In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi
aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del
fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo
contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di
democrazia radicale, indicata nel titolo.
Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio,
specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si
vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più
del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi,
è la prospettiva
d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro.
Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal
professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi
libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello
del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i
problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità.
La coerenza tra mezzi e fine e la politica come
professione
Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura
etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non
coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268). Certamente questo non
è il principio sufficiente per costruire una prospettiva anticapitalista ma,
altrettanto certamente, esso è il principio basilare e imprescindibile da cui muovere nella direzione
giusta. Se applicato con coraggio e rigore all’intero spettro della pratica
politica, della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica, le sue
conseguenze sono enormi, si susseguono a cascata.
Innanzitutto, applicandolo nel campo della politica che
aspira a rivoluzionare il mondo, il criterio della congruenza tra mezzi e fine
si può formulare in questo modo, assai noto ma concretamente negato, sia nella
realtà istituzionale e sociale degli Stati sedicenti socialisti sia nella
prassi dei partiti di sinistra nei paesi capitalistici: che la liberazione
degli oppressi può essere opera solo degli stessi oppressi, sia nel processo di
rivoluzionamento della società capitalistica sia in quello di costruzione di un
nuovo ordine sociale. Ne consegue che nessun apparato e nessuna forma di
rappresentanza possono sostituirsi all’azione e all’auto-organizzazione delle classi
dominate e delle categorie sociali impegnate in questi processi, di rottura e
di costruzione. Essi sono distinti ma concatenati: non si tratta solo della
successione temporale ma del fatto che la forma e la strutturazione che, fin
dall’inizio, assume il movimento di liberazione sociale influisce sull’esito
finale.
Concordiamo dunque sul fatto che la tragedia del
socialismo è stata l’identificazione della socializzazione con la
statalizzazione e del partito con la classe, a sua volta omogeneizzata e mitizzata.
Quelle fatali identità erano foriere dell’inversione tra mezzi e fine e dello
snaturamento dei contenuti stessi del fine. Da molto tempo la parola comunismo
può generare equivoci tremendi, al punto che è legittimo chiedersi quanto il
nome sia ancora adeguato alla cosa, sia pur dai contorni sfumati, che si
intende designare. E ciò essenzialmente per responsabilità degli stessi
comunisti, non del nemico, come gli ingenui o i nostalgici possono credere.
Tuttavia, a differenza di Bernocchi, non ritengo che Marx
abbia responsabilità teorica per questa tragedia (altro potrebbe essere il
discorso circa la responsabilità, sua ma non solo, della scissione della Prima
internazionale tra le anime dette bakunista e marxista, che fu ed è tuttora
nefasta nei suoi effetti). Nella critica dell’economia politica Marx fece
benissimo a trattare teoricamente l’insieme dei proletari e l’insieme dei
capitalisti come aggregati macroeconomici; d’altra parte, nelle sue analisi di
situazioni concrete (ad esempio ne Le lotte di classe in Francia e nel 18 Brumaio) mostrò notevole capacità di
differenziare le diverse correnti politiche borghesi e di cogliere i limiti
d’azione e di coscienza delle classi dominate. La questione cruciale non è
tanto quella dei limiti e delle oscillazioni del pensiero di Marx, che ci sono,
ma della formazione e diffusione, nell’ultimo quarto del XIX secolo, di una
originale rielaborazione del suo pensiero, che passò per ortodossia e che ebbe
per «papa» Karl Kautsky. Questo processo di costruzione ideologica deve spiegarsi con le concrete
circostanze e i modi in cui vennero costruiti e funzionarono i partiti e i
sindacati operai a cavaliere dei secoli XIX e XX e, in termini più generali,
con il modo in cui le organizzazioni del movimento operaio non solo subirono (e
subiscono) i molteplici fattori di divisione e di integrazione delle classi
dominate nel sistema capitalistico, ma anche li interiorizzarono (e li
interiorizzano).
