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sabato 14 settembre 2024

SUL DISASTRO CAUSATO DA NETANYAHU

di Michele Nobile

 

1.

Nell’articolo «La Russia come imperialismo aggressivo», gennaio 2024, scrissi che la posizione internazionale della Russia è ora simile a quella del Terzo Reich nel 1939. L’invasione dell’Ucraina ha dimostrato fino a che punto Putin è disposto a rischiare per ricostruire un’identità e una sfera imperiale grande-russa (il precedente della Georgia non aveva la stessa rilevanza). Economicamente più debole rispetto agli imperialismi «occidentali», l’imperialismo russo costruisce la propria sfera d’influenza innanzitutto attraverso l’esercizio di modalità non-economiche e legami di subordinazione politica. 

È da tempo che si vede emergere anche un imperialismo cinese, più prudente e moderno di quello russo perché basato su capacità finanziarie, industriali e tecnologiche di gran lunga ad esso superiori ma, proprio per questo motivo, potenzialmente molto più pericoloso (ad es. vedi miei articoli sul Mar cinese meridionale, 2018). Russia e Rpc sono grandi potenze che nel gergo storiografico e geopolitico possono essere dette revisioniste della struttura economico-politica regionale esistente, con l’obiettivo di creare o consolidare proprie sfere d’influenza. 

In prima approssimazione questo ricorda i conflitti inter-imperialistici della prima parte del ‘900; e, come in quelli, la conflittualità inter-imperialista si sovrappone alla lotta per la libertà di alcuni popoli: è il caso dell’Ucraina, la possibilità di Taiwan. Concordo con l’idea di Roberto Massari dell’esistenza di «orrendi capitalismi di tipo feudale (Iran), poststaliniano (Cina), oligarchico-mafioso (Russia), che per giunta sono anche le principali potenze aggressive esistenti sul globo». Tuttavia questo è solo l’inizio di un discorso. 

Russia e Rpc sono fenomeni senza precedenti perché combinano il peggio di due mondi. Sul piano macrostorico possono considerarsi fenomeni regressivi relativamente ai livelli minimi di civiltà conseguiti nel capitalismo avanzato, che pure non gode di buona salute. 

Russia e Rpc sono formazioni sociali in cui residui del mondo pseudosocialista totalitario si combinano con capitalismi decisamente oligarchici. Malgrado le loro notevoli differenze socioeconomiche, le accomuno sotto l’etichetta di capitalismi oligarchici perché l’intreccio di potere politico ed economico è diverso da quello dei capitalismi avanzati, fatto che si esprime anche nelle diseguaglianze sociali particolarmente forti, nella repressione del sindacalismo indipendente, nel monopartitismo costituzionalizzato o di fatto. Benché siano capitalismi la cui prosperità è inscindibile da quanto si dice globalizzazione e dalle relazioni economiche con i Paesi a capitalismo avanzato (inconfutabile per quanto riguarda gli investimenti dall’estero e il commercio internazionale per la Rpc; per la Russia sono insostituibili le esportazioni di energia), 

la loro particolare articolazione di potere economico e politico gli consente di atteggiarsi come alternative al cd. neoliberismo: possono dunque selezionare temi di eredità pseudosocialista e anticolonialista. 

        

Il multipolarismo è la parola d’ordine che per Russia e Rpc rappresenta la loro pretesa d’essere riconosciute come potenze che hanno diritto a un loro legittimo «polo» ovvero sfera d’influenza; tuttavia, nello stesso tempo ribadiscono la validità dell’idea westfaliana (1648) della non interferenza negli affari interni d’altri Stati sovrani (sintetizzabile nel motto cuius regio, eius religio), quanto nel gergo contemporaneo è detto sovranismo. Dietro il paravento della pretesa di legittima esistenza di una varietà di sistemi nazionali, il sovranismo non è altro che l’ideologia di difesa di regimi politici autoritari che si collocano al di sotto del livello minimo storicamente acquisito della civiltà politica e giuridica liberal-democratica, bollato come volontà egemonica del cosiddetto Occidente. È per questo ultimo motivo che, al contrario di quanto accade nella politica estera delle potenze liberali, Russia e Rpc possono sostenere regimi autocratici senza incorrere in contraddizioni fra proclami ideali e pratica reale. Con livelli minimi di civiltà intendo riferirmi a un insieme di princìpi, normative e istituzioni che sono il risultato di un processo storico, di lotte sociali e politiche e di guerre, anche d’orrori come la Shoa; princìpi e acquisizioni che nella pratica possono essere evasi e mutilati e applicati in modo selettivo e opportunistico, secondo convenienza, ma che nondimeno rimangono criteri di valutazione e obiettivi di lotta. 

Dalla discendenza pseudosocialista di Russia e Rpc consegue una seconda differenza rispetto alle potenze revisioniste del Novecento: la loro posizione nei confronti dei Paesi ex coloniali o sottosviluppati è molto diversa. Per quanto la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone imperiale contestassero gli imperi esistenti, il loro anticolonialismo era assai poco credibile; e quello del tempo era ancora un mondo in gran parte coloniale. La Russia e la Rpc odierne possono invece farsi forti dal discendere da rotture «rivoluzionarie» con l’imperialismo «occidentale» e di essere state a lungo soggette a contenimento mentre appoggiavano strumentalmente il movimento di decolonizzazione. 

I movimenti nazionalisti erano un fenomeno progressivo quando ancora esistevano gli imperi coloniali ma, ottenuta o conquistata l’indipendenza politica, col tempo i nuovi Stati o hanno originato sistemi politici autoritari rimanendo comunque in condizioni di sottosviluppo socioeconomico, o si sono frantumati secondo linee più o meno etniche e di clan politico-gangsteristici, o sopravvivono sotto una qualche forma di totalitarismo politico e ideologico.

Sovranismo, statalismo oligarchico e antioccidentalismo rappresentano, come vaga ideologia, la convergenza d’interessi non solo fra Russia e Rpc ma fra queste potenze e Stati minori e organizzazioni che, per qualche ragione, non sono integrati nel normale funzionamento del sistema internazionale, ad es. Corea del nord, Iran, Venezuela, più altri Stati più o meno falliti. A questi aggiungo l’India, col suo ignobile sistema castale e la più arcaica fra le grandi religioni, tuttavia potenza nucleare. 

