Lezioni per il futuro
di Michele Nobile
Esistono diversi ragioni, anche interne agli Stati Uniti, per cui lo sciagurato tentativo di Donald Trump di svendere l’Ucraina alla Russia - i cui motivi e possibili conseguenze meritano una riflessione distinta - è destinato a fallire. Di queste ragioni quella decisiva è che l’aggressione di Putin non è mai stata e non è motivata dalla remota eventualità dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato o da una «minaccia esistenziale» dell’Ucraina alla Russia e ancora meno dal dovere di proteggere i «russi» - cioè gli ucraini russofoni - da un mai esistito tentativo di genocidio da parte di un fantasioso governo «nazista». Per Putin la posta in gioco è sempre stata ed è il controllo politico di tutta l’Ucraina, fallito nel 2004 e nel 2014 grazie alle più potenti mobilitazioni democratiche realizzatesi in Europa negli ultimi decenni; questa volontà di dominio dell’Ucraina è inseparabile dall’intento di costruire una sfera d’influenza eurasiatica della Russia e una identità nazional-imperiale grande-russa che consolidi il regime interno.
Se il problema sottostante l’invasione fosse solo lo status neutrale dell’Ucraina la guerra sarebbe terminata entro la prima settimana di marzo, perché su questo Zelens’kyj e il suo governo erano disposti a cedere. Anzi, avevano già ceduto. Zelens’kyj dichiarò fin dal 25 febbraio 2022 che era disposto a mettere da parte l’aspirazione all’ingresso dell’Ucraina nella Nato (che era stata inserita nella Costituzione ma che rimaneva comunque un obiettivo remoto)1. Conseguentemente, lo status neutrale dell’Ucraina era il presupposto condiviso dei negoziati fra rappresentanti russi e ucraini e delle tre bozze di trattato che vennero discusse tra la fine di febbraio e metà aprile di quell’anno, pubblicate nel corso del 20242. Sono trascorsi tre anni ma chi ha la pazienza di leggere le bozze di trattato e le obiezioni e contro-obiezioni delle due parti può comprendere quanto ora un trattato di pace fra Russia e Ucraina sia ora più improbabile di prima e quanto siano illusorie le presunte aperture di Putin al negoziato. È proprio perché Trump mette in difficoltà l’Ucraina e gli alleati europei e confonde il quadro politico internazionale, puntando a una pace rapida - da farsi in 24 ore che sono diventate mesi -, che il dittatore russo ha ora tutto l’interesse a continuare la sua strisciante offensiva militare mentre tira per le lunghe il dialogo con gli Stati Uniti e fa mostra di disponibilità negoziale.
Il fatto cruciale è che i problemi e le divergenze che esistevano allora sono diventati ancor più gravi nel corso dei tre anni di guerra e si presentano come irrisolvibili, a meno della sconfitta di uno dei belligeranti. L’alternativa è un armistizio che congeli la situazione al fronte. Meglio di niente si dirà, almeno si ferma la strage. Tuttavia questo non sarebbe la pace, men che mai una pace giusta. Sarebbe solo una nuova tappa del conflitto, caratterizzata dall’utilizzo da parte di Putin delle tattiche della «guerra ibrida», possibile preludio alla ripresa della guerra aperta.
La bozza di trattato del sette marzo 2022
Rappresentanti dell’Ucraina e della Russia si incontrarono per la prima volta il 28 febbraio nella località bielorussa di Gomel. L’incontro non produsse nulla perché i russi non chiesero altro che la resa. I colloqui continuarono, mentre le forze d’invasione dilagavano minacciando anche Kyiv, e il sette marzo i russi presentarono una loro bozza di trattato di pace: «Trattato sulla risoluzione della situazione in Ucraina e sulla neutralità dell’Ucraina». Oltre al riferimento di prammatica (e ipocrita) alla Carta delle Nazioni Unite, è interessante che nel Preambolo del trattato si richiamasse la Dichiarazione sulla sovranità statale dell’Ucraina del 16 luglio 1990, nella quale l’Ucraina proclamava l’intenzione di assumere lo status di Paese neutrale e privo di armi nucleari, ma non veniva citato il Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994. Questa assenza non è casuale e si ripropone nelle altre bozze di trattato e pure nel Comunicato di Istanbul, per il semplice motivo che il Memorandum di Budapest è estremamente imbarazzante per la Russia. Ricordo che con questo Memorandum l’Ucraina cedeva alla Federazione Russa il ricchissimo arsenale d’armi nucleari tattiche e strategiche di cui disponeva al momento dell’indipendenza: quasi trent’anni prima l’Ucraina aveva già dimostrato di non voler essere uno Stato nucleare. Da parte sua, la Federazione Russa si era impegnata
«1. (...) A rispettare l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina e gli attuali confini dell’Ucraina».
«2. (...) Ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Ucraina, e che nessuna delle loro armi sarà mai usata contro l’Ucraina eccetto che per autodifesa o altrimenti in accordo con la Carta delle Nazioni Unite».
«3. (...) Ad astenersi dall’esercitare la coercizione economica con l’intento di subordinare ai propri interessi l’esercizio da parte dell’Ucraina dei diritti inerenti alla sua sovranità e quindi assicurarsi vantaggi di qualsiasi tipo».