La dicotomica divisione del lavoro tra partito e sindacato
e l’assunzione che lo Stato, democratico-borghese o socialista, possa incarnare
un presunto interesse generale della società (o dei lavoratori), altro non sono
che la cristallizzazione nel movimento operaio della capitalistica
differenziazione tra le sfere della politica e dell’economia. Quanto alla tesi
che il socialismo consista essenzialmente nella statalizzazione dei mezzi di
produzione, essa non è altro che l’opposto speculare della forma sociale
capitalistica. Con l’aggravante, però, che se nella seconda il potere economico
sopra i lavoratori è frammentato, nel socialismo di Stato esso viene
concentrato e moltiplicato in modo totalitario. Ai due punti precedenti è poi
connessa la tesi della superiorità del partito sull’organizzazione autonoma del
movimento sociale, la cui forma estrema ma logica è la dittatura del partito
unico sulla classe.
Il punto cruciale è la genesi e la riproduzione allargata di un ceto sociale di
professionisti della politica (in senso ampio, comprendendovi i funzionari
sindacali): che non è da intendersi moralisticamente come una malattia
degenerativa o come un tradimento personale e ideologico, bensì come fatto
socialmente determinato. I pericoli intrinseci alla forma-partito socialista,
al professionismo politico e sindacale, alla separazione tra compiti e istituti
della lotta politica e della lotta economica, erano stati razionalmente
previsti fin dall’inizio del Novecento, sia nell’ambito della sociologia
accademica, da Max Weber e da Robert Michels, sia dal giovane Trotsky e da Rosa
Luxemburg, e, ovviamente, dell’anarchismo. In sintesi, si tratta del fenomeno
sociale della burocratizzazione (qualcosa di diverso dal mero vendersi al
padrone). Se Weber e Michels interpretarono la fenomenologia del burocratismo
(come prassi) e della burocrazia (come determinato gruppo sociale) degli
istituti operai come un destino o una legge della modernità, Luxemburg ne
individuò la causa nella tensione obiettiva, da una parte, tra la tendenza dei
partiti e dei sindacati socialisti a costruirsi un seguito di massa operando
come organi di riforma del capitalismo, così anteponendo, per dirla alla
Bernstein, il «movimento» al fine; e, dall’altra, nella fedeltà dogmatica al
fine che tende, però, a farne delle sette. Da qui la divaricazione tra la
retorica, i simboli, i riti e i miti, che richiamano l’alta finalità in modi
anche ossessivi e intolleranti, e una pratica reale che con quel fine non ha
più alcun vivo rapporto, essendo il secondo confinato alla definizione di
un’identità ideologica che, col tempo, sarà progressivamente erosa, infine
svuotata di senso dagli accomodamenti nel sistema.
Operativamente, la divaricazione tra il fine e i modi
della pratica si sostanzia nel timore e nell’arginamento della spontaneità,
ovvero di quei processi di mobilitazione sociale di massa che si radicalizzano
politicamente nell’esperienza concreta della lotta. Quel che più teme la
burocrazia è l’organizzazione della conflittualità sociale in organismi
indipendenti, che non costituiscono emanazioni o cinghie di trasmissione della
linea del partito. Ciò perché finalità sociale della burocrazia è sempre la
salvaguardia e l’espansione del potere dell’apparato nei confronti dei semplici
membri del partito e del sindacato, la conquista di una posizione nelle
istituzioni e l’acquisizione, per questa via, di uno stabile status sociale.
Per questo essa deve sostituire la propria rappresentanza e la propria organizzazione, come
mediatrice dei rapporti tra le classi e tra la classe dominata e lo Stato, alla
radicalizzazione politica e all’auto-organizzazione dei movimenti sociali. La
burocrazia è congenitamente avversa al rischio, sempre presente
nell’intensificazione della lotta, puntando invece a ciò che, con falso
realismo e vero conservatorismo, essa definisce come «obiettivamente possibile»
o il meno peggio. Così la sinistra ha precostituito le condizioni per disastri
politici, essendo il nemico di classe abbastanza flessibile da usare la
burocrazia social-comunista per neutralizzare le spinte sociali radicali, ma
non altrettanto timida e codarda quando giunge il momento di sferrare il colpo
decisivo; inoltre, la vocazione statalista della burocrazia comporta che essa
sia, in effetti, sempre profondamente nazionalista nei suoi orizzonti.
