L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

PER SAPERNE DI PIÙ CI SONO UNA COLLANA DI LIBRI E UN BLOG IN VARIE LINGUE…

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lunedì 27 ottobre 2025

LETTERA AGLI UTOPISTI ROSSI

ITALIANO - ENGLISH

Cari e care (e per conoscenza ad amici vari),
è arrivato il momento di cambiare l’epigrafe sotto la testata di Utopia Rossa. Non è cosa facile perché i tempi sono tutt’altro che favorevoli e la tentazione di lasciar perdere - cioè sciogliere UR, arrendersi e retrocedere all’impegno puramente individuale - è sempre presente e tentatore. Lo hanno dimostrato tutti quelli che ci hanno lasciato (in Italia e all’estero, soprattutto in America latina) nessuno dei quali lo ha fatto per aderire a qualcosa di collettivo, migliore o peggiore di UR. La creazione di blog o siti personali è spesso l’alternativa illusoria di stare ancora facendo qualcosa di utile per l’umanità: illusioni… virtuali.

Vado per punti.

1) Il mondo della ex sinistra è degenerato completamente, ovunque, trascinando con sé settori importanti del mondo cosiddetto «progressista». Paese per paese abbiamo visto svanire valori epocali considerati essenziali, almeno a partire dalla Prima internazionale e poi evolutisi con il tempo (come la democrazia), e abbiamo visto sorgere al loro posto obiettivi temporanei, nati magari da esigenze reali, ma trasformati rapidamente in mode, in manifestazioni della società dello spettacolo, spesso di massa. Chi ricorda più l’«Altermondialismo», «Occupy Wall Street», «Black Lives Matter», «Me Too», «Fridays for Future», «Gilets Jaunes», «Attac», «Tute bianche», «No Tav» e così via?

2) L’idea di poter arrivare a coordinare su scala mondiale queste mode, non solo è politicamente negativa, ma per fortuna è anche irrealizzabile. Insieme ad altre considerazioni, l’esperienza di questi movimenti-moda ci costringe a rinunciare a un nostro obiettivo «storico»: la costruzione di una Quinta internazionale che immaginavamo costruita sulla base di movimenti e non più di partiti. Degenerati i partiti, ormai appaiono degenerati anche i movimenti. È quindi la fine dell’ipotesi Quinta internazionale che io ho difeso dal 1983, quando presi atto del completamente del processo degenerativo della Quarta internazionale, vale a dire il migliore o il meno peggior partito che sia esistito dopo la Seconda guerra mondiale, quando ne erano parte personalità come Hugo Blanco, Ernest Mandel o Daniel Bensaïd. Forse avrei dovuto abbandonare l’idea della Quinta internazionale un po’ prima, ma meglio tardi che mai. 

3) Riflettendo su due movimenti che hanno assunto caratteristiche psicopatologiche analoghe (in Italia più che altrove) si è aperto in me un canale di riflessione, al quale forse dedicherò un lavoro organico, ma che ora devo anticipare, per salvare UR e consentirle di compiere un passo in avanti.
I due movimenti sono il maoismo europeo dei primi anni ’70 e l’attuale isteria antiebraica filo-Hamas. Anche questa passerà, ma lascerà una ferita incolmabile come la lasciò il maoismo. Ebbene, la caratteristica principale che hanno dimostrato di avere le due forme di psicodramma politico collettivo è l’anticapitalismo precapitalistico. Entrambi si sono affidati a ideologie precapitalistiche: il maoismo camuffato da marxismo-leninismo, e l’antiebraismo camuffato da antisionismo. Ma soprattutto entrambi hanno dimostrato di essere organicamente feroci avversari della democrazia, cioè del regime politico che è storicamente indispensabile per il funzionamento del capitalismo più avanzato (per non parlare del socialismo…). Democrazia e postdemocrazia continueranno, invece, ad essere indispensabili anche per la prospettiva rivoluzionaria di superamento del capitalismo (come aveva ben capito Rosa Luxemburg contro i bolscevichi). Gli slogan sull’abbattimento e non sul superamento del capitalismo sono puramente demagogici e sono sempre serviti a coprire posizioni precapitalistiche. Non hanno comunque nessuna possibilità storica di realizzarsi.