Oltre che dalla Federazione Russa, in qualità di garanti dell’indipendenza, sovranità e integrità dell’Ucraina, il Memorandum fu sottoscritto da Regno Unito e Stati Uniti, cui si aggiunsero Francia e Cina. Inoltre, richiamare il Memorandum avrebbe significato e significa porre la questione degli Stati garanti non solo della neutralità ma anche dell’indipendenza dell’Ucraina. Dopo tre anni di guerra, nel 2025 la questione si pone ancora, in modo diverso ma ancor più bruciante. Ricordare il Memorandum di Budapest implica anche un giudizio sul valore che il regime di Putin attribuisce agli accordi internazionali, certamente riguardo l’Ucraina. Dall’inizio del XXI secolo quell’accordo venne violato dalle numerose e gravi ingerenze russe nella politica ucraina e dalle interruzioni delle forniture di gas politicamente motivate, non solo all’Ucraina ma anche ad altri Paesi europei; fu in pratica stracciato da Putin nel 2014 con l’annessione della Crimea e il sostegno, diretto e indiretto, alla secessione degli oblast di Done’c e Luhansk. Nel contesto del 2022, la contrarietà russa alla citazione di quel Memorandum non si spiega solo e tanto col fatto che costituisce un memento negativo della infedeltà del regime russo a solenni impegni diplomatici nei confronti dell’Ucraina, quanto col fatto che rimandare al Memorandum implica anche affermare che i confini internazionali dell’Ucraina sono quelli del 1994, precedenti all’annessione della Crimea.
Come nelle seguenti bozze di trattato, l’art. 1 prevedeva l’impegno dell’Ucraina a mantenere uno status di neutralità permanente, da sancire nella Costituzione; questo implica come minimo una revisione del preambolo e degli artt. 85, 102 e 116 della Costituzione dell’Ucraina, secondo cui «Il Presidente dell'Ucraina è garante dell’attuazione del percorso strategico dello Stato per ottenere l’adesione a pieno titolo dell’Ucraina all’Unione Europea e all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico» (terzo comma dell’art. 102). L’articolo presenta un dettagliato elenco di ciò che l’Ucraina nonpuò fare, ad es.: «non stipulare alleanze militari o concludere altri accordi militari con altri Stati», non introdurre «forze armate e formazioni straniere» e non consentire a queste qualsiasi tipo di base o infrastruttura militare. Ciò che meglio qualifica questo articolo non è però quanto è coerente con lo status di Paese neutrale ma altro che con la neutralità non ha nulla a che fare.
Primo: l’art.1 della bozza del sette marzo 2022 prevedeva per l’Ucraina un numero massimo di personale e di mezzi militari, definiti nel primo dei tre allegati: non più di 50 mila militari, compresi gli ufficiali, massimo 35.000 soldati per le forze di terra: il personale delle forze armate ucraine sarebbe stato così ridotto a un quinto di quello del 2022; 300 carri armati e 700 veicoli corazzati da combattimento; 70 aerei e via specificando. L’articolo escludeva che le forze armate ucraine potessero disporre di missili con gittata superiore a 250 km e vietava «qualsiasi tipo di arma che possa essere sviluppato a seguito di ricerche scientifiche». A proposito si può obiettare che la Svizzera e la Svezia, per eccellenza Stati neutrali dai tempi di Napoleone, hanno una popolazione pari a circa un quinto di quella dell’Ucraina (prima dell’invasione): eppure la prima ha un esercito di oltre 100.000 mila unità bene armate e coscrizione obbligatoria; le forze armate della Svezia sono più piccole, ma l’industria bellica svedese esporta anche sistemi d’arma e missili sofisticati; entrambi i Paesi sono da molto tempo fra i maggiori esportatori d’armi (intorno al 14-15° posto nella graduatoria mondiale) eppure nessuno ne ha contestato lo status neutrale. Il fatto è che, proprio perché non aderente a blocchi o patti internazionali di mutua assistenza militare, per autonomamente difendere la propria sovranità e integrità uno Stato neutrale deve disporre di un consistente potenziale militare e dei sistemi d’arma più efficaci, in quantità e in qualità. Le disposizioni militari delle bozze di trattato sono state fra i punti più controversi dei negoziati russo-ucraini e così continuerà ad essere in futuro, perché obiettivo dei russi non è solo che l’Ucraina sia neutrale ma anche che essa sia posta nell’impossibilità di autodifendere la propria sovranità e integrità, trovandosi così esposta a ogni sorta di pressioni dirette e indirette da parte della Russia.
Il problema di un’Ucraina indifesa diviene ancor più grave quando non esista un chiaro meccanismo di garanzie internazionali che assicuri l’intervento degli Stati garanti in sua difesa. Si noti che Svezia e Finlandia hanno aderito alla Nato ponendo fine al loro storico status di Stati neutrali perché l’invasione dell’Ucraina ha dimostrato quanto sia concreta la minaccia revisionista e guerresca del regime di Putin.
Secondo: l’art.1 prevedeva che l’Ucraina avrebbe dovuto ritirare tutti i procedimenti giudiziari e arbitrali mossi contro la Federazione Russa a partire dal 2014, anche presso la Corte internazionale di giustizia, la Corte europea dei diritti dell’uomo, le Nazioni Unite, e che non ne avrebbe presenti altri; chiedeva all’Ucraina di terminare la procedura per l’adesione allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. È comprensibile perché fin dall’inizio Putin e i suoi subordinati abbiano pensato di proteggersi anche formalmente da ricorsi in giudizio circa la violazione di norme basilari del diritto internazionale. Quanto sia strumentale e unilaterale questa imposizione alla parte ucraina è evidenziato dall’art. 8, di cui oltre.
