Due romanzi di editoria distopica + uno
Stiamo forse vivendo nel pieno dell'editoria distopica immaginata da George Orwell (1984, del 1948), avendo saltato a piè pari quella descritta da Ray Bradbury (Fahrenheit 451, del 1951) - uno che nel potere evocativo-rivoluzionario dei libri deve crederci veramente?
È difficile rispondere, anche perché i bersagli dei due autori, in campo editoriale, appaiono molto diversi. Orwell era pienamente consapevole dei crimini dei quali lo stalinismo si era macchiato anche nei confronti della produzione libraria e non a caso Winston Smith, il suo eroe, agli inizi appare impegnato nel lavoro statale di falsificazione letteraria. (L'«arte» di falsificare le immagini e le foto dei libri da parte di tutti i regimi totalitari - prima che con l'avvento dei computer il compito diventasse ultrafacile - è stata ricostruita magistralmente da Alain Jaubert, Le Commissariat aux Archives. Les photos qui falsifient l'histoire, Barrault, Paris 1986.)
L'editoria totalitaria che l'autore inglese ci descrive è parte integrante del più ampio sistema totalitario della casta che in Oceania detiene il potere assoluto e che dei libri non ha più alcuna paura, ma anzi li utilizza cinicamente per i propri fini di conservazione del potere, cambiando il loro contenuto a seconda delle necessità. Da questo punto di vista, il racconto tanto irrealistico-distopico non è (o lo è solo in senso quantitativo), giacché lo stalinismo applicò effettivamente quei metodi per assicurarsi la gestione totalizzante del potere politico-culturale e per compiere ancor più indisturbato nell'arco di vari decenni i suoi crimini nei confronti dell'umanità (dei quali purtroppo ancora non si parla a sufficienza).
Se volessimo citare un esempio storico di editoria sistemica dominante che per un lungo periodo ha goduto dello stesso privilegio di monopolio editoriale totale di cui aveva goduto la Chiesa cattolica nel Medioevo, e poi in alcune epoche e luoghi con l'Inquisizione, nell'Urss staliniana troveremmo un modello perfetto, forse irripetibile nella sua totalitarietà.
Quindi, riprendendo il nostro discorso iniziale, l'editoria dello stalinismo sarebbe stata un caso concreto, storico, contro il quale si sarebbe dovuto combattere all'insegna dello slogan «contro l'editoria» tout court (integralmente), senza speranza di poterle contrapporre un'editoria «contro». Dagli anni '20 fino all'epoca di Chruščëv non fu possibile in Urss alcun tipo di produzione libraria che non fosse emanazione diretta del potere, portavoce smaccata delle sue menzogne, delle sue falsificazioni storiche e delle sue grossolane giustificazioni per gli evidenti fallimenti in campo economico, militare e politico. Chiunque avesse provato a scrivere contro quell'editoria o anche solo fosse stato sospettato di volerlo fare, veniva eliminato fisicamente, spesso insieme ai suoi cari, a loro volta possibilmente ignari delle intenzioni dissidenti del loro congiunto. Forse a un simile eccesso di crudeltà l'Inquisizione non era arrivata, nella sua lotta contro i libri «eretici», ma non è molto consolante star qui a conferire la palma della ferocia in campo editoriale. Ci basterebbe solo che l'umanità non dimenticasse mai i nomi dei due concorrenti, come invece accade comunemente.
L'autore di Fahrenheit 451 (Waukegan, Illinois 1920) si è formato invece negli anni della Grande Depressione e al momento di scrivere il suo capolavoro (inserito in una sua personale tradizione di science fiction) aveva davanti agli occhi più l'esplosione consumistica del dopoguerra che le limitazioni all'espansione della cultura che avevano caratterizzato gli anni della drammatica penuria prebellica (quando comunque, occorre riconoscerlo, il governo degli Usa non si era macchiato di gesti efferati, di roghi o gravi censure nei confronti dei libri).