Tutto ciò ci dice quanto il mondo sia veramente cambiato rispetto al XX secolo, in particolare rispetto ai primi decenni del secondo dopoguerra. Nei primi vent’anni di questo XXI secolo è giunta a maturazione la sinergia di un insieme di processi che hanno interessato tutti i campi della vita sociale, iniziati a cavaliere degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sia nei Paesi a capitalismo avanzato che nelle diverse altre aree geografiche e sociali del mondo. Per il fine di questo scritto quel che interessa notare è che, a fronte di sviluppi politici che possono dirsi progressivi - nonostante ambiguità e contraddizioni - come la fine di diverse dittature in America latina e in Asia, ve ne sono altri regressivi, se non catastrofici come quelli per diverse ragioni etichettati «Stati falliti» perché distrutti dalla guerra civile, specialmente in Africa ma anche in Medio oriente: Iraq, Siria e Yemen. 

Nel complesso non solo risultano in gran parte vane o vanificate le speranze riposte in movimenti nazionalisti che per gran parte del secolo scorso potevano ragionevolmente fare sperare in una diffusione degli elementi minimi della civiltà e nell’elevamento del livello complessivo di civiltà del mondo. Ancor peggio, i risultati ultimi di quei movimenti resistono o attivamente muovono in senso contrario al progredire dei diritti civili. E la resistenza a problemi vecchi e nuovi creati dalla modernità del capitalismo e dell’imperialismo assume spesso forme e contenuti regressivi.

Da questo due fatti paradossali:.

1) Che più male che bene, i livelli minimi di civiltà sono almeno in parte (per i diritti civili e politici) difesi dai vecchi imperialismi dei Paesi a capitalismo avanzato. La ragione è la fine della Guerra fredda, ma per ragione diversa da quella dei critici dell’«egemonismo americano». Il punto è che per motivi strutturali (il carattere nuovo e più avanzato del capitalismo Usa) quel che si dice «wilsonism» (multilateralismo, opposizione a sfere d’influenza e colonie, «porta aperta», preferenza per regimi liberali, un «imperialismo anti-imperialistico») è parte integrante della politica estera statunitense ma, durante la Guerra fredda, venne applicato molto selettivamente e male perché le esigenze del contenimento richiedevano la «realistica» collaborazione con qualsiasi regime anticomunista, per quanto ferocemente repressivo e incapace di attuare riforme. Con la fine guerra fredda il wilsonismo (o una sua variante unilateralista) ha avuto nuovo slancio, uno dei motivi (in fondo il più importante) della contesa fra Democratici e Trump. (Sul wilsonismo ideale e concreto: Tony Smith, America's missionThe United States and the worldwide struggle for democracy in the twentieth century, Princeton University Press, Princeton 1995; per la convergenza e le differenze fra Democratici e Repubblicani prima di Trump: John Ikenberry-Thomas J. Knock-Anne-Marie Slaughter-Tony Smith, The crisis of American foreign policy. Wilsonianism in the twenty-first century,Princeton University press, Princeton e Oxford, 2009.)    

2) Il secondo paradosso è che in nome del sovranismo, del multipolarismo e dell’antioccidentalismo una parte della sinistra, che si pensa più radicale, sostiene regimi e movimenti regressivi: è una sinistra reazionaria.

 

Posto il problema, due osservazioni di metodo, più facili a dirsi che a seguirsi. 

La prima l’accenno soltanto. Gran parte dei problemi del mondo sono spiegati con la cd. globalizzazione neoliberista o, se si preferisce, con gli effetti del colonialismo e dei rapporti di dominio neocoloniali; oppure sono ricondotti a contrastanti tradizioni culturali o religiose profondamente radicate nella vita dei popoli. Ovviamente colonialismo, neocolonialismo e culture entrano sempre in gioco, ma è sempre cruciale specificare come concretamente interagiscono in una determinata situazione il globale e il locale, passato e presente, economia, politica e cultura. Ad esempio, sia i palestinesi sia i sionisti giustificano l’azione presente con le rispettive tragedie passate e con la continuità storica relativamente alla terra, quest’ultima immaginaria per gli ebrei non israeliani, reale per i palestinesi arabi. Dunque, guardarsi da questo storicismo, ma anche dalla generalizzazione spaziale che salta la specificità locale: ad es. ridurre il conflitto israelo-palestinese allo «scontro di civiltà» o alla malefica influenza iraniana. 

La parola «civiltà» ha due significati che generano ambiguità. Il primo è quello normativo: ciò che si considera essere civile in un dato tempo e spazio, che serve anche a giudicare la distanza fra norma ideale e realtà effettiva: la libertà dall’oppressione e dal bisogno. A volte civiltà è utilizzato come sinonimo di cultura, ma a differenza del secondo termine tende a definire qualità essenziali trans-storiche, in modo stereotipato, spesso accomunando culture distinte. E direi che l’uso politico comune è proprio di questo tipo. La cosa è pericolosa perché in pratica non solo si traduce in xenofobia ma nella negazione del valore universale di quanto oggi si può considerare civile, nella logica «ognuno se ne stia a casa propria». Un esempio in questo senso (per farne uno «nobile») è il concetto essenzialista di civiltà dello «scontro di civiltà» di Samuel Huntington, derivato dal feticismo che attribuisce gli effetti di pratiche umane storiche alla metafisica di un’ideologia religiosa compatta e invariante, senza considerare differenze fra ère e tradizioni diverse, senza considerare differenze e contrasti interni alle varie comunità nazionali e fra Paesi, creando una entità detta «Islam» o «mondo islamico» mitica quanto l’«Occidente», per giunta assimilandola ai talebani e Hamas e alla teocrazia sciita iraniana. Come se il cristianesimo possa ridursi all’integralismo cattolico o al fondamentalismo protestante o alla Spagna di Francisco Franco. Semmai, è interessante chiedersi perché dalla seconda metà degli anni ’70 sia iniziata La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquete du monde, argomento del libro di Gilles Kepel, Seuil 1991. In Israele Likud e partiti religiosi ebbero per la prima volta il governo nel 1977.