4) Continuando la riflessione, non mi è stato difficile associare entrambe queste due follie collettive ad altre manifestazioni di anticapitalismo precapitalistico: in primis allecologismo apocalittico che chiede al capitalismo di fare passi indietro invece che passi avanti per la soluzione di problemi climatici, ambientali ecc. che nessun regime precapitalistico potrà mai risolvere. (Greta Thunberg è stata un chiaro simbolo di come si può passare in breve tempo dall’ecologismo apocalittico precapitalistico all’antiebraismo, altrettanto precapitalistico.)
Ma anche al mondo dei cristiani progressisti e a volte agli stessi papi che hanno una lunga tradizione di anticapitalismo precapitalistico (Teologia della liberazione e alcune encicliche).

5) Ma all’origine delle principali ideologie precapitalistiche in circolazione nel mondo moderno vi è soprattutto la tradizione (leniniana e staliniana) del bolscevismo al potere. Al potere e non prima, quando Lenin ancora proponeva un governo operaio e contadino in un sistema sociale capitalistico. Il bolscevismo al potere bloccò lo sviluppo del capitalismo in Russia, distrusse la borghesia nazionale, vi sostituì il proprio potere di casta e varò un sistema economico non capitalistico, destinato a perire per tante ragioni, tra le quali non ultime le leggi economiche del mercato mondiale.
L’ideologia precapitalistica dei bolscevichi al potere fu trasmessa al movimento operaio internazionale, deformandone irrimediabilmente la crescita in ogni parte del mondo. Dei residui ancora sopravvivono nella forma degenere dell'hitlero-comunismo.

6) Insomma, si torna sempre a quel 20 dicembre 1917 quando, sulla scia di una grande Rivoluzione (l’unica vera che il mondo abbia conosciuto nel Novecento, da febbraio a novembre 1917) si fondò la Čeka, lo strumento con cui la casta in formazione distrusse la possibilità di portare la Russia a un sistema sociale che superasse il capitalismo. Unita al contemporaneo soffocamento dei comitati di fabbrica e dei soviet, la fondazione della polizia segreta per distruggere i partiti d’opposizione diede inizio all’Antirivoluzione russa, poi trasformatasi con Stalin in aperta Controrivoluzione. In quel mese di dicembre 1917 fu cambiata la storia dellumanità e iniziò il declino del movimento operaio internazionale.

7) Ormai si deve parlare di scomparsa del movimento operaio (come movimento politico e non sindacale): questo è un fattore fondamentale da prendere in considerazione per qualsiasi strategia che si proponga un superamento del capitalismo. È venuto a mancare politicamente il soggetto storico che si pensava potesse assumere la gestione della nuova società postcapitalistica. Forse ciò sarebbe stato possibile agli inizi del Novecento, o forse era unillusone anche allora, ma certamente oggi non c’è più spazio nemmeno per l’illusione. E non bisogna farsi ingannare da quelle situazioni (paesi arretrati, dittature, regimi ex stalinisti) in cui i lavoratori ancora devono lottare per ottenere un riconoscimento politico nella forma di partiti e a volte addirittura di sindacati indipendenti. Ma tutto ciò è ormai storia passata per i principali paesi a più alto sviluppo industriale e finanziario. Il movimento operaio non esiste più come soggetto politico. E nemmeno elettorale...

8) Il «fardello delluomo bianco» - detto anche cattiva coscienza del mondo capitalistico sviluppato - sta portando, presso le nuove generazioni, a un crescente rifiuto della cultura sorta dalla storia plurisecolare del capitalismo. Purtroppo non nel senso di un suo miglioramento e arricchimento, ma nel senso di una sua negazione o deformazione caricaturale. È il fenomeno dell’antioccidentalismo che ormai pervade i movimenti di contestazione più appariscenti e che, nelle forme più estreme, ha portato a inneggiare per movimenti terroristici e antiebraici. Il futuro vedrà comparire sempre più spesso tali correnti di rifiuto precapitalistico della cultura occidentale e le occasioni per fornire pretesti non mancheranno. Anche per colpa della stessa cultura del capitalismo che sta dimostrando una storica incapacità a superare se stessa in una forma che sia compatibile con le esigenze dell’umanità. La diffusione crescente della videodipendenza sta lì a dimostrarlo. 

9) Per queste ragioni - qui esposte sommariamente, ma che rimandano a decenni di elaborazione teorica e a più di cinquanta libri da parte di vari nostri compagni e compagne - non si può consentire che Utopia rossa appaia come qualcosa che fiancheggi l’anticapitalismo precapitalistico e l’antioccidentalismo. Il nostro richiamo alla tradizione delle precedenti ideologie anticapitalistiche può creare confusione. Occorre quindi togliere dal blog le 7 frasette di principio e cambiare l’epigrafe sotto la testata. Mi chiedo anche se sia bene mantenere i nomi della redazione italiana e di quella internazionale.