La specificità della burocrazia e la questione del capitalismo
di Stato
È bene ricordare che sia Luxemburg che il giovane Trotsky
denunciarono al suo nascere le implicazioni autoritarie e sostituzioniste della
concezione leniniana del partito, non a caso un adattamento «rivoluzionario» al
quadro autocratico dell’Impero russo dell’idea kautskiana del partito-guida
della classe (curioso che quel che è considerato più caratteristico del
leninismo sia eredità del centrista archetipico). La polemica anti-leniniana di
Luxemburg era coerente con la complessiva battaglia antiburocratica che
condusse incessantemente fino alla morte; e quella di Trotsky era quasi
contemporanea all’elaborazione degli argomenti che anticipavano la dinamica
rivoluzionaria del 1917: un complesso di temi strettamente connessi che forma
picchi altissimi, forse i più alti, del pensiero rivoluzionario del XX secolo.
Restare ancora al di sotto di quelle elaborazioni all’inizio del XXI secolo è
assurdo, irrazionale.
Condivido dunque pienamente la critica del professionismo
politico e dello statalismo, ma se considero la burocrazia «socialista» un
nemico, a differenza di Bernocchi non ritengo però che il problema
interpretativo che essa pone si risolva identificandola con una borghesia
dominante in società caratterizzabili come capitalismo di Stato.
Innanzitutto
perché, se il capitale di Stato non è solo possibilità logica ma ricorrente realtà
concreta, in alcuni paesi molto estesa (almeno fino agli ultimi decenni del
secolo scorso), un’intera economia capitalistica statalizzata, in tutte le sue branche e in
tutte le sue scale, mi sembra invece una impossibilità storica. Con Pierre
Naville si può dire che nei cosiddetti socialismi esistano scambi di valore e
sfruttamento del lavoro salariato (quindi con estrazione di plusvalore);
tuttavia, la logica della riproduzione allargata e della distribuzione delle
risorse in queste formazioni sociali è retta da regole obiettive diverse da
quelle esistenti nel capitalismo. L’irrazionalità macroeconomica e
microeconomica dei socialismi di Stato è enorme, ma essa si manifesta in modi e
forme diverse da quelle capitalistiche, essendo determinate dai meccanismi di
comando, amministrazione e competizione all’interno di una gerarchia
strutturata per via politica, dentro e attraverso il partito-Stato. A mia
conoscenza, la più ricca trattazione storica del rapporto di lavoro salariale
In Unione sovietica e delle sue contraddizioni, micro e macroeconomiche, è in
due splendidi lavori di Donald Filtzer, che coprono gli anni dal 1953 al 1991 (Soviet
workers and de-stalinization e Soviet workers and the
collapse of perestroika, Cambridge University Press, 1992 e 1994).
Quel che accomuna la storia dei partiti socialdemocratici
e comunisti (o, meglio, di matrice staliniana) è l’integrazione nei sistemi
partitici e statali, sia pur con tempi e in modi differenti. Con Bernocchi son
dunque d’accordo sul risultato finale. Tuttavia, considerare solo il risultato
finale non spiega il percorso della burocratizzazione né attrezza adeguatamente
a comprendere il modus operandi della burocrazia, le ragioni della sua egemonia sui
lavoratori, oppure la tragicommedia della sinistra italiana post-Pci,
Rifondazione, Pdci e Verdi.
Il punto è che la burocrazia partitica e sindacale di
sinistra, almeno fino a quando si muove nel solco ideologico dell’originale
matrice nel movimento operaio, presenta una caratteristica doppiezza. I suoi margini operativi si
collocano tra il fine ideologico indicato come socialismo, da realizzare in un
futuro indeterminato, e la concreta azione nel presente di mediazione fra le
classi antagonistiche, il cui orizzonte è costituito dalla riforma del
capitalismo e da un qualche genere di «democrazia progressiva» o «partecipata»,
di cui è parte integrante l’accesso di detta burocrazia ai governi nazionali e
locali dello Stato capitalistico. È la capacità di mantenere questa doppiezza
che fonda la credibilità della burocrazia di fronte ai lavoratori e che ne
permette l’egemonia sui movimenti di lotta, la riproduzione di un senso
d’appartenenza e di un serbatoio di voti.
Ed è questa stessa doppiezza che spiega le oscillazioni
circa la tattica tra componenti burocratiche «movimentistiche» e «di sinistra»
e quelle più disposte al compromesso immediato e di basso profilo, o la
differenziazione tra i presunti puristi della tradizione ideologica e i
«revisionisti». Un’analisi approfondita dovrebbe distinguere paesi, momenti
storici e partiti; ma, fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, perfino i
partiti socialdemocratici erano diversi tra loro.