A proposito di civiltà e barbarie è pure bene ricordare che per quel che concerne i modi più moderni della barbarie, il cosiddetto Occidente fa scuola. L’Olocausto non fu un fatto mussulmano o arabo, ma europeo; il terrore di massa su scala mai prima vista e l’introduzione del lavoro schiavile nei gulag staliniani furono decisi a Mosca non a Baghdad. E sullo «sfondo» di quel che segue è il fatto che quella fra Stato israeliano e arabi palestinesi di Gaza e Cisgiordania è una relazione di dominio neocoloniale, realtà obiettiva che non è intaccata neanche dalla più dura e spietata critica della politica delle organizzazioni palestinesi di ieri e di oggi. Se si trascura questa realtà la battaglia contro il fanatismo e Hamas è persa in partenza. Chiedersi come conseguire la sconfitta strategica di Hamas e soci equivale quindi a chiedersi come può risolversi la lotta palestinese per una effettiva libertà nazionale e anche come deve cambiare Israele

La seconda considerazione di metodo è il versante pratico della precedente e prende il resto del testo: esiste un’immensa se non incommensurabile differenza a tutti i livelli possibili, compreso quello militare, tra affrontare Hamas oppure la Cina, la Russia oppure l’India, la Corea del nord o Boko haram. Come nella lettera precedente, in questi ragionamenti non tratto il problema sotto il profilo etico, ma ragionando con l’obiettivo della sconfitta della barbarie di Hamas e soci, locali e internazionali. I termini in cui si pone la questione etico-politica del rapporto fra mezzi e fini emergono dai fatti. È la ragione per cui scrissi che Hamas è un nemico del popolo palestinese. Bisogna però considerare obiettivamente l’altra faccia della medaglia: che il governo israeliano è caduto nella trappola politica di Hamas non per errore ma volontariamente

  

2.

Malgrado la guerra degli Alleati contro l’Asse fosse anche uno scontro fra imperialismi, sabotare l’azione bellica degli Alleati equivaleva in pratica a favorire l’avversario che avrebbe fatto arretrare non solo la «civiltà borghese», ma annientato decenni di organizzazione e conquiste dei lavoratori. Analogamente, se la Russia di Putin costituisce una minaccia aggressiva contro i livelli di civiltà acquisiti, allora esigo un coinvolgimento Nato più diretto a favore dell’Ucraina. Ritengo che all’Ucraina debbano essere forniti non solo sistemi d’arma in quantità e senza limiti nell’utilizzo, ma anche il personale qualificato per usare al meglio gli strumenti più avanzati di difesa aerea e antimissilistica, guerra elettronica, artiglieria di precisione e missili a lunga gittata. Ad es: gli aerei F-16 potevano essere forniti molto prima e in quantità (altro che 10 o 20 per fine 2024) e operati da piloti già esperti, eventualmente «in congedo».

Il conflitto in Ucraina con la Russia è convenzionale, basato su capacità operative, industriali e tecniche, con linee di fronte definite. La questione è politicamente e socialmente relativamente semplice. Nel caso dell’Ucraina sono bellicoso e incline all’offensiva appena se ne dia l’opportunità. 

Invece, quando si tratta di altri attori reazionari come il variegato mondo dell’islamismo militante, a meno che non si usino categorie astratte, i problemi sono più complessi, a causa dei contesti molto vari non riducibili a fatto unico e neanche a essenze monolitiche e invariabili. 

Questo è vero anche sul piano politico-militare. Non solo la guerra convenzionale con la Russia è ovviamente cosa diversa dall’antiguerriglia ma, date le differenze di quadro sociale e politico, neanche la definizione degli obiettivi di guerra e del dopoguerra possono essere uguali. Esiste un’enorme differenza fra una guerra convenzionale essenzialmente (ma non solo) terrestre come quella in Ucraina e una guerra essenzialmente aeronavale come potrebbe essere nel caso di Taiwan. Ed esiste - e questo è il punto centrale - una differenza ancor più grande fra una guerra tra Stati e un conflitto non-convenzionale con un’entità non-statale come Hamas, nonostante essa operi da un territorio in cui esercita un potere quasi-statale

Questa elementare considerazione rimanda a un altro ben noto concetto: che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Il che equivale a dire che la strategia militare deve risultare da una visione politica e che a un certo modo di condurre la guerra corrisponde una determinata visione politica

In una guerra convenzionale ha senso puntare a distruggere le risorse umane e materiali del nemico; per quanto orribile a dirsi, ha senso perfino distruggerne le città e la popolazione. Diciamo che la misura della distruzione del nemico è anche una misura del successo, se riesce a spezzarne la volontà e capacità di combattere. I dirigenti nemici si troveranno privi di risorse, disposti a un compromesso sfavorevole, perfino alla resa senza condizioni. 

In un conflitto non-convenzionale con una entità non-statale, tanto più se fanaticamente religiosa come Hamas e soci, le cose stanno in modo completamente diverso. Il conto dei morti e le distruzioni fisiche possono giocare non contro, ma a favore del nemico. Il solo fatto di resistere alla Idf [Israel defense forces] per Hamas è già un successo politico in vista dell’egemonia sul movimento nazionale palestinese. Un conto è dire che Hamas usa il terrore ed è potenzialmente genocida, un altro considerarla come fosse un gruppuscolo di terroristi senza radicamento sociale e quindi pensare che questa organizzazione possa essere distrutta semplicemente eliminandone i membri attuali, con un’operazione anti-terroristica elevata alla ennesima potenza. Si possono distruggere le piattaforme di lancio e i depositi d’armi di Hamas, ma il terrorismo può riprendere anche più di prima. Terrorismo e guerriglia non hanno bisogno di razzi e missili a lungo raggio. 

A parte casi limite, perfino in una guerra convenzionale fra Stati può essere controverso in cosa consiste la «vittoria» o in qual misura siano stati raggiunti gli obiettivi di guerra. La storia recente dovrebbe insegnare che nei conflitti non-convenzionali con entità non-statali dichiarare la vittoria può rivelarsi frutto d’una percezione del tutto errata e la vittoria può divenire un concetto sfuggente.

La dualità di tattica e strategia è superata da ben oltre un secolo, senza dubbio dalla Prima guerra mondiale: non si tratta più di dirigere le forze verso la singola battaglia decisiva. Con l’estendersi dei teatri, l’allungarsi dei conflitti, i cambiamenti tecnologici e il farsi totale della guerra, nacque un livello intermedio, più tardi teorizzato come proprio dell’«arte operativa»: se la strategia è il livello nel quale si decidono gli obiettivi di guerra, sulla base di una visione del mondo e dalla valutazione politica della situazione, essa orienta la concezione della serie di operazioni indipendenti e combinate su vasta scala (il livello operativo), a loro volta articolate in una serie di battaglie e scontri tattici. Spesso ignorata, anche perché le metafore politiche d’origine bellica rimangono ancorate a dualismi (strategia-tattica, guerra di movimento-di posizione, vittoria-sconfitta) la tripartizione è importante perché se si riduce la strategia al successo tattico si rischia di pensare che quanto assicura la vittoria sia la mera superiorità in potenza di fuoco, verificabile in determinati episodi di distruzione di forze del nemico. Per la pianificazione di risorse e obiettivi di più operazioni simultanee per una durata prolungata su ampie estensioni geografiche, il livello operativo è molto più complesso di quello tattico e dalla sua esecuzione dipende il conseguimento degli obiettivi strategici. 