10) Per l’epigrafe ho provato a scrivere un testo sostitutivo, ma confesso che non è impresa facile. Ve lo sottopongo consapevole dei suoi difetti. Ma cos’altro si può dire in poche parole, che vada bene internazionalmente e non solo per l’Italia, e soprattutto possa consentire anche alle nuove generazioni non contaminate dall’anticapitalismo precapitalistico e dall’antioccidentalismo di avvicinarsi a Utopia rossa?

11) L’aggettivo «rossa» deve restare perché costituisce un collegamento con la storia gloriosa del movimento operaio che dobbiamo aver l’orgoglio di rivendicare, per lo meno dalla nascita della Prima internazionale fino al dicembre1917. Senza mai dimenticare che anche questa storia gloriosa del movimento operaio è un prodotto dell’Occidente e non certo di culture precapitalistiche o antioccidentalistiche. Non a caso tutto il mondo dell’anticapitalismo precapitalistico ignora o non si riconosce in questa tradizione che nel passato aveva visto anche emergere alcune delle migliori intelligenze in vari campi del sapere. Cosa che da tempo non accade più.

Roberto

L’associazione Utopia rossa si fonda sul principio secondo cui il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi si deve riflettere l’essenza del fine. Il suo programma politico è il superamento del capitalismo, per salvare la vita sulla Terra con la sua umanità In questo senso la sua utopia continua ad essere rossa e si contrappone  all’ulteriore diffusione di ideologie precapitalistiche - come la demagogia «comunista», l'ecologismo apocalittico, lo pseudofemminismo, il wokismo, l'integralismo religioso, il nazionalismo, varie specie di populismo e soprattutto l’antioccidentalismo in tutte le sue forme.

* * *

 ENGLISH

lunedì 6 ottobre 2025

7 OTTOBRE 2023/ 7 OTTOBRE 2025

di Roberto Massari


ITALIANO  - ENGLISH


Sono passati due anni e s’impone un sintetico bilancio degli avvenimenti nella Striscia di Gaza.

Il 7 ottobre 2023

1) Hamas era il partito di governo di uno Staterello autonomo da Israele.

2) Trattandosi di una dittatura, non aveva concorrenti politici.

3) Aveva separato Gaza dalla Cisgiordania e cacciato con la forza i palestinesi dell’ANP.

4) Disponeva di grandi risorse finanziarie provenienti dalle Nazioni Unite, ma anche dall’Iran e da altri paesi islamici che transitavano per il Qatar.

5) Disponeva di un esercito composto da alcune decine di migliaia di combattenti.

6) Poteva contare su una rete di sostegno militare in Libano, in Siria, in Yemen, in Iran (che continuava ad arricchire l’uranio per arrivare alla bomba atomica).

7) Aveva l’appoggio di Netanyahu che favoriva in ogni modo il rafforzamento di Hamas pensando di usarlo in funzione anti-ANP.

Insomma, nello Staterello di Gaza, Hamas era una potenza assoluta e per giunta godeva di un’ampia rete di sostegno all'estero. Tutto questo prima del pogrom con cui ha dichiarato guerra a Israele.

Il 7 ottobre 2025

1) Hamas non ha più alcun potere sulla popolazione di Gaza.

2) Sono morte alcune decine di migliaia di suoi concittadini.

3) Almeno 20.000 suoi combattenti (ma probabilmente molti di più) sono morti.

4) Tutti i principali leader precedenti il 7 ottobre sono stati uccisi.

5) Ciò che resta di Hamas non può uscire allo scoperto e resiste nei tunnel sotto Gaza City. Chi può si nasconde tra i profughi.

6) Il bottino di guerra è rappresentato da una ventina di ostaggi israeliani vivi (ma ridotti in condizioni disumane) e una trentina di cadaveri. Soldi non ne arrivano più dall’estero (forse ancora dall’Iran, ma non si sa nulla al riguardo)

7) La sua rete di sostegno all’estero è distrutta: Hezbollah è stato sconfitto in Libano, il regime di Assad è crollato in Siria, gli Houti in Yemen possono solo tirare dei missili di tanto in tanto, l'Iran ha subìto dei duri bombardamenti che per il momento hanno bloccato la sua marcia verso la bomba nucleare e gli impediscono di minacciare Israele. 