Montag (l'eroe reso indimenticabile sullo schermo dall'attore Oskar Werner, guidato nel 1966 da Truffaut) «lavora» a sua volta nel settore librario: fa il pompiere incaricato di bruciare i libri, di bruciarli tutti e a prescindere dal loro contenuto, benché la finzione filmica (che avrà certamente avuto l'approvazione di Bradbury, anche se questi non scrisse la sceneggiatura) faccia intravedere alcuni titoli di libri noti, belli o significativi. Nel finale della vicenda, quando Bradbury abbandona la dimensione distopica e ci trasmette il suo messaggio utopico, emerge più chiaramente l'interpretazione che qui proponiamo e cioè che l'intento dell'autore è sostanzialmente anticonsumistico e anche un po' antimassmediologico, oltre o più che antitotalitario. La prova logica si deduce dalla lista di libri che vengono imparati a memoria e incarnati dai dissidenti sopravvissuti alle persecuzioni della compagnia dei pompieri al rovescio: sono tutti libri belli e arcinoti (opere di Platone, Marc'Aurelio, Swift, Darwin, Thoreau, Russell, i Vangeli ecc.), per nulla «eversivi» se non per il fatto di essere belli, frutto evidentemente di una selezione che ha fatto decidere Granger e la sua comunità di «uomini-libro» che quelli fossero i libri da salvare, in mezzo alle migliaia o milioni di libri che pure subivano la stessa sorte fantapoliticamente crudele.
Insomma, la selezione ragionata dei libri e il lusso che la società totalitaria si concedeva nel distruggere tonnellate di merci (senza tentare nemmeno di riciclarle… diremmo con coscienza ecologistica contemporanea) ci confermano nell'ipotesi che il bersaglio ultimo di Bradbury fossero la massificazione e banalizzazione del mercato editoriale, con l'eccesso di commercializzazione libraria che negli anni '50 si viveva già da qualche tempo negli Usa.
Nel Paese che appariva come il principale vincitore sulla barbarie del Secondo conflitto mondiale, la trasformazione consumistica di massa del circuito librario si era ormai compiuta e si andava rafforzando in forma esponenziale, al punto da rendere ormai globalmente inefficace l'azione culturale dei libri migliori e pressoché inutile la loro azione critica. L'autore ci vuol dire che la soluzione finale (distruttiva) per i libri - che nel romanzo viene compiuta da pompieri sui generis al servizio del potere dittatoriale - nelle società ad alto sviluppo economico e tecnologico si stava già realizzando con la massificazione commerciale della circolazione libraria. Un processo di generale immiserimento culturale, controllato dall'alto, che sarebbe andato a vantaggio esclusivo di un eventuale potere antidemocratico, fondato tra l'altro sul controllo onnipossente e totalitario del mercato editoriale: i pompieri che bruciano i libri ricordano evidentemente i «roghi» con i quali il potere assoluto della Chiesa medioevale e della Controriforma - in analogia con il nazismo e lo stalinismo - aveva affrontato la minaccia rappresentata dalla diffusione del libero pensiero e dalla formazione autonoma dell'individuo. Con la differenza che i sistemi totalitari hanno sempre operato una qualche selezione nel bruciare i libri, mentre nella società distopica di Bradbury vengono bruciati tutti, indipendentemente dal loro contenuto. Una chiara metafora per indicare la realtà ormai apparentemente inarrestabile della massificazione libraria nell'epoca della crescente spettacolarizzazione delle merci legate al mondo della comunicazione, i libri in primo luogo.
Una lettura puramente antitotalitaria non darebbe ragione della raffinatezza ideologica che a noi sembra molto presente nell'incubo romanzato vissuto da Montag, pur potendosi riscontrare nella finzione letteraria un concetto centrale di Hannah Arendt, quando afferma:
«Si è spesso affermato in passato che nei paesi totalitari la propaganda e il terrore sono le due facce di una stessa medaglia. Ciò è però vero solo in parte. Quando il regime detiene il controllo assoluto, sostituisce la propaganda con l'indottrinamento e impiega la violenza non tanto per spaventare la gente (cosa che fa soltanto nelle fasi iniziali, in presenza di un'opposizione politica), quanto per tradurre in realtà le sue dottrine ideologiche e le menzogne pratiche che ne derivano (…). Quando Stalin decideva di riscrivere la storia della Rivoluzione russa, la "propaganda" della nuova versione
consisteva nell'eliminare, insieme coi vecchi libri e documenti, i loro autori e lettori: la pubblicazione nel 1938 di una nuova storia ufficiale del Partito comunista fu il segno che la colossale purga, che aveva decimato un'intera generazione di intellettuali russi, era giunta alla fine» (Le origini del totalitarismo [1951], Comunità, Bologna 1967, pp. 471, 472).
Come dire che le necessità propagandistiche del potere totalitario (staliniano, in questo caso, ma anche il nazismo, soprattutto nella fase iniziale, e l'Inquisizione nei secoli passati) si esprimono con roghi - nemmeno tanto metaforici - non solo dei libri, ma anche degli autori e dei lettori; ciò avviene, però, nella fase di avvio, e nelle forme più o meno classiche della violenza poliziesca (compresa la Psicopolizia di Orwell), della repressione giudiziaria, della tortura ecc. solo per aprire la strada all'effettivo consolidamento della dittatura. Nel caso dello stalinismo, poi, all'orrore si aggiunse orrore anche perché tra le masse di potenziali dissidenti condotti allo sterminio per le loro idee o le loro letture, la maggioranza era composta da potenziali lettori di libri ormai introvabili perché eliminati da tempo: si colpiva cioè non un determinato comportamento effettivo (per quanto riprovevole fosse farlo), ma l'intenzione, la potenzialità di un qualche comportamento presumibilmente incompatibile con gli interessi del potere dittatoriale. S'invadeva, cioè, la sfera del desiderio, dell'immaginazione e del dialogo con se stessi.
Negli anni '50 Bradbury aveva davanti agli occhi un nuovo fenomeno nel campo della comunicazione che col tempo si sarebbe rivelato sempre più decisivo nel processo totalitario di trasformazione dell'umanità in succube massa di manovra: la diffusione del mezzo televisivo. Tenendo a mente questo aspetto fondamentale nella manipolazione delle coscienze - una possibilità tecnica di cui non aveva potuto disporre nessuna società in precedenza e che è in piena funzione nel nostro sistema attuale di teledipendenza indotta, globale e di massa - si potrà percepire più compiutamente il significato del segnale d'allarme da lui lanciato.
E si vedrà che esso riecheggiava a sua volta un messaggio analogo lanciato anni prima da Aldous Huxley in un altro capolavoro della letteratura distopica (Brave New World, del 1933) [che nell'edizione in preparazione da Massari editore (a cura di Roberto Cruciani) avrà finalmente il titolo tradotto correttamente in Prode mondo nuovo]. Anche Huxley, pur non attirando specificamente l'attenzione sul mondo dei libri, non trascura di segnalare il ruolo della massificazione culturale nel processo di asservimento conformistico - cioè di crescente condizionamento dall'alto e di «volontaria» omologazione dal basso - dell'uomo moderno (o postmoderno, mi permetto di aggiungere).
Tre livelli di controllo totalitario editorial-spettacolare
Possiamo riassumere per grosse linee i tre livelli della visione distopica nel processo di acquisizione di un controllo totalitario sui mezzi di comunicazione (di massa) - e quindi sull'editoria - adattando al mondo dei libri la terminologia usata da Debord ne La società dello spettacolo del 1967 e perfezionata nei Commentarii del 1984:
1) per il potere editorial-dittatoriale tradizionale (stalinismo, nazismo, Chiesa), metaforizzato in 1984 di Orwell, potremmo parlare di editorial-spettacolare concentrato;
2) per il livello indotto in campo librario dalla massificazione dei consumi (dal romanzo capostipite - Fahrenheit 451 - in poi), di editorial-spettacolare diffuso;
3) per il livello che attualmente viviamo, fondato sulla falsificazione «veritiera», il rovesciamento della realtà, la sua trasformazione virtuale, il condizionamento spettacolare degli individui grazie alle nuove tecniche di manipolazione delle immagini in campo televisivo, internautico ecc. (metaforizzato a partire da Brave New World fino a molte sezioni della science fiction più moderna), di editorial-spettacolare integrato.
Di questa triplice distinzione (limitatamente al campo d'indagine debordiano e senza applicarla specificamente al mondo editoriale) abbiamo già parlato nel nostro testo su Debord prima citato e a quello rinviamo per approfondimenti o chiarimenti terminologici.
Ovviamente i tre livelli possono convivere o si possono intersecare. Compreso il primo livello, che sopravvive ancora nella letteratura autoreferenziale delle sette, delle conventicole religiose o dei piccoli gruppi presuntamente «rivoluzionari», che tentano disperatamente di proiettare se stessi sul terzo livello, restando però invariabilmente ancorati e in forma caricaturale al modello editorial-spettacolare concentrato: quello che richiede una falsificazione della propria storia, il culto del capo, l'obbligo di consegnare il cervello all'ammasso da parte degli iscritti o dei militanti di base, l'adesione fanatica al dogma del fine che giustifica i mezzi ecc.