Terzo: l’Ucraina avrebbe dovuto annullare «tutte le sanzioni e le misure restrittive introdotte, a partire dal 2014, nei confronti della Federazione Russa, i suoi funzionari, le persone giuridiche e gli individui», ed eliminare ogni restrizione ad «attività economiche, finanziarie e di altro tipo della Federazione Russa e dei suoi operatori economici»; avrebbe dovuto pubblicamente invitare gli altri Stati ad «annullare e non reintrodurre tutte le sanzioni e le misure restrittive introdotte dal 2014» (art. 2, ribadito nel 7(h)). Le sanzioni erano conseguenza della violazione della Carta delle N.U. da parte della Russia: l’invasione era stata condannata quasi all’unanimità da parte dell’Assemblea generale.
Gli articoli da 4 a 6 risolvevano così la questione territoriale: riconoscimento della Crimea e Sebastopoli come parti della Federazione Russa e dell’indipendenza delle Repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k «entro i confini amministrativi delle ex regioni» dell’Ucraina (art. 4). A ironico complemento dell’eliminazione delle sanzioni ucraine e internazionali alla Russia era l’obbligo imposto all’Ucraina di ripristinare le infrastrutture distrutte nelle due Repubbliche secessioniste, una forma di riparazioni di guerra alla rovescia: pagate dall’aggredito invece che dall’aggressore (art. 5) ma, gentilmente si può ironizzare, la «parte russa farà ogni sforzo per proteggere la proprietà e gli interessi commerciali degli imprenditori ucraini nei territori» delle due Repubbliche (art. 6). Le repubbliche secessioniste erano già da anni pienamente controllate dalla Russia e dal 2022 partecipano con loro contingenti all’invasione totale dell’Ucraina, fatto da solo sufficiente e ridicolizzare la menzogna di Putin circa il genocidio dei «russi» (cioè degli ucraini russofoni) da parte dei «nazisti», in questo caso comandate da un ebreo russofono i cui parenti furono assassinati dai nazisti, quelli veri. Uno strumento dell’espansione imperiale della Russia è la formazione di entità secessioniste come l’Abcasia e l’Ossezia del sud (in Georgia), la Transnistria (in Moldavia) e, appunto, le Repubbliche sedicenti popolari nel Donec’k e nel Luhans’k.
L’art. 8 imponeva all’Ucraina di rispettare le norme internazionali circa i diritti umani e le libertà fondamentali. Un punto curioso, non solo perché unilaterale ma perché questo impegno per l’Ucraina già esiste ma quei diritti e libertà sono palesemente ed estesamente violati dalla Russia, sia all’interno (si ricordi la sorte di Naval’nyj e di qualunque altro oppositore a Putin) sia all’estero, ad es. con il massacro di civili, la tortura e la deportazione di bambini dall’Ucraina (l’ultima una indubbia violazione della Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, secondo l’art. 2(e): «trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro»). Il nocciolo dell’articolo otto è invece nei commi che rimandano all’allegato 3, che elenca nel dettaglio leggi e norme statali ucraine, che si riferiscono alla Chiesa ortodossa russa, al russo, ai simboli sovietici e alla repressione della «glorificazione» e della propaganda in qualsiasi forma del nazismo e del neonazismo. Su questo, oltre.
Gli articoli da 11 a 13 riguardano il ritorno volontario di rifugiati e sfollati in Ucraina, lo scambio delle salme e la liberazione dei prigionieri di guerra e degli internati civili.
Cosa avrebbe ottenuto l’Ucraina approvando questo documento? Una cosa: il cessate il fuoco (прекращения огня), ma solo dal momento dell’entrata in vigore del trattato (art. 10). Tuttavia, mentre le forze terrestri e marittime ucraine avrebbero dovuto ritirarsi nelle loro basi «o nei luoghi concordati con la Federazione Russa», le forze russe avrebbero mantenuto le loro posizioni fino all’adempimento di tutti gli obblighi previsti dal trattato; nello stesso tempo, sarebbe dovuta cessare «immediatamente ogni assistenza militare e tecnico-militare» all’Ucraina.
Quel che del tutto manca in questa bozza proposta dai russi è qualsiasi dispositivo di garanzia della sicurezza e indipendenza dell’Ucraina, nonostante l’applicazione delle disposizioni militari del trattato l’avrebbe resa indifendibile. Il trattato si presentava aperto ad «altre parti» (art. 17), ma solo nel senso che queste avrebbero dovuto astenersi da accordi militari con l’Ucraina, esercitazioni militari, minaccia o uso della forza contro l'Ucraina, «interferenza in qualsiasi modo negli affari interni» e, come già detto, dal reintrodurre sanzioni contro la Russia (art. 7); prevedeva l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (art. 14) e che nel caso di controversia non risolta la questione sarebbe stata deferita a commissione costituita dalle parti e risolta per consenso o, se non raggiunto, con altra modalità concordata (art. 15). Con quale meccanismo e con quali concrete modalità, anche nei confronti di una delle «parti», si debba assicurare la sicurezza e indipendenza dell’Ucraina non è però dato in questa proposta russa.