Se si tiene conto di questo, credo si possa meglio
apprezzare in tutta la sua portata storica il fallimento politico del
riformismo socialista, rispetto ai fini da esso postulati, e della logica del
meno peggio. E, viceversa, si può meglio valutare la mutazione dei partiti di
sinistra realizzatasi nelle ultime due decadi del secolo scorso: l’assunzione
definitiva, generale e integrale del capitalismo come orizzonte politico, la
rinuncia alla sua riforma e a difendere anche gli interessi minimi dei
salariati, consapevolmente subordinati alla competitività e all’accumulazione
del capitale, la loro completa statalizzazione e il deciso prevalere delle
funzioni di governo rispetto a quella della rappresentanza, sia pur limitata,
di interessi sociali (con i corollari della impossibilità di esistere senza il
finanziamento pubblico e della diffusione della corruzione). È questa
mutazione, la convergenza tra partiti di matrice operaia e gli altri, che, a
mio parere, costituisce il passaggio decisivo verso regimi politici
postdemocratici. Che non sono imposizione dall’estero, da centri di potere
transnazionali, ma risultato di una lunga storia, in cui le specificità
nazionali si sono combinate con l’interdipendenza continentale e con la
riconfigurazione dell’economia mondiale, sfociando nella costruzione di una
struttura istituzionale internazionale europea, fin dall’inizio concepita in
modo non democratico (si veda a proposito The new
old world di Perry Anderson, Verso, London
2011); questa, a sua volta, rafforza e promuove la postdemocrazia.
Da questo punto di vista, proprio per quella che era la
forza del Pci e della Cgil, l’Italia è un caso esemplare: dell’avvento della
postdemocrazia il Pci, i suoi mutanti e la Cgil sono stati protagonisti
determinanti.
Rompere radicalmente, anche psicologicamente, con
l’eredità dei sedicenti socialismi reali
Per chi si dice comunista, la cartina di tornasole
rivelatrice dell’assimilazione o meno del principio secondo cui i mezzi devono
essere adeguati al fine è, a mio parere, questa: si è in grado o no di trarre
le logiche conclusioni dal fatto che nel solo biennio del Grande terrore il
regime staliniano massacrò almeno 780 mila persone, a cui si devono aggiungere
le deportazioni, i morti, le sofferenze e il lavoro schiavistico di milioni di
esseri umani imprigionati nell’arcipelago Gulag, esempio macroscopico di regressione storica e di civiltà? Si è
disposti o no ad ammettere, psicologicamente e intellettualmente, e a indagarne
fino in fondo le ragioni, che, fino allo scatenamento della logica genocida del
nazismo durante la guerra, nessuno massacrò i suoi concittadini più di Stalin,
neanche Hitler?
Ritengo che le rispettive radici dello stalinismo e del
nazismo affondassero in processi storici molto diversi, che gli orrori dello
stalinismo furono figli degeneri di una rivoluzione sociale e non di una
società capitalistica in una particolare situazione storica, come invece il
fascismo e il nazismo. Si può, si deve discutere, della genesi e del
funzionamento del sistema sovietico; si deve discutere se i socialismi reali
fossero una forma di capitalismo di Stato, di collettivismo burocratico, di
Stato operaio degenerato, o un qualche tipo di formazione sociale nuova e
instabile ecc. Tuttavia, la vera linea di demarcazione è di natura
etico-politica. Occorre essere assolutamente limpidi e radicali nel giudizio,
riconoscere lo stalinismo e le sue varianti (tra cui il maoismo) per quello che
furono o per quel che ancora oggi sono: dei nemici della liberazione
dell’umanità dallo sfruttamento e dall’oppressione, diversi dal capitalismo (per chi scrive) ma almeno pari
al capitalismo nelle sue peggiori e oppressive espressioni politiche. È chiaro che un giudizio così
severo si estende oltre i periodi più drammatici di ingegneria sociale e le
personalità feroci, investe l’intera storia dello Stato detto socialista in
tutti i campi, richiede la ricerca critica anche intorno ai suoi tempi
«eroici», non permette illusioni sulla riformabilità di questo genere di potere
statale (si ricordino le illusioni su Gorbaciov) né nostalgici piagnistei sulla
sua ingloriosa autodistruzione (le cui linee fondamentali, errate solo nei
tempi, erano state previste da Trotsky mezzo secolo prima). Altra cosa è la
lotta contro gli effetti della restaurazione del capitalismo (o del capitalismo
nella sua forma «occidentale»).
