Per fortuna c'è chi si batte contro i filosofemi assurdi
di Diego Gabutti
Moralista e filosofo, amico di Voltaire, Luc de Clapiers de Vauvenargues è citato da Flaubert nello Sciocchezzaio. Ma certo non disse una sciocchezza quando annotò, nei suoi Pensées diverses, che «la chiarezza è la buona fede dei filosofi».
Nato nel 1715, morto nel 1747, de Vauvenargues vedeva lontano: l’accessibilità e la nitidezza della filosofia stavano avviandosi al tramonto. Pochi anni più tardi, nel 1770, sarebbe nato a Stoccarda, in Germania, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, e con lui la filosofia sarebbe piombata nelle tenebre del gergo metafisico, dov’è tuttora immersa. Semispenta l’età dei lumi, era cominciata l’età del «parlar oscuro», come l’avrebbe battezzata Massimo Baldini – studioso di Karl Popper e delle «fantaparole» attraverso le quali s’esprime il «fantapensiero» dei moderni – in un libro del 1991, Contro il filosofese.
Anche Roberto Massari, editore marxista libertario militante, appassionato di filosofia, è un nemico del «parlare oscuro», del «filosofese» e del «difficilese», di cui ripercorre le avventure nel suo Hegel. Una mistificazione. C’è del «filosofese», racconta, già nelle prime speculazioni filosofiche. E molti, fin dall’origine della filosofia, si sono battuti contro i filosofemi astrusi e incomprensibili, o meglio «paroliberi», come le «onomatopee astratte» dei futuristi e le esclamazioni in grassetto dei fumetti. Lucrezio tra i primi, che nel De Rerum Natura biasima Eraclito, «reso celebre dall’oscuro linguaggio più fra gli sciocchi / che fra i Greci ponderati che cercano la verità. / Gli stolti infatti ammirano e amano di più tutto ciò / che credono di scorgere nascosto sotto termini ambigui, / e prendono per vero ciò che può giungere dolcemente / all’orecchio ed è imbellettato da gradevole sonorità». Eraclito, secondo Temistio di Costantinopoli, un filosofo del IV secolo, si difese affermando che «la natura delle cose ama celarsi».
Naturalmente l’oscurità della filosofia ha qualche attenuante: il filosofo, che cerca di scavarsi un passaggio nella terrificante complessità del mondo, non ha per machete che le parole, mentre da ogni lato preme una giungla popolata di mostri, meraviglie e chimere (a partire dalla sconvolgente e inafferrabile ragione dell’Essere quando sarebbe stato molto più economico, ab origine, farsi bastare il Nulla). Ma questo spiega la filosofia onesta, che trasforma i concetti in attrezzi, facili da usare, accessibili a chiunque, utili a procedere – evitando «fantaparole», e senza millantare miracoli – nella conoscenza della «natura delle cose». Nulla giustifica, invece, la filosofia disonesta. Massimo Baldini – scrive Massari – «afferma senza mezzi termini che la responsabilità per la nascita del linguaggio filosofico volutamente oscuro va attribuita ai tre padri fondatori dell’idealismo tedesco, cioè Fichte, Schelling e Hegel». Qui sorge, scrive Popper, «la domanda se Hegel abbia ingannato se stesso, ipnotizzato dal suo stesso gergo, oppure se si sia proposto d'ingannare e incantare gli altri. Sono convinto che questa seconda alternativa sia la vera».
All’Università di Berlino, dove insegnò dal 1819 al 1831, anno della sua morte, insegnò per un breve periodo anche il suo critico «più drastico», Arthur Schopenhauer, che imputò all’«hegeleggiare» la rovina intellettuale dei filosofi tedeschi: Logica e Fenomenologia dello spirito facevano «storte e guaste le teste fin dalla prima giovinezza». Hegel, ai tempi, era una specie di rockstar, e le sue lezioni attiravano folle di studenti, mentre quelle di Schopenhauer andavano deserte. Non c’era semplicemente gara tra chi aveva battezzato «la triade Fichte, Schelling, Hegel “congrega dei cialtroni”» e il cialtrone che nell’aula accanto alla sua teneva lezioni di filosofia ricorrendo ad aforismi di grande effetto comico tipo «l’errare dei nomadi è soltanto formale» o «i misteri degli egizi erano misteri anche per gli egizi».
Tutti tifavano per Hegel. Tutti volevano un autografo da lui. Egli era inoltre «il primo filosofo ufficiale del prussianesimo», scrive sempre Popper, e «sembra improbabile che sarebbe mai potuto diventare la più influente figura della filosofia tedesca» – dalle lezioni berlinesi su su fino al Terzo Reich, quando la sua fiaccola sarebbe stata raccolta dall’«hegeleggiare» più tenebroso che oscuro di Martin Heidegger, che Thomas Bernhard, in Antichi maestri, definì a buon titolo «l’imbecille delle Prealpi, un ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava