1. L’IDEA DI INTERNAZIONALE - 2. I PRECEDENTI STORICI: Associazione internazionale dei lavoratori e Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier - Seconda internazionale - Terza - Quarta - Ospaaal e Olas - 3. NAZIONALISMO VS INTERNAZIONALISMO: Cuba e il nazionalismo antimperialistico - Le gruppettistiche nazionali dopo il ‘68 - La cultura dell’Olocausto, ma non del Gulag - 4. LA PROPOSTA DI CHÁVEZ: Perché ora? Il riferimento a Trotsky - ... e la minaccia militare degli Usa - Pericoli e limiti dell’iniziativa - 5. MERITI E VANTAGGI CHE POTRÀ AVERE LA QUINTA - 6. COME CONTRIBUIRE IN QUANTO UTOPIA ROSSA - 7. LA QUESTIONE DEL «PROGRAMMA»: Il mito del «Programma» - Due, tre, molte «Quinte internazionali» - Il metodo de «La lista della spesa» - 8. LA PIÙ AMPIA UNITÀ SU BASI DI PRINCIPIO - 9. VERSO LA QUINTA INTERNAZIONALE
Grazie all’iniziativa lanciata lo scorso novembre dal presidente Hugo Chávez, la tematica dell’internazionale torna ad essere attuale, per lo meno sul piano della discussione e dell’analisi teorica. Sul piano pratico resta tutto da vedere. Benché la necessità oggettiva dell’internazionale sia vecchia quanto il movimento operaio o perlomeno quanto la Prima internazionale, occorre riconoscere che questa è la prima volta nella storia degli ultimi 30-40 anni che si ridà la possibilità soggettiva di una unificazione internazionale dei movimenti e degli organismi che lottano per la rivoluzione su scala mondiale. In questo senso possiamo considerare «storico» l’appello di Caracas e «storica» anche la nostra riunione odierna.
Nella mia relazione del marzo 1983 che di recente ho fatto circolare - dedicata all’Urss di Andropov, alla fine programmatica della Quarta internazionale di Trotsky e alla necessità di lavorare per una Quinta internazionale - sono stati forniti i principali richiami teorici e le necessarie considerazioni politiche sull’itinerario storico del movimento per la Quarta e sulla necessità che si giunga a fondare la Quinta per superare il vuoto d’iniziativa politica internazionale cui il movimento operaio è costretto da ormai quasi un secolo. E quindi, nel rimandare a quel materiale come introduzione propedeutica alla discussione odierna, non posso fare a meno di ricordare che le conclusioni di quel testo dimostrano come già da quasi un trentennio la problematica della Quinta internazionale abbia una sua attualità e come essa sia interna alla nostra tradizione teorica, come elaborazione e patrimonio della corrente oggi incarnata dall’Associazione politica Utopia Rossa.
Non si tratta qui di mettere la bandierina per dichiarare con orgoglio di essere stati tra i primi a sollevare l’esigenza della Quinta internazionale fin dal 1983, ma piuttosto di assumere la consapevolezza (anche questa storica) che le nostre basi teoriche, il nostro modo di ragionare, le nostre aspettative rivoluzionarie e lo stesso metodo con cui facciamo politica sono assolutamente compatibili con l’idea odierna di Quinta internazionale, ne sono parte interna e integrante. Anzi, avendo preceduto l’appello attuale per la Quinta con ampio margine temporale - e già all’epoca con piena giustificazione storica (perché proprio in quei primi anni ‘80 si coniugavano drammaticamente la crisi finale dell’Urss e l’ascesa, poi sconfitta, della più avanzata rivoluzione operaia del dopoguerra, in Polonia) - ci troviamo nella condizione di poter fugare qualsiasi sospetto che la nostra adesione alla Quinta di Chávez possa essere determinata da considerazioni di mera opportunità se non addirittura di opportunismo politico.
Questa fondazione della Quinta non avviene nel vuoto della storia, bensì nell’anno 2010, in un contesto internazionale ben determinato, per iniziativa di forze politiche altrettanto ben determinate (per ora il Psuv, ma altre forze già si stanno associando). Ciò ci deve far riflettere sulla dinamica del tutto imprevedibile con cui si è delineata questa iniziativa e ci conferma nell’idea che non esiste un modello predeterminato di che cosa debba essere oggi un’Internazionale. Noi decidiamo di fare ciò che la storia in questo momento ci consente di fare, con i soggetti che la storia ci propone e che magari possono anche non corrispondere al nostro tipo ideale di rivoluzionari o di internazionali rivoluzionarie.
La nostra discussione, quindi, non sarà del tipo intellettualoide e astratto, per cui ci si mette in cattedra a spiegare che «la Quinta internazionale dev’essere fatta in un certo modo», che «deve avere una certa linea», che «dev’essere costituita da rivoluzionari corrispondenti al seguente curriculum» (e sarebbe curioso vedere quale dovrebbe essere tale curriculum...). No, sarebbe pura follia solo immaginarla una simile discussione, peraltro incompatibile con una tradizione di pensiero marxista autentico, rivoluzionario e libertario che sia, o anche semplicemente incompatibile con il buon senso. Noi siamo o vogliamo essere persone sensate, che si misurano con la storia, con le lezioni del passato e con i fatti concreti del presente, e non con le proiezioni ideali che possono variare infinitamente da un individuo all’altro, da un gruppetto ideologico all’altro. Alla fine, tirando un bilancio delle nostre parole e analisi, a noi interesserà rispondere alla domanda: che cosa è giusto fare in questo momento, dato questo contesto storico e queste forze in campo?
E a questo riguardo mi permetto una parentesi, rispetto agli interventi scritti che sono stati inviati da compagni che non possono essere presenti: tutti, ma proprio tutti (a parte chi ha inviato solo i saluti o gli auguri) sono interventi operativi, concreti e propositivi. E sono interventi non solo provenienti dalle Marche o dalla Sicilia, ma anche dall’estero, dall’Argentina o dal Portogallo. Segno che l’atmosfera di dibattito in Utopia rossa corrisponde effettivamente allo spirito delle sue posizioni di principio e non è contaminata da influenze negative del tipo che stiamo imparando a definire in termini di «psicopatologia politica». In questa discussione - che è appena cominciata e chissà quando finirà - vorrei che apparisse chiaramente la nostra capacità di mescolare la teoria astratta, generale (le nostre basi di principio, ma non ancora programmatiche - come si spiegherà più avanti) con la realtà concreta.
1. L’IDEA DI INTERNAZIONALE
Non ne faccio la genealogia, ma parto dall’affermazione storicamente dimostrabile che l’idea di internazionale nell’epoca moderna nasce all’interno del movimento operaio e costituisce un patrimonio specifico del modo in cui tale movimento si è configurato fin dalle sue origini. Una configurazione organizzativa primordiale (forse anche «primitiva»), confusa e incompleta quanto si vuole, ma rimane il fatto storico incontrovertibile che l’idea di internazionale è un prodotto della crescita del movimento dei lavoratori, sorto a sua volta all’interno del processo di internazionalizzazione del modo di produzione capitalistico.
Non possiamo negare che anche la borghesia, nel suo processo di affermazione come classe indipendente, abbia avuto delle istanze di liberazione riconducibili a un ambito internazionalistico. Non sono mancati i teorici in tal senso e nemmeno le esperienze pratiche. Alcune componenti ideologiche sovranazionalistiche si rintracciano all’interno delle principali rivoluzioni borghesi (basti solo pensare alla guerra d’Indipendenza americana o alla diffusione del verbo «rivoluzionario» esportato sulla punta delle baionette degli eserciti napoleonici). Il fatto che quelle ideologie extra o sovranazionali si potessero ricondurre a interessi specifici delle singole borghesie nazionali, non può farci dimenticare il modo in cui esse venivano interpretate e spesso anche agitate dalle masse in paesi come l’Olanda, la Prussia, l’Italia, il Mesico di Juárez, nei paesi sottomessi all’oppressione dell’Impero zarista o nella stessa Russia.
L’illuminismo, in quanto tale e comunque lo si voglia intendere, era in sé un’ideologia tendente a spezzare i confini degli Stati nazionali; nettamente sovranazionali furono alcuni dei suoi più illustri esponenti. A quel tipo di sovranazionalismo borghese si è deciso per convenzione di attribuire la definizione di «cosmopolitismo», proprio per distinguerlo dall’internazionalismo più organico, operativo e organizzato in forma relativamente stabile che sarà tipico del movimento operaio. Non mi addentro, invece, nella definizione delle basi materiali di tale cosmopolitismo, accennando solo al fatto che esse vanno rintracciate nella prima rivoluzione industriale e nel modo in cui questa si diffuse, per salti e con sviluppo ineguale in alcuni dei principali paesi europei, incluse le colonie inglesi al di là dell’Atlantico. Con la diffusione di un certo modo di produrre non si diffondeva solo tecnologia, ma anche una serie di concezioni ideologiche, all’epoca prive di una patria specifica e di una lingua nazionale specifica.
Quel tipo di internazionalismo, che nel bonapartismo napoleonico aveva avuto un imprevedibile e contraddittorio strumento unificatore, fu represso e bandito dagli effetti immediati del Congresso di Vienna, dai processi di restaurazione politica statuale, con la temporanea riaffermazione dell’assolutismo istituzionalizzato nella prima metà dell’Ottocento.
Il primo vero movimento internazionale di rivolta nella storia, all’interno del quale si può individuare anche una componente significativa di internazionalismo «proletario», è senza alcun dubbio il movimento del 1848, da intendersi in senso specificamente europeo e lasciando da parte, come caso a sè, il sovranazionalismo continentale delle lotte per l’indipendenza in America latina (si pensi a Bolívar, che ancor oggi è il principale riferimento storico per il chavismo e parte della sinistra venezuelana), ma anche tante vicende internazionalistiche interne alle precedenti lotte d’indipendenza in Europa, per le quali un episodio di alto valore simbolico può essere considerata la morte di Byron in lotta per l’indipendenza della Grecia (già nel 1824).
Di quel grandioso movimento così sincronizzato nel tempo e così ricco di conseguenze per tutta la storia moderna si è detto e scritto molto e da sempre. Eppure qualcosa vi si può ancora imparare, se si pensa che la sua molla scatenante fu in molti casi l’anelito all’indipendenza nazionale, all’interno del quale prendevano vita, però, vere e proprie manfestazioni di internazionalismo, dando concretezza storica a esigenze culturali nutrite all’interno del movimento romantico più radicale. Lotta per l’indipendenza nazionale e internazionalismo non apparivano in contrasto per settori importanti di quel movimento, ma soprattutto per alcuni suoi esponenti teorici.
Molti dei patrioti risorgimentali italiani, lo sappiamo, furono anche internazionalisti convinti, che spalancarono le porte al federalismo europeo, sognando l’unificazione dei popoli in lotta contro l’assolutismo, ma che furono anche in molti casi i primi animatori o fondatori dell’Associazione internazionale dei lavoratori, detta successivamente Prima internazionale. Ciò perché, pur combattendo in paesi diversi e per cause diverse, si sentivano parte di un unico progetto liberatore complessivo, per il quale l’abbattimento dei confini imposti dall’assolutismo avrebbe dovuto coincidere con una più completa liberazione dell’individuo e dei popoli. Cominciarono a convivere felicemente fin d’allora il nazionalismo di lotta con l’internazionalismo ideologico. Il simbolo più noto e più rappresentativo di tali stati d’animo è fornito a livello mondiale dalla figura di Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei due Mondi, ma anche il «Guevara dell’epoca», come è stato affermato più volte. Il Garibaldi cui mi riferisco non è il reduce deluso trasformatosi in strumento imbelle nelle mani dei Savoia, ma il campione intercontinentale dell’indipendenza del Rio Grande do Sul, dell’Uruguay, dell’Italia, della Comune di Parigi, divenuto nell’ultima parte della sua vita membro e sostenitore della Prima internazionale. Non a caso il «garibaldinismo» fu una delle componenti ideologiche fondamentale di questo passaggio dal cosmopolitismo tardoromantico all’internazionalismo dei lavoratori (detto anche «proletario», ricorrendo a un termine che oggigiorno non ha più alcuna valenza scientifica, ma è per l’appunto evocatore di contesti storico-sociali ottocenteschi).
2. I PRECEDENTI STORICI
a) Associazione internazionale dei lavoratori. La Prima internazionale nasce, come tutti sappiamo, alla St. Martin’s Hall di Londra il 28 settembre 1864. Antesignani pionieristici della sua nascita erano stati la teoria e la pratica del mutualismo (associato storicamente alla figura di Proudhon) e i molteplici contributi teorico-pratici del cosiddetto «socialismo utopistico», tra i quali fondamentale la teoria societaria di Fourier - un autentico spirito cosmopolita e antinazionalista.
Ricordo che l’iniziativa di fondarla non fu di Marx (come spesso erroneamente si pensa) anche se questi scrisse l’Indirizzo inaugurale (di fatto il manifesto) e gli statuti provvisori. L’idea originaria non fu nemmeno anarchica (a questo riguardo gli storici dell’anarchia sono molto onesti e lo riconoscono apertamente). L’Associazione internazionale nacque fondamentalmente per iniziativa dei proudhoniani, in particolare della loro componente mutualistica. E ciò basterebbe da solo a dimostrare come le basi di quella prima internazionale dei lavoratori non fossero il prodotto di un procedimento intellettuale o di un progetto astratto partorito nell’empireo delle belle idee. La prassi economica del mutualismo era quanto di più concreto si potesse immaginare all’epoca e di primordiale necessità per le classi lavoratrici. Ma essa implicava anche il superamento delle barriere nazionali e linguistiche per tante buone ragioni, tra le quali non indifferente il fatto che gli operai più combattivi che venivano licenziati o perseguitati avevano bisogno di andare in altri paesi per trovare lavoro o anche solo per salvare la pelle. Era un mutualismo sorto nel mondo artigiano, che poi diverrà di fabbrica e che con la diffusione delle idee socialiste, anarchiche e marxiste, assumerà dei connotati via via più politici.
Ebbene, benché gli inizi dell’Associazione siano da ricondurre ad esponenti di idee proudhoniane e semianarchiche, quando al congresso di Ginevra del 1866 fu costituito il Consiglio generale, da questo furono subito esclusi proprio i proudhoniani e gli anarchici, bakunisti e non. Una scelta settaria che costituisce una sorta di peccato originale, denso di conseguenze negative per tutti gli sviluppi successivi della Prima e delle altre Internazionali, che mano a mano adotteranno discriminanti ideologiche destinate a consolidare le divisioni esistenti in seno al movimento operaio e che toglieranno a tutte le internazionali successive lo spirito unitario e solidaristico che invece caratterizzò la Prima. Si pensi che tra le correnti presenti nell’Associazione diretta da Marx e Bakunin possiamo annoverare, oltre ai mutualisti e ai proudhoniani già ricordati, collettivisti, tradunionisti (inglesi), blanquisti (francesi), mazziniani, garibaldini, marxisti, lassalliani, bakunisti, oltre a una temporanea presenza del socialismo di orientamento sionista e di alcune componenti russe del nascente movimento narodniko (ne ricostruisce il quadro di riferimento ideologico Franco Venturi, nella sua bella storia de Il populismo russo, del 1952, nuova ed. 1972).