8) È completamente isolato nel mondo arabo: tutti i principai paesi arabi e alcuni paesi islamici hanno chiesto il suo disarmo, cioè la sua resa (ivi compresi il Qatar, la Turchia, l’Indonesia e il Pakistan).

9) L’unico sostegno che Hamas continua a ricevere è di tipo morale, ma non militare, da parte di settori dell’opinione pubblica occidentale animata da spirito antioccidentalista, con forti componenti antiebraiche/antisemitiche.

10) Le alternative che gli rimangono sono la resa o lo sterminio definitivo.

Insomma, dichiarando guerra a Israele Hamas ha finito col perdere tutto il potere a Gaza, la rete di appoggio all'estero, tutte le risorse finanziarie e il sostegno di Netanyahu di cui disponeva. Una sconfitta totale, su tutti i fronti.

Hamas gode però di una notevole popolarità in alcuni settori dell’opinione pubblica occidentale. L’Italia è il paese dove ha il maggior numero di sostenitori: centinaia di migliaia disposti a scendere in piazza più e più volte.

Mi chiedo, quindi, se ce n’è uno, anche uno solo, che sia in grado di spiegarmi la logica di ciò che Hamas ha deciso di fare il 7 ottobre 2023. Non si è trattato infatti di un colpo di forza improvvisato, ma di un’operazione preparata in dettaglio da alcuni anni prima. Quindi non poteva non avere delle finalità precise.

Dichiarando guerra a Israele - una guerra che avrebbe potuto solo perdere - cosa voleva ottenere Hamas? C’è qualcuno che l’ha capito?

Perché se nessuno mi spiega le ragioni politiche per le quali Hamas ha lanciato un’operazione suicida (barbara quanto si vuole, ma sicuramente suicida) rimane solo una spiegazione d’ordine ideologico che, nel caso di Hamas non può che essere religiosa: l’azione del 7 ottobre 2023 potrebbe essere stata lanciata senza precisi fini politici sulla spinta esclusivamente del fanatismo religioso. In particolare per quella componente dell’integralismo islamico che predica lo sterminio degli ebrei, come minimo in Palestina, ma per l’Iran - sostenitore di Hamas - anche nel resto del mondo.

Poiché a due anni dal pogrom, Hamas si trova davanti all’alternativa di arrendersi o essere sterminato, è evidente che gli sarebbe convenuto non farlo. Magari anche solo per risparmiare ai gazawi le sofferenze alle quali sono stati e continuano ad essere sottoposti. Sofferenze che finiranno solo con la resa o con la distruzione di Hamas. I prossimi giorni faranno capire quale delle due ipotesi prevarrà..

Salam e Shalom

Roberto  


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domenica 5 ottobre 2025

DILAGA LA PROTESTA IN PERÙ

Il governo illegittimo di Dina Boluarte risponde con la repressione violenta 

di Andrea Vento 

(Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati - Giga)

Il Perù, come la quasi totalità dei paesi latinoamericani, è stato caratterizzato da vicende politiche interne storicamente travagliate, a causa della pervicacia con la quale l’oligarchia bianca ha governato tutelando i propri privilegi economici di origine coloniale a discapito dei ceti popolari e della maggioranza della popolazione indigena di etnia Quechua, la quale ha regolarmente dato vita a moti di protesta per contrastare la privazione dei propri diritti.  

Un copione ormai consolidato che torna in scena a cadenza regolare.

Gli ultimi 35 anni di travagliate vicende politiche interne

Dopo la dittatura di Alberto Fujimori degli anni ’90, il paese era tornato ad una sorta di democrazia formale nella quale i presidenti eletti, a prescindere dall’appartenenza politica, non avevano apportato sostanziali mutamenti alle consolidate politiche neoliberiste e alla tradizionale politica estera subordinata a Washington. Infatti, sia l’economista liberista Alejandro Toledo (2001-2006), sia il centrista Hollanta Humala (2006-2011) che Alan Garcia (2011-2016), protagonista di un clamoroso ribaltone politico verso destra, erano riusciti a portare a termine i rispettivi mandati presidenziali.

Dal 2016 con l’elezione dell’economista liberista Pedro Pablo Kuczynsky inizia una fase di turbolenza politica e sociale senza soluzione di continuità. Infatti, il nuovo presidente dopo aver concesso la grazia a Fujimori nel 2017, è costretto alle dimissioni nel marzo successivo a seguito di incriminazione per voto di scambio. Gli subentra, quindi, il vicepresidente Martin Viczarra che viene, però, sfiduciato dal parlamento “per incapacità morale” nel novembre 2020, senza tuttavia portare chiare prove a suo carico. 