(L'analisi di un esempio attuale di organizzazione fanatizzata, ispirata ai tratti totalitari del primo livello, è fornito nel libro curato nel 2009 da Stefano Santarelli, Dietro la non-politica, in cui è preso in esame il caso specifico di una setta parapolitica italiana; ma gli esempi non mancherebbero con sette «totalitarie» di vario genere che si riproducono costantemente ai margini del mondo politico, in Italia come negli Usa, in Argentina e altrove, o nel mondo dell'integralismo islamico così come nel fanatismo più o meno spontaneo che alberga spesso nelle religioni, soprattutto se «rivelate» o monoteistiche, e così via.)
Questo tipo di editoria spettacolare concentrata (tipica delle sette autoreferenziali) è per lo più del tutto inoffensivo, inutilizzabile da parte del sistema, a differenza dell'uso che fu fatto della letteratura dei gruppi maoisti in alcuni paesi capitalistici dopo il '68 per ostacolare, tra l'altro, la nascente editoria «contro». Ma non per questo cessa la sua proliferazione.
Ciò avviene per ragioni che andrebbero analizzate in termini di psicopatologia politica. Qui non ci addentriamo nel tema, augurandoci che anche l'esame di questo aspetto, niente affatto secondario, si possa realizzare prima o poi con lavori interdisciplinari e specialistici, con il coinvolgimento di storici, psicologi, antropologi ecc.: è comunque un altro compito che si potrebbe assegnare a un'ipotetica e rediviva editoria «contro», sempre che questa sia ancora possibile nell'epoca e nel sistema in cui viviamo.
I tre livelli possono anche condizionarsi reciprocamente, dando vita ad altre sottoforme di integrazione editorial-spettacolare, facilmente identificabili attraverso un'analisi critica e multidisciplinare dei libri maggiormente in circolazione, di quelli lanciati dai principali Premi letterari, di quelli in testa alle classifiche (manipolate) dei più venduti, di quelli che «la televisione ha detto», di quelli trasfigurati in forma filmica ormai quasi in tempo reale rispetto alla loro prima pubblicazione (suscitando legittimi sospetti sulla natura artistica di un simile tempismo). Ma qui non c'è lo spazio per esaminare tutte queste sottospecie nelle gamma delle loro infinite combinazioni e quindi, a costo di semplificare troppo il discorso, accenneremo solo al modello emblematico («puro» e quindi astratto) dell'«editorial-spettacolare integrato», avviandoci verso una qualche conclusione.
L'editorial-spettacolare integrato nella società spettacolare di massa
Rispetto alle epoche in cui il movimento di espansione del capitale cominciava a permeare di sé tutti i gangli della vita sociale e culturale - consentendo di parlare di «reificazione totale» o di «unidimensionalizzazione» per alcuni, di «capitalismo assoluto» per altri, di «globalizzazione» o formule equivalenti per altri ancora - la trasformazione definitiva della merce-spettacolo in merce suprema, con la conseguente spettacolarizzazione dell'intero processo di mercificazione del sociale, ci costringe a prendere atto che il processo di asservimento dell'umana specie alle esigenze di una sua minoranza trasformatasi in casta si è concluso.
Si è concluso storicamente e ha dato vita a una circolarità di potere assoluto che include tutte le manifestazioni caratteristiche dell'umana specie: quelle produttive di merci, riproduttive della specie, della creazione mentale, dell'affettività, del bisogno di socialità, della lotta alla solitudine, della paura di thanatos (Freud e il disagio della civiltà), dell'amore, dell'onore, della religione «naturale», dell'elaborazione filosofica, dell'invenzione artistica, della contemplazione estetica, del tempo libero (il tempo di non-lavoro), della riflessione intima, del piacere erotico e di quello letterario, del gusto e delle manifestazioni dei sensi in generale. Forse sfuggono ancora in parte i sogni, ma soprattutto le molte altre forme di creazione semispontanea di immagini intellettuali, non necessariamente o non del tutto irrazionali (ciò che nei miei romanzi chiamo il mondo delle «rappresentazioni mentali»).
Ma non si fatica a prevedere che anche questi ultimi spazi di «autogestione» mentale dell'individuo si andranno riducendo, per riempirsi sempre più di prodotti onirici preconfezionati, omologati e distribuiti in serie attraverso i canali della dipendenza visiva e televisiva: i monitor dei vari generi di televisioni, dei computer, di Internet e del Web che sono ormai diventati il Grande Fratello on-line della nostra vita quotidiana e lo saranno sempre di più, fino a un determinato punto di rottura per saturazione che al momento è difficile prevedere quanto a tempi e forme della rottura.