A causa dell’immediato rilievo che hanno tutti gli aspetti della vita sociale, la complessità delle operazioni cresce esponenzialmente nei conflitti non-convenzionali. Quando si combatte un nemico non-convenzionale, la storia dell’antiguerriglia insegna che la dimensione politica e ricostruttiva deve essere incorporata direttamente nella condotta militare. Un esempio a proposito è la costituzione di milizie locali e di un apparato statale alleato ed efficiente; ma perché questo funzioni non basta il bastone. Occorre dare una prospettiva politica e sociale che separi l’organizzazione nemica dalla classe o dalla popolazione di riferimento. Non essere riusciti in questo è la causa prima del fallimento degli interventi militari statunitensi in Vietnam, Iraq e Afghanistan (e prima ancora dei sovietici). Stesso discorso per la Palestina. Addirittura, nonostante i successi tattici (la distruzione di forze nemiche), la condotta delle operazioni può risolversi in un disastro politico, tale che si può solo sperare non amplifichi ulteriormente il problema di partenza. 

 

3. 

C’è chi fa notare che la Idf non si comporta come Hamas, che distingue combattenti e non-combattenti, che avverte i civili palestinesi prima dei bombardamenti. E certo, ci mancherebbe pure l’esplicito venir meno della distinzione, in aperta violazione dello jus in bellum... Non è questo che ci si deve aspettare da Israele. Tuttavia le fotografie satellitari parlano chiaro. Il livello di distruzione nella Striscia di Gaza è tale da creare di per sé problemi tattici alla Idf, ad es.: per l’identificazione di edifici e punti di riferimento, quindi rendendo più difficile la corretta designazione dei bersagli; per lo stesso motivo è più probabile lo sconfinamento di squadre di militari oltre le aree di competenza delle unità col rischio di essere oggetto di fuoco amico; crateri e macerie ostacolano il movimento di blindati e corazzati. Le rovine sono tali da superare le precedenti esperienze di guerra urbana dell’Idf, tanto che è stata coniata una nuova espressione: devasted terrain warfare(Sul piano strettamente militare si veda: Jack Watling-Nick ReynoldsTactical lessons from Israel Defense Forces operations in Gaza, 2023, Royal United Services Institute for Defence and Security Studies, Occasional paper, luglio 2024.

         Il livello della distruzione fisica, con quel che comporta e comporterà negli anni a venire per il peggioramento delle già misere condizioni sociali ed economiche della Striscia, è un indice del costo in vite umane. I civili possono non muoversi dalle zone che l’Idf ha designato per essere bombardate, non aver chiaro quale sia l’area sicura più vicina, avere problemi di sicurezza nei corridoi di movimento. E questo riguarda solo la designazione di bersagli pianificati, non quelli che s’incontrano in combattimento, in zone nelle quali non è possibile valutare i «danni collaterali» e in situazioni in cui occorre agire rapidamente. L’uso dell’intelligenza artificiale nel processo di selezione dei bersagli risulta funzionare non in modo da discriminarli tenendo conto dei «danni collaterali», ma semplicemente aumentandone il numero; del resto, pare che la regola d’ingaggio sia stata cambiata in modo da elevare il numero di vittime di non-combattenti considerato accettabile: se questo è vero, come tutto fa pensare, significa diverse decine di persone considerate «danni collaterali» per ciascun combattente. 

Nel mio articolo di ottobre 2023, prima dell’attacco via terra, scrissi che tra i palestinesi, combattenti e civili, ci sarebbero stati fra i 12 e i 24mila morti (a seconda dell’intensità e durata dell’attacco). Dentro di me davo per scontato il minimo della cifra superiore. Non so quale sia la cifra reale al momento. Ancor prima che iniziasse, era però certo che durante una guerra combattuta in una delle aree in assoluto più densamente popolate del pianeta e senza alcuna vera possibilità di rifugio per i civili, questi avrebbero pagato un altissimo prezzo di sangue. Capire quando e quanto ciò accada deliberatamente è difficile, se non irrilevante. Tutto ciò per ribadire che trovo ipocrita e risibile foglia di fico assolvere la condotta di guerra israeliana perché diffonderebbe volantini e messaggi di avviso alla popolazione prima dei bombardamenti. Palesemente la situazione strutturale crea le condizioni di crimini di guerra sia per Hamas, che usa la popolazione come scudo, sia per Israele, che bombarda Hamas e civili

 

4. 

Il costo umano della guerra può almeno condurre alla sconfitta strategica, cioè politica, di Hamas? O in modo diverso: la concreta condotta delle operazioni militari porterà a conseguire i quattro obiettivi di guerra formalizzati dal gabinetto di guerra israeliano il 16 ottobre 2023: distruggere la capacità militare e il governo di Hamas nella Striscia; rimuovere la minaccia terroristica, risolvere la questione degli ostaggi, difendere i confini e i cittadini israeliani? 

Con la sua ferocia il pogrom del sette ottobre voleva dimostrare anche questo: che per quanto l’erba si possa falciare essa può ricrescere più forte di prima, dimostrazione che senza soluzione politica non c’è neanche soluzione militare: il bubbone non è scoppiato per caso e si può essere sicuri che rimarrà a lungo anche grazie a questa invasione e alle sue modalità.

Uccidere capi e militanti di Hamas e distruggerne l’equipaggiamento militare pesante è la parte facile dell’opera. La parte difficile è rimuovere le condizioni politiche e sociali che sono l’humus che ha alimentato e continuerà ad alimentare la lotta armata palestinese. Direi che questo è un principio basilare dell’efficacia della lotta contro-insurrezionale, qualcosa che proprio gli internazionalisti dovrebbero aver pienamente assimilato. E l’incapacità di applicarlo è pure la ragione per cui, nonostante stragi e distruzioni, potentissime forze militari sono state costrette a impantanarsi per molti anni e infine a ritirarsi. 

