non è cosa all’ordine del giorno, ma a me pare molto più realistico di linee alternative chiuse nello Stato nazionale che concepiscono l’internazionalismo come mera somma di movimenti nazionali. Quest’ultima è una prospettiva da tempo superata dallo sviluppo del capitalismo e perfino delle sue assai imperfette istituzioni internazionali: porsi al di sotto del livello storico raggiunto dall’avversario significa votarsi all’impotenza - o peggio, contribuire alla diffusione di una mentalità reazionaria.
Se e quando in futuro si verificherà qualcosa che si avvicini al sincronismo dei movimenti sorti a cavaliere degli anni ‘60 e ’70, sarà anche messa alla prova la possibilità degli Stati Uniti d’Europa. Eventualità che nessuno può prevedere e men che mai determinare, ma che considero probabile proprio perché l’interdipendenza è oggi più forte che mezzo secolo fa.
Non deve stupire che questo non si sia verificato nel bel mezzo della crisi finanziaria del 2008, nonostante la sua gravità. O forse anche per questo: è noto - salvo nelle menti che vogliono illudersi - che non esiste correlazione automatica fra crisi economica e grandi movimenti sociali progressisti. La crescita della disoccupazione non favorisce la mobilitazione, men che mai quando la serie di sconfitte è lunga.
Tuttavia, qui non interessa un discorso sociologico su condizioni e dinamica della mobilitazione dei lavoratori, che può divenire un alibi fatalistico. Il nocciolo del problema storico della passività dei cittadini europei segnalata da Roberto Savio è parte di un problema più grande.
Sappiamo già quanto il sistema sia forte e quali siano le sue capacità destrutturanti e ristrutturanti - che storicamente passano attraverso crisi e catastrofi - per quanto concerne sia i rapporti socioeconomici che politici. Non mi soffermo sulle ragioni e la dinamica della postdemocrazia e della società dello spettacolo, e nemmeno sull’effetto atomizzante che possono avere i social networks.
5) In conclusione, mi interessa puntare il dito su un altro problema: quello della soggettività di quel che si dice «sinistra» in Europa. Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, la sinistra ha subìto una regressione colossale, di cui l’Italia è un caso esemplare e acuto proprio perché un tempo, fra i Paesi a capitalismo avanzato, vantava la sinistra più consistente, sia parlamentare (Pci, Psi e Psiup) che extraparlamentare (i vari gruppi della nuova sinistra). Ebbene, il problema di questa sinistra non è solo e forse nemmeno tanto d’essere stata travolta dal generale arretramento dei rapporti di forza tra le classi. Non si può dire che la sinistra sia stata sconfitta per aver ingaggiato una battaglia risolutiva: sicuramente non il Pci, che con Berlinguer scelse l’«unità nazionale», proteggendo così il regime democristiano nel momento della sua crisi e ponendo le basi per la controffensiva che il padronato avrebbe poi gestito in proprio. Il problema fondamentale della sinistra italiana - e in generale della sinistra europea - è la sua degenerazione e corruzione interna, corruzione da intendersi innanzitutto come fatto ideale e politico.
A questo proposito, a volte mi vien da pensare che siamo regrediti alla fine del XIX secolo e che l’orizzonte politico di questa sinistra è segnato a destra dal riformismo di Bernstein - ben disposto a collaborare con la borghesia liberale - e a sinistra dal gradualismo parlamentare di Kautsky - il custode della purezza politica e teorica della presunta ortodossia marxista che attende la maturazione del socialismo, nel frattempo iniettando dall’esterno dosi di coscienza di classe nel proletariato. Ma si tratta di un errore, un eccesso di ottimismo. Se esistessero un centro e una destra socialdemocratica, allora potremmo forse avere anche una sinistra della socialdemocrazia: non solo Bernstein e Kautsky, ma anche Rosa Luxemburg, Trotsky, Lenin e tanti altri. Invece non è così. Il tempo non è passato senza danni irreversibili: quelli che sarebbero oggi gli eredi di Bernstein e di Kautsky sono anche il risultato del terrore di massa, delle purghe e della rovina politica e ideale dello stalinismo.
Su questa linea di pensiero mi sovviene un passaggio di Marx, pur in tutt’altro contesto. Lo trovo suggestivo e adeguato, sia per quel che riguarda la soggettività della sinistra europea che per la condizione dei Paesi ex «socialisti», in particolare Cina e Russia:
«Oltre le miserie moderne, ci opprime tutta una serie di miserie ereditarie, che sorgono dal vegetare di modi di produzione antiquati e sorpassati, che ci sono trasmessi col loro corteggio di rapporti sociali e politici anacronistici. Le nostre sofferenze vengono non solo dai vivi, ma anche dai morti. Le mort saisit le vif! [Il morto fa presa sul vivo]» (Prefazione alla I edizione de Il Capitale, 25 luglio 1867).
Si può dire che l’ideologia, che per la sinistra europea era motivo di alterigia davanti ai compagni del resto del mondo, è diventata oppure si è rivelata essere un peso morto, o meglio una sorta di non-morto che continua a divorare il vivo. Direi che oggi il centro esistenziale di qualcosa che possa dirsi sinistra si è spostato verso il Nuovo Mondo: in senso più politico nell’America latina, in senso più intellettuale negli Stati Uniti. Non mi sorprenderei se, come in passato, proprio dagli Usa arrivasse una gradita sorpresa.
Sia come sia, combattere il non-morto è una delle nostre priorità.