«Niente di nuovo sotto il sole», dirà chi è familiare con la letteratura scientifica, distopica, fantapolitica o semplicemente evocativo-poetica, che annunciò e denunciò questi pericoli già nell'Ottocento, che cominciò a combatterli nel Novecento e che continua a combatterli come e dove può nell'era attuale, spesso in isolamento, sempre senza speranze di riuscire a vincere nell'immediato. Le menti più lucide o le più libertarie riescono ancora a capire che nella nuova epoca di schiavitù totalitaria le leve di quel potere spettacolare sono nelle mani di caste che si cooptano vicendevolmente, che si integrano nella loro funzione manipolatrice, che si dotano di tutti i mezzi materiali indispensabili per accrescere il proprio dominio: ma come tutte le caste, gli individui che le compongono sono animati da uno spirito contraddittorio perché mentre ricercano la massima soddisfazione dei propri desideri individuali devono conciliare il proprio insaziabile egoismo con gli interessi «collettivi», sopraindividuali della casta di appartenenza. È un processo visibile, che non ha nulla di sovrannaturale (nonostante lo sforzo delle religioni di Stato per convincerci del contrario) e che presenta anche dei punti deboli, delle crepe in cui non sarebbe irrealistico pensare di inserirsi per dilatarle, inserirvi nuova dinamite sociale e farle deflagrare sino alla frantumazione del sistema, aprendo in tal modo una nuova era di liberazione per l'umanità.
Ma… e l'editoria? Ci arriveremo tra breve, ma solo dopo aver indicato il pericolo maggiore che si annida in questa circolarità totalitaria della società spettacolare di massa: il fatto che il sistema spettacolare domina anche le istanze critiche esistenti al proprio interno.
Può farlo perché in parte è esso stesso che genera tali istanze e in parte, quando si tratti di formazioni «eterologhe», perché riesce prima o poi a cooptarle, a cointeressarle al mantenimento del sistema, concedendo privilegi materiali, soddisfazioni narcisistiche, ostentazione mediatica, illusioni di vittoria su thanatos, a volte anche appagamento sessuale (ma sempre meno in termini reali e sempre più in termini virtuali). Un vero e proprio svantaggio ai nastri di partenza che Debord e pochi altri avevano già descritto negli anni successivi al '68, quando la lotta di strada si accompagnava a quella mentale, rendendo possibile un ricambio (quasi una «ricarica»…) dell'una con l'altra. Ho avuto occasione di ricordare che Debord considerava ancora aperto il circuito di inglobamento delle opposizioni nel 1967 (giustamente, visto ciò che hanno poi dimostrato il '68 e gli anni successivi), ma ha poi dichiarato concluso il circuito nel 1984 (un anno simbolico…), nel momento in cui redigeva i Commentarii. Tutto ciò che è accaduto da allora, nel mondo della contestazione giovanile, nelle dinamiche dei movimenti sociali, anticoloniali, ecologisti ecc., e soprattutto nelle formazioni politiche cresciute su quei movimenti, gli hanno dato completamente ragione, al cento per cento se non più.
La metafora della mappa
Il punto di arrivo della riflessione antisistemica è stabilito: «Voi siete qui», ci dice un certo tipo di letteratura, indicandoci una grande mappa del pensiero antagonistico, logora e piena di abrasioni, da cui è cancellata la spiegazione dei simboli. «Noi siamo qui», nel punto della mappa in cui più forte è l'abrasione: ma non sappiamo più leggerla. Un esperto in assunti tecnologici ci dice che abbiamo perso anche la bussola, perché l'ago si è smagnetizzato a furia di ripetere sciocchezze dogmatiche, inconcludenti e storicamente infondate.
Quindi abbiamo bisogno di una nuova bussola (moderna, che non si smagnetizzi), di una nuova simbologia come chiave di lettura della mappa, e magari di una vernice protettiva che ridia anche vita e colore a quelle zone che si sono logorate per l'eccessivo strofinio delle dita nel corso di peregrinazioni (mobilitazioni) sociali inconcludenti.