La carica di presidente viene quindi assunta il 10 novembre 2020 dal presidente del Congresso, Manuel Merino, che da subito vita ad un governo di estrema destra appoggiato dai militari, sotto il quale la polizia si rende protagonista della violenta repressione delle proteste popolari contro la destituzione di Viczarra provocando 3 morti. 

La condanna dell’operato delle forze dell’ordine da parte della Corte Costituzionale porta ad una crisi politica interna al governo che sfocia nelle dimissioni del neo insediato Merino il 15 novembre. Due giorni dopo, il nuovo presidente del Congresso, il centrista Francisco Sagasti assume la presidenza, stabilendo per il paese il poco invidiabile record di instabilità istituzionale con 3 presidenti succedutisi nell’arco di una sola settimana. Sagasti riesce, peraltro, a portare a termine il mandato fino al luglio 2021, quando si insedia, previa vittoria di misura al ballottaggio, il “maestro di strada” Pedro Castillo, del partito di sinistra Perù libero, espressione dei movimenti indigeni e delle classi sociali inferiori, sollevando speranze di cambiamento nelle politiche economiche e sociali.

Privo di esperienza politica, Castillo incontra sin dall’inizio del mandato una forte opposizione da parte dell’oligarchia nazionale e delle forze reazionarie che cercano di impedirne l’azione politica sfruttando la mancanza di maggioranza parlamentare coesa a sostegno del Governo. Ciò a causa del sistema elettorale presidenziale a doppio turno che impedisce sovente agli eletti alla massima carica dello stato di godere di un omogeneo appoggio politico in seno all’organo legislativo. 

Dopo un anno e mezzo di mandato istituzionale estremamente difficile a causa della strenua opposizione dei poteri forti e dopo aver commesso anche errori di inesperienza, Castillo viene pretestuosamente messo in stato d’accusa e infine deposto a seguito di voto parlamentare il 7 dicembre 2022 e addirittura incarcerato. 

A quel punto la vicepresidente esponente dello stesso partito Perù Libero, Dina Boluarte, e non il presidente del Congresso come da dettato costituzionale, gli subentra, dando tuttavia vita, come purtroppo accaduto anche in passato, ad un governo di destra, innescando oceaniche proteste popolari nel paese che vengono represse nel sangue con 60 morti e centinaia di feriti.

Le manifestazioni popolari, sostenute in primis dalle popolazioni indigene dell’altopiano, sono continuate anche negli anni successivi reclamando le dimissioni del governo illegittimo di Dina Boluarte, l’indizione di nuove elezioni politiche e la formazione di una assemblea costituente per il varo di una nuova costituzione al posto di quella neoliberista introdotta da Fujimori durante la dittatura.

L’inasprimento del conflitto sociale

Negli ultimi sei mesi, numerosi cittadini peruviani sono scesi più volte in piazza per protestare, oltre che per la corruzione dilagante, anche contro le estorsioni ai danni di tassisti e autisti di autobus e gli omicidi della criminalità organizzata che le autorità non sono mai riuscite a contrastare efficacemente.

Le manifestazioni popolari, frequenti anche in Italia da parte della comunità peruviana locale, si sono intensificate dopo che il 5 settembre scorso il Congresso ha approvato una legge che obbliga i giovani lavoratori sopra i 18 anni a versare i contributi pensionistici ai fondi privati.

Le proteste sono principalmente indirizzate verso Dina Boluarte, il cui consenso secondo l’Istituto di Studi Peruviani è ormai ridotto al solo 2,5% e della quale ne vengono vanamente invocate le dimissioni. 

Il conflitto sociale, inevitabilmente inaspritosi nelle ultime settimane, è sfociato nella brutale repressione della manifestazione tenutasi il 27 settembre a Lima, durante la quale sono state ferite 19 persone, come riferito dalle stesse autorità e da un’organizzazione per i diritti umani.    

La situazione interna al Perù è prevedibilmente destinata ad aggravarsi da qui alla scadenza del mandato presidenziale, prevista per il luglio 2026, a causa della, più volte espressa, volontà di Dina Boluarte di restare al potere e di proseguire nell’attuazione di politiche neoliberiste ed estrattiviste a danno dei ceti popolari e delle comunità indigene. Queste ultime in piena mobilitazione a causa del rifiuto da parte del Congresso di istituire la Riserva Indigena Yavari-Mirim nella regione amazzonica di Loreto sulle terre ancestrali di alcuni popoli incontattati (carta 1).