In altri termini, ultimi e clamorosi casi dell’Afghanistan e dell’Iraq, anche nel caso di Hamas è fuorviante pensare che la vittoria consegua dalla mera distruzione umana e materiale. Malgrado il ridimensionamento della forza militare di Hamas la prospettiva è quella di un circolo vizioso che riproduce fanatismo e terrorismo, senza neanche risolvere il pericolo di Hezbollah, molto più armato di Hamas e alleato dell’Iran. E questo disastro è il diretto risultato della mentalità strutturalmente impossibilitata a risolvere in modo positivo la questione palestinese, come dimostra (passato remoto a parte) quel che è stato fatto e non fatto sia da trent’anni a questa parte (da Oslo) sia dopo il pogrom del 2023

Questo non lo dico io. Anche a parte le proteste sulla vicenda degli ostaggi, sono molti mesi che in Israele viene criticata la concezione dell’operazione militare, non da colombine pacifiste ma da militari d’alto livello in pensione e perfino, discretamente, da ufficiali in servizio, senza contare i commentatori civili. A questo si aggiungono critiche da specialisti non israeliani che di sicuro pacifisti non sono, tra cui le critiche tempestive dall’amministrazione statunitense (e non solo per motivi elettorali, loro ne sanno qualcosa). Il punto dolente (ma non è l’unico) che dimostra il fallimento politico dell’operazione militare è che ora Netanyahu non sa cosa fare di Gaza. Le alternative che si prospettano sono una peggiore dell’altra e quelle praticabili da Netanyahu sono in assoluto le peggiori. Ho già fornito qualche argomento di parte israeliana, ne aggiungo un altro, un estratto da un commento pubblicato sul conservatore Jerusalem post il 28 maggio 2024, che è un bilancio triste ma vero di cui occorre chiedersi le ragioni: 

 

Yes, Israel has lost the war in Gaza. No, it’s not the bitter, bloody end of the Jewish State. [riprendendo una frase di Golda Meir 1973]

It can also be said that Hamas won by continuing to exist as a force in Gaza despite the devastation wrought by the Israeli military, which has killed many top Hamas commanders and thousands of lower-ranking terrorists, ... 

Most of all, Hamas has won by putting the Palestinians back on the international map after years of neglect, making Israel a pariah in the world again, and endangering the grand US plan of forging an alliance between Israel and moderate Arab nations.

Does it make sense for Israel to continue pressing for the achievement of its unachievable goals? Or should it shift gears and work toward something attainable? If the answer is the latter, then Israel needs new leadership. ....

First, Israel must accept these principles:

Israel cannot go against the world alone.

Israel should not fight Hamas, Hezbollah, and Iran by itself.

 

         Questa libertà di critica fa onore agli israeliani e nel merito va presa molto sul serio, altrimenti si rischia di sbagliare strada. Giusto per segnalare qualcosa di più recente: il titolo di un commento di Haaretz del 30 agosto è «A rogue prime minister is turning Israel into a rogue State». Il fatto cruciale non sono le accuse di Stato canaglia da parte di amici di Hamas o di compassionevoli filo-palestinesi-a-prescindere, ma la giustificata irritazione degli alleati, innanzitutto degli Usa. Ad esempio, è interessante la motivazione dell’ordine esecutivo emanato da Biden il primo febbraio 2024 per sanzionare i coloni israeliani in Cisgiordania responsabili di azioni violente, con un’implicita critica al governo israeliano in quanto:

«high levels of extremist settler violence, forced displacement of people and villages, and property destruction - has reached intolerable levels and constitutes a serious threat to the peace, security, and stability of the West Bank and Gaza, Israel, and the broader Middle East region. These actions undermine the foreign policy objectives of the United States, including the viability of a two-State solution». 

La risposta alle due domande è dunque un forte no. Sangue e distruzione nella Striscia di Gaza non porteranno alla sconfitta strategica, cioè politica, di Hamas che, sta già facendo nuove reclute fra i giovani di Gaza, Cisgiordania e Libano e, stando a un’inchiesta d’opinione, non vede ridotto il consenso (sondaggi d’opinione del Palestinian center for policy and survey research, Ramallah)E per un’altra recente indagine, al primo luglio, dei 24 battaglioni originari di Hamas otto conservano capacità di combattimento con uso di mezzi sofisticati, 13 possono condurre piccole azioni di guerriglia e solo tre sono stati militarmente incapacitati; sette battaglioni dislocati nel settentrione della Striscia - la zona più battuta - si sarebbero riorganizzati almeno una volta nel corso di sei mesi (Qiblawi et al., «Netanyahu says “victory” over Hamas is in sight. The data tells a different story», Cnn special report, 5 agosto 2024, indagine Cnn-Critical Threats Project-Institute for the Study of War); e dopo averla in teoria «ripulita», ai primi di agosto l’Idf è tornata per la terza volta a Khan Younis (400mila civili in zona). Altro che vittoria in vista, come secondo Netanyahu al Congresso! 

Al Congresso Usa Netanyahu ha ribadito la sòlfa per cui for nearly four thousand years, the land of Israel has been the homeland of the Jewish peoplela terra in cui pregavano Abramo Isacco e Giacobbe, ma non ha fatto parola della questione dello Stato palestinese, se non nella forma di Gaza demilitarized and deradicalized, con un’amministrazione di palestinesi che non vogliono distruggere Israele. Qualcosa che fa pensare o all’occupazione o a un regime fantoccio, che andrà incontro a una destabilizzante guerriglia, certo non a qualcosa che rassomigli alla transizione verso una statualità palestinese che, al momento dovrebbe coinvolgere l’Anp [Autorità nazionale palestinese] e che potrebbe avere qualche possibilità di ridurre il bacino dei potenziali combattenti. Ha parlato degli amici arabi, ma non dei palestinesi. 

La responsabilità maggiore di Netanyahu non è di non aver impedito il pogrom ma altra, da cui la prima consegue: fin da metà anni Novanta egli è il singolo politico che più ha operato per far incancrenire la situazione. Non è che i governi israeliani degli ultimi venti anni siano stati troppo gentili con Hamas e che periodicamente non abbiano energicamente bastonato Gaza, Hamas e soci secondo «un’accorta politica preventiva». Che altro avrebbero dovuto fare, militarmente parlando? Rioccupare Gaza? Atomizzarla? Semmai sono stati fin troppo gentili con Hezbollah, fatto che stanno pagando ora e continueranno a pagare negli anni a venire. 

Il punto è che, al preciso fine di impedire la formazione di uno Stato palestinese, nella logica sionista andava benissimo uno stato di guerra strisciante con alcuni picchi; e per lo stesso motivo l’operazione contro Hamas è stata concepita come se si dovesse solo annientare un esercito convenzionale.