Sul lungo periodo, a poco vale denunciare le nefandezze
dell’imperialismo e nulla vale compilare libri neri del capitalismo se non si è
capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti
socialismi reali. Il negazionismo o anche solo la
sottovalutazione degli orrori sovietici o della Cina maoista (e di altri
«socialismi») sono intollerabili ed è del tutto inaccettabile l’argomento,
giustamente criticato da Bernocchi all’inizio del libro, per cui «non si può
gettar via il bambino insieme all’acqua sporca». No, il «bambino» va «gettato»
perché ha prodotto una montagna di escrementi che hanno sporcato, forse
irrimediabilmente, lo stesso termine comunismo.
Se non si riesce in questo, allora sarà ben difficile
procedere nel riesame razionale dei miti, dei metodi e degli orientamenti politici
che discendono dal cosiddetto comunismo novecentesco. Attraverso mutamenti
della forma e dl linguaggio essi sono ancora operanti.
Un esempio di cecità etica e strategica: la politica
internazionale dei socialismi reali e «l’unità della sinistra»
Una forma diffusa di giustificazionismo dei regimi dei
socialismi reali è l’assunzione, specie per l’Urss, che essi abbiano svolto una
funzione storicamente progressiva come validi contrappesi all’imperialismo
nell’arena geopolitica. Si finisce così col confondere la lotta contro
l’imperialismo e il militarismo capitalistici con il sostegno politico delle
caste dominanti dette socialiste (se non di dittature nazionaliste),
altrettanto militaristiche ed oppressive (per quanto non capaci, lor malgrado,
della stessa forza espansiva del capitalismo). La tesi può coesistere anche con
la presa di distanza dal regime staliniano o, almeno, dai suoi aspetti più
feroci. In questo caso siamo in presenza di una variante della più tradizionale
«teoria realistica» delle relazioni internazionali, per cui la politica interna
è separata da quella internazionale. Non è però così. Sia la politica interna
che quella internazionale di tutte le burocrazie sono soggette a tremende
inversioni ma, pur nelle oscillazioni, c’è una sostanziale solidarietà negli
orientamenti dentro e fuori i confini.
Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul
ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo
proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica
a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a
liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e
Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda
guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione
della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo
geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile
comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto
permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine
orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra
dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro
di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il
tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata
rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia
imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei
lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria,
Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo.
Questo è solo un esempio, ma storicamente e
psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la
politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha)
natura nazionalista e conservatrice. Essa ha sempre mirato a salvaguardare la riproduzione
della casta dominante, utilizzando a questo scopo le lotte di liberazione e il
sostegno a regimi nazionalisti (perfino anticomunisti in politica interna) come
pedine per contrattare i termini della coesistenza col capitalismo come sistema
mondiale e l’accordo con questo o quello Stato imperialista, si trattasse delle
potenze liberali, della Germania nazista, degli Stati Uniti d’America. E gli
«aiuti» internazionali sono sempre stati dei frutti avvelenati, come fu, ad
esempio, nei casi dei repubblicani in Spagna e di Cuba.
Se quel che precede non basta, faccio notare che la
costruzione e il mantenimento di arsenali nucleari è la forma estrema di
attentato all’esistenza dell’umanità: dunque, la sola minaccia del possibile
uso dell’arma nucleare contro i popoli dei paesi capitalistici avanzati è
sufficiente a far piazza pulita del sedicente internazionalismo proletario,
essendo la forma assoluta dell’inversione tra i mezzi e il fine (presunto) del
progresso dell’umanità. Karl Kautsky fu detto rinnegato per molto, ma molto
meno.