Può piacere o non piacere la metafora di editoria cartografica che ho impiegato, ma essa ci aiuta a tornare agevolmente al discorso iniziale. Possiamo considerare la mappa logora e poco leggibile, come l'insieme del patrimonio teorico antagonistico accumulato nel tempo, da conservare e valorizzare; la bussola non-smagnetizzabile, come la capacità di lettura del reale senza i condizionamenti del virtuale (ma personalmente, per la mia formazione da umanista rivoluzionario tenderei a vedervi più una volontà ferma, un bisogno etico di leggere il reale senza farci condizionare dal virtuale - l'uno, comunque, non esclude l'altro); la simbologia da ricostruire, come i nuovi strumenti teorici da approntare per rendere comprensibile, attendibile e traducibile (in linguaggi e tradizioni «altre») ciò che verremo mano a mano imparando con la nostra nuova lettura del reale; le parti logorate dall'abrasione, come il fardello delle false certezze, del dogmatismo e della coazione a ripetere slogan e anacronismi del passato; la vernice rivitalizzante, come il momento della convergenza collettiva in un movimento unitario, di massa, antagonistico e possibilmente creativo, fantasioso, a tratti anche gioioso: ebbene, se tutto ciò ci dà l'impressione di poter funzionare o perlomeno di restituirci la possibilità di ricominciare a muoverci, a «viaggiare», resterebbe solo da spiegare che cosa rappresenti il dito che scorre sulla mappa rivitalizzata e decidere dove poggiare la mappa stessa. Le due cose sono collegate e cercherò di spiegare il perché.
Nel dito - che presumibilmente sarà l'indice e che quindi avrà la funzione congenita di indicare la strada, di facilitare la lettura della mappa (del reale) e che riassumerà in sé tutta l'energia proveniente dall'avambraccio, dal braccio, dalla spalla, dall'intero corpo sociale - vedo la metafora del libro, della scrittura, della lettura, dell'elaborazione teorica, dell'interpretazione, della comunicazione delle idee (le eventuali scoperte «psicogeografiche»), della ricerca di nuove strade, della tensione ideale, dell'antagonismo razionalmente guidato.
Vedo anche, però, la solitudine consueta dell'intellettuale che continua a girovagare nei meandri del conoscibile, senza mai incontrare una mano amica, e un'altra o un'altra ancora, che aiutino a esplorare meglio la mappa e, perché no?, anche a fabbricarne altre.
Per questo è importante che la mappa non sia poggiata su un tavolo - situazione apparente di comoda rigidità, ma che rende disagevole una consultazione dinamica e collettiva. È meglio che essa sia appesa a una parete o meglio ancora se penderà da un filo invisibile calato dal soffitto, come fosse appesa nel vuoto. Così potrà essere esaminata congiuntamente da molte più persone, nessun dito indice potrà più logorarla, nessuno potrà spingerla contro il muro o farla giacere sul tavolo né essa sarà costretta a una perenne immobilità in posizione precostituita. Trattandosi del patrimonio teorico antagonistico vorremmo vederla oscillare carezzata dal vento o ruotare su se stessa, in modo che tutte le dita che riescono a sfiorarla siano importanti per lei, ma nessun dito lo sia di troppo.
L'assenza di un'editoria critica delle pseudopposizioni
La metafora cartografica rappresenta una nostra proiezione utopica: il desiderio, cioè, che un lavoro teorico mirato in senso antagonistico possa continuare, facendo tesoro del poco che si è salvato dalla mercificazione sistemica, coinvolgendo nuove energie, concentrando gli sforzi e operando collettivamente. L'editoria antagonistica dovrebbe essere al servizio di un simile progetto ed è questa la dimensione autentica di un'editoria «contro» che non credo potrebbe essere facilmente soffocata o cooptata dall'editoria totalitaria del sistema dominante.
Ma quanto alle possibilità di realizzarla si ha il dovere di essere scettici: forse un po' più che scettici - meglio se francamente pessimistici. Certo, l'esigenza di un'editoria antagonistica esiste, ma fino a che punto? dove? chi la incarna? chi la gestisce? chi ne usufruisce?
Qualcuno ci può forse indicare una sola formazione politica in Italia, in Europa o in altri paesi di capitalismo avanzato, che possiamo definire non certo partecipe, ma almeno lontanamente interessata a un'editoria realmente antagonistica - quindi a un'editoria combattiva, libertaria, razionale, veritiera (in senso storiografico) - che non si traduca periodicamente in strumento di propaganda elettorale? Un'editoria, anzi, che sia punto di riferimento per tutti coloro (il cui numero va crescendo) che non intendono più col rituale del voto alle elezioni politiche condividere le responsabilità complessive del sistema; che non vogliono più concedere fiducia alla casta dei partiti o alle sottocaste «radicali» che con la loro pseudopposizione hanno più volte dimostrato d'essere organicamente inserite nella difesa delle finalità di fondo del sistema, in primis la possibilità di una sua riproduzione spettacolare e capitalistica.