Carta 1: la regione amazzonica di Loreto la più estesa del Perù con 368.852 kmq di superficie


Le Riserve Indigene rivestono scopo primario di tutelare l’ecosistema e la sopravvivenza dei popoli originari che vi risiedono. Le richieste di questi ultimi, da molti anni, sono in contrasto con le politiche di sfruttamento delle risorse del sottosuolo implementate dai vari governi e nella contingenza attuale con le politiche implementate dal Congresso il quale sta definendo due nefasti disegni legge. Il primo, mira a limitare la creazione di nuove Riserve Indigene e di porre a revisione semestrale quelle già istituite, mentre il secondo concede la possibilità alle multinazionali di effettuare prospezioni per la ricerca di nuovi giacimenti di gas e di petrolio, a danno dell’ambiente e della sopravvivenza dei popoli amerindi che vi vivono in simbiosi.

Conclusioni

Le vicende peruviane attualmente in corso, risultano paradigmatiche delle condizioni che strutturalmente caratterizzano i paesi latinoamericani, nei quali, salvo rare eccezioni, le oligarchie post coloniali bianche al potere governano al fine di mantenere i propri privilegi, concedendo lo sfruttamento delle risorse alle multinazionali e cercando protezione da Washington in cambio di un allineamento alle sue politiche internazionali. 

Inevitabilmente tali orientamenti politici, all’interno di società dai marcati squilibri socio-economici e con le popolazioni indigene relegate ai margini delle stesse, nonché usurpate del potere le rare volte che riescono a vincere democratiche elezioni, sono destinati ad alimentare i conflitti sociali interni e l’instabilità politica.

Andrea Vento

3 ottobre 2025

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati - Giga

NOTE

1. https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/americalatina/2025/09/05/lima-boccia-riserva-amazzonica-per-proteggere-le-tribu-isolate_3113e066-ed77-4711-ac74-d8bfb1ea7efa.html 

2. Per approfondire il modello economico e sociale del Perù consultare il saggio Giga “Perù: epicentro dell’instabilità politica latinoamericana”



Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

giovedì 28 agosto 2025

NAZIONE PALESTINESE O CISGIORDANA?

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


«L’importante non è aver ragione, ma non farsi convincere…»


Uno Stato che non esiste


Gli annunci di alcuni governi europei - di aggiungersi alla lista di paesi che hanno riconosciuto un fantomatico «Stato palestinese» (147 su 193 membri delle NU) - stanno portando all’attenzione il fatto che questo Stato non esiste. Nessuno dei «riconoscitori», infatti, è in grado d’indicare i confini geografici, il tipo di governo (dittatoriale, democratico?), le risorse economiche (a parte le sovvenzioni estere) e il rapporto che vi sarà con Israele.

È una formula puramente simbolica a favore di Hamas, che ha già dichiarato che così «si premia» il 7 ottobre e la tenacia con cui ha trattenuto gli ostaggi. Ma tutti fingono d’ignorare la realtà, giacché il presunto «Stato di Palestina» può includere solo parti della Cisgiordania, visto che la guerra ha fatto perdere a Gaza l’autonomia politica di cui godeva prima del 7 ottobre.

Di fatto, quindi, sarà lo Stato di Cisgiordania (benché chiamato «di Palestina») e continuerà a governarlo la vecchia Anp, magari ringiovanita sostituendo il novantenne Abu Mazen (n. 1935). Questi non si sottopone a suffragio elettorale dal 2005, ma dal 2003 perlomeno non è più negazionista dell’Olocausto. Il suo posto potrebbe esser preso dal cisgiordano Marwān Barghūthī (n. 1959), detenuto dal 2002: gode di grande prestigio e potrebbe diventare una sorta di Nelson Mandela palestinese (il che non è detto che sia un buon augurio...).

Ereditarietà del titolo di «rifugiato palestinese»

A parte la finzione di un inesistente Stato di Palestina, non è facile stabilire quanti siano i profughi rimasti dal 1948. Questo perché l’Onu nel 1949 creò l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), separandola dall’Unhcr, che si occupa invece di tutti gli altri rifugiati nel mondo.