Sotto la formula dell’«unità della sinistra», della gauche
plurielle e
simili è ancor viva, in mutata forma e linguaggio, una diretta eredità della
politica estera staliniana, forse per i più inconsapevole ma pure molto concreta,
visto che continua a influire praticamente nella politica italiana (e non
solo): quella dei fronti uniti o popolari contro la destra, più o meno
fascista, connessa al mitico obiettivo della «unità della sinistra» per scopi
elettorali e governativi. Questa linea era ed è percepita come la versione
«buona» della politica (estera) sovietica, una svolta feconda dopo quella
settaria dei primissimi anni Trenta, che equiparava socialdemocrazia e fascismo
(e che agevolò l’ascesa del nazismo). Allora si trattava di cercare l’alleanza
con le potenze liberali per bilanciare il riarmo e l’espansione della Germania
nazista, fino all’improvviso ribaltone del 1939. Ebbene, il nocciolo del
frontismo non è l’espansione della lotta di classe intorno a specifici obiettivi
unificanti ma, al contrario, la subordinazione dei movimenti di lotta e della
volontà di cambiamento all’alleanza con i partiti e la borghesia
«progressisti», secondo la logica dei due tempi e, quindi, della rinuncia di
fatto a costruire una prospettiva anticapitalistica. Perché l’operazione vada a
buon fine occorre che la purezza del fine sia garantita da un riferimento
esterno (l’Urss, o altro caso esemplare), dai miti e dai riti della tradizione,
dal carisma del capo.
Una manifestazione di questa vecchia logica frontista
nella sinistra italiana è stata la trasformazione del berlusconismo in male
assoluto, passando sopra il fatto che, in tutti gli campi, il grosso
dell’innovazione cosiddetta neoliberista in Italia fu compiuta dal
centrosinistra, con cui la sinistra post-Pci ha collaborato per anni, al
livello del governo nazionale e dei governi regionali, e con cui una parte
ancora collabora mentre l’altra vorrebbe poter collaborare, se soltanto
l’interlocutore gli riconoscesse una qualche residua utilità e gli concedesse
la possibilità di far ricorso al solito linguaggio tortuoso e sconclusionato
pieno di aspettative, «percorsi condivisi», «senso di responsabilità», ponti
con la piazza, fumose promesse.
Concludo il punto dicendo che il riesame critico di quel
che furono le Internazionali (la Terza in particolare) e delle particolari
posizioni della politica estera sovietica e cinese può insegnare molto su quel
che non deve essere l’internazionalismo, sia nella forma organizzativa che nei
contenuti. È superata e improponibile l’idea di Internazionale come
super-partito che detta la linea a sezioni nazionali; al contrario, occorre
pensare a una Internazionale dei movimenti basata su un pochi, essenziali
principi anticapitalistici e antiburocratici, non centralistica (questo è il
senso che come Utopia rossa attribuiamo a una possibile Quinta internazionale).
Qualcosa che, nella forma, non è lontano dall’esperienza del Forum mondiale
altermondialista di cui discute Bernocchi nel libro; un caso la cui analisi andrebbe
approfondita ma che, comunque, è significativo di una tendenza al superamento
delle forme tradizionali dell’elaborazione e della prassi anticapitalistica.
Il bolscevismo, la forma partito e lo statalismo
Da quanto precede si può intendere la ragione dell’accordo
di fondo con la critica che Bernocchi rivolge alla filosofia della storia
centrata sul mito del Proletariato quale soggetto omogeneo, teologicamente destinato alla missione di redimere
l’umanità eppure e nello stesso tempo destinatario della missione evangelizzatrice e
di guida spirituale del Partito.
Infatti, se la riduzione a unità della complessità,
segmentazione e contraddittorietà della classe dei salariati costituisce una
figura mitologica, essa si risolve nel concreto nella pretesa del Partito di
essere riconosciuto dai credenti come l’imprescindibile mediatore della
Rivelazione, l’unico legittimo titolare della Fede e della sua mondana
amministrazione. Sicché la moderna incarnazione dello Spirito esercita le sue
funzioni ecclesiastico-statali in nome e per conto del Proletariato, novello
gregge, e se necessario, come sempre è, sopra di esso.
Il referente della parabola è evidentemente il
bolscevismo. Penso che tra il bolscevismo al potere nei primi anni sovietici e
il regime staliniano esista una differenza di qualità; tuttavia, non si può
affatto ricondurre la spiegazione dello stalinismo, come nella dogmatica
trotskista, alle condizioni sociali e all’isolamento internazionale della
rivoluzione russa. Conosco bene l’argomento, avendolo condiviso per alcuni
anni, e al quale riconosco parte della verità. Parte, ma non tutta la verità né
la parte decisiva per l’orientamento politico e ideale. Non a caso, il
riferimento alle condizioni obiettive può essere ripreso da alcuni nostalgici della
vecchia Urss e di Togliatti, perché esso può alimentare un certo senso di
inevitabilità dello stalinismo che arriva a confondersi con il
giustificazionismo. Quel che difetta a questa prospettiva (e che indebolì la
posizione di Trotsky, che pure nei confronti di Stalin ebbe ragione su tutto) è
proprio il coraggio di riconoscere, in tutto il suo rilievo, una logica latente
nel bolscevismo quale forma estrema di esaltazione della funzione dirigente del
partito.