Una descrizione pittoresca del variegato mondo che costituiva l’Ail e della sua breve storia è contenuta nella lettera di Marx a Friedrich Bolte del 23 novembre 1871. L’immagine che Marx presenta è molto di parte (non si può dimenticare che in quello stesso periodo stava preparando l’espulsione degli anarchici dall’Associazione internazionale attraverso l’espediente del suo trasferimento a New York). La scissione, infatti, si consuma l’anno dopo al Congresso dell’Aia (1872) e da allora le differenze non hanno fatto che crescere. A me piace sintetizzare quella tragedia del movimento operaio internazionale che ancora stiamo pagando, dicendo che da un lato (con Marx) se n’è andata la mente, la ragione teorica, e dall’altro (con Bakunin), il cuore, i sentimenti morali, l’etica. È forse un modo semplicistico di considerare la cosa, ma io ci credo fermamente e quasi 150 anni di storia sono lì a dimostrarmelo.
b) Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier. Altra falsificazione storica molto diffusa è che con il trasferimento/scioglimento dell’Ail sia finita la Prima internazionale. Si tratta di un falso grossolano, perché la maggioranza degli aderenti all’Ail erano favorevoli alle idee dell’anarchia e non seguirono Marx, non accettarono lo scioglimento e continuarono a tenere in vita un’Internazionale antiautoritaria, detta di Saint-Imier. Il nome viene dalla cittadina in cui si riunirono nello stesso 1872 gli esponenti non-marxisti dell’Ail, di fatto la componente anarchica variamente intesa (per capirsi: da Bakunin a Malatesta a Kropotkin, dai comunardi alla Federazione del Giura). Questa Internazionale sopravvisse per quasi un decennio, senza riuscire a superare i propri dissidi interni e il crescente localismo che, da allora, è rimasto e anzi cresciuto come tratto caratteristico del movimento anarchico. Gli ultimi suoi congressi furono nel 1877 a Verviers e nel 1881 a Londra.
La portata del disastro verificatosi nel movimento operaio internazionale (anche come effetto della sconfitta della Comune di Parigi) non verrà mai sottolineata abbastanza. Tra l’altro, la separazione in due grandi organizzazioni non salvò dalla disgregazione né l’una né l’altra. Molte correnti che non si riconoscevano né in Marx né in Bakunin (proudhoniani, tradeunionisti, cooperativisti ecc.) si tirarono indietro e rifluirono in organizzazioni nazionali o in localismi ancora più circoscritti di quelli anarchici già ricordati. E questo perché la divisione aveva tolto ad entrambe le componenti maggioritarie sia lo spirito unitario fortemente voluto dai lavoratori più consapevoli, sia il prestigio che derivava, per l’appunto, da tale unitarietà. Insomma, possiamo dire che come rivoluzionari siamo orfani di un’associazione internazionale unitaria dei lavoratori da quel lontano 1872. E lo spezzettamento che viviamo oggigiorno (che in alcuni Paesi come l’Italia, l’Inghilterra o l’Argentina è giunto ormai ai limiti del farsesco o dello psicopatologico) deriva da quella storica frattura, poi ulteriormente aggravatasi con varie altre fratture, piccole e grandi, verificatesi nel corso del secolo e mezzo successivo.
Va detto che non fu solo un fatto organizzativo (le manovre e il settarismo di Marx) a determinare la frantumazione dell’Ail, ma anche la trasformazione politica e ideologica che in quell’Associazione si era venuta a creare, e che viene descritta con precisione da Pier Carlo Masini (socialista e principale storico italiano dell’anarchia) nella sua Storia degli anarchici italiani (Rizzoli 1969, nuova ed. 1974). Afferma Masini che nella conferenza dell’Ail a Londra, del settembre 1871:
«una preselezionata maggioranza marxista realizza con una serie di risoluzioni la trasformazione dell’Internazionale in partito politico (...) introducendo nel programma dell’Internazionale un elemento ideologico uniforme e vincolante che annullava la varietà delle correnti fino ad allora ammesse sulla base di un solo principio unificatore: la solidarietà pratica dei lavoratori di qualsiasi razza, credo o nazionalità, per il miglioramento delle condizioni, la mutua difesa, la completa emancipazione della classe operaia (p. 59)».
Ho citato e sottolineato questa opinione di un grande studioso, perché ritengo che essa conservi una forte attualità nella nostra epoca e che si ponga nuovamente, in forme e contesti diversi, anche nel processo di costituzione della Quinta internazionale.
A questa considerazione si può aggiungere un commento di Franco Venturi (nella nuova introduzione all’opera citata, vol. I, p. XCVII), quando ci ricorda che il movimento socialista degli ultimi due secoli è troppo ricco e vario per essere ridotto a un’unica corrente, sia pure il marxismo. Non esiste una componente «scientifica» e «autentica» che si possa contrapporrre alle altre, ma l’una si spiega e si completa con tutte le altre, in un rapporto di reciproco arricchimento. Purtroppo una lettura errata (o di parte) della storia soprattutto europea del movimento operaio ha creato la sensazione falsa che vi sia stata una corrente principe, il Marxismo (con la M maiuscola), superiore e distinta o contrapposta alle altre, senza tener conto che il marxismo stesso non si sarebbe mai potuto costituire come teoria e metodo di una parte del movimento operaio senza l’esperienza e il contributo di tutte le altre. Il marxismo, secondo Venturi, non ha escluso le altre correnti teoriche e le altre esperienze politiche del movimento operaio della sua epoca, ma le ha assorbite, di fatto accolte al proprio interno, valorizzandole in una forma e in un metodo che non hanno precedenti nella storia del pensiero (si veda anche Michael Löwy, Il giovane Marx, Massari ed. 2001, pp.143-4). Si provi solo a riflettere sul fatto che la prima traduzione de Il Capitale in russo fu iniziata da Bakunin...
Concludo questa parte storiografica (volutamente più lunga di quelle che seguiranno), ripetendo una frase che mi capita di dire spesso, onde esemplificare il più possibile il mio pensiero sul tema: uno dei tratti grandiosi e affascinanti della Prima internazionale è che essa riuscì a condensare il proprio programma e la propria ideologia, non solo in poche parole, ma addirittura nel nome che si diede: «Associazione internazionale dei lavoratori». Il suo programma non fu la rivoluzione, il socialismo o la lotta contro questo o quell’avversario, bensì la chiamata a raccolta di tutti i lavoratori, di qualsiasi nazione, religione o credo politico, in un’unica organizzazione, solidale, mutualistica e unitaria. Un simile fenomeno politico-linguistico – la capacità di racchiudere nel nome l’essenza del programma - non si sarebbe più verificato. Va anche detto che per giunta, finché poté, la sua realtà operativa concreta fu coerente col significato profondo di quel nome.
c) Seconda internazionale. Fondata a Parigi nel 1889, si disgrega ufficialmente il 4 agosto 1914, quando il Partito socialdemocatico tedesco, sua principale organizzazione, vota i crediti di guerra, seguìto a ruota da altre correnti socialiste in altri paesi, ciascuna schierata con la rispettiva borghesia nazionale. Ma la verità è che la Seconda internazionale non è mai esistita in quanto tale, cioè come sintesi unitaria delle esperienze politiche che i vari partiti socialisti compivano negli anni di passaggio dall’Ottocento al Novecento. Non ha avuto congressi significativi, nessun ufficio di coordinamento internazionale, ogni partito pensava fondamentalmente ai propri affari nel proprio paese e le stesse basi ideologiche all’atto della fondazione erano ben lungi dal potersi definire rivoluzionarie. E meno che mai unitarie, visto il rifiuto tenace che fu opposto alle richieste (e anche infiltrazioni) delle organizzazioni anarchiche che chiedevano di essere ammesse. Questa è una storia poco nota, ma ai nostri occhi ha invece un forte significato unitario il fatto che gli anarchici si siano battuti fino al Congresso di Londra del 1896 per entrare a farne parte. E ciò benché l’Internazionale in cui chiedevano di entrare,fosse la quintessenza dello statalismo, imbevuta di spirito lassalliano (socialismo di Stato), con processi molto avanzati di degenerazione autoritaria e burocratica dei suoi principali partiti, come fu analizzato nell’opera fondamentale di Roberto Michels, Sociologia del partito politico (del 1911, nuova ed.del 1925), dedicata all’analisi del Spd tedesco.
Questo spirito unitario degli anarchici di allora credo vada valorizzato oggigiorno nelle polemiche che certamente non mancheranno da parte libertaria nei confronti della Quinta e delle organizzazioni che ne entreranno a far parte.
Sappiamo che gli anarchici dell’epoca non riuscirono a farsi ammettere (un’ammissione che avrebbe implicato anche una sorta di riconoscimento internazionale) e anche questo fatto non ha certamente avuto un effetto benefico sull’evoluzione opportunistica della Seconda internazionale.
Questa infatti, benché non centralizzata, benché si riunisse internazionalmente con difficoltà, dimostrò tuttavia una grande omogeneità ideologica nell’adozione e sviluppo di posizioni statalistiche, collaborazionistiche e alla fine anche nazionalistiche guerrafondaie. Del resto, lo stesso Engels che aveva presieduto alla sua fondazione, lo aveva fatto con posizioni mutate rispetto alle proprie originarie e a quelle di Marx, con forti concessioni al gradualismo e al parlamentarismo.
Ed effettivamente questa fu proprio l’Internazionale che si preoccupò di costruire i partiti politici parlamentari dei lavoratori distinti da quelli della borghesia e i sindacati (di mestiere dapprima e d’industria poi, accettando nel proprio seno anche il sindacalismo rivoluzionario che visse in quegli anni la sua epoca d’oro). La sua funzione storica positiva sta in queste due conquiste storiche dei lavoratori e nel fatto che essa rispose sostanzialmente all’esigenza sorta nelle classi operaie dei vari paesi e continenti di dotarsi di strumenti politici propri, autonomi, per condurre la lotta anche in seno alle istituzioni, benché ciò avvenisse nella maggior parte dei casi senza un reale spirito rivoluzionario (anticapitalistico) o apertamente unitario verso altre componenti del mondo del lavoro. La rivoluzione non fu mai il programma della Seconda internazionale e, per il resto, sappiamo com’è andata.
La continuità internazionalistica del progetto rivoluzionario va rintracciata nelle frazioni di minoranza che costituirono la Sinistra di Zimmerwald e Kienthal, e nel movimento Spartachista. Dall’incontro-scontro di quelle frazioni provengono anche i grandi teorici come Parvus, Trotsky, Luxemburg e infine Lenin, oltre ad altre personalità e correnti minori che qui non possiamo citare.
Vale la pena di ricordare l’esistenza di queste frazioni in seno alla Seconda internazionale, in primo luogo perché esse non furono mai espulse, dimostrando così storicamente che era possibile una convivenza di riformisti, centristi, rivoluzionari e anche veri e propri estremisti nella stessa organizzazione. E in secondo luogo perché l’esperienza di essere una minoranza legata a determinate idee all’interno di un organismo internazionale più ampio noi della ex Fmr lo abbiamo vissuto a nostra volta dentro il Segretariato unificato della Quarta internazionale (dal quale siamo stati però espulsi nel 1975). E non è escluso che si possa rendere nuovamente necessaria una simile esperienza in seno alla Quinta (intendo la proposizione come minoranza di determinate idee e non l’espulsione [risate]).
Formalmente la Seconda internazionale esiste ancora. Si chiama Internazionale socialista e ne fanno parte tutti i partiti socialisti e socialdemocratici del mondo. Il Psi di Craxi ne faceva parte.
d) Terza Internazionale. Fondata nel 1919 e sciolta da Stalin nel 1943 per consentire una migliore collaborazione dei partiti comunisti con le rispettive borghesie nazionali impegnate nella guerra antinazista.
L’atto di nascita, a marzo del 1919, avvenne in forma molto riservata, con scarsi annunci propagandistici, alla presenza di una cinquantina di delegati che non rappresentavano praticamente nulla. Metà di costoro erano delegati delle Repubbliche ex zariste e la presenza dei partiti socialisti occidentali era scarsamente rappresentativa. Va comunque detto che in quel primo congresso c’era spazio per chiunque volesse aderire e impegnarsi nella costruzione della nuova internazionale. Per tutti basti citare il caso degli Iww, gli Wobblies, un movimento sindacalista rivoluzionario degli Usa che non aveva caratteristiche marxiste. Ma anche a definirlo anarchico si avrebbe un’immagine riduttiva perché gli Wobblies furono l’unico esempio novecentesco di organizzazione unitaria dei lavoratori, senza discriminanti ideologiche e senza un apparato gerarchico sovrapposto ai movimenti reali di lotta (si veda la loro storia nel libro di Patrick Renshaw, da me tradotto per Laterza nel 1969-70).
Al 2° Congresso, del 1920, divenne obbligatoria l’adozione dei famosi 21 punti. Ebbene, se si prova a rileggere oggigiorno quelle 21 condizioni (reperibili insieme a tutti i principali documenti dei primi 4 congressi dell’Internazionale comunista nell’edizione curata da Yurii Colombo nel 2004) si ha l’impressione di avere a che fare con un lungo volantino scritto dal più settario dei gruppetti presuntamente leninisti oggi esistenti. La parola «comunista» vi era ripetuta ossessivamente, quasi un rigo sì e uno no, perché ogni cosa per essere minimamente accettabile doveva essere «comunista»: comuniste dovevano essere le idee, comunisti i nuclei operai nei sindacati, comunisti gli agitatori nelle campagne, comunisti integerrimi i militanti nei partiti e nell’Internazionale, con disciplina di ferro e obbligo di espulsione di tutte le altre correnti socialiste, riformiste e addirittura dei centristi (che nei 21 punti vengono trattati sempre come equivalente dei riformisti, perdendo quindi di vista la loro caratteristica politica specifica, data dall’oscillazione tra il polo del riformismo e quello della rivoluzione - Fausto Bertinotti, per es., non ne avrebbe mai potuto far parte [risate]).
Idem per il tentativo di creare un’organizzazione internazionale apposita per i cosiddetti Popoli d’Oriente (conferenza di Baku del settembre 1920), mai uscita dal mondo virtuale degli appelli propagandistici. E comunque, se pure fosse riuscita a darsi una minima veste organizzativa, essa sarebbe stata inesorabilmente travolta dalla tragica sconfitta della Seconda rivoluzione cinese, nel 1926-27, dovuta agli errori del Comintern staliniano. E comunque, anche lì, tutto doveva essere «comunista», perdendo completamente di vista la specificità storica inconfondibile dei movimenti di liberazione nazionale che comunisti potranno pur diventarlo nel corso della lotta, ma non possono certamente esserlo alle origini.
Dopo il termine «comunista», la parola che vi ricorreva più frequente era «epurazione»: epurare, epurare ed epurare. Ogni cosa andava epurata per assicurarne la purezza «comunista». E là dove non si poteva espellere perché privi della maggioranza, bisognava scindere anteponendo la necessità della separazione a quella dell’unificazione. È evidente che una simile concezione settaria di organizzazione mondiale non aveva più alcuna sostanza reale di internazionalismo visto che il lavoratore riformista o centrista e comunque non-bolscevico veniva equiparato a un nemico e in quanto tale oggetto da espellere e combattere in ogni sede (nel partito, nei sindacati, nelle cooperative ecc.). La vecchia divisione del 1872 che aveva distrutto la Prima internazionale all’insegna del «via chi non è marxista», diventa ora la sua caricatura all’insegna del «via chi non è marxista come noi». E gli anarchici? ci si chiederà. I 21 punti non li dimenticano e danno l’indicazione di reclutarli, paese per paese, per farli diventare... comunisti.
In realtà il Comintern conobbe dei momenti di dibattito interessante su alcuni temi nei suoi primi congressi, fino al suo Quarto congresso (nov. 1922) e fino all’Esecutivo allargato di giugno 1923: quei primi anni in cui una discussione bene o male fu possibile al suo interno, nonostante il peso preponderante della sezione russa. Ma sul piano pratico collezionò solo sconfitte, ovunque (da Berlino nel 1919, 1921 e 1923, alla Polonia; dall’Italia all’Ungheria, passando per la Cina già ricordata, per arrivare alla disfatta della Rivoluzione spagnola e all’alleanza con Hitler che a sua volta rese possibile l’avvio della Seconda guerra mondiale). Il tutto senza autocritiche, senza mutamenti nei suoi assetti dirigenziali, senza cambiare orientamento strategico né la maniera di concepire l’Internazionale, ma con aggiustamenti puramente tattici.
Con la vittoria definitiva della burocrazia staliniana, cessò qualsiasi elaborazione teorica autonoma, si realizzò la russificazione delle varie sezioni nazionali e il Comintern si trasformò in uno strumento della controrivoluzione burocratica su scala internazionale. Va detto però che la sua degenerazione si verificò in seconda battuta e con maggiori difficoltà rispetto alla trasformazione controrivoluzionaria del partito sovietico. Col tempo (segnatamente dal 1926 in poi), comunque, degenerò totalmente anche il Comintern e si trasformò in un’organizzazione internazionale impegnata fondamentalmente in lotte di apparato, nonché nell’eliminazione fisica di anarchici, trotskisti e oppositori antistaliniani nel resto del mondo, come si vide tragicamente nel corso della guerra civile spagnola, con l’uccisione di alcune delle più belle figure del campo rivoluzionario (si pensi a Nin), fino all’assassinio di Trotsky, in Messico, ad agosto 1940. La struttura utilizzata per questi lavori sporchi si chiamò «Soccorso rosso internazionale»: essa ha lasciato dietro di sé una scia di sangue lunghissima, a seconda dei luoghi e a seconda dei periodi. L’italiano Vittorio Vidali («Carlos Contreras») ne è stato uno degli «animatori» più famigerati.
La «cosa» che verrà sciolta nel 1943, allo scopo di facilitare la partecipazione dei singoli partiti alla guerra mondiale sotto le insegne delle rispettive borghesie, di internazionale aveva ormai solo il nome. Altro che voto dei crediti di guerra nel 1914! Non dimentichiamo che il Comintern aveva approvato nel 1939 tutte le direttive di Mosca riguardo all’alleanza con Hitler, la spartizione della Polonia, l’invasione degli Stati baltici, la guerra contro la Finlandia e l’avvio della Seconda guerra mondiale. Un’alleanza col nazismo (e in Oriente con l’Impero giapponese) che fu cambiata solo dopo che le truppe naziste ebbero invaso anche l’Urss, a giugno del 1941, trovando il paese totalmente impreparato davanti alla possibilità di un’aggressione nazista.
e) Quarta Internazionale. Non mi dilungo perché posso rinviare al lungo capitolo che ho dedicato alla sua breve esistenza nella mia monografia su Trotsky del 1990. Ricorderò solo che fu fondata nel 1938, con grande ritardo storico rispetto all’ascesa dello stalinismo e alla necessità di contrapporvisi frontalmente. Grave fu la responsabilità di Trotsky al riguardo (il che non significa assolvere tutti coloro che contro lo stalinismo non provarono nemmeno a lottare e comunque non lottarono con la stessa tenacia e lucidità con cui lo fece Trotsky fino alla morte). La Quarta, comunque, era già praticamente inesistente meno di un anno dopo la sua fondazione, secondo quanto riconosce lo stesso Trotsky (vedi lettere alla direzione del Swp ad aprile e luglio del 1939), ed essa scompare organizzativamente con l’assassinio del Vecchio ad agosto del 1940.
Anche sui tentativi di ricostruzione della Quarta nel dopoguerra ho scritto molto nel passato ed è quasi tutto disponibile per la lettura in libri pubblicati in tempi più recenti. Il mio pensiero al riguardo è più che noto (per chi s’interessa di questi problemi) e lo riassumo brevemente.
Quei tentativi (sotto la guida di Pablo, Mandel ecc., detto poi Segretariato unificato) andavano fatti e sono stati storicamente positivi nonostante il loro evidente insuccesso. Io sono fiero di averne fatto parte fin dagli inizi della mia attività politica (1966) e ritengo che abbiano sbagliato a non farne parte tutti coloro che in quegli anni si consideravano bene o male rivoluzionari. La storia ha dimostrato che alternative reali non ce n’erano, giacché non si sono verificate a livello internazionale né in alcun paese del mondo. Finché ne è valsa la pena ho analizzato dettagliatamente i processi d’involuzione politica che hanno accompagnato il declino della Quarta-Segretariato unificato (vale a dire la principale organizzazione erede del patrimonio teorico trotskiano), soprattutto sino alla fine degli anni ‘70. Solo di recente, invece, ho fatto circolare la mia lunga relazione del 1983, già ricordata, in cui all’epoca spiegavo la fine storica della Quarta di Trotsky anche in senso programmatico. Argomentavo tale fine con il crollo di due pilastri del suo programma fondativo (rivoluzione solo politica in Urss e difesa dell’Urss contro l’imperialismo), sia per i livelli raggiunti dalla degenerazione sociale dell’Urss brezneviana arrivata ormai alla presidenza di Andropov, sia per il ruolo avuto dall’Urss nel soffocare il più alto livello di rivoluzione e di coscienza operaia che si sia mai visto nel dopoguerra con il movimento di Solidarnosc in Polonia.
f) Ospaaal e Olas. Voglio accennarvi rapidamente, anche se non si tratta di vere e proprie internazionali, ma di tentativi concreti compiuti per unificare le forze antimperialiste a livello internazionale. Furono due organismi di matrice cubana, anche se in nessuno dei due fu coinvolto direttamente Ernesto Che Guevara, cioè l’unico esponente autentico di un pensiero internazionalista rivoluzionario e di una pratica coerente con quel pensiero a livello di massa che sia esistito dopo la Seconda guerra mondiale.
Mi riferisco all’Ospaaal («Organizzazione di solidarietà per l’Asia, l’Africa e l’America latina», detta anche Tricontinental dal nome della sua rivista), fondata a gennaio del 1966 e praticamente mai esistita di vita propria reale, sia per la sconfitta latinoamericana rappresentata dalla morte di Guevara, sia per l’orientamento nettamente capitalistico assunto dai paesi di nuova dipendenza, sia per la trasformazione di Cuba in appendice della politica estera sovietica a partire dalla fine degli anni ‘60 (dall’approvazione dell’invasione della Cecoslovacchia ad agosto 1968 in poi). Con l’Ospaaal Fidel Castro tentò di unificare intorno allo Stato cubano vari movimenti di liberazione nel mondo (molti, ma non tutti) con i governi di alcuni Stati in cui la lotta anticoloniale aveva portato ex movimenti antimperialistici al potere. La cosa ebbe fin dall’inizio caratteristiche molto formali e diplomatiche, e apparve ben presto la sua reale natura: si trattava, cioè, di una risposta del mondo filosovietico alla crescita d’influenza del movimento dei non-allineati di cui Mosca cominciava a preoccuparsi seriamente nel corso degli anni ‘60, anche a causa del dissidio con la Cina. La sigla e la rivista Tricontinental esistono ancora, con sede all’Avana, ma è un’esistenza solo sulla carta.
Con l’Olas (Organizzazione latinoamericana di solidarietà) ci trovammo invece di fronte a un’organizzazione dall’esistenza molto più breve (fu fondata all’Avana in una celebre Conferenza svoltasi dal 31 luglio al 10 agosto 1967), ma con alcune conseguenze pratiche, a differenza dell’Ospaaal. In quell’incontro si ritrovarono a discutere quasi tutti i movimenti di guerriglia latinoamericani, insieme ai partiti comunisti e alcuni partiti nazionalisti radicali. Furono escluse esplicitamente le organizzazioni trotskiste e filocinesi (per far contenti i sovietici): si trattò di un tentativo votato al rapido fallimento di creare un’organizzazione continentale di coordinamento delle guerriglie in Sudamerica. L’atmosfera in cui si svolse la Conferenza dell’Olas fu infuocata dall’entusiasmo per l’impresa del Che in Bolivia, iniziata 9 mesi prima e destinata a concludersi tragicamente nei due mesi successivi.
Ma nonostante la morte del Che, alcuni tentativi di lanciare delle nuove guerriglie furono compiuti ulteriormente, proprio sulla scia degli orientamenti dell’Olas (fuochisti e guerriglieristi secondo le teorie in auge di Régis Debray, all’epoca portavoce di Fidel Castro e del governo cubano), ma furono tutti distrutti rapidamente, mentre all’orizzonte si delineavano nuovamente le illusioni elettoralistiche che nel Cile di Allende troveranno la loro più tragica concretizzazione. Possiamo però affermare, in sede di bilancio storico, che in quel tentativo disperato di coordinare le guerriglie in America latina furono gettati i semi dai quali usciranno col tempo alcuni movimenti di lotta armata più noti, destinati a svolgere importanti ruoli politici in Nicaragua, in Salvador e in Guatemala. La guerriglia colombiana delle attuali Farc o i gruppi armati peronisti degli anni ‘70 furono invece dei casi a parte.
Avendo collaborato all’epoca con alcuni di quei movimenti guerriglieri (in particolare in Perù e Venezuela - sono stato membro delle Faln di Douglas Bravo nel 1969-71), mi sento autorizzato a considerare l’Olas come parte della mia esperienza personale e come tale la rivendico ancor oggi, per le sue generose intenzioni e per il suo spirito internazionalistico guevariano, nonostante la sua inconsistenza teorica e nonostante i suoi tragici epiloghi.
Ho voluto citare queste due esperienze perché, avendo esse coinvolto movimenti reali e autentiche organizzazioni di massa, meritano di essere ricordate nella storia dei tentativi di unificazione delle lotte antimperialiste su scala internazionale, con tutti i loro limiti, ma riconoscendo anche i meriti che hanno avuto.
In tempi più recenti, come sapete, in Chiapas Marcos ha cercato di creare un movimento «Intergalattico», che ha avuto un suo momento di notorietà mediatica, ma nessun effetto pratico né in Messico né altrove.
E poi dobbiamo citare anche quel pizzico di spirito internazionalistico che ha animato i primi Social forum, da Praga e dal primo Porto Alegre in poi. Con tutte le sue belle speranze, però, il movimento dei Social forum, detto anche No-global ha acquisito rapidamente (direi già dal secondo incontro di Porto Alegre) tutte le caratteristiche di un imponente movimento di turismo politico su scala internazionale. E chi non ha i soldi o il tempo libero per spostarsi da un incontro all’altro ne è inesorabilmente tagliato fuori.
Questi processi degenerativi da società dello spettacolo dobbiamo ormai metterli in conto per tutto ciò che si svolgerà a livello internazionale in forma di megaconvegni, social forum regionali, campi estivi ecc., senza delle scadenze avvicinate di effettivo scontro anticapitalistico. Forse nel futuro dovremo dedicare maggiore attenzione teorica a questi aspetti degenerativi della politica come spettacolo perché essi renderanno tra l’altro molto ma molto difficile un’autentica discussione internazionale dei problemi che il movimento rivoluzionario deve affrontare nel mondo. Inutile aggiungere che tutti i fenomeni di culto della personalità (vecchi e nuovi) non possono che aggravare questa deriva spettacolare e turistica di massa della politica «internazionalistica» ai giorni nostri. È una riflessione importante che per il momento dobbiamo rinviare.
3. NAZIONALISMO VERSUS INTERNAZIONALISMO
Il fallimento storico della Terza internazionale e successivamente quello della Quarta hanno avuto una tragica conseguenza per l’oggi. Sono più di 80 anni, ma potremmo dire quasi 90 che il movimento operaio agisce o si è sviluppato nella forma di una sommatoria di movimenti essenzialmente nazionalistici. Il nazionalismo è stato assorbito per quasi un secolo dalle classi operaie di tutto il mondo, tanto da poter dire che esso è entrato nel loro Dna, nella loro struttura costitutiva. Le classi operaie (intese nel senso più ampio del termine, come totalità del lavoro salariato mentale e manuale), davanti alle quali ci troviamo in tutto il mondo, sono profondamente nazionalistiche: e lo sono in controtendenza rispetto allo sviluppo capitalistico che tende invece ad assegnare sempre meno funzionalità strutturali allo Stato-nazione. Le ideologie nazionalistiche che egemonizzano le grandi masse lavoratrici sono infatti indotte soprattutto dai canali della politica (sistemi elettorali e partiti), dalle nuove grandi potenzialità mediatiche del sistema, dai meccanismi sempre più pervasivi e intrusivi della società dello spettacolo.
Il bilancio è drammatico, ma non possiamo esimerci dal constatare che le grandi esperienze storiche della «sinistra» (si fa per dire) in quasi un secolo di sconfitte (tante) e di vittorie (pochissime) sono state tutte ispirate al nazionalismo o, al massimo, a fenomeni di regionalizzazione geopolitica o continentale spesso mascherati da un antimperialismo generico o puramente demagogico.
Cuba e il nazionalismo antimperialista
Il caso più evidente è la Cuba odierna che viene a volte considerata molto ingenuamente come un grande esempio di internazionalismo, laddove si tratta invece del più longevo esempio di nazionalismo antimperialistico sopravvissuto dal dopoguerra ad oggi (essendo venuti meno gli esempi dell’Algeria, del Ghana, delle ex colonie portoghesi, delle varie esperienze di militari «progressisti» al potere in singoli paesi latinoamericani ecc.). Non c’è stato movimento in America latina o nel mondo che la direzione di Fidel Castro non abbia sacrificato agli interessi politici dello Stato cubano, ogniqualvolta ne abbia avuto la possibilità e la necessità: dall’utilizzo spregiudicato del fuochismo guerriglieristico (si rifletta sul fatto che non c’è stata una sola guerriglia, di quelle organizzate dai cubani, che abbia resistito almeno un intero anno, inclusa la Bolivia del Che) fino al silenzio sulla strage di Tlatelolco in Messico nel 1968; dall’approvazione della repressione sovietica sul popolo cecoslovacco al sostegno concesso a qualsiasi governo borghese dell’America latina che dimostrasse una minima volontà di apertura verso Cuba, indipendentemente dalle necessità dei lavoratori e dei movimenti anticapitalistici in quello stesso Paese. Anche l’ingresso nell’area politica dei Paesi satelliti dell’Urss fu dovuto ad analoghe motivazioni nazionalistiche, nonostante la propaganda nel linguaggio dell’«internazionalismo proletario» che accompagnò quel tipo di scelte.
Rientra in questa politica di salvaguardia degli interessi nazionali il rifiuto sistematico di includere altri paesi imperialistici nelle critiche all’unico imperialismo che appare storicamente minaccioso agli occhi del governo cubano, vale a dire quello degli Usa. Non si troveranno mai nei documenti o nelle analisi politiche delle affermazioni critiche nei confronti di Stati imperialistici come la Germania, il Giappone, la Francia o l’Italia, mentre le critiche alla Spagna vanno e vengono a seconda dell’atteggiamento che il governo di quel Paese assume verso il governo cubano. Si può prevedere facilmente che il giorno in cui gli Usa dovessero cambiare il loro atteggiamento aggressivo verso Cuba, cesserebbero anche le denunce politiche nei confronti dell’imperialismo statunitense. E lo si può prevedere perché i sintomi di questo possibile futuro comportamento si videro chiaramente all’indomani dell’11 settembre 2001, in un momento in cui la direzione cubana si era illusa che il riavvicinamento fosse possibile e Raúl Castro arrivò al punto di dichiarare che eventuali prigionieri fuggiti dal carcere di Guantánamo sarebbero stati riconsegnati alle autorità statunitensi. Poi però vi furono le ingiuste condanne ai cinque cubani tuttora in carcere e il breve idillio ebbe termine. Il giorno in cui l’embargo dovesse terminare (e ci auguriamo che ciò avvenga il prima possibile) il problema del rapporto tra la direzione cubana e l’imperialismo Usa si porrà nuovamente e bisognerà essere preparati ad ogni possibile svolta.
Includo questa breve parentesi su Cuba non per aprire una discussione sulle vicende di una rivoluzione così contraddittoria e controversa (sulla quale, comunque, abbiamo prodotto molte analisi nel passato e altre dovremo produrne nel futuro), ma per invitare i compagni a un atteggiamento di elementare cautela verso la facilità con cui le svolte politiche vengono impresse dal gruppo dirigente castrista al resto dell’apparato e da questo alla popolazione. E questa cautela è ancor più necessaria in vista del fatto che qualsiasi prospettiva di costruire una nuova internazionale oggigiorno non può non fare i conti con l’esistenza dell’attuale Stato cubano, che questi aderisca o no.
(Lo abbiamo sperimentato tragicamente nella seconda metà degli anni ‘60, quando la non-adesione di Cuba alla Quarta e l’attacco pubblico di Castro contro il trotskismo, al congresso dell’Ospaaal nel 1966, posero le premesse del successivo deperimento organizzativo in America latina e nel resto del mondo. Retrospettivamente si dovrebbe avere il coraggio di datare l’inizio della crisi della Quarta-Segretariato unificato a partire da quell’attacco di Castro: all’epoca non si disse o non si capì, poi vennero il ‘68 e la crescita della Ligue in Francia a far dimenticare e rimuovere quel colpo - ma il colpo c’era stato e aveva bloccato un processo di avvicinamento alla Quarta da parte di altri soggetti politici che si stava verificando in varie parti del mondo. Non dimentichiamo che lo stesso Guevara, negli ultimi anni della sua troppo breve vita, aveva finalmente cominciato a interrogarsi su Trotsky e a leggere alcune sue opere fondamentali).
Ma sarebbe un grandissimo passo indietro rispetto alle esperienze internazionalistiche del passato condizionare l’azione della nuova internazionale a seconda degli interessi nazionali di questo o quel Paese. Se Cuba non ha mai tentato di costruire un autentico movimento rivoluzionario internazionale, ciò è stato dovuto soprattutto ai limiti nazionalistici originari di questa Rivoluzione (divenuti poi cronici con il passaggio alla monodipendenza economica e politica dall’Unione Sovietica), oltre che ai limiti nazionalistici dell’intero movimento operaio mondiale. Quei limiti nazionalistici hanno segnato in senso fortemente involutivo lo sviluppo della Rivoluzione cubana (blocco della transizione al socialismo, rifiuto di qualsiasi struttura di democrazia diretta dei lavoratori, aumento crescente delle differenziazioni sociali), ma hanno prodotto allo stesso tempo una lista impressionante di sconfitte in America latina e non solo.
Pensare oggi alla nuova internazionale in termini di difesa di interessi nazionalistici (per es. ai fini di un presunto interesse nazionale di Cuba o altri Paesi), oltre ad essere una prospettiva irrealistica, significa prolungare ulteriormente quella lista di sconfitte.
Fermo restando che una nuova internazionale dovrà caratterizzarsi fin dall’inizio per il suo rifiuto dell’egemonia nazionale da parte di chicchessia, non dobbiamo però nemmeno pensare che i nazionalismi siano tutti uguali e tutti da buttar via politicamente. Il nazionalismo peronista, per es., è stato un fenomeno molto complesso, che ha consentito l’unificazione politica del movimento dei lavoratori in percentuali altissime quali non si erano mai viste in alcun paese del mondo. La forte base sociale da cui quel nazionalismo nacque spiega la sua longevità nel tempo, spiega perché siamo interessati ancora a studiarlo e perché in Argentina continui ad esercitare una certa influenza (anche se ormai fondamentalmente negativa). E non dimentichiamo il nazionalismo di Nasser che fece credere a un determinato momento che fosse possibile l’unificazione antimperialistica del mondo arabo (il panarabismo). O il nazionalismo di Lumumba (panafricanismo), di Malcolm X (il potere nero), di Ben Bella (la rivoluzione algerina e il laicismo islamistico) e altri più o meno importanti: sono tutti nazionalismi che meritano rispetto per il ruolo positivo che hanno assolto in determinate fasi della lotta antimperialistica, ma che hanno poi anche mostrato i profondi limiti della composizione ideologica delle loro direzioni. La storia ha abbondantemente provato che qualsiasi nazionalismo progressivo che non si lasci assorbire all’interno di un movimento internazionalistico più ampio è destinato inevitabilmente a retrocedere e a trasformarsi in strumento di conservazione sociale, se non di vera e propria repressione politica. È la vecchia questione del «socialismo in un solo paese» - come si disse in un determinato momento storico - che continua a porsi, anche se in termini diversi e in un contesto mondiale profondamente modificato.
Le gruppettistiche nazionali dopo il ‘68
Guardando alle nostre spalle, si deve ammettere che l’unico movimento internazionale dotato di un qualche spirito internazionalistico è stato il movimento del ‘68, comunque si voglia chiamare quell’insieme di movimenti eterogenei tra loro, ma poi confluiti in un unico grande alveo di contestazione in paesi imperialistici, paesi dipendenti e paesi a transizione bloccata schiacciati da dittature burocratiche di origine staliniana.
Un movimento di grande afflato internazionalistico, 1) perché nasceva per impulso di avanguardie giovanili che non si erano ancora corrotte all’interno dei partiti tradizionali (stalinisti, socialdemocratici, nazionalisti borghesi), 2) per la grande motivazione antimperialistica che scaturiva dalla guerra del Vietnam, 3) per l’immagine del combattente e antiburocrate Che Guevara, a tutt’oggi esempio e simbolo imbattuto di internazionalismo rivoluzionario dopo la Seconda guerra mondiale.
Questo grande spirito internazionalistico ebbe breve durata e fu represso variamente. In Cecoslovacchia e in Cina come sappiamo, in Messico e negli Usa con la forza delle armi, in Europa (e soprattutto in Italia) con la nascita dei tanti microapparati politici, vale a dire i tanti nuovi partitini sempre e comunque gerarchizzati, autoritari e costruiti rigorosamente su basi nazionali. Nominalmente sembravano fare eccezione a un così gretto nazionalismo i partitini maoisti (col loro richiamo alla Cina di Mao) e i partitini trotskoidi (con le loro affiliazioni alle varie e presunte Quarte internazionali); ma la verità è che la logica che presiedeva alla formazione di tutte queste caricature minipartitiche era fondamentalmente nazionale o nazionalistica, quando non addirittura localistica (citiamo esempi come Bandera Roja, Avanguardia operaia, tutta la gruppettistica inglese, Revolution in Francia, dove già radicata era comunque la struttura rigidamente trotsko-nazionalistica di Lutte Ouvrière, la gruppettistica greca ecc.). In Italia continua ancor oggi il fenomeno della nascita di miniapparati «leninisti» - che hanno l’impudenza di definirsi «internazionalistici» - dovuta a processi di scissioni o espulsioni legate alle vicende politiche italianissime di questo Paese (si pensi alla nascita del Pcl e del Pdac, nonché ai tanti piccoli Lenin che compaiono e scompaiono città per città, gruppo per gruppo, cenacolo per cenacolo e, ormai, anche sito per sito o blog per blog). E non mi dilungo nel descrivere fenomeni analoghi all’interno dei vari raggruppamenti anarchici, dove però più che il nazionalismo prevale il localismo. Lo stesso localismo che è stato linfa e poi morte dei Centri sociali autogestiti.
Ora possiamo però tirare un bilancio globale di tutti i miniapparatini nati nel mondo dopo il ‘68 e dire che non ce n’è uno, nemmeno uno solo che abbia superato la soglia nazionale, che abbia dato vita a un qualche movimento antagonistico sovranazionale; addirittura possiamo dire che non ce n’è nemmeno uno che sia sopravvissuto (e per sopravvivenza non intendo il mantenimento autarchico di una sigla o di un giornaletto a imperitura celebrazione del capetto di turno). E poiché l’Italia è il paese in cui più avanzata e più dinamica è stata l’esperienza della gruppettistica postsessantottesca, possiamo dire di aver toccato con mano più che altrove il disastro rappresentato dalla costruzione di partitini nazionali sulla base di motivazioni politiche nazionali, ma avvolti in un fumo di demagogia internazionalistica. Il fallimento complessivo dei gruppetti o i grupponi che vennero costruiti in alternativa alla Quarta internazionale-Segretariato unificato, spesso da personaggi che ne erano stati membri, ha dimostrato storicamente non solo che quei nuovi gruppi non ne costituivano un’alternativa, ma che erano storicamente ingiustificate tutte le scissioni che furono fatte all’epoca, tutte le autoproclamazioni di essere la nuova internazionale, tutte le non-adesioni alla Quarta da parte di raggruppamenti destinati col tempo a scomparire, quale che ne fosse la motivazione in termini politici (anche se questi oggigiorno appaiono retrospettivamente e nella maggior parte dei casi come puri e semplici alibi psicologici adottati a difesa dell’agibilità di propri spazi di autonomia politica individuale).
La Quarta-Segretariato unificato è ormai quasi estinta, ma ha dimostrato nel tempo una capacità di resistenza superiore alla microgruppettistica che abbiamo qui citato e, proprio grazie alle caratteristiche sui generis del suo centrismo, è riuscita a non compiere nel suo insieme il passaggio definitivo dalla parte del capitalismo, come è invece accaduto a tutti i raggruppamenti centristi classici, dal Psu francese al Prc bertinottiano, dai Grünen tedeschi al Mas venezuelano. E non è un caso che oggi la sua migliore ex sezione (la Lcr francese trasformatasi di recente nel Nouveau parti anticapitaliste) si sia dichiarata disponibile - attraverso una dichiarazione di François Sabado fatta a nome del Bureau esecutivo internazionale - a discutere ed eventualmente confluire nella Quinta di Chávez, fin da novembre del 2009. Un sano atteggiamento internazionalistico che chi è preoccupato essenzialmente di far crescere il proprio apparato nazionale non se lo pone nemmeno come problema. Per non parlare di chi si è inventato le varie Quarte internazionali ricostruite o da ricostruire e vede quindi come un diavoleria del nemico la proposta di Chávez.
La cultura dell’Olocausto, ma non del Gulag
A rischio di uscire dall’ambito del tema Quinta internazionale, vorrei citare un esempio di storiografia paranazionalistica che forse ci può aiutare a capire a che punto di abiezione si è arrivati con l’assenza di un’internazionale e di una visione internazionalistica.
Mi riferisco alla condanna storica dell’Olocausto nazista (antiebraico e non solo) che ha riempito tutta la cultura della «sinistra» mondiale, dal dopoguerra ad oggi: nel cinema, nella letteratura, nella ricostruzione storiografica e nell’istituzione di monumenti o giornate della memoria. I partiti socialisti e staliniani sono stati artefici in prima persona di questo impianto commemorativo, coinvolgendo altre correnti politiche o religiose.
Ebbene, dov’è l’equivalente per quanto riguarda la denuncia dell’abominio storico rappresentato dal Gulag con le sue decine di milioni di esseri umani internati in condizioni subumane e i milioni di esseri umani uccisi o lasciati morire di stenti dopo aver ricavato dalla loro prigionia tutti i possibili guadagni in termini di lavoro forzato o schiavistico?
Sappiamo tutti che nella valutazione in chiave storica dei due grandi abominii del Novecento - l’Olocausto e il Gulag - non vi è concordia in seno a ciò che resta del movimento operaio mondiale: è ancor oggi normale sentire lavoratori che condannano lo sterminio nazista, ma giustificano quello staliniano in base a considerazioni pseudopolitiche (il famigerato «fine che giustifica i mezzi»), che sarebbero risibili se non fosse così tragica l’esperienza storica alla quale ci riferiamo. Dicono: la costruzione del socialismo in Urss aveva bisogno di quel lavoro forzato, i detenuti del Gulag erano in fondo dei controrivoluzionari, il comunismo sovietico può aver sbagliato ma i risultati (risultati che oggi possiamo tutti ammirare...) giustificano quelle misure estreme e così via.
Non vale la pena di stare qui a discutere di queste giustificazioni che, anche nei casi culturalmente più raffinati, tradiscono l’esistenza di profondi disturbi psichici nella personalità di chi le formula. E comunque la letteratura sull’argomento è ormai enorme e in continua crescita dopo la fine dell’Urss, al livello di ricerche e documentazione. Qui deve interessarci solo il disastro ideologico che con il tempo si è operato nella mentalità di masse di lavoratori, studenti, intellettuali che sono cresciuti nella convinzione che il Gulag non si possa condannare o non si debba condannare alla stregua dell’Olocausto perché gli interessi nazionali dell’Urss esigevano quel tipo di sacrificio da parte dei lavoratori russi (ignorando, ovviamente, che quei forzati per la gran massa erano lavoratori e lavoratrici delle popolazioni che lo sciovinismo granderusso schiacciava in Ucraina, in Polonia, nei Paesi baltici, nelle Repubbliche «sovietiche», nei territori in cui giungeva l’Armata rossa e ovunque riuscisse a imporre la dittatura totalitaria dello stalinismo).
Non potremo parlare di internazionalismo e non potremo aspirare a costruire una nuova internazionale dei popoli in lotta fino a quando non ci saremo liberati totalmente di questa vergogna storica rappresentata dal fatto che ancor oggi ci si può considerare «di sinistra», antimperialisti, rivoluzionari, bolivariani ecc., senza condannare inesorabilmente il martirio cui furono sottoposti alcuni popoli all’insegna del fine che giustifica i mezzi e degli interessi statali del presunto comunismo sovietico. Quei popoli che hanno pagato prezzi enormi in termini di vite umane, snazionalizzazione, persecuzioni etniche e distruzione culturale, esistono ancora. Oggi sono liberi dal giogo sovietico, in teoria dovrebbero affratellarsi anch’essi nella nuova Internazionale, ma non potranno mai farlo con partiti o culture che rispetto al Gulag abbiano lo stesso atteggiamento negazionistico che condanniamo per l’Olocausto.
E questo, benché non sia all’ordine del giorno, è un ostacolo grande come un macigno che ci attende sulla strada della costruzione della Quinta internazionale. Già sappiamo che su questo terreno nessun aiuto ci potrà venire dal gruppo dirigente castrista, ma non è detto che lo stesso valga per quello neobolivariano del Venezuela. Chávez, che non è cresciuto all’interno di apparati stalinisti, potrebbe anche compiere il grande passo di condannare ufficialmente il Gulag, così come è stato capace di lanciare l’idea della Quinta facendo esplicito riferimento alla Quarta. Certo, ciò potrebbe implicare una serie di lacerazioni e porterebbe a una situazione conflittuale con gran parte di quella nomenklatura di intellettuali e politici latinoamericani formatasi intorno al governo cubano negli anni di Breznev e del suo più acceso filosovietismo, fra le esperienze di governo nel Cile di Allende e nel Nicaragua dei sandinisti. Questa componente, divenuta ormai una casta con i suoi riti e i suoi leader carismatici, potrebbe aderire in blocco alla Quinta (ammesso che ottenga il via libera da Cuba), per rafforzare in tal modo il proprio status di «intellighenzia-di-sinistra-tutto-fare», pronta a lasciarla (sempre in blocco) se le cose dovessero farsi minacciose sotto il profilo della lotta di classe. Ma difficilmente la Quinta internazionale potrà svilupparsi senza che vi sia un confronto con questa nomenklatura.
Qui denunciamo l’esistenza del macigno, senza alcuna idea per il momento su come rimuoverlo.
4. LA PROPOSTA DI CHÁVEZ
Perché ora? Il riferimento a Trotsky
Sono mesi che cerco di dare una risposta a questo interrogativo, cioè da novembre del 2009, da quando Chávez ha lanciato la proposta di una Quinta internazionale al termine dell’Incontro internazionale di Partiti di sinistra a Caracas. Il fatto che sia stata anche fissata una data (il 16 aprile 2010 in Venezuela) per fondare la nuova internazionale sembrerebbe dimostrare una volontà ben determinata a procedere sulla strada dichiarata in maniera così plateale: si pensi al consesso di partiti al quale Chávez si rivolgeva e si pensi al fatto che il presidente venezuelano ha battezzato «Quinta» la Quinta, in successione storica alla Quarta e richiamando esplicitamente date e luoghi di fondazione della Prima, della Seconda, della Terza e della Quarta.
Quest’ultimo richiamo così esplicito non rappresenta soltanto un doveroso omaggio da parte di Chávez a una pagina tanto controversa e drammatica di storia del movimento operaio che gli fa onore e glielo farà ancor di più nel tempo se la Quinta si costruirà effettivamente. Ma è un richiamo che deve aver gelato il pubblico di burocrati e partiti presenti a Caracas, per non dire cosa può aver provocato tra le file dei delegati del Partito comunista cubano, formatisi dalla fine degli anni ‘60 all’insegnamento ideologico filsovietico, per cui la Quarta e i trotskisti sono nemici del comunismo (identificato ovviamente con il campo sovietico), del castrismo e della Rivoluzione cubana. Un giorno sapremo se Chávez si è veramente reso conto del problema che apriva in tal modo nelle relazioni con la hermana Cuba e con Fidel di cui si dichiara grande ammiratore.
Un modo di saperlo sarà anche osservare l’atteggiamento che i cubani del Pcc e dell’apparato statale assumeranno nei confronti dell’iniziativa di Chávez. Certo è che non riesco a immaginarmeli nelle scuole di partito a Cuba i responsabili dell’indotrrinamento ideologico che spiegano ai giovani militanti che prima della Quinta c’è stata la Quarta, che la Quarta la fondò un certo Lev Trotsky dopo che la Terza si era trasformata in uno strumento di potere nazionalistico di Stalin e che quello stesso Stalin aveva fatto uccidere il fondatore dell’Armata rossa nel periodo della calorosa alleanza con Hitler, dopo che insieme ai nazisti si era diviso la Polonia e gran parte dell’Europa orientale. Ecco, i dirigenti cubani attuali non riesco proprio a immaginarmeli che accettino di far parte di un’internazionale anticapialistica e che per giunta lo facciano in successione con l’esperienza, per quanto fallita, della Quarta.
Possibile che Chávez non abbia pensato a tutto ciò? Se non lo ha fatto, dovrà farlo prima o poi.
Ho dedicato mesi a riflettere sulle ragioni di questa scelta e credo di aver dato fondo alla mia conoscenza della situazione venezuelana (e qui non posso non raccomandare ai compagni la lettura o la rilettura del libretto che ho scritto su Chávez nel 2005). Ho anche lasciato andare l’intuito libero di volare per trovare una qualche spiegazione che non sia di ordine psicologico, ma devo ammettere sinceramente di aver fallito, di non essere arrivato a una conclusione.
L’aspetto psicologico, però, non va trascurato nel caso di Hugo Chávez. Ho già avuto modo nel passato di raccontare la capacità che ha quest’uomo di ragionare a voce alta, di leggere e di farsi coinvolgere da determinati libri «eretici», la sincerità di fondo che lo caratterizza e che spesso non affiora alla superficie per le sue caratteristiche di abile politico, amante della manovra e con il gusto dell’effetto a sorpresa. Ebbene, il caso da me citato della grande assemblea pubblica (cui assistetti personalmente a dicembre del 2004) in cui Chávez si lanciò in un elogio de La rivoluzione permanente di Trotsky, e altri esempi più recenti di riferimenti positivi a Trotsky (visti tra l’altro in un filmato delle sue apparizioni in Tv), mi spingono a pensare (o sperare) che Chávez stia provando la stessa emozione positiva che in molti abbiamo provato a nostra volta quando ci avvicinammo per la prima volta alle opere di questo grande del pensiero rivoluzionario. Chávez sta provando qualcosa di analogo, favorito in questo anche dal fatto di non avere una provenienza staliniana (non l’aveva nemmeno Fidel Castro, ma questi sembra ignorare tutto di Trotsky e batterà ogni precedente record, riuscendo a morire senza averlo mai nominato nemmeno una volta in vita sua). È possibile, quindi, che questa scoperta fresca e spontanea, nonché istintiva del pensiero trotskiano abbia determinato in Chávez la convinzione che soltanto con un’organizzazione internazionale si possa far uscire la rivoluzione venezuelana dall’impasse in cui appare al momento bloccata.
Motivazione dignitosissima e storicamente giustificata, se essa fosse vera. Ma densa di rischi involutivi di varia natura se essa restasse sola e non si accompagnasse a una visione globale e analiticamente fondata delle necessità della lotta anticapitalistica su scala mondiale. E questo ci porta all’altra possibile motivazione per il lancio della Quinta in questo momento.
...e la minaccia militare degli Usa
Il fattore ideologico potrebbe essere confluito insieme a una valutazione politico-militare riguardo a una presunta accresciuta aggressività degli Usa nelle zone latinoamericane e caraibiche più vicine al Venezuela e a Cuba. Argomenti che confermerebbero questa valutazione sono il coinvolgimento degli Usa nel golpe in Honduras e l’impianto di 11 nuove basi militari in Colombia. L’occupazione di Haiti da parte dei marines dopo il terremoto, al momento del lancio della Quinta non c’era stata, ma oggi viene citata a dimostrazione della nuova invadenza politico-militare da parte degli Usa. Il governo venezuelano e cubano sono convinti che gli Usa stiano tessendo nuove trame per l’accerchiamento dei due paesi oggi all’avanguardia del sentimento antiyankee in America latina e lo hanno anche messo per iscritto in un recente comunicato congiunto.
Io non condivido l’analisi semplicistica con cui ampli settori della sinistra latinoamericana hanno denunciato il golpe in Honduras come una mossa degli Usa. In realtà agli Usa andava benissimo il governo precedente, anche se hanno poi fatto il possibile per aiutare i golpisti ad acquisire credibilità. Tutto ciò è molto diverso dalle procedure che gli Usa adottavano quando decidevano di fare un golpe di propria iniziativa. E tra fare un golpe o appoggiare a cose fatte il golpe promosso da altri, vi sono grandi differenze di ordine analitico, anche se possono essere poco visibili sul terreno concreto.
Non sono quindi d’accordo sull’accresciuta immediatezza di tale pericolo e non riesco a vedere un salto di qualità rispetto alle politiche aggressive degli Usa nel passato più o meno recente, per non dire all’epoca di Bush. Posso ovviamente sbagliare nella mia analisi e può darsi che a Caracas e all’Avana dispongano di informazioni provenienti dai rispettivi servizi segreti che a me mancano e che non affiorano nemmeno tra le righe negli articoli dei più lucidi commentatori politici. E comunque, sbagliata o giusta che sia l’analisi del contesto politico-militare attuale, resta pur sempre da dimostrare che questa paura sia stata una motivazione decisiva nello spingere Chávez a proporre la Quinta, a farlo a tempi rapidi e con chiunque ci voglia stare. Ma allora perché non coinvolgere i cubani fin dall’inizio? Come già detto, i riferimenti a Trotsky e alla Quarta non sono certo adatti a favorire un’adesione da parte dei Castro alla fase d’avvio della nuova Internazionale.
E poi, che utilità può avere un’internazionale costituita in fretta e furia, con partiti e partitini incapaci di svolgere un ruolo effettivo nei propri paesi, se ha un fondamento il discorso sulla paura di un’aggressione militare? Spero che nessuno s’illuda di poter contrastare concretamente gli Usa sul terreno puramente militare. Anzi, se è vero che con le loro imprese guerresche nel mondo gli Usa si stanno facendo male da soli, è altrettanto vero che non sono le proteste o i cortei pacifisti che riusciranno a fermarli. Lo si è visto fin troppo chiaramente nei mesi di preparazione alla guerra con l’Iraq di Saddam Hussein.
Da parte mia sarei favorevole piuttosto all’altra considerazione (condivisa da altri osservatori politici) secondo cui finché gli Usa saranno impantanati in Iraq, ma soprattutto in Afghanistan, finché esisterà irrisolta la questione iraniana e finché Israele non riuscirà ad ottenere una soluzione di controllo «pacifico» del popolo palestinese, il governo di Washington non potrà permettersi di aprire altri fonti di conflitto militare, meno che mai in America latina. Sulla scala degli obiettivi da distruggere, non ci sono dubbi che l’Iran venga prima del Venezuela, anche in considerazione delle sue grandi risorse petrolifere. Figuriamoci se gli Usa possono aprire un fronte di guerra in America latina lasciandosi alle spalle il problema iraniano.
Il fatto che gli Usa debbano prima tirarsi fuori dai conflitti in cui si trovano impantanati prima di andare ad aggredire altri Paesi in giro per il mondo, mi sembra un argomento forte contro il presunto accrescimento di una minaccia militare degli Usa contro Cuba e il Venezuela. Ma poiché la politica estera degli Usa non sembra corrispondere sempre ai criteri della logica classica, potremmo essere stupiti da improvvisi colpi di scena della nuova amministrazione e dover riconoscere che le paure di Chávez-Castro erano fondate. Fino ad allora, però, continueremo a ritenere che non vi siano indicazioni di un’accresciuta minaccia militare degli Usa in quella zona del mondo.
E inoltre, possiamo forse dire che l’amministrazione di Obama sia la più indicata per condurre questo tipo di nuova aggressività in America latina? Non potrebbe essere, invece, che chi ha avuto la brillante idea di fargli conferire il ridicolo premio Nobel per la pace, lo abbia fatto proprio per tentare di legargli le mani accreditando su scala mediatica l’immagine di un presidente buono, di colore e intenzionato a rompere la continuità con la pessima era di Bush?
A tali quesiti avremo delle rispose nel breve e medio periodo perché l’unica cosa bella delle guerre guerreggiate è che quando vengono combattute lo si viene a sapere pubblicamente, a differenza di quelle spionistiche, di quelle diplomatiche e a volte anche di quelle economiche. Certo è che una Quinta internazionale, fondata in gran fretta per far fronte a un’accresciuta minaccia bellica degli Usa, non solo non offrirebbe alcun aiuto concreto agli aggrediti, ma denoterebbe una considerazione sbagliata, continentalistica e difensivistica dell’internazionale. Incomprensibile poi se, chi propugna una simile concezione dell’internazionale, la accompagna al richiamo storico a Trotsky e alla Quarta di cui dicevamo prima.
Una Quinta internazionale creata per aprire luoghi di conflitto militare qua e là, onde impedire agli Usa di concentrarsi su un un unico obbiettivo, ricorderebbe gli intenti che vi erano stati dietro l’Olas e dietro il lancio indiscriminato di fuochi guerriglieri o gruppi di lotta armata negli anni ‘60. Si trattava all’epoca di distogliere gli Usa dai loro propositi di aggressione militare contro Cuba, impegnandoli in una serie di scaramucce minori. Da nessuna di quelle guerriglie il governo cubano si era mai atteso la ripetizione di un miracolo politico come quello intervenuto a Cuba, e cioè la conquista del potere e l’avvio di un’economia collettivistica. Si attendeva, invece, una frantumazione dell’intervento avversario sul fronte anche militare che vanificasse la portata della minaccia. Quando tale minaccia cessò di esistere come fattore immediato, anche l’aiuto cubano alle guerriglie cessò, né sorsero più nuovi fuochi guerriglieri.
Va detto che la ragione per cui la proposta della Quinta è stata lanciata in questo preciso momento - avendo noi chiarito che il riferimento a Trotsky e la paura dell’aggressione militare non sono sufficienti, nemmeno insieme, a spiegare le motivazioni di fondo che hanno mosso l’animo di Chávez - non appare con chiarezza. Un vero rompicapo, di cui al momento non si riesce a intravedere la soluzione. Il tempo chiarirà.
Pericoli e limiti dell’iniziativa
Abbiamo detto che Chávez è un capo di stato che legge molto e che si lascia condizionare da ciò che legge (si ricordino gli elogi al libro di Noam Chomsky). Ciò confermerebbe l’immagine di sincerità che emana da questo anomalo dirigente politico di cui ho parlato nel ritratto che ho tracciato nel mio libro dedicato al presidente neobolivariano.
Francamente, credo in una sincerità di fondo del personaggio Chávez e lo dico nella piena consapevolezza della marea dilagante di cinismo cui siamo abituati nella vecchia Europa. Aggiungo subito, però, che questa sincerità di fondo verrà travolta dal pressappochismo che predomina nel mondo degli intellettuali della sinistra latinoamericana. Fin dal processo di fondazione della Quinta possiamo prevedere che si dilanieranno fra trotskisti ed ex, fra elettoralisti ed ex guerriglieristi, fra gli ancora-peronisti e i neoindigenisti, fra marxisti, althusseriani e populisti: una babele di discorsi ideologici, tutti miranti a dimostrare che chi parla ha ragione o l’ha avuta o la potrebbe avere. Occorrerà, inoltre, molta pazienza, ma anche molta conoscenza delle diatribe latinoamericane degli ultimi decenni, per non farsi travolgere dalle chiacchiere retoriche ed esibizionistiche che sono una costante dei convegni della sinistra latinoamericana, molto più di quanto non avvenga in Europa. La tradizione del caudillismo e l’esempio dato dalla grande oratoria dei capi di stato più carismatici, non possono che incoraggiare le tendenze a svicolare dal confronto con i reali nodi politici e a nascondersi invece dietro la retorica e l’esibizionismo.
La Quinta lanciata da Chávez sarà condizionata fortemente dal fatto di avere - in forma ufficiale o ufficiosa - un centro in un determinato Stato, nella fattispecie il Venezuela o, come si dovrà imparare a dire, la República bolivariana de Venezuela. In un mondo in cui c’è uno spazio tendenzialmente decrescente per l’idea stessa di «Stato-guida», non saremo certo noi a riproporne uno. Per molti, comunque, lo Stato-guida, luminoso faro del socialismo, già esiste e s’identifica con lo Stato cubano e la direzione dei fratelli Castro. Sarà molto difficile avere una discussione serena su questo tema, perché c’è molta emotività al riguardo (ma anche molto ignoranza sulla dinamica storica della Rivoluzione cubana).
La discussione del resto tenderà ad essere molto concreta visto che l’America latina è il continente che offre oggi il livello più alto di radicalità nello scontro fra le classi, nella mobilitazione degli strati più disagiati e nell’instabilità delle formazioni politiche della borghesia. È dall’America latina degli ultimi vent’anni che vengono le esperienze più avanzate di mobilitazione popolare dal basso (cioè senza l’egemonia dei partiti o al di fuori del loro controllo politico), di sollevazioni di intere città, di contestazione delle burocrazie sindacali. E sono questi i problemi ai quali dovrà rispondere in primo luogo la Quinta, scavalcando il cicaleccio esibizionistico degli intellettuali della nomenklatura, di quelli sempre disponibili a firmare qualsiasi appello provenga dall’Avana purché non si chieda loro di operare per l’abolizione del capitalismo nel proprio Paese.
Un’eventuale caduta del governo bolivariano o la morte di Chávez in questa fase iniziale potrebbero avere un ruolo catastrofico per la sopravvivenza della Quinta. Questo pericolo va tenuto bene a mente, anche perché l’eliminazione fisica di Chávez è certamente iscritta come misura di emergenza nell’agenda dei servizi segreti statunitensi che ancora non si perdonano di non averlo ucciso al momento del golpe dell’aprile 2002, quando lo sequestrarono per pochi giorni e dovettero poi rilasciarlo libero sotto la minaccia dell’insurrezione popolare e per il rifiuto di procedere contro Chávez da parte di un settore delle forze armate.
Laddove un’uscita di Chávez dal governo, in seguito a una sua eventuale sconfitta elettorale alle politiche del 2011 e alle presidenziali del 2012, non dev’essere vista come la fine di tutto, come la chiusura temporanea o in prospettiva dell’idea di Quinta internazionale. Sotto certi profili, un ritorno di Chávez all’opposizione potrebbe avere anche degli effetti benefici sull’intero movimento rivoluzionario venezuelano, incrinando i meccanismi di potere che la burocrazia «bolivariana» ha già costituito. Chávez, che finora ha dovuto affrontare i problemi della lotta di classe dall’alto del proprio potere statuale, dovrebbe tornare a farlo dal basso, dopo un eventuale passaggio all’opposizione.
Ma non si dimentichi nemmeno che l’iniziativa per la Quinta è partita da un preciso partito politico (il Psuv) e non da una federazione di movimenti impegnati a lottare sul terreno sociale (come potrebbero essere i Sem Terra brasiliani o lo stesso «sindacalismo classista» di paesi come l’Argentina). Ciò riproporrà il problema della burocrazia, della democrazia diretta e di quella interna alle organizzazioni - temi sui quali l’intellighenzia mondiale «di sinistra» ha cominciato da tempo a riflettere, soprattutto dopo la fallimentare esperienza dello stalinismo al potere.
Negativo sarà il fatto che l’Europa (spodestata dal suo ruolo guida nelle vicende del movimento operaio internazionale) al momento non sembra minimamente intenzionata a farsi coinvolgere.
Negative saranno le relazioni più che diplomatiche (di intensa collaborazione e non solo economica) che Chávez ha stabilito con la Cina e con l’Iran, vale a dire paesi capitalistici dittatoriali, egemonizzati da potenti apparati burocratici, di tipo partitico stalinista il primo e militar¬-religioso il secondo.
Negativo sarà il ruolo di Cuba che sul terreno della democrazia (diretta o parlamentare) non sembra disposta a fare concessioni, anche a costo di pagare prezzi elevatissimi.
In generale si cercherà di sorvolare sulla questione della democrazia (con scarse capacità di distinguere fra democrazia diretta e istituzionale). Ciò faciliterà il disinteressamento (se non l’ostilità vera e propria) da parte del variegato movimento anarchico internazionale. Quindi è destinata a protrarsi ancora chissà fino a quando la divisione fratricida in seno al movimento operaio, di cui si è già detto. Sotto questo profilo mi dichiaro pessimista fin d’ora e credo che dovremo esserlo a lungo. Del resto - come disse una volta Hugo Blanco dal palco dell’assemblea generale alla Realidad, in Chiapas - il problema dei problemi per la sinistra in tutto il mondo continua ad essere la democrazia. Non la democrazia delle istituzioni democratico-borghesi, ma quella interna al movimento di massa e nei rapporti fra compagni ed organizzazioni politiche.
Vi saranno, inoltre, anche antagonismi tra correnti nazionali latinoamericane, del tipo peronisti e antiperonisti, ex comunisti ed ex socialisti, ex guerriglieristi rimasti integri ed ex guerriglieristi passati dalla parte del potere. Non sarà facile dotarsi degli strumenti teorici per prevedere gli effetti di questo genere di dinamiche. Per cui occorrerà documentarsi, cercare di capire e magari avere la capacità di tacere là dove non si capisce.
Un ruolo positivo potrebbe averlo la teologia della liberazione se si riuscirà a coinvolgere il Cristianesimo di base e non soltanto i soliti nomi noti (tipo Frei Betto), divenuti ormai parte integrante della nomenklatura.
5. MERITI E VANTAGGI CHE POTRÀ AVERE LA QUINTA
Li elenco per sommi capi, anche perché in parte sono stati già trattati. E comunque non si possono sviluppare qui in maniera esauriente, in mancanza di informazioni più precise su cosa verrà fondato a Caracas.
1) La Quinta contribuisce a rompere l’isolamento dei movimenti rivoluzionari (o aspiranti tali) nel mondo che - a parte l’esperienza controversa e sofferta della Quarta internazionale - risale ormai ai primi anni ‘20.
2) Può costringere alcuni governi - per il momento quelli di Bolivia ed Ecuador (e alla lontana di Brasile e Uruguay) - a rallentare la loro marcia verso l’integrazione nei nuovi assetti che l’imperialismo sta disegnando per l’America latina. Dal punto di vista propagandistico non sono da escludere nemmeno delle professioni puramente demagogiche di incoraggiamento per la Quinta da parte di questi e altri governi. È probabile, tuttavia, che nemmeno lo stesso governo venezuelano si renda conto che la semplice esistenza della Quinta getta una nuova luce sul progetto dell’Alba: dal nostro punto di vista si tratterebbe di una luce positiva, ma dubito che Lula, Morales o Mujica la pensino alla stessa maniera.
3) Anche in altre parti del mondo, le avanguardie politiche dovranno pronunciarsi pro o contro la Quinta, prima o poi. Chi prima e chi poi. È un fatto senz’altro positivo che la più interessante e la più gloriosa tra le organizzazioni centriste oggi esistenti al mondo sopravvissute al movimento del ‘68 (Npa, ex Ligue communiste) discuterà, come si è già detto, di una possibile adesione alla Quinta nel prossimo (16°) Congresso mondiale di ciò che resta della ex Quarta internazionale (Segretariato unificato). Dobbiamo seguire con attenzione la discussione che eventualmente si svilupperà, incuranti del fatto che nella crassa ignoranza della sinistra italiana la cosa non susciterà il benché minimo interesse.
Il discorso che qui facciamo per la Francia può avere delle ricadute positive in altri Paesi europei e in Paesi latinoamericani con una forte tradizione «quartinternazionalista» (Argentina, Messico, Bolivia), anche se difficilmente ne potrà avere negli Usa attuali e meno che mai nei Paesi arabi (come quelli del Maghreb, Egitto ecc.) che pure avevano aperto alcune speranze di sviluppo del marxismo rivoluzionario nel passato. Al momento non è sopravvissuto nulla in queste regioni a forte dominanza islamica. Idem dicasi per i Paesi dell’ex blocco sovietico in Europa dell’Est, anche se per ragioni molto diverse.
4) Possibili effetti positivi sul piano teorico-ideologico: a) Si ricomincerà a parlare di prospettive politiche internazionali e quindi di analisi globale delle lotte di classe nel mondo. b) Si realizzeranno scambi di opinioni e posizioni apertamente anticapitalistiche e rivoluzionarie, non più camuffate da frasi fatte «antineoliberistiche» come nei trascorsi Social Forum o nella convegnistica varia del turismo politico. c) Si apriranno potenzialità perché si diffonda una nuova consapevolezza politica anche sul piano individuale di cosa voglia dire essere rivoluzionari (magari con ricadute positive sul piano etico). d) Ciò avverrà in una prima fase solo a livello di avanguardie, di élites, ma se si ripetessero passate esperienze di lotta radicale di massa - in forma di scioperi generali a oltranza o seminsurrezioni (tipo il Cordobazo nel 1969 o il Caracazo nel 1989) - l’esistenza della Quinta, anche se solo propagandistica, creerebbe un terreno propizio per una socializzazione dello spirito di lotta, se non una vera e propria mobilitazione internazionale di solidarietà. (Un esempio negativo è stata la solidarietà in questi giorni con Haiti, dopo il terremoto, che non ha assunto una dimensione politica, mentre l’occupazione militare degli Usa passava praticamente inosservata.)
5) Francamente non saprei dire se il disinteresse per la proposta di Chávez da parte della ex estrema sinistra (italiana e non solo) sia un bene o un male. La mia parte marxista libertaria dice che è un bene (meno centristi arrivisti o forchettoni rossi sono in giro e meno rischi vi sono di inquinamento ideologico e corruzione politica). Mentre la mia parte rossoutopica dice che è un male (perché intorno ai partitini dei centristi forchettoni o aspiranti tali si ritrovano comunque persone in buona fede, energie ed esperienze da socializzare in senso rivoluzionario e internazionalistico).
6. COME CONTRIBUIRE IN QUANTO UTOPIA ROSSA
Al momento il nostro contributo potrà essere solo d’ordine teorico e quindi propagandistico. Nessuno s’illuda di poter concretizzare significativamente e a breve scadenza la problematica della Quinta internazionale nella lotta sindacale, studentesca, ambientale, femminista, per gli immigrati o tra le comunità in rivolta, dalla val Bembrana alle Serre calabresi che siano: il nostro contributo dovrà continuare ad esprimersi con i materiali che siamo fin qui riusciti a produrre, in primo luogo con i libri dedicati a determinati temi politici d’interesse generale e, ovviamente, alla teoria rivoluzionaria.
Rientra in questa linea di lavoro anche la lettera ufficiale che ho inviato direttamente a Hugo Chávez l’11 gennaio 2010, in cui presento l’Associazione politica Utopia rossa, chiedendo di potergli fare un’ampia intervista sul tema della Quinta e in cui l’informo anche che Michele Nobile ed io stiamo scrivendo un libro sul tema. E rientra in questa linea anche la decisione per l’appunto di scrivere un libro specifico sul significato odierno di una Quinta internazionale.
Ci verrà chiesto, prima o poi, di dare un contributo concreto alla costruzione della Quinta in Italia o in altri paesi in cui abbiamo compagni, contatti o un minimo d’influenza. Sarà per noi una grande occasione per ampliare il nostro raggio di esperienza politica e per uscire dall’isolamento forzato in cui ci troviamo in un paese come l’Italia, ideologicamente rovinato dalla lunga tradizione di organizzativismo nazionale (che ha il suo antecedente storico nel tagliattismo), quando non addirittura di semplice localismo o personalismo.
L’esperienza del costruire è sempre fondamentalmente positiva, apportatrice di entusiasmo e ricca di insegnamenti. Quindi lo sarà anche per Utopia rossa. Ma se dietro quell’entusiasmo vi sarà l’illusione di poter coordinare o dirigere lotte specifiche o di settore dobbiamo sapere che si tratterà di puro e semplice autoinganno, alimentato da affermazioni demagogiche. Per tutta una fase la Quinta che sta per nascere non potrà essere l’internazionale che coordina situazioni importanti di lotta, anche se il suo obiettivo politico a medio termine è quello di arrivare ad esserlo, d’essere cioè l’internazionale dei movimenti che lottano in qualsiasi parte del mondo. Se in America latina si possono già vedere i primi pallidi embrioni di queste strutture sovranazionali in organismi preesistenti come Via Campesina o nei Coordinamenti del sindacalismo classista, in Europa non abbiamo nulla del genere e il lavoro è tutto da fare.
A chi vorrà coinvolgerci nella demagogia parolaia così radicata nella tradizione dell’ex estrema sinistra, noi dovremo fermamente ribattere che al momento il confronto riguarda fondamentalmente questioni di analisi o di metodo e non forme concrete d’intervento al livello di massa.
Dovremo arrivare ad organizzare delle iniziative pubbliche per propagandare i temi della Quinta, ma difficilmente si potrà fare qualcosa insieme ad altri organismi prima della scadenza di aprile già fissata. A seconda di come si svolgerà questo primo congresso di fondazione a Caracas, potremo stabilire meglio tempi e forme della propaganda in Italia e altrove.
Non è il caso di nutrire facili ottimismi, ma è certo che una crescita della Quinta costringerebbe i responsabili delle attuali divisioni nel sindacalismo di base, alternativo, classista ecc. a riconsiderare la fondatezza delle proprie posizioni. Non è concepibile infatti che la Quinta non sia ultraunitaria sul piano sindacale. E noi forse troveremmo maggior ascolto di quanto non accada ora alle nostre posizioni contrarie alle divisioni sindacali, ma favorevoli alla costruzione di una tendenza sindacale rossa intersindacale e intercategoriale (Su questi temi la nostra discussione è appena iniziata, ma personalmente ritengo che il modello cui dovremmo aspirare è quello degli Wobblies e della storica aspirazione del sindacalismo rivoluzionario: l’appartenenza alla «One big union», un unico grande sindacato dei lavoratori del braccio e della mente, incurante di divisioni professionali, categoriali, politiche, etniche, religiose ecc. Le uniche differenziazioni interne alla One big union che possiamo accettare sono quelle indotte dallo sviluppo stesso della lotta, purché non assumano la forma di scissioni o espulsioni).
Ciò non significa dire che la Quinta avrà una precisa piattaforma sindacale o precise parole d’ordine in campo sociale, abitativo, dei prezzi o dell’occupazione. Questi sono campi in cui dovrà prevalere il principio dell’autodeterminazione degli obiettivi da parte di chi partecipa alla lotta. La Quinta potrebbe fornire un tessuto connettivo, ma noi non siamo ancora collocati in una posizione adeguata per fungere da collante e fornire tale tessuto.
7. LA QUESTIONE DEL «PROGRAMMA»
Il mito del «Programma»
C’è poi la questione del «Programma», con la P maiuscola vista la ripetitività con cui viene evocato in tutti i testi finora apparsi di critica o di adesione all’idea della Quinta (soprattutto da parte di correnti politiche latinoamericane, le uniche, a parte il Segretariato unificato, che siano intervenute finora). La frase che ricorre più spesso è riassumibile nel modo seguente: «La Quinta deve dotarsi di un Programma e di una struttura organizzativa corrispondente a quel Programma, così come è stato con le internazionali precedenti».
In primo luogo va contestato intermini storici che ciò sia vero. Lo abbiamo già mostrato nella parte storiografica introduttiva di questa relazione: la Prima si unificò giustamente sulla sostanza del nome (Associazione internazionale dei lavoratori), non adottò mai un programma, accolse tutte le correnti del movimento operaio e della borghesia radicale dell’epoca che vollero farne parte ed entrò in crisi autodistruttiva proprio quando i marxisti cercarono di imporre un loro linea politica al resto delle componenti.
La Seconda non ebbe mai una linea politica comune (per fortuna!), a parte l’obbiettivo della creazione e difesa dei primi sindacati e dei primi partiti di massa: tutte d’accordo nel cercare forme di mediazione o collaborazione con il proprio Stato borghese, le direzioni socialiste si dichiararono guerra l’un l’altra davanti alla prima decisione programmatica internazionale veramente importante (il famigerato 4 agosto 1914).
La Terza adottò risoluzioni tattiche su tutto e di più, ma non ebbe mai un programma reale, condiviso e applicabile. All’atto della fondazione affidò alle 21 condizioni il criterio per stabilire chi ne dovesse far parte, cioè chi fosse «comunista» e chi andasse escluso perché non lo era, indipendentemente delle grandi divergenze teoriche, storiche e di pratica politica che caratterizzavano tutte le organizzazioni che aderirono (tra queste abbiamo già ricordato gli Iww, gli Wobblies). Il riconoscimento dell’egemonia della Russia soviettista fece però da collante, consentendo la discussione di alcuni temi (come la questione tedesca o il fronte unico prima versione) senza mai tradurli in pratica collettiva, finché lo stalinismo non troncò qualsiasi possibilità di discutere di linea politica, parziale o generale che fosse: questa com’è noto veniva decisa da Stalin in persona e poi imposta paese per paese, svolte e controsvolte comprese, nonostante la lunga serie di sconfitte e di smentite storiche. La Terza internazionale collezionò solo sconfitte, non tradusse in pratica alcun programma politico (a parte la difesa incondizionata di tutto ciò che poteva interessare l’Urss) e si autosciolse per le ragioni nazionalistiche che abbiamo già ricordato.
La Quarta fu l’unica ad avere come testo fondativo un documento che si può definire programmatico nel senso pieno del termine. Ma nessuna organizzazione poté mai applicarlo nemmeno in minima parte, e questo per dei marxisti è un fatto incompatibile con l’idea di programma che, a differenza dell’ideologia intesa come Weltanschauung [visione del mondo], richiede d’essere applicato, anche per avere una verifica nella realtà (al contrario di quanto accade con i sognatori o i demagoghi che rifuggono dal confronto con la realtà). E comunque, mentre alcune indicazioni metodologiche di quel programma hanno conservato una loro validità, i suoi contenuti erano obsoleti già meno di due anni dopo il 1938, quando l’alleanza di Stalin con Hitler rovesciò completamente l’analisi di politica internazionale su cui Trotsky l’aveva concepito. Non parliamo poi dell’effetto provocato dall’uccisione dello stesso Trotsky e dalla scomparsa delle sezioni della Quarta, nonché dalla complessa vicenda storica del centrismo sui generis. Dov’era il programma nel 1940? E alla fine della guerra? E dopo il 1956? e dopo il ‘68? E oggi?
I contesti internazionali cambiano, come cambiano le direzioni politiche, i livelli di coscienza (a seconda delle vittorie e delle sconfitte), gli orientamenti tattici (fase offensiva o difensiva?), le alleanze di ogni genere.
A rigor di termini, un’internazionale fondata su un programma ben preciso (esplicito sulla strategia e, se possibile, anche sulla tattica) come viene chiesto anche per la Quinta da più parti, pone un primissimo problema oggi irrisolvibile: chi lo formula un simile programma? chi ha l’autorità morale e teorica per farlo? chi ha accumulato tanta esperienza nella lotta di classe dell’ultimo secolo e mezzo per poter trasferire o condensare tale esperienza collettiva del movimento operaio mondiale in un testo unitario?
L’impossibilità di rispondere a tale domanda (a parte la megalomania di qualcuno che si autocandidi, ma solo per ripetere frasi fatte e dogmi del passato remoto) basterebbe da sola a dimostrare quanto insensata sia la richiesta di «Programma», di linea politica, di indicazioni strategiche e addirittura tattiche rivolta attualmente alla direzione venezuelana che ha avuto il coraggio di lanciare l’iniziativa ma che probabilmente non sa nemmeno da dove cominciare, visto che per riannodare i fili con le esperienze precedenti (compito teorico indispensabile) non basta certo chiamare «Quinta» la Quinta e ricordare in questo modo che sono esistite altre quattro internazionali.
Due, tre, molte «Quinte internazionali»
Ma non è questo l’aspetto peggiore. Il vero disastro ideologico di una simile procedura è che se si adottasse fin d’ora un programma organico e confezionato (ammettendo che sia ben confezionato e lasciando perdere per il momento chi ne potrebbe essere l’autore) la presunta Quinta internazionale tale non sarebbe sin dalla nascita. Essa nascerebbe, infatti, fin da subito in forma scissionistica, perché ne potrebbero far parte solo coloro che sono d’accordo su quel testo, mentre dovrebbero rinunciare coloro che sono in disaccordo.
Questi ultimi si dovranno fare una Quinta internazionale per conto proprio (ammesso che siano d’accordo tra loro sulle ragioni di disaccordo) oppure tornarsene a casa. Inizierebbe in tal modo la guerricciola fra due distinte Quinte internazionali, a loro volta potenziali produttrici di altre scissioni e ricomposizioni, quindi di altre Quinte, secondo un procedimento pseudopolitico (e molto psicopatologico) che noi ex della Quarta abbiamo vissuto troppo a lungo per aver ancora voglia di ripercorrerne la strada. E comunque, avendo già compiuto l’esperienza in termini storici, sarebbe follia suggerire di compierla nuovamente. Eppure è quanto viene richiesto a gran voce dai primi entusiasti aderenti all’appello per la Quinta lanciato da Chávez.
Ma non è finita. Perché alla prima seria modifica del contesto internazionale o alla prima seria divergenza «programmatica» fra gli aderenti, gli esponenti ufficiali della Quinta ufficiale potranno dividersi nuovamente: chi conquisterà la maggioranza dei voti nel Comitato esecutivo internazionale, manterrà la sigla (anche se la sua linea può essere sbagliata, come accadde spesso nella Quarta-Segretariato unificato) e gli altri se ne andranno via, a casa, o a creare una nuova Quinta internazionale o a ricongiungersi con quegli spezzoni di Quinta che già si erano fatti un’altra Quinta per conto proprio. Di lì il gioco delle frammentazioni e ricomposizioni in cui i trotskoidi sono veramente maestri: direi imbattibili, se non avessi il timore di dar ragione in questo modo a tutti quei raggruppamenti non-trotskoidi nazionali o locali che a costruire un’internazionale non hanno nemmeno provato e quindi non hanno aquisito alcun diritto a ironizzare sulle vicende un po’ tragicomiche del movimento trotskoide internazionale (healisti, lambertisti, posadisti e morenisti compresi).
Ah, dimenticavo che nel processo di frammentazione (prodotto dalla presunta «discussione programmatica») si potrebbero creare delle combinazioni organizzative interessanti tra le varie Quinte di nuova fattura e le vecchie Quarte - ciò sempre rigorosamente in omaggio alle affinità o alle discriminanti «programmatiche».
Ci sarebbe poi il problemino non indifferente di come far accettare il Programma formulato a livello internazionale alle singole sezioni nazionali, o alle molteplici sezioni nazionali (presumendo che in ogni paese sopravviva la libertà di organizzazione politica e le persone con idee politiche simili possano associarsi in determinate organizzazioni e non in altre, senza per questo essere scomunicate da un ipotetico «Centro» internazionale).
Nel recente congresso in cui ha deciso di aderire alla Quinta, il Fronte Farabundo Martí del Salvador ha stabilito chiaramente che non vi dovrà essere un centro internazionale che detti la linea alle singole sezioni nazionali. Nel passato solo la Quarta ha tentato di far rispettare un programma unico alle sue varie sezioni nel mondo: quello del ‘38, con tutti i successivi aggiornamenti prodotti nei congressi mondiali (fondamentale quello detto di «riunificazione» del 1963 che rimane ancor oggi un modello insuperato - sul piano teorico - di come si possano formulare un’analisi interconnessa del contesto mondiale, costruendovi sopra delle linee programmatiche). Ma poi ha dovuto sempre far finta di ignorare che ogni sezione faceva quello che voleva nel proprio paese, in accordo o contro le linee di programma stabilite nei congressi mondiali.
Mi si potrebbe obiettare che anche la Fmr si dotò di un programma internazionale destinato ad essere rispettato dalle sue (poche) sezioni nazionali. Non sarei d’accordo. Intanto perché noi non redigemmo un programma, ma una «Dichiarazione programmatica», contenente linee di analisi comune, accompagnate da indicazioni metodologiche, senza alcuna pretesa di dettare una linea da applicare paese per paese. E poi, il fatto che la discutemmo in tre lingue per cinque anni (gli anni di esistenza della Fmr), aggiornndola ed emendandola in continuazione, dimostra il carattere di «work in progress», di processo di continua elaborazione cui quel testo era destinato. Non a caso esso conserva ancora oggi un valore sul piano delle indicazioni metodologiche, pur avendolo perduto sul piano dell’analisi del contesto internazionale (come è ovvio che sia).
E comunque, dove stanno oggi gli Andrés Nin, i Pierre Naville, gli Hugo Blanco, gli Ernest Mandel, i Daniel Bensaïd, ma anche i Che Guevara dotati di esperienza pratica, di formazione teorica e soprattutto del prestigio internazionale che consenta loro di stabilire cosa i rivoluzionari debbano fare per es. in Afghanistan, in Olanda, in Alaska, in Russia, in Libia o in Paraguay? E dopo averlo stabilito, come verificare l’attinenza da parte delle singole sezioni al presunto «Programma» rivoluzionario elaborato a Caracas che probabilmente non troverebbe consenzienti nemmeno le masse lavoratrici venezuelane?
Ah, dimenticavo che se per caso la Quinta nascesse oggi con un «Programma» ritagliato appositamente per aiutare il movimento neobolivariano a governare il Venezuela, nell’ipotesi sciagurata di perdita delle elezioni da parte del Psuv nel 2011, ci troveremmo nella necessità di riscrivere il programma per adattarlo alle necessità di un Psuv passato all’opposizione. Ma ci troveremmo privi anche del sostegno materiale e morale che alla nascente Quinta internazionale dovrebbe provenire dal fatto che Chávez è al governo del Venezuela e il movimento neobolivariano ha acquisito un determinato prestigio a livello continentale. Un programma politico degno del nome non potrebbe non risentire del fatto che al posto del Psuv tornasse al governo la destra reazionaria e padronale.
Il metodo de «la lista della spesa»
Su questa follia della necessità di un Programma ben preciso che la Quinta si dovrebbe dare il 16 aprile del 2010 a me viene francamente da ridere. Non riesco a credere che persone intelligenti e psicologicamente equilibrate possano pensare di proporre o addirittura di realizzare una simile sciocchezza. Ma se intendono insistere su tale insensatezza, vuol dire che dalla storia recente e passata del movimento operaio non sono riusciti a ricavare nemmeno questa lezione elementare. La verità è che molti di coloro che reclamano a gran voce un «Programma» non hanno idea di cosa un programma rivoluzionario sia. Come la maggior parte dei gruppi, gruppetti o partitini che esistono a mondo, essi confondono l’elenco delle rivendicazioni sindacali, politiche, democratiche e culturali per le quali si lotta (ed è giusto lottare) con la prospettiva rivoluzionaria. Quindi giù a redigere l’elenco delle richieste salariali e occupazionali per i lavoratori, delle varie formule di Riforma agraria per i contadini, delle guerre alle quali non prendere più parte, delle basi imperialistiche da chiudere, dei Trattati internazionali da stracciare ecc.
Per questa procedura che accomuna la quasi totalità della gruppettistica mondiale (e italiana in particolare) noi abbiamo da tempo adottato la definizione di «lista della spesa», che purtroppo non è facile da tradurre in altre lingue, ma rende bene l’idea. Si redige la lista delle rivendicazioni «concrete» secondo i propri desideri (o secondo quelli di un’astratta classe operaia collocata in un astratto contesto politico), la si confronta con quella di altri raggruppamenti in modo da dimostrare la bontà della propria lista e la negatività di quella altrui (mai che si cerchino i punti in comune!) e poi si conclude che se ci fosse un partito rivoluzionario con seguito di massa quello sarebbe il programma da adottare; nell’attesa di un simile demiurgo, ci si dovrà però accontentare di fare campagne elettorali e raccogliere fondi per l’organizzazione: il tempo dimostrerà la giustezza della procedura (e comunque costringerà a continui ritocchi della lista della spesa).
Nei casi di maggiore cultura politica si cerca di caratterizzare la propria lista della spesa come una concretizzazione della metodologia degli obiettivi transitori, ma ancora una volta si giustificherà con l’assenza del partito il fatto che la dinamica transitoria non prenda l’avvio. Questo perché l’ignoranza più comune è che vi siano obiettivi transitori in quanto tali e altri che non lo sono (sempre in quanto tali), senza capire che ciò che rende transitori (e quindi potenzialmente rivoluzionari) alcuni obiettivi e non altri è il contesto politico in cui determinate parole d’ordine vanno a collocarsi, se agitate ovviamente da chi è in grado di agitarle e non da chi dovrebbe esserci ma puntualmente manca ai grandi appuntamenti della storia.
Eppure basterebbe ricordare che nell’unica vera rivoluzione operaia e socialista che abbia trionfato al mondo - quella dell’Ottobre 1917 - le parole d’ordine che la consentirono furono solo due: «fine della guerra» e «tutto il potere ai Soviet» (lascio sullo sfondo le aspettative di riforma agraria nelle campagne che in quanto tali non si concretizzarono in una parola d’ordine). Ma solo la seconda fu quella decisiva, che trascinò le masse lavoratrici russe a prendere il potere. Ed è sintomatico che quella parola d’ordine fosse agitata da circa otto diverse correnti politiche (tutte presenti nei Soviet ovviamente), tra le quali la più celebre e la più agguerrita fu certamente quella bolscevica. (Tanto agguerrita, come sappiamo, da far fuori nel giro di pochi anni tutte le altre correnti che erano confluite su quel programma rivoluzionario, facendo fuori gli stessi soviet e persino quelle correnti all’interno del proprio partito che non condividevano la direzione in cui ci stava muovendo la Rivoluzione.)
In un contesto fondamentalmente latinoamericano, come quello che prevarrà di certo a Caracas, non ci vuole molto a immaginare come si articolerà la lista della spesa, visto che il consenso è assicurato al cento per cento su tutte le rivendicazioni miranti a distruggere l’invadenza economica, militare, politica e culturale degli Usa nel Continente e nel resto del mondo. Si possono già prevedere le grandi dichiarazioni altisonanti che denunciano le manovre del governo di Washington e indicano ricette su come opporvisi; i grandi appalusi prolungati sui punti più incisivamente antimperialistici (sempre in senso puramente antistatunitense, sfiorando il meno possibile l’esistenza di altri imperialismi nazionali, e tacendo del tutto sulla pericolosità di nuove potenze capitalistiche emergenti come la Cina o la Russia - anzi la Cina c’è il rischio che venga considerata una potenza capitalistica amica); la commozione nel rilanciare alcune parole d’ordine unitarie che in America latina costituivano già il sogno di Bolívar, Martí o Sandino, e così via, prima di cominciare a elencare dettagliatamente cosa fare per salvare la foresta amazzonica, per difendere la biodiversità, per garantire lavoro e assistenza a tutti, la casa, gli ospedali, la promozione scolastica e culturale. Più tante altre «questioncelle» che ora non elenco per non tediare, ma alcune delle quali potrebbero costituire oggetto di scontro o differenziazione. Sono ovviamente (e come sempre da quasi due secoli) quelle riguardanti la democrazia e la libertà individuale, sia all’interno dei partiti, sia all’interno delle istituzioni statali: una pagina nera e con tradizione nera, sulla quale si deciderà probabilmente di soprassedere, visto che sulla democrazia ci si divide, mentre sulla lista della spesa ci si unisce (benché in termini logici dovrebbe essere il contrario). E poi, il problema della democrazia non è così urgente: lo si può rinviare a un secondo momento, dopo la conquista del potere...
8. LA PIÙ AMPIA UNITÀ SU BASI DI PRINCIPIO
Aderendo alla Quinta internazionale non vedo alcuna ragione per cui sciogliere l’Associazione Utopia rossa. Spero che nessuno ce lo chieda perché una simile richiesta andrebbe contro la necessità di valorizzare il massimo delle energie disponibili su scala mondiale, rispettando le tradizioni di ognuno e cercando di ricavare il meglio dall’esperienza di ognuno. Nulla impedisce che Ur assuma altre forme organizzative, conservando una forma associativa di aggregazione in campo teorico-culturale, continuando a valorizzare il patrimonio accumulato sia come antica Fmr internazionale (dal 1973 ai primi anni ‘80), sia come Utopia rossa.
Sul piano della produzione teorica, in Italia non siamo secondi a nessuno per qualità e quantità del lavoro teorico, condensato nei libri di Michele Nobile, Antonella Marazzi, Pier Francesco Zarcone, del sottoscritto, oltre ai contributi di altri compagni sparsi nei 6 volumi fin qui pubblicati o in quelli in preparazione della collana Utopia rossa: il tutto in un quadro unitario e interconnesso di ricerca teorica e non come semplice sommatoria di contributi individuali (un’altra grande differenza con intellighenzie e nomenklature varie). Anche su scala internazionale l’esperienza di Ur rappresenta una rara eccezione, in controtendenza rispetto al processo di degenerazione ideologica delle ex estreme sinistre e del movimento operaio organizzato più in generale.
Tutto ciò non viene qui ricordato per spirito di autocelebrazione dei compagni/compagne che hanno partecipato a questo lungo lavoro di elaborazione, ma perché dobbiamo essere consapevoli delle enormi responsabilità che ricadono sulle nostre spalle, proprio in considerazione dell’esperienza accumulata e la lunga strada percorsa. Rivendicare una continuità di princìpi e di elaborazione teorica dal 1973 ad oggi non è uno scherzo, e sicuramente non è un fenomeno comune. Provate a dirlo a chi in questi quarant’anni ha fatto e disfatto partitini, cambiando linee e programmi, senza lasciare dietro di sè alcun patrimonio teorico collettivo (ma in genere nemmeno individuale). O a chi ancor oggi continua a dar vita a gruppetti sulla base, nei casi migliori, di considerazioni politiche nazionali, locali o comunque congiunturali (a volte semplicemente personali).
Noi possiamo rivendicare a testa alta il merito etico-politico di non aver mai fatto una scissione e di non aver mai espulso nessuno nella storia ormai quasi quarantennale della nostra corrente, da quando nascemmo nel 1973 come Terza tendenza internazionale in seno alla Quarta; poi Fmr internazionale al momento della nostra espulsione in Italia e all’estero; poi frazione esterna della Quarta fino all’autoscioglimento nel 1980 (ci sciogliemmo per non dar vita all’ennesimo grupetto autoreferenziale - caso quasi unico nella storia della gruppettistica mondiale); per arrivare al 1983 quando prendemmo atto della morte programmatica anche della vecchia Quarta di Trotsky. Ciò fa sì che noi non si abbia la benché minima responsabilità per la ridicola frammentazione che caratterizza da decenni l’ex estrema sinistra. Se fosse dipeso da noi, ci si troverebbe oggi tutti nella stessa organizzazione internazionale, a separarci nella discussione, ma a unirci nella lotta.
Poi la lunga traversata del deserto, negli anni in cui saliva e scendeva il mito di Democrazia proletaria, prima che dal 1990 cominciasse a salire e scendere il mito del Prc - un mito che è stato particolarmente distruttivo fino a che non ha rivelato la sua vera natura con l’entrata nei governi dell’imperialismo italiano (a votare guerre, finanziarie e tutto ciò che la borghesia chiedeva), ma solo dopo aver creato veramente un deserto intorno a sè, nel senso che a non starvi dentro ti condannavi all’isolamento totale. Quelli furono per noi anni dedicati all’approfondimento teorico, finché con la dinamica politica aperta dai fatti di Genova nel 2001 si crearono le condizioni per ricominciare un’attività rivoluzionaria esterna al Prc, creando l’associazione Utopia rossa.
Questa è stata fondata sull’esperienza del passato, ma con un metodo psicologicamente sano di concepire la politica, senza apparati, statuti, quote obbligatorie, in un continuo rapporto umano e libertario tra i compagni e senza mai venir meno neanche in un punto e virgola ai princìpi dell’internazionalismo rivoluzionario. E anche questa è una grande anomalia rispetto alla gruppettistica italiana e internazionale.
Cosa significa contribuire alla costruzione della Quinta sulla base dell’esperienza di Utopia rossa?
Significa estendere al progetto internazionale la metodologia che in Italia sta dando i suoi frutti e che ha fatto toccare con mano a tutti noi che si possono cercare nuove strade per fare politica da rivoluzionari e star bene psicologicamente, che non c’è bisogno di adottare forme di autoritarismo gerarchico e organizzativo e, soprattutto, che tutto ciò lo si può fare restando integralmente rivoluzionari anticapitalistici e antiburocratici. In parole povere: vivere umanamnte la politica, senza nulla cedere sui princìpi rivoluzionari.
L’essenza metodologica del nostro progetto è consistita nel raccogliere in brevi formulazioni (che chiamiamo umilmente «frasette») alcune idee di fondo, che sono discriminanti per l’essere o non essere dalla parte della rivoluzione e contro il sistema, che sono facili da capire e da spiegare, traducibili in tutte le lingue, comprese quelle dei nuovi immigrati.
Qui le ho proiettate in una prospettiva internazionale, aggiungendo per ogni frasetta il riferimento al passato (in termini di Internazionali) dal quale se ne può ricavare l’essenza ideale o il valore storico.
Ecco, quindi, le basi di principio (sintetizzate) nel rispetto delle quali propongo di aderire alla Quinta internazionale, senza farne un terreno di disputa teorica o di condizioni irrinunciabili. Diciamo che queste basi ci caratterizzano (caratterizzano il nostro Dna) e che ci piacerebbe che diventassero carne e sangue della nuova Internazionale: non solo come formulazioni propagandistiche, ma anche come linee ideali di azione.
Roberto Massari - Roma, 31 gennaio 2010
[A questo punto il relatore
ha proposto la formulazione di alcune «frasette», che sono state discusse
dall’assemblea ed emendate rispetto alle proposte del relatore. Il testo è stato
approvato in forma di mozione conclusiva. Qui di seguito viene riportato nella
sua versione definitiva.
Accanto ad ogni frase viene
indicata in parentesi l’internazionale o la fonte di ispirazione da cui la frase
è ricavata come precipitato storico dell’esperienza del movimento operaio
mondiale.
Tradotta in spagnolo, questa
mozione è stata inviata per via diplomatica a Caracas, all’organismo incaricato
di organizzare la conferenza della Quinta
internazionale.]
MOZIONE
CONCLUSIVA
L’assemblea unitaria
dell’Associazione politica Utopia rossa decide di aderire al processo di
costruzione della Quinta internazionale lanciata - su basi anticapitaliste,
antimperialiste e per il socialismo - dal presidente Hugo Chávez a novembre del
2009, e che avrà il suo momento fondativo a Caracas, ad aprile 2010. L’assemblea
ritiene che per la costruzione della Quinta possa essere utile valorizzare anche
il patrimonio di Utopia rossa, accumulato in questi anni di elaborazione teorica
ed esperienza pratica. Alla luce di tale patrimonio, ritiene che la Quinta debba
essere unitaria, totalmente aperta al mondo del lavoro mentale e materiale, e
senza discriminanti ideologiche. Propone inoltre che la Quinta si organizzi su
basi di principio espresse sinteticamente nelle frasi seguenti:
a) Il fine non giustifica i
mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine
[Priorità dell’etica
(Guevara) e della ricerca della verità scientifica (Seconda internazionale) su
ogni altra considerazione]
b) Sostegno alle lotte di tutti
i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione,
indipendentemente dalle loro direzioni politiche [Inizi della
Terza internazionale]
c) Per l’autonomia e
l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo
[Sinistra di
Zimmerwald nella Seconda internazionale]
d) Unità del mondo del lavoro
mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le
«basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo») [Prima
internazionale]
e) Lotta contro le burocrazie
politiche, per la democrazia diretta e consigliare
[Internazionale
antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
f) Salvare la vita sulla Terra,
salvare l’umanità
[Vera novità
storica della Quinta rispetto alle internazionali precedenti]