Un mostro giuridico che, oltre ad assistere solo i palestinesi, ne moltiplica il numero, avendo reso ereditaria la condizione di rifugiato. Lo fa tramite la norma statutaria che estende lo status di rifugiato anche ai discendenti dei profughi del 1948, indipendentemente dalla loro residenza e nuova cittadinanza: un’eccezione giuridica mai adottata per alcun altro popolo al mondo.

Per quanto poco attendibili, le statistiche fornite dalle fonti interessate possono dare un’idea generale. Per es., i dati demografici dell’Anp per il 2024 (Ramallah: Una/ Wafa) parlano di 14,8 milioni di palestinesi nel mondo; mentre i circa 700.000 profughi del 1948-49 sarebbero diventati oltre 5.600.000 rifugiati; quelli rimasti in Israele oltre 1.800.000 (erano 1.470.000 nel 2015) e 6,3 milioni nei Paesi arabi. Il resto sparso nel mondo, con il picco massimo in Cile, e l’Arabia Saudita a seguire.

L’Unrwa assiste i rifugiati palestinesi in Giordania, Libano, Siria, Anp e Gerusalemme Est (in totale circa 5,6 milioni di rifugiati riconosciuti). Ha sedi ad Amman e a Gaza, con rappresentanze al Cairo, New York, Washington e Bruxelles. Il suo bilancio - cui contribuisce generosamente anche l’Italia - (880 milioni di dollari nel 2024, 914 nel 2025), per circa il 65% va a coprire la gestione della stessa Unrwa, affidata a un esercito di dipendenti, quasi tutti palestinesi: oltre 30.00 nel 2022 (18.879 quelli dell’Unhcr nel 2023, per oltre 20 milioni di assistiti in 138 paesi). Un terzo circa va in assistenza. 

lunedì 25 agosto 2025

ANTIEBRAISMO E GENOCIDIO

Una moderna «accusa di sangue»

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


Si tratta di un quadruplice antiebraismo. Perché quadruplice? Rispondo, anticipando la conclusione.

1) Perché l’accusa di «genocidio» al governo di Netanyahu non ha fondamento né riconoscimento giuridico. La s’impiega per diffamare l’ebraismo israeliano e ostacolare la sua lotta di sopravvivenza contro vari fronti d’aggressione (all’inizio 7, ora un po’ meno...).

2) Perché sminuisce e in fondo ridicolizza i tre grandi genocidi della storia moderna: l’armeno, l’holodomor ucraino e l’Olocausto/Shoah (per il quale fu coniato appositamente il termine giuridico da un giurista ebreo).

3) Perché fornisce copertura alle reali intenzioni di chi un genocidio antiebraico lo ha in programma davvero e da tempo, e spera di attuarlo con le armi del terrorismo (Hamas, Hezbollah e altri integralisti islamici) o, appena possibile, con ordigni nucleari (Iran).

4) Perché chi la vive come trasgressione, in realtà è vittima di una moda (fad, craze in psicosociologia) destinata a estinguersi. L’eccitazione nel rovesciare l’accusa sul popolo che ne è vittima per antonomasia, è una forma di sadomasochismo. Molto diffusa in ambienti di «sinistra» reazionaria e antioccidentalista, ha conseguenze devastanti per la cultura del mondo «progressista».

Parlare di «antiebraismo» (che nell’uso corrente e internazionale, purtroppo, è anche «antisemitismo») nel primo secolo di questo terzo millennio non è facile. Quasi duemila anni di persecuzioni, manifestatesi in ère e contesti storici diversi, concorrono a rendere quasi impossibile una definizione adeguata del moderno antiebrei. Non se ne può tracciare un modello, perché nella sua struttura caratteriale sono radicati, in gradi diversi, pregiudizi del passato, mentre ne sorgono di nuovi, provocati soprattutto dalla politica dello Stato d’Israele.

Uno Stato che è ebraico per un’autoproclamazione di derivazione sionista, ma in cui, secondo dati del 2022, la componente araba è del 21,1%, altre affiliazioni religiose (cristiani, drusi ecc.) del 5,3 e quella ebraica del 73,6 (quindi poco meno di due terzi). Per giunta, dire componente « ebraica» non è facile per le grandi differenze esistenti anche tra gli ebrei, a seconda della provenienza geopolitica (sefardita, ashkenazita ecc., esteuropea, nordafricana, statunitense ecc.), ma anche della specifica corrente religiosa ebraica di appartenenza.