Il discorso di Netanyahu al Congresso è stato autoassolutorio. Mirava a sbloccare gli aiuti militari, ma senza un briciolo di visione costruttiva, nello stesso tempo annegando il problema di fondo della questione israelo-palestinese nel più ampio problema geopolitico dell’Iran. Ma se in the Middle East, Iran is virtually behind all the terrorism, all the turmoil, all the chaos, all the killing, le priorità andavano allora definite diversamente. Il modo più diretto per ridimensionare l’Iran non era invadere Gaza, ma il sud del Libano, possibilmente con una coalizione multinazionale, con l’obiettivo di distruggere l’arsenale di Hezbollah, campagna militarmente molto più impegnativa - e pericolosa per i civili israeliani, stante la notevole dotazione di razzi e missili di Hezbollah - ma anche più importante, perché Hezbollah è molto più forte di Hamas. Quindi incapacitazione del più significativo agente dell’Iran e sostegno di Hamas, sicurezza maggiore per Israele, dimostrazione di forza per mostrare ai militanti di Hamas cosa possono attendersi, ma con minor rischio di stragi di civili come a Gaza. Questa è una delle critiche mosse a Netanyahu. La tirata di Netanyahu sull’Iran ha lo scopo primario di spostare l’attenzione dalle radici della tragedia israeliano-palestinese al clash between barbarism and civilization, dove l’Iran è il deus ex machina di tutto, così da escludere la questione palestinese e assolvere Israele. Il clash c’è ma non è così che si deve trattare. Così diventa eterno. Nel suo discorso Netanyahu ha fatto riferimento alla smilitarizzazione e de-radicalizzazione di Germania e Giappone dopo la Seconda guerra mondiale that led to decades of peace, prosperity and security: riferimento risibile visto che a differenza dei tedeschi i palestinesi possono avere un’occupazione militare ma non uno Stato, e la prosperità se la sognano. Altri sionisti si sono riferiti ai bombardamenti alleati su Germania e Giappone per giustificare quelli su Gaza in nome del pericolo all’esistenza di Israele. Questi paragoni sono moralmente vergognosi e utili solo a escludere la possibilità di uno Stato palestinese indipendente. 

Il risultato della logica sionista è che Netanyahu non sa realmente cosa fare della Striscia, non ha alcuna intenzione di muoversi nella direzione dei due Stati, conseguentemente ha contribuito a screditare l’Anp invece di farne un partner.   

Per quanto abominevole la sua ideologia, orrende le sue azioni e in definitiva storicamente fallimentare la sua strategia (ma la strada del fallimento può essere ancora molto lunga), la forza di Hamas risiede nel fatto che è una risposta a un problema storico obiettivo: quello della nazionalità palestineseCertamente Hamas non vuole i due Stati perché aspira a tutta intera la Palestina; non so cosa altro frulli nella testa dei suoi capi ma non importa. Quel che importa veramente ed è decisivo anche per la battaglia contro l’islamismo, è quel che pensano i milioni di palestinesi che si aspettano la fine di un’esistenza non statuale, che aspirano a uno Stato vero e proprio (e io spero possano aspirare a uno Stato comune con gli israeliani). Se pure un bigotto Arafat fosse stato creatura del Kgb e Hamas fosse mera marionetta dell’Iran, ciò non spiegherebbe il nazionalismo di milioni di palestinesi né permetterebbe di liquidare o annacquare nazionalità e nazionalismo palestinese in vaghi discorsi sull’ideologia islamica, l’Umma e la «grande nazione araba». La politica dei governi israeliani entra in gioco quando si consideri che a ottobre 1995 soltanto il 16% dei palestinesi erano contrari a negoziati con Israele ma che nel settembre 2023 - trent’anni dopo gli accordi e un mese prima del pogrom - il 68% riteneva che gli accordi di Oslo hanno danneggiato gli interessi nazionali palestinesi, il 63% che debbano essere abbandonati e il 76% che Israele non li applica (Palestinian Center for Policy and Survey Research in collaborazione con Konrad-Adenauer-Stiftung).

Fra opposti fanatismi, decisivi conflitti e condizionamenti di partiti e organizzazioni interne ai due campi (fatto che direi molto sottovalutato), negative interferenze esterne, oggettivi gravi problemi che la testardaggine diplomatica ha reso più difficili, dire che la vicenda delle trattative dirette palestinesi-israeliane è stato e sarà un nido di vespe infuriate è ancora un gentile eufemismo. Fanatici islamisti e antiebraici forse esisteranno ancora per secoli. Non ho il minimo dubbio che organizzazioni palestinesi e Stati arabi fino all’Iran persiano abbiano enormi, decisive responsabilità. Tuttavia, gli israeliani devono decidere se lasciare proliferare fanatici e terroristi in un mare grande e ricco di nutrimento oppure se li si vuole ridurre a una pozzanghera sterile dove possano soffocare o essere facilmente pescati col retino. Sarà paradossale, ma negando una modalità d’esistenza statuale della nazionalità palestinese il sionismo alimenta un mare grande e fertile per fanatici e terroristi. Non c’è mattanza di terroristi che possa porre rimedio a questo fatto strutturale. È un circolo vizioso in cui possono esserci alti e bassi ma si riproduce. Quando ho scritto di Hamas sotto un funghetto atomico non scherzavo: Hamas potrebbe sparire con gli abitanti di Gaza ma questo non farebbe altro che ricreare una retroazione positiva, moltiplicando rabbia e odio. 

In sintesi: Israele ora non sta combattendo anche per noi contro l’Iran ecc. Netanyahu e soci fanno combattere i giovani israeliani per restare al governo e perpetuare le condizioni che producono il fanatismo della disperazione e il terrorismo. Al contrario, il risultato dell’operazione a Gaza è un disastro non solo per la possibilità della sconfitta strategica (cioè politica, non solo militare) di Hamas e per il futuro dei rapporti Israele-palestinesi, ma anche per la causa di contenere l’Iran ed Hezbollah, molto più pericoloso di Hamas. 

A questo punto, mi auguro che gli israeliani caccino a calci nel sedere Netanyahu e soci. E poi mi auguro che in Israele finisca con l’affermarsi l’idea che debba nascere un vero Stato palestinese senza tirarla con finte trattative per altri trent’anni, con tanto di piano Marshall internazionale sia per i palestinesi sia per rimuovere buona parte dei coloni della Cisgiordania. Non è la soluzione migliore ma sarebbe già un lasciarsi alle spalle il sionismo, comprendere che oramai i danni che esso produce sono di gran lunga superiori ai benefìci. 

Tuttavia per ora, non avendo nulla dato e neanche nulla promesso in termini politici ai palestinesi, fra questi continuerà a generarsi frustrazione e rabbia che riprodurranno fanatismo e terrorismo, pasciuti dalle nuove stragi di civili e dalla miseria moltiplicata dalle distruzioni. 

L’operazione speciale di Putin è un esempio di idiozia di cui mi compiaccio; l’operazione israeliana in Gaza è idiozia d’eguale magnitudine e di questo mi dispiaccio. Alla base lo stesso problema: strategia sbagliata a causa di una mentalità politica fanatica. 