La bozza di trattato discussa il 16-17 marzo 2022
I contatti diplomatici fra Russia e Ucraina non si interruppero. Il dieci marzo i ministri degli esteri Kuleba e Lavrov si incontrarono ad Antalya, in Turchia, e nei giorni 16-17 dello stesso mese i rappresentanti delle parti discussero una bozza di trattato proposta dagli ucraini. Il documento è interessante specialmente perché vi sono riportate le obiezioni russe e le contro-obiezioni ucraine: un fatto che contribuisce a chiarire inequivocabilmente, con le stesse parole dei protagonisti, la portata dei contrasti, di cui riporto i più significativi. Le divergenze iniziano fin dalla denominazione del trattato: per gli ucraini doveva riguardare «le garanzie di sicurezza dell’Ucraina»; per i russi «la situazione in Ucraina, la sua neutralità e le garanzie». Nel preambolo gli ucraini inclusero il rimando al Memorandum di Budapest e, come sempre, i russi si opposero.
L’art.1 recita la formula: «L’Ucraina si impegna a sostenere la sua neutralità permanente, dichiarata e sancita dalla Costituzione ucraina». Tuttavia, i rappresentanti russi obiettarono alla frase immediatamente precedente: «fatto salvo il rispetto da parte degli Stati garanti degli obblighi sotto questo trattato». Per i russi la neutralità dell’Ucraina «deve essere senza condizioni». La pretesa di una neutralità assoluta, anche a prescindere dal rispetto degli obblighi indicati dal trattato da parte degli Stati parte, era un’arrogante premessa all’intento della Russia di rendere impotente il dispositivo di garanzia.
Sempre nell’art. 1 (3), si legge un elenco di ciò che sarebbe consentito o vietato all’Ucraina in quanto Stato neutrale:
«(e) non consentire l’ingresso in Ucraina o il dispiegamento in qualsiasi forma nel suo territorio, anche temporaneamente, di formazioni e forze armate straniere, incluso personale militare, eccetto nei seguenti casi: (i) nell’esercizio del diritto d’autodifesa in accordo con la Carta delle Nazioni Unite (in questo caso il dispiegamento sarà effettuato in risposta a una richiesta ufficiale ucraina) e/o (ii) nel caso di seria minaccia alla sovranità, indipendenza, integrità territoriale o neutralità dell’Ucraina [come prima] e/o (...) da un ragionevole numero di personale militare per lavori civili e attività di natura non-militare, in particolare per assistere nell’eliminazione delle conseguenze di emergenze causate da disastri naturali o determinati da tecnologia umana [technogenic disasters]» (corsivi miei).
La Russia considerava inaccettabili le eccezioni alla presenza di militari stranieri in Ucraina in quanto ne sarebbe stato violato lo status neutrale. Al che i rappresentanti ucraini risposero che, benché le stesse eccezioni siano incluse nella Costituzione di Malta (precisamente: art. 1, par. 3, (b) e (d), formulate in modo quasi identico a quanto proposto dall’Ucraina) la Federazione Russa non fa obiezioni allo status neutrale di quello Stato.
Dopo il Preambolo, la questione dei confini riemerge ancora nel par. 2 dell’art. 1: nell’obiezione russa alla formula per cui «Gli Stati garanti riconoscono, rispettano e garantiscono lo status dell’Ucraina come Stato permanentemente neutrale entro i confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina, e si impegnano ad assicurare che questo status sia rispettato a livello internazionale». Per i russi il riferimento ai «confini internazionalmente riconosciuti» era – ed ovviamente lo è ancora - inaccettabile perché, scrissero, «i confini sono cambiati dopo che la Crimea si è unita alla Federazione Russa e la dichiarazione di indipendenza della Dpr e della Lpr». L’obiezione venne ripetuta a proposito dell’art. 3, relativo agli obblighi degli Stati parte del trattato nei confronti dell’Ucraina. Da parte loro, i rappresentanti russi proposero il riconoscimento ucraino della Crimea e di Sebastopoli quali parti integranti della Federazione Russa (art. 6) e l’indipendenza delle Repubbliche popolari di Done’c eLuhansk «entro i confini amministrativi», con i necessari «completi cambiamenti alla legislazione nazionale» (art. 7): con ciò implicando il ritiro delle truppe ucraine da quelle parti degli oblast in questione sotto il loro controllo.
Nell’art. 3(5) figura una importante concessione russa: l’ammissione che il far parte dell’Unione Europea è compatibile con lo status neutrale dell’Ucraina. Tuttavia i rappresentanti russi negarono all’Ucraina la possibilità di far parte della «componente militare» della U. E. e di sottoscrivere «dichiarazioni, decisioni e azioni dirette contro la Russia e i suoi interessi nazionali». Gli ucraini risposero che la Russia non aveva mai contestato lo status neutrale di Austria, Finlandia, Irlanda, Malta e Svezia, nonostante la partecipazione di questi Stati alla politica estera comune e alla politica di difesa della U. E. e a missioni della stessa U. E.; inoltre, dell’Ucraina sarebbe rimasta entro gli obblighi del par. 3(a) dell’art. 1: non intraprendere l’attività contrarie allo status neutrale.