A ciò si aggiunga il fatto molto positivo per cui, nel 2015, circa il 65% degli israeliani si definiva non-religioso, incluso un 8% di atei (Win/Gallupp International). Successive altre fonti mostrano tendenze contraddittorie, ma non mutamenti significativi. Dati, comunque, che non hanno alcun interesse per gli antiebrei, convinti che sono pur sempre «i maledetti ebrei» (e non casomai i «maledetti israeliani») a fare le scelte del governo Netanyahu.

Ebbene, volendo aggiornare in termini di categorie politiche la definizione del nuovo antiebraismo - sintetica, ma di facile verifica pratica - si possono adottare tre criteri fondamentali:

1) L’antiebraismo/antisemitismo di chi continua a non riconoscere la legittimità dello Stato d’Israele, benché sia nato dalla ripartizione che l’Onu stabilì con la 181 nel 1947, adottata a grande maggioranza, col voto contrario quasi solo di paesi islamici. Costui nega al popolo ebraico, ma di fatto solo al popolo ebraico, il diritto ad avere un proprio Stato. Questo tipo di antiebraismo si caratterizza con mugugni del tipo «si però quella decisione non fu del tutto legittima», perché... E seguono le più varie spiegazioni che in genere denotano solo l’ignoranza storiografica di chi le formula - quando non ci si limita a rinviare ai «magici» link di Internet, quelli che risparmiano la fatica di leggere libri, documentarsi e argomentare in prima persona.

2) L’antiebraismo/antisemitismo di chi nega a Israele il diritto a difendersi. Qui il problema si complica perché l’antiebrei (che ritiene che Israele non avrebbe dovuto reagire militarmente e si sarebbe dovuto arrendere dopo il pogrom del 7 ottobre) si può confondere con chi critica (più o meno severamente) il governo israeliano per il modo in cui ha esercitato il sacrosanto diritto all’autodifesa dopo l’aggressione di Hamas.

Io, per esempio (senza essere l’unico), ho scritto più volte che per liberare gli ostaggi, invece di bombardare il povero popolo gazawi, sarebbe stato più efficace lanciare un ultimatum all’Iran - il principale Stato che sostiene Hamas - e poi bombardare uno alla volta i suoi siti strategici. Si sarebbero liberati subito gli ostaggi e probabilmente sarebbe anche caduto il peggior regime reazionario che esista al mondo. Ciò non fa di me un antiebrei, né un antisraeliano, ma solo un severo critico del governo Netanyahu per il modo in cui ha gestito la guerra contro l’aggressione di Hamas e per la necessaria e irrinunciabile liberazione degli ostaggi.

3) L’antiebraismo/antisemitismo di chi non ha capito che da quando esiste Israele sono gli israeliani (in particolare i loro governi) e non «gli ebrei» a mettere in pratica la politica nei riguardi dei palestinesi, giusta o sbagliata che sia. L’antiebrei attuale continua a prendersela con gli ebrei, se non addirittura con l’ebraismo in generale o con gli ebrei di altre parti del mondo, spesso nascondendosi dietro gli slogan ormai anacronistici dell’antisionismo. Ciò perché un blocco mentale gli impedisce di considerare gli israeliani una moderna nazione a sé, includente una forte componente ebraica, ma non identificabile con l’ebraismo israeliano e meno che mai con l’ebraismo del resto del mondo.

Basti pensare alle divergenze politiche che separano la quasi dozzina di partiti presenti nella Knesset, dall’estrema destra dell’Otzma Yehudit alla sinistra del Hadash-Ta’al, senza contare la quarantina di formazioni minori che non hanno un seggio in Parlamento, benché in Israele si voti col più democratico dei sistemi elettorali: il proporzionale. Un proliferare di partiti e partitini in uno Stato relativamente giovane, che mentre dimostra il carattere dinamico della democrazia israeliana, ne fa anche una delle democrazie più avanzate al mondo. Al punto che, mentre il paese è impegnato in una guerra per difendersi dalla minaccia di sterminio, avvengono manifestazioni antigovernative e si convocano scioperi generali. Un caso unico nella storia umana, che ha un corrispondente solo nell’odierna Ucraina, dove si può manifestare - e con successo - nonostante l’ aggressione russa.

Tuttavia, in queste tre forme moderne di antiebraismo apparentemente «politico» - attualmente in grande espansione anche a causa di alcune scelte sbagliate compiute dal governo Netanyahu dopo il pogrom del 7 ottobre - confluiscono tracce e pregiudizi di più antica provenienza, addirittura originarie dell’antiebraismo storico.


Antiebraismo teologico e biblistico

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.