Ecco. Il desiderio di un'editoria antagonistica, diffuso in un'ampia area geopolitica, esiste ancora (e il mio lavoro di editore in costante rapporto diretto coi lettori me lo dimostra), ma è un desiderio appeso nel vuoto. Perché la verità è che nessuna forza sociale, nessun movimento eversivo o antagonistico (operaio, giovanile, di appartenenza sessuale, di comunità locali o di quelli che riempiono periodicamente le cronache dimostrando tutti i loro limiti di instabilità politica e temporale), nessuna organizzazione politica che abbia un qualche seguito nel mondo del lavoro materiale e mentale, nessun collettivo di intellettuali qualificati e disinteressati s'identifica oggi con questo tipo di editoria: ed è questa amara realtà a far sì che un'editoria «contro» di fatto non esista, pur in presenza di libri splendidi ed eversivi (come molti di quelli che sono presenti nel mio e in pochi altri cataloghi).
Di questa inesistenza personalmente so qualcosa, e per questo mi permetto di parlarne, visto che tutti gli sforzi compiuti in vita mia per far crescere un'editoria rivoluzionaria o antagonistica si stanno dimostrando infruttuosi. Ciò significa che neanche io sto realizzando una simile impresa, per quanto forte se ne avverta la necessità storico-politica.
Certamente io desidero riuscirci (e spero che questo dato innegabile mi sia riconosciuto anche in base alla sola testimonianza del mio catalogo); ma è certo che non sto traducendo in risultati concreti questo desiderio, che non è solo mio, ma anche di quei sostenitori italiani ed esteri che mi hanno variamente incoraggiato da quando svolgo l'attività editoriale (dal 1989, ma ci furono anche gli anni di Controcorrente, la casa editrice che creai dal 1975 al 1980).
Siamo quindi arrivati alla conclusione che, per quanto sarebbe bello, desiderabile e politicamente utile avere a disposizione dei movimenti un'editoria antagonistica, in Italia una tale editoria non esiste. E la stessa situazione si riscontra con differenze trascurabili in altri Paesi del mondo - una constatazione del resto ovvia, perché oggigiorno non è pensabile che un'editoria antagonistica o rivoluzionaria esista in un paese solo, a fronte dei processi di globalizzazione del potere totalitario capitalistico e della società spettacolare di massa: se esistesse in Italia una simile editoria, avrebbe necessariamente una dimensione internazionale, interetnica e multilingue. Lo stesso dicasi se esistesse in Francia, in Polonia, in Messico o altrove.
Siamo quindi d'accordo sulla necessità di lottare «contro l'editoria» totalitaria del potere (della società spettacolare di massa), ma senza che si riesca in alcun paese del mondo a dar vita a un'autentica «editoria contro», antagonistica, libertaria e, in prospettiva, rivoluzionaria.
È un fossato che non si riesce a colmare, non solo per la capacità di manovra, la potenza mediatica e il radicamento popolare del sistema, ma anche perché questi dispone di una serie di strumenti efficaci di riserva rappresentati dalle pseudopposizioni nutrite e cresciute al suo interno. Si leggano alcuni libri di questa casa editrice dal titolo molto esplicito - tra gli altri: La sinistra rivelata (2007), I Forchettoni rossi (2007), Le false sinistre (2008) ecc. - e si troveranno descritte modalità, tappe e azioni concrete con le quali il sistema utilizza (in misura maggiore o minore a seconda dei periodi) le rappresentanze politico-sindacali della ex sinistra e della ex estrema sinistra per soffocare sul nascere qualsiasi velleità antagonistica in campo editoriale, oltre che sociale e culturale. Occorre quindi prendere atto di un'altra amara verità: questa casa editrice è l'unica che abbia dedicato libri ed energie al compito di smascherare questo ruolo subdolo, ma efficace delle pseudopposizioni istituzionali, cioè degli strumenti più raffinati d'integrazione del dissenso che siano all'opera nella società spettacolare di massa.
Si consultino i cataloghi di tutti gli altri editori alternativi, oppure quelli di ben precise correnti politiche (anarchici, trotskisti, bordighisti, situazionisti, operaisti, ecologisti, cristiani autentici o centristi di vario genere) e si vedrà l'assenza pressoché totale di libri dedicati alla critica complessiva delle pseudopposizioni. Qua e là si troverà un qualche libro critico di un qualche singolo autore, ma mai all'interno di un progetto editoriale: in forma sistematica e collettiva, un simile lavoro teorico è stato fatto e continua ad essere fatto solo da questa mia casa editrice: e ciò la dice lunga sulla forza di dissuasione del potere.