Per quanto riguarda le sanzioni, gli ucraini proposero che «entro un tempo ragionevole» Ucraina e Russia avrebbero costituito una commissione per considerare la loro «reciproca rimozione» (art. 5). Per gli inviati di Putin, invece, prima l’Ucraina e gli altri Stati avrebbero dovuto eliminare sanzioni e restrizioni e poi la Russia avrebbe cancellato le sue misure restrittive. A parte la differenza fra reciprocità e unilateralità, gli ucraini obiettarono fortemente contro questo articolo proposto dai russi ponendo una questione di metodo di ampia portata, applicata anche ad altri problemi: che «un trattato multilaterale non dovrebbe includere disposizioni che regolano soltanto le relazioni fra due parti e, inoltre, non pertinenti all’argomento del trattato (la neutralità dell’Ucraina)» (corsivo mio). In pratica la Russia cercava e ancora cercherà di introdurre in un eventuale trattato delle clausole che le permettano di interferire e far pressioni sulla politica interna ucraina. Per questo motivo l’obiezione venne mossa dagli ucraini anche contro l’inclusione nel trattato della piena libertà di circolazione fra Ucraina e Russia (art. 8), lo status del russo quale lingua ufficiale; e l’art. 9 che prevedeva: a) l’eliminazione di quote e altre restrizioni all’uso della lingua russa; b-e) la messa al bando di organizzazioni neo-naziste, propaganda, manifestazioni e toponimi riconducibili alla glorificazione del nazismo, secondo un elenco di leggi ucraine riportato in annesso; f) garanzia di libertà religiosa e ripristino dei diritti della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca; g) eliminazione di ogni restrizione all’uso del russo nei media e in internet.
Per entrambi gli articoli gli ucraini proposero delle versioni alternative. Per l’art. 9 la loro versione prevedeva - oltre al rimando alle «norme di diritto internazionale circa i diritti umani e le libertà fondamentali» - che «entrambe le parti stipuleranno un accordo per il mutuo rispetto dell’identità etnica, culturale, educativa e linguistica delle minoranze nazionali dell’Ucraina e degli Stati confinanti, sotto il quale alle minoranze nazionali che vivono nel territorio delle parti saranno garantiti i seguenti diritti su base reciproca» (corsivi miei). Da notarsi che la proposta ucraina comprendeva la punizione con norme penali di ogni manifestazione di fascismo, nazismo (neo-nazismo) e antisemitismo, la «proibizione di organizzazioni e movimenti estremisti che predicano l’ideologia del nazismo (neo-nazismo) e della superiorità razziale». Evidente per gli ucraini la necessaria reciprocità delle norme circa le minoranze nazionali, relativamente all’unilateralità dei russi e alla pignola indicazioni delle normative ucraine da cancellare. Il vero obiettivo di quest’ultima richiesta è l’eliminazione della condanna dello stalinismo, oltre che del nazismo, del ricordo dell’oppressione nazionale dell’Ucraina e dell’Holodomor, il genocidio da carestia in Ucraina negli anni 1932-3.
Anche in questa bozza secondo i russi le forze ucraine avrebbero dovuto ritirarsi nelle loro basi, al contrario delle forze d’invasione russe. I negoziatori ucraini obiettarono:
«La parte ucraina nota che continua a lavorare sulla bozza di questo trattato nelle circostanze di incessanti ostilità e operazioni militari da parte della Federazione Russa in Ucraina, di costanti fuoco d’artiglieria, bombardamenti e attacchi missilistici da parte della R. F., anche su civili e infrastrutture civili in Ucraina, che includono la distruzione di intere città e villaggi ucraini (tale comportamento è contrario sia alle norme generalmente riconosciute e ai principi del diritto internazionale, sia agli obblighi legali internazionali della F. R. e alla decisione della Corte internazionale. La parte russa ha ignorato le numerose richieste di cessate il fuoco dell’Ucraina».
Ho lasciato per ultima la novità di questa bozza di trattato proposta dall’Ucraina, che è poi questione che si ripresenterà come dirimente in un futuro negoziato: quella degli Stati garanti della sicurezza dell’Ucraina e del dispositivo relativo all’esercizio di queste garanzie. Nella proposta ucraina dell’art. 4, in caso di violazione o minaccia di violazione all’indipendenza, integrità territoriale o [«e» per i russi] neutralità, «gli Stati garanti, di propria iniziativa e/o su richiesta ufficiale dell’Ucraina, si impegnano a compiere immediatamente [un meno forte «compiranno» per i russi] tutti i possibili passi per eliminare tale violazione o minaccia di violazione». I delegati russi ritennero di dover non solo ammorbidire il testo dell’articolo ma di proporne uno alternativo, che subordinava le azioni degli Stati garanti in caso di aggressione all’Ucraina «a dopo l’attuazione delle disposizioni del presente trattato»: posizione inaccettabile per gli ucraini in quanto le garanzie di sicurezza non possono essere sottoposte a condizione. Ancor più decisiva è la questione della libertà d’azione degli Stati garanti in caso di aggressione all’Ucraina. Secondo la versione alternativa dell’art. 4 proposta dai russi in caso di aggressione all’Ucraina questi si sarebbero dovuti consultare e «sulla base delle decisioni concordate da tutti gli Stati garanti, provvedere tutta la necessaria assistenza militare all’Ucraina» (corsivo mio). La pillola avvelenata era in un’unica parola: «tutti». È quella che avrebbe permesso alla Russia di garantire sé stessa nell’aggredire l’Ucraina, bloccando qualsiasi decisione del gruppo dei garanti, come avviene nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È una questione decisiva di cui tener conto in futuri negoziati.
Il Comunicato di Istanbul, dalle consultazioni del 28-30 marzo 2022
Il Comunicato di Istanbul, risultato delle consultazioni russo-ucraine del 28-30 marzo 2022, è spesso considerato il documento prefigurante la pace nei termini più favorevoli all’Ucraina in quanto Stato «permanentemente neutrale» e de-nuclearizzato (punto 1). Secondo questa valutazione i punti notevoli del Comunicato sono il quarto che, dopo aver ribadito che l’Ucraina non aderirà ad alcuna alleanza militare, specifica che «da parte loro, gli Stati garanti confermano la loro intenzione di promuovere l’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea»; e l’ottavo, per cui Russia e Ucraina si impegnano a risolvere «le questioni relative alla Crimea e a Sebastopoli attraverso negoziati bilaterali tra l’Ucraina e la Federazione Russa entro 10 (opzione 15) anni» e, a questo scopo, a non utilizzare mezzi militari (punto nove). Inoltre, nel Comunicato mancano le richieste russe circa l’eliminazione delle sanzioni e delle normative ucraine ritenute discriminanti nei confronti della lingua russa e le richieste relative alla storiografia.