  Se non si assume la catastrofe politica di Netanyahu anche il discorso sul contesto internazionale risulterà distorto

 

4.

Il pogrom del sette ottobre non ha minacciato l’esistenza di Israele, ma simbolicamente penso sia il fatto più traumatico della sua storia. È stata un’azione estrema di stampo nazista come non si era mai visto. Israele poteva chiedere ad amici e semi-amici di aiutarlo a eliminare la più concreta minaccia chiaramente antisemita e genocida dal tempo del nazismo. 

Qui non sono in discussione la legittimità di una risposta militare al pogrom o l’obiettivo della sconfitta di Hamas ma la strategia. Non ho competenza per formulare scenari militari alternativi; quel che può essere interessante nel discorso controfattuale è evidenziare una logica politica dalla quale sarebbe stato possibile derivare un modo diverso di concepire la guerra contro Hamas. E viceversa, aiuta a comprendere quanto nel ceto politico israeliano sia radicata una logica che richiede la critica più severa non la mera accettazione come fosse fatto naturale e irrevocabile. 

Inoltre, a parte misure immediate di autodifesa e limitata rappresaglia deterrente, la risposta militare israeliana si sarebbe dovuta concepire con obiettivi di guerra realistici, non con l’illusione di poter annientare militarmente Hamas senza pesanti ricadute sulla popolazione e quindi anche sulla possibilità di gestire politicamente il dopoguerra. Nell’altra lettera ho scritto che

«di fronte a un’azione senza precedenti di stampo nazista Israele doveva trattenere il pugno, pazientare (il che significa non invadere subito, non non fare assolutamente nulla) e mettere il mondo di fronte a una domanda: cosa concretamente volete fare per eliminare un’organizzazione predisposta al genocidio degli ebrei? È Israele che avrebbe dovuto porre in tutti i modi Hamas sotto accusa di genocidio e, insisto, pretendere azione da parte di amici e pure Anp e Stati arabi». 

 

Pretendere una risposta alla domanda che qui ho messo in corsivo significa immediatamente definire cosa fare con Hamas ma implicitamente anche cosa fare con l’«asse della resistenza» che l’appoggia: Iran, Hezbollah, Houti ecc. Non solo sul piano delle alleanze internazionali, ma anche delle misure politiche locali funzionali al successo militare e, viceversa, della condotta militare coerente con la visione politica. In assenza di una radicale soluzione politica questo accadrà di nuovo. È su questa base che poi potenze varie, dalla Cina alla Russia all’Iran fanno il loro gioco, non viceversa, né in passato né in futuro.

Quella palestinese non è questione fra tante altre che dall’Africa meridionale all’estremità dell’Asia compongono una vasta zona di crisi e conflitti locali, che semplificando e astraendo da radici etniche, sociali e politiche specifiche, per ideologia si possono etichettare come fattori dell’islamismo militante. La questione palestinese è quanto catalizza e unifica e in parte anche motiva buona parte di questi movimenti. È anche per questo che essa non può essere annegata nel più ampio contesto. Al contrario, in assenza di esplosioni per motivi interni come la cd. Primavera araba (che nello sfondo più ampio non bisognerebbe dimenticare, anche per future possibilità), la soluzione della questione palestinese è un passo indispensabile per modificare radicalmente il contesto, perché toglierebbe spazio e alibi a regimi e organizzazioni reazionarie. Non mi pare sia stato compreso che la positiva soluzione della statualità palestinese è parte integrante e importante di un quadro regionale che eccede i pochi kmq di Gaza e di Israele. Che la questione palestinese si risolva un modo o nell’altro - sia due Stati o uno Stato binazionale - e l’antisemitismo dovrà presentarsi allo stato puro, senza scuse strumentali. 

Con «trattenere il pugno» intendevo la messa a punto di un piano di operazioni adeguato all’applicazione delle tre regole dell’antiguerriglia: che non si tratta solo di ripulire il territorio ma anche di tenerlo e di ricostruire, in tutti i sensi. Il che richiede che si sappia chi e come governa Gaza dopo la distruzione delle capacità militari più pesanti di Hamas. Occorreva pensare al dopoguerra ancor prima che alla guerra, alla gestione di Gaza e al rapporto fra questa e Anp e Cisgiordania. 

Stando alle (illusorie) aspettative, palestinesi e alle chiacchere della cd. «Comunità internazionale», prima o poi sarebbe dovuto nascere un vero Stato palestinese in Gaza e Cisgiordania, intendo uno Stato realmente sovrano e integro. Invece, a trent’anni da Oslo la Cisgiordania è rimasta un arcipelago polinesiano e gli insediamenti sono cresciuti al punto di essere la ragione principale per cui l’idea dei due Stati non regge. Ricordo che Hamas vinse le elezioni palestinesi del 2006 (le uniche) perché negli anni dopo Oslo le aspettative statuali palestinesi furono prese per i fondelli e l’Anp si era caratterizzata per corruzione, opportunismo e collaborazionismo con i servizi israeliani. È questo che ha alimentato il fanatismo e Hamas, ed è questo il problema che il governo israeliano avrebbe dovuto porsi prima di concepire una risposta militare ad Hamas. 

Conseguentemente, al centro della strategia politica sarebbe dovuta esserci la questione della nascita dello Stato palestinese, accompagnando il tutto con alcune misure immediate per far capire che si fa sul serio: ad es. cancellazione delle agevolazioni per insediati e insediamenti, cessione di strade e aree con doppia competenza territoriale all’Anp, blocco degli insediamenti. A questa condizione il discorso israeliano su Gaza avrebbe avuto un’altra dimensione: si sarebbe trattato di liberare Gaza dalle organizzazioni che impediscono la costituzione di uno Stato palestinese. Nel migliore dei casi ciò avrebbe potuto creare una coalizione di «volenterosi» - potenzialmente anche contro l’Iran, sostenitore di Hamas, Hezbollah ecc. - anche di forze arabe, che avrebbero potuto contribuire al dopoguerra. In ogni caso ciò avrebbe lasciato a Israele una maggiore libertà di movimento politico e maggiore flessibilità nell’azione militare. 

Ovviamente questo fa parte del libro dei sogni. Questo non è accaduto e non poteva accadere, data la natura del personale di governo israeliano, che ha gettato al vento l’enorme capitale politico a disposizione di Israele dopo il pogrom del sette ottobre. Anzi, l’operazione militare è diventata una catastrofe politica a cui sarà molto difficile rimediare. Non c’è strage di terroristi o botta e risposta con l’Iran che possa consolare di questo. 