Questi intermediari «di sinistra» - «cani da guardia» interposti tra il potere e la mobilitazione sociale - continuano ad essere l'arma più efficace nelle mani del sistema. E non basterà il desiderio eversivo, per liberarsi di loro: occorrerà una crescita della consapevolezza delle grandi masse, al momento subalterne. Ma poiché a questa crescita dovrà concorrere necessariamente un'editoria antagonistica, che sappiamo non esistere, il cerchio si chiude per ora nella figura allegorica del serpente che si morde la coda. Di più al momento non è dato.
Che (non) fare?
A giugno del 1995 fui intervistato, in veste di editore emergente e alternativo (era il sesto anno di vita della casa editrice che all'epoca si chiamava Erre emme), nel quadro di un simpatico libro di Chiara Sasso, che apparve l'anno dopo: Editori. Tra resistenza e resa (Sonda, Torino 1996). Nella parte conclusiva dell'intervista la curatrice scriveva:
«Per Roberto Massari la parola "impegno politico" significa conoscenza e apertura… Non ha mai vissuto l'ideologia come chiusura, ma ha coltivato decine di passioni, dalla musica alla pittura alla storia. La sua curiosità lo ha portato ovunque. L'impegno editoriale, tuttavia, contrasta con la sua attività di scrittore, togliendogli tempo ed energie: "La casa editrice, dice Roberto, sta uccidendo l'autore". È un conflitto che vive consapevolmente» (p. 105).
Ho citato questa «foto d'epoca» per presentarmi come editore-essere-umano a chi ha avuto l'amabilità e la pazienza di seguirmi fin qui. Ma anche per ricordare a me stesso che uno dei rischi connessi alla mia attività è proprio di perdere la dimensione umana del proprio impegno, a fronte dell'enormità del compito che ci si è consapevolmente addossati.
Allo stesso tempo non va dimenticato nemmeno che quando scrivo i miei libri e agisco come autore, sto suonando la parte di uno strumento solista, mentre come editore ho una responsabilità collettiva analoga a quella del direttore nei confronti dell'orchestra. Anch'egli suona, ma nel rispetto della partitura e come parte integrante di un insieme musicale.
I problemi finanziari aggravati dalla crisi economica generale, la disperazione operativa del dover lavorare in una società civilmente arretrata come quella in cui bivacca il capitalismo italiano, l'ingratitudine degli autori, i disguidi con il distributore, i ritardi del tipografo, le traduzioni malfatte, i costi crescenti della carta e dei trasporti ecc. sono la punta d'iceberg dei problemi materiali che accompagnano questa attività. Ebbene, sono proprio questi i problemi che alla lunga rischiano di prevalere e far perdere di vista la ragione per cui si è dato vita a una casa editrice, antagonistica nelle intenzioni e irriducibile nella pratica, anche se inefficiente dal punto di vista imprenditoriale. Ma a volte mi assale il dubbio che anche questi problemi facciano parte del gioco e che alla lunga abbiano una loro funzionalità per il sistema spettacolare di massa e le sue mire totalitarie. Cosa farei il giorno in cui mi si volesse togliere la casa ipotecata e il sistema mi tendesse una mano, la «sinistra» ovviamente? Brrr…
Negandomi il successo commerciale il sistema limita la produzione di fastidiosi libri antagonistici e crea scetticismo tra il pubblico (potenziale ed effettivo), cui viene ammannita la lezione tipica della società spettacolare, per cui la mancanza di vendite è sinonimo di sconfitta, come deve valere anche per la merce-libro. Più in generale deve prevalere l'etica suprema della società dello spettacolo: grandi numeri=grande qualità, scarsi numeri=scarsa qualità, che si tratti delle saponette o dei risultati elettorali. Con questo cinismo contabile, i «cani da guardia» del sistema editoriale sperano anche di opacizzare la patina di prestigio - di «sovrannaturalità» come si diceva all'inizio - che avvolge il libro e certi libri in modo particolare, allo scopo di privarli del loro potere eversivo, evocativo e trascinatore (l'effetto miraggio).
Ecco, nella lotta «contro l'editoria» dominante e nell'impegno (per ora utopistico e volontaristico) a realizzare un'editoria «contro», la prima ed essenziale cosa da non fare è sostituire i numeri ai sentimenti, le mode alle idee, i compromessi alle convinzioni etiche, il calcolo economico all'amore per la scrittura, sapendo che alle origini questo fu prodotto a sua volta da un precoce e duraturo amore per la lettura.