Tuttavia, «Le garanzie di sicurezza internazionale per l’Ucraina previste dall’accordo non si applicano alla Crimea, a Sebastopoli e ad alcune aree degli oblast di Done’c e Luhansk», rimandando però la definizione dei loro confini. Inoltre, nel Comunicato non si specifica quale sarà «il meccanismo per l’attuazione delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina», da regolarsi nel Trattato sulla base dei «risultati di ulteriori consultazioni tra l’Ucraina e gli Stati garanti» (punto 5).
Il Comunicato di Istanbul è, appunto, solo un comunicato: rinviava la definizione dei dettagli concreti a ulteriori consultazioni fra le parti e a un incontro futuro fra i Presidenti dell’Ucraina e della Federazione Russa (artt. 10 e 11); non stabiliva un cessate il fuoco temporaneo o geograficamente limitato, né il ritiro di truppe o l’apertura di corridoi umanitari e neanche uno scambio di prigionieri: tutto era esplicitamente rinviato alla continuazione delle consultazioni (art. 10). Privo sia di conseguenze sul campo di battaglia sia d’indicazioni specifiche sulle questioni cruciali (i confini, le dimensioni delle forze armate ucraine, il dispositivo di garanzia della sicurezza dell’Ucraina) il Comunicato di Istanbul attestava semplicemente che le parti si stavano parlando. Alla Russia interessava la dichiarazione dell’Ucraina come Stato neutrale; all’Ucraina le garanzie, l’adesione all’Unione Europea, la soluzione della questione della Crimea in capo a 10 o 15 anni (unico elemento nuovo rispetto alle bozze di trattato ma puramente formale perché era ovvio che la Crimea non sarebbe mai stata pacificamente restituita all’Ucraina).
Più nel tono che per contenuti, il Comunicato esprimeva una congiuntura militare mutata rispetto ai primi incontri in Bielorussia e alle trattative delle prime settimane di marzo.
Il 25 marzo, in una conferenza stampa a giusto un mese dall’invasione, il vicecapo dello stato maggiore russo dichiarò che erano stati conseguiti i principali obiettivi della prima fase dell’«operazione speciale» e che le forze russe ora si sarebbero dedicate all’obiettivo principale, la liberazione degli oblast di Donetsk and Luhansk. Questo era un modo per trasfigurare davanti al pubblico russo il fallimento dell’obiettivo strategico dell’invasione: l’occupazione di Kyiv e la decapitazione del governo ucraino. Quattro giorni dopo il Viceministro della difesa della Federazione Russa, Fomin, annunciò il prossimo ritiro delle sue forze dai fronti degli oblast di Kyiv e di Černihiv (questo a nord-est di Kyiv). A ovest di Kyiv i russi non erano riusciti a prendere l’aeroporto di Hostomel ed erano bloccati dalla esondazione del fiume Irpin attuata dagli ucraini. Tra il 21 e il 25 marzo gli ucraini avevano vinto le dure battaglie per il villaggio di Moščun a nord-ovest di Kyiv, che nelle intenzioni russe era diventato decisivo per poter avanzare sulla capitale, e per un’altra posizione operativamente importante, il villaggio di Makariv, più a sud-ovest, oltre ad altre località. Non solo la manovra d’accerchiamento della capitale era stata bloccata dalla resistenza ucraina e le migliori truppe d’assalto russe erano state decimate, ma si erano manifestati i gravi problemi logistici che impedivano il rinnovarsi dell’attacco verso la capitale, dovuti sia alla concezione errata dell’«operazione speciale» sia al logorio operato dagli ucraini sulle vie di logistiche russe; in particolare, verso la fine di marzo la retroguardia delle truppe d’invasione a ovest della capitale era esposta all’attacco ucraino. A nord-est di Kyiv il 26 venne liberata la città di Trostjanec’, operazione che permise di rompere l’assedio di Sumy, capoluogo dell’omonimo oblast. Non solo era fallito il tentativo di occupare Kyiv, Charkiv e Odesa, ma a metà marzo gli ucraini potevano compiere operazioni controffensive. I russi furono costretti a ritirarsi in Bielorussia, in Russia e a est del fiume Dnipro per potersi riorganizzare e concentrare per continuare le operazioni offensive nel sud e negli oblast di Done’c e Luhansk: il primo aprile occuparono l’importante nodo ferroviario di Izyum e dopo tre mesi d’assedio, il 24 maggio, si arresero gli ultimi eroici difensori di Mariupol.
Il Comunicato di Istanbul è molto sopravvalutato dagli ottimisti che non si rendono conto come apparenti aperture hanno lo scopo di generare illusioni nell’opinione pubblica e nei governi e di offuscare il significato di certe decisioni militari. È quanto si potrà vedere ancora nel corso del 2025.