È lecito pensare che dietro il pogrom ci sia l’Iran, benché fino a prova contraria io non ne sia convinto, non nel senso di un ordine da Teheran per far fallire l’iniziativa degli Accordi di Abramo. Ma proprio non riesco a capire come l’atomica iraniana possa essere la chiave - immagino si intenda in senso causale - del sette ottobre. Per lo sviluppo del programma nucleare l’Iran ha bisogno di tranquillità, non di attirarsi l’ira altrui e di rischiare effettivamente un attacco distruttivo agli impianti. 

Si possono bombardare i siti nucleari iraniani. Bene, ma si può seriamente pensare che con questo termini il sovversivismo iraniano o il regime teocratico? Lo escluderei, purtroppo. Per quanto far fuori i capi terroristi e bombardare i siti nucleari iraniani possa essere cosa buona e giusta (a parte considerazioni d’opportunità) questa è solo tattica. Questi botta e risposta possono andare avanti per secoli. Non sono la soluzione radicale, e con questo non intendo certo dire che la soluzione sia l’invasione per esportare la democrazia. 

Afghanistan e Iraq dovrebbero insegnare qualcosa. La teocrazia iraniana non finirà con i bombardamenti e al peggio potrebbe pure comprare qualche testata dalla Corea del nord o fabbricare una semplice mina nucleare «sporca» da far arrivare a Tel Aviv. Quella teocrazia finirà quando la faranno finire iraniane e iraniani, se necessario con aiuto esterno. 

 

Precisazioni in merito alla nazionalità palestinese: 

Nell’altra lettera ho scritto che la nazionalità appare semplice e naturale, ma solo quando se ne ha un’idea ristretta. Questo anche perché, a meno di non avere una concezione essenzialista ed idealistica della cultura e della nazionalità (l’«ebreo eterno», «l’arabo eterno», l’Occidentalismo e l’Orientalismo), nessuna questione nazionale in nessuna parte del globo è esistita o esiste «come tale» ma sempre in un contesto processuale etnicamente e geopoliticamente più o meno ampio e fluido. Ad esempio, ora esiste la questione della relazione fra le singole nazionalità e l’Unione europea. Si giungerà agli Stati uniti d’Europa?  Nascerà un sentimento di appartenenza sovranazionale coerente o in tensione con quello nazionale? 

Essendo il sionismo un movimento volto a creare una nazionalità ebraica ovviamente gli immigrati ebrei in Palestina avevano fin dall’inizio - primi ‘900 - una chiara coscienza di gruppo nazionale nascente, benché non mancassero quelli che emigravano per soli motivi religiosi e non ambivano affatto a uno Stato ebraico; altrettanto ovviamente si portavano dietro la modernità culturale e politica europea – il collettivismo addirittura, oltre ai capitali - ed avevano pure la loro organizzazione internazionale. 

Si può dire che una coscienza specifica arabo-palestinese, comprensiva sia dei mussulmani che dei cristiani (sorsero leghe comuni), si sia formata più tardi rispetto a quella sionista e proprio in lotta contro l’immigrazione ebraica; il senso di distinzione rispetto al più ampio contesto arabo fu accelerato dalla Dichiarazione Balfour e proprio dal destino particolare della Palestina rispetto agli altri territori ex-ottomani subito dopo la Prima guerra mondiale. Un senso di distinzione nazionale certamente sorse prima nella stampa e nelle città, ma negli anni Venti e Trenta era esteso anche nelle campagne, in relazione alla questione della terra. A questo proposito le rivolte parlano chiaro. 

A fronte della diplomazia dell’organizzazione internazionale sionista e dell’appoggio della potenza mandataria ai sionisti (contraddittorio ma reale) il nazionalismo palestinese ha sempre dovuto contare sull’appoggio decisivo degli Stati arabi sunniti (tipo d’appoggio che non è una esclusiva: contro l’Austria, per il Piemonte furono decisive le vittorie francesi e poi prussiane e la simpatia britannica) i quali poi, alla faccia della «grande nazione araba» hanno seguito politiche proprie, anche massacrando palestinesi (Giordania, Siria); e quindi, fallita al-Fatah con la presa in giro degli accordi di Oslo, poi è venuto il turno della svolta islamista e dell’Iran sciita. Tuttavia, se ne dica il male che si vuole, un’identità e un movimento politico nazionalista palestinese sono realtà tangibili a prescindere dai gruppi dirigenti. 

In secondo luogo, le identità nazionali sono sfaccettate perché sempre definite anche da altre influenze o appartenenze subnazionali e sovranazionali e anche da interessi sociali di classe o di casta e per riferimenti culturali non nazionali. Tuttavia non per questo sono meno reali e determinanti: io sono barese ed europeo ma anche indubbiamente italiano, per quanto la mia coscienza politica possa pormi in totale contrasto con altri italiani e in fratellanza con chi italiano non è o anche farmi sentire culturalmente «cittadino del mondo». 

Gli islamisti hanno il problema di conciliare identità locale e comunità dei fedeli, certo, ma questo non vuol dire che gli arabi palestinesi non esistano come «gruppo etnico-nazionale». Hamas avrà origine nella Fratellanza mussulmana, ma è pure organizzazione nazionalista palestinese, che per questo a suo tempo polemizzò con l’Isis. I mussulmani egiziani, indonesiani o malesi non esistono come nazionalità? Come tutte le altre, queste nazionalità si sono «inventate» o create in processi storici peculiari, ma non per questo sono non-reali, tanto più se, piaccia o no, lo dimostrano armi alla mano o scagliando pietre (detto da uno a cui lo Stato detto nazionale o etnocentrico sta caldamente antipatico, ancor più quando ha una religione di Stato). 

La questione palestinese rientra in parte nel discorso circa l’islamismo, ma non si può schiacciarla tutta sul punto dell’Iran saltandone la concreta specificità. Se l’Iran teocratico scomparisse non scomparirebbe la questione palestinese. Non scomparirebbe neanche se tutti i palestinesi fossero atei. Il palestinese è attaccato al suo pezzo di terra per lo stesso motivo che vale per miliardi di altri individui, non per qualche comandamento coranico. La promessa del Paradiso dopo il martirio (per quelli che ci credono, che saranno tanti ma non tutti) è una forma specifica di fanatismo in una certa fase, non la causa prima. 

Altra conseguenza del culturalismo che annega la specificità locale o regionale nella metafisica spiritualista è che non può concepire o trattare adeguatamente contraddizioni e opposizioni all’interno del campo opposto, con ciò negandosi anche una condizione politica essenziale per l’efficacia della via militare e del successo strategico: la costruzione di alleanze con movimenti o gruppi posti nel campo avversario


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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.