Storiograficamente si tratta di individuare quelle scelte soggettive fatte dal bolscevismo
al potere che in nome della salvezza della rivoluzione iniziarono a storpiarla
dall’interno, contribuendo a consolidare il burocratismo come prassi e un
gruppo sociale dominante, la burocrazia che gestiva il partito e il nuovo
Stato; e non mi riferisco solo a quelle decisioni prese durante la guerra
civile, ma anche alla subordinazione dei comitati di fabbrica al nuovo
Consiglio supremo dell’economia nazionale (il Vesencha), alla logica
centralizzatrice, dall’alto sopra il basso, affermatasi tra il dicembre 1917 e
i primi mesi del 1918 (su questo si veda Le teorie
dell'autogestione di Roberto Massari, Jaca
Book, Milano, 1974). Idealmente e politicamente si tratta di assimilare
fino in fondo la lezione per cui non tutti i mezzi sono coerenti col fine, che
nulla può giustificare la sostituzione del partito e dello Stato all’esperienza
e alla gestione dal basso.
In definitiva, allo scadere del secolo la lezione che
viene dalla storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (e dei sindacati
collegati), nonché dei regimi detti socialisti, è che i partiti sono l’ambiente
in cui si sviluppa il burocratismo e si forma e si esercita il potere della
burocrazia come ceto sociale di professionisti della politica. Il potere della
burocrazia «socialista» e sindacale nasce fuori dello Stato, in forza della sua
posizione organizzatrice e ideologica nei confronti delle classi dominate; ma
proprio perché apparato distinto da queste classi e con interessi propri, esso
tende irresistibilmente ad accrescere il proprio potere e a consolidare ed
estendere i propri privilegi facendosi Stato: totalitario, sulla base di una
rottura con il capitalismo, oppure integrandosi nel sistema politico dello
Stato capitalistico, sempre in nome e per conto dell’interesse dei
cittadini-lavoratori, sempre sopra le loro spalle e, purtroppo, anche sulla
loro pelle.
L’inevitabile conclusione è che la forma-partito sarà pure
una delle condizioni della democrazia, che comporta la piena libertà
d’organizzazione, ma è pure forma che opera per sostituire il proprio potere e
la propria rappresentanza (istituzionale e sindacale) all’organizzazione dal
basso; nei sistemi politici capitalistici la forma-partito opera perché la
dinamica dei movimenti rimanga entro parametri che garantiscano la
riproduzione, l’espansione e il successo istituzionale del ceto dei
professionisti o degli aspiranti tali quindi, in definitiva, per la
riproduzione dello Stato capitalistico. Quale che fosse l’ideologia o la
particolare conformazione organizzativa («leggera» o «pesante», «centralismo
democratico» o meno) la forma-partito è stata causa del rovesciamento del
rapporto tra mezzi e fine e della cristallizzazione organizzata di questa
inversione.
Occorre liberarsi del tutto dal feticismo del partito,
l’equivalente socialista del capitalistico feticismo della merce. Il feticismo
del partito è pure e logicamente associato al feticismo dello Stato, che è la
sua meta: che sia lo Stato della Costituzione liberaldemocratica o lo Stato detto
socialista o popolare, invariabilmente guidato a vita da un capo più o meno
grigio o carismatico.
Non è più questione di riformare la forma-partito, di
inventarsi nuovi aggettivi o articolazioni organizzative con la «società
civile» o i «movimenti». Questi tentativi d’ingegneria politica a tavolino si
rivelano sempre effimeri, deludenti, mistificazioni e operazioni di basso
cabotaggio la cui finalità è irrimediabilmente sempre la stessa: arrivare alle
prossime elezioni sperando di spuntare il maggior numero di eletti, già
politici di professione più o meno mescolati a sangue fresco che rinnovi
l’immagine del ceto nella società dello spettacolo.
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