A suo tempo nacque la leggenda secondo cui Boris Johnson avrebbe impedito la chiusura di un accordo già raggiunto fra Russia e Ucraina. Nel migliore dei casi questa è un’illusione conseguente dal fatto di non comprendere come i grandi vuoti di questo Comunicato coprissero l’ampiezza dei contrasti su tutte le questioni fondamentali, emerse fin dai primi incontri.
Infine, abbiamo la bozza di trattato del 15 aprile. Su questa c’è poco da dire perché le posizioni non erano cambiate; è una bozza simile a quella del 17 marzo con, in più, la possibilità dell’Ucraina di partecipare alle operazioni di peacekeeping (art. 3). L’emendamento russo art. 5 sulle garanzie a difesa dell’Ucraina riproponevala pillola avvelenata del consenso di tutti i garanti. L’annesso 1 consiste nell’elenco dettagliato del numero massimo del personale militare e delle armi delle forze armate ucraine proposto dai russi, a cui si oppone la controproposta ucraina, del tutto diversa: ad esempio, in questa bozza i russi portarono il personale militare ucraino da 50 mila a 85 mila uomini, ma gli ucraini ne esigevano 250.000; carri armati: 342 per i russi, ma 800 per gli ucraini; Mlrs (lanciarazzi multiplo): 96 con gittata massima di non oltre 40 km per i russi, ma 600 e con gittata fino a 280 km per gli ucraini.
Le prospettive: non pace ma armistizio oppure continuazione della guerra
Dalla lettura delle bozze di trattato s’intende quanto grande fosse la distanza fra le parti nel 2022. Nel tempo intercorso gli ostacoli sulla via della soluzione diplomatica sono diventati ancor più grandi.
I russi volevano il riconoscimento delle annessioni del 2014: della Crimea, del Done’c e di Luhansk (le sedicenti «repubbliche popolari» indipendenti solo di nome), anche nelle parti controllate dall’Ucraina. La sorte dei nuovi territori occupati negli oblast di Cherson e Zaporižžja non era specificata ma Putin avrebbe potuto ancora cantar vittoria se, in seguito ad apposita «federalizzazione», questi fossero stati trasformati in «cavalli di Troia» russi in seno a un’Ucraina neutrale e militarmente indifesa. Era il disegno sottostante l’azione dei secessionisti del Done’c e di Luhansk nel 2014, salvati dall’intervento diretto delle forze regolari russe, prefigurato dagli accordi di Minsk mediati dalle potenze occidentali. Quel che era ancora concepibile nel marzo 2022 non lo è più dal settembre di quell’anno, come conseguenza delle nuove formali annessioni alla Federazione Russa degli oblast ucraini di Cherson e Zaporižžja e della formalizzazione delle annessioni del Donec’k e Luhans’k. Con queste annessioni Putin si è privato della carta migliore per una soluzione diplomatica: scambiare i territori occupati con un accordo sulla posizione internazionale dell’Ucraina.
Perfino con le forze d’invasione a poche decine di chilometri da Kyiv, i negoziatori ucraini mantennero ferma la linea di difesa dell’integrità territoriale del Paese entro i confini del 1991: è inconcepibile che nel 2025 rinuncino a questo princìpio.
Poiché la questione territoriale non è risolvibile con un trattato di pace, lo strumento giuridico che permetterebbe il riconoscimento internazionale delle annessioni di Putin, l’esito probabile di un negoziato è un armistizio che congeli il fronte. Cosa ben diversa dalla pace, più simile alla tregua, che potrebbe rivelarsi breve.
Nel 2025 l’unica possibilità che Putin ha di controllare la politica dell’Ucraina è ora instaurare a Kyiv un governo fantoccio subordinato a Mosca. Ovviamente tale obiettivo massimo può essere conseguito solo con la sconfitta militare dell’Ucraina. Tuttavia, nonostante Putin si atteggi come disposto a continuare la guerra a tempo indeterminato, non è possibile che egli ottenga nel 2025 quel che non gli è riuscito nel 2022: l’offensiva russa ha già raggiunto il suo culmine; i russi hanno eroso territorio ucraino ma a un prezzo altissimo e crescente nel tempo in uomini e mezzi: 870.000 uomini, di cui 250.000 morti, secondo i dati ucraini, o fra i 160.000 e i 165.000 soldati russi uccisi, secondo l’indagine di Meduza e Mediazona sul registro russo delle successioni ereditarie; 10.100 mezzi corazzati da combattimento secondo gli ucraini, 14.000 secondo l’International Institute for Strategic Studies, che da decenni studia i dati sugli armamenti e le spese militari nel mondo. Si può discutere sulla precisione delle cifre ma la tendenza generale è indubbia. Anche gli ucraini hanno perdite, ovvio, ma il punto è che per i russi la conquista di località più o meno importanti dura mesi e significa passare per un tritacarne. Le forze russe non sono in grado di attuare decisive operazioni in profondità, ma agli ucraini è riuscita la più brillante manovra offensiva dell’anno: cogliere completamente di sorpresa la difesa russa e penetrare nell’oblast di Kursk, un territorio che gli ucraini non hanno mai pensato di tenere a tempo indeterminato ma che ancora in gran parte controllano. Il ricorso a uomini e munizioni della Corea del nord dimostra che Putin teme disordini interni e quindi non vuole correre il rischio di aggravare il peso della guerra sull’economia e la società della Russia: in realtà il tempo non lavora a suo favore. I ritardi e i limiti qualitativi e d’uso degli aiuti militari all’Ucraina hanno permesso alla Russia di riprendere l’iniziativa ma i russi non arriveranno mai a Kyiv. Ridurre gli aiuti militari porta ad allungare la guerra; inversamente, aumentarli significa abbreviarla e costringere Putin a negoziare da una posizione più debole.
Per quanto utile, neanche l’amicizia di Trump risolve i problemi strategici ed economici di Putin conseguenti dall’aggressione all’Ucraina: il Presidente americano può ricattare l’Ucraina e danneggiarne la posizione negoziale ma, anche volendo, non può consentirne la caduta in mano all’amico russo, non fosse altro perché ambisce a concludere l’«affare» sulle terre rare ucraine e perché il Presidente deve fare i conti anche con il Congresso, il suo stesso partito e l’insieme degli apparati statali, che durante la sua precedente amministrazione lo misero in minoranza sul più pesante pacchetto di sanzioni varato contro il regime russo.
Il giorno successivo all’inizio dell’aggressione russa Zelens’kyj si dichiarò pronto a discutere la rinuncia dell’Ucraina all’ingresso nella Nato: ripeto ancora una volta che l’ostacolo alla conclusione della pace non era la neutralità dell’Ucraina. Ora Zelens’kyj si dichiara pronto alle dimissioni in cambio dell’ingresso del suo Paese nell’alleanza atlantica. Quel che era possibile nel 2022 è diventato impossibile dopo tre anni di guerra. L’Ucraina ha imperato le lezioni del Memorandum di Budapest, dell’invasione del 2014 e dell’agonia del «processo di pace» degli accordi di Minsk, dell’appeasementeuropeo e statunitense verso la Russia, dell’aggressione del 2022 e, in ultimo, di un soggetto come Donald Trump. Nel 1994 l’Ucraina rinunciò al deterrente nucleare, ma è impossibile che ora rinunci a un forte deterrente convenzionale. Con o senza l’ingresso nella Nato, l’Ucraina ha stabilito e manterrà rapporti di collaborazione militare ed economica con i membri della Nato. Come un Trump è arrivato, così se ne andrà, ma gli Stati Uniti rimarranno: ammesso che Trump completi il suo mandato, il prossimo Presidente tornerà a far valere l’interesse economico e strategico degli Stati Uniti a un rapporto privilegiato con gli alleati europei e quindi l’Ucraina.
O dentro la Nato, oppure l’Ucraina si batterà per un dispositivo di garanzia internazionale che assicuri realmente la difesa del Paese. Questo dispositivo non potrà comprendere la Russia - come fu il Memorandum di Budapest - Stato chiaramente nemico dell’Ucraina, almeno fino a quando durerà il regime di Putin; o comunque, nel caso la Russia vi sia coinvolta, la garanzia d’aiuti e di intervento militare non dovrà essere vincolata al consenso unanime degli Stati garanti. La discussione sulla presenza di truppe europee in Ucraina è un passo nella direzione giusta.
Concludo con la citazione di un esperto, che mi pare assai pertinente:
«La guerra è più necessaria al difensore che al conquistatore, perché è un’invasione che ha provocato la guerra. Il conquistatore ama sempre la pace (Napoleone lo ha affermato nei propri riguardi) e pretenderebbe entrare tranquillamente e senza opposizione nel nostro Stato; ora noi dobbiamo volere la guerra, e quindi prepararla, per impedirglielo. In altri termini significa che sono precisamente i deboli, coloro che sono esposti a doversi difendere, che debbono sempre essere armati per non venire sorpresi. Ecco ciò che richiede l’arte della guerra».
Note
1 Michele Nobile, «Stati Uniti, Russia e Ucraina da Biden a Trump. Dall’appeasement all’incoerenza, all’idiotismo negoziale», 16 febbraio 2025. Per un discorso più ampio: Michele Nobile, Invasioni russe. Polonia 1939-Ucraina 2022, Massari editore, Bolsena 2022 e Roberto Massari-Michele Nobile, a cura di, Ucraina dalla A alla Z, Massari editore, Bolsena 2023, edizione italiana di Brigades éditoriales de solidarité, L'Ukraine en toutes lettres, Éditions Syllepse, Parigi 2023.
2 Le bozze dei trattati del sono state pubblicate in inglese dal New York Times, 15 giugno 2024, leggibili qui: https://static01.nyt.com/newsgraphics/documenttools/a456d6dd8e27e830/e279a252-full.pdf; la bozza del sette marzo è stata pubblicata in russo da Systema: Какие у Путина "цели СВО": документ от 2022 года раскрывает планы России на послевоенное устройство Украины [Gli “obiettivi SVO” di Putin: documento del 2022 rivela i piani della Russia per l'Ucraina del dopoguerra]leggibile qui: https://www.currenttime.tv/a/dogovor-project-systema/33185521.html.
3 Stash Luczkiw, «“Trump recruited as Moscow asset”, says ex-KGB spy chief», Kyiv post, 22 febbraio 2025, che riporta dichiarazioni del 18 febbraio 2025 di Alnur Mussayev, ex capo dei servizi di sicurezza del Kazakistan e un tempo funzionario del sesto direttorato del KGB.
4 Three years of death. A new estimate from Meduza and Mediazona shows Russia is paying for its war against Ukraine with hundreds of lives each day, Meduza, 24 febbraio 2025; Yurri Clavilier-Michael Gjerstad, «Combat losses and manpower challenges underscore the importance of “mass” in Ukraine», International Institute for Strategic Studies, 10 febbraio 2025.
5 Karl von Clausewitz, Della guerra, capitolo V «Sulla difensiva strategica», Mondadori, Milano 1970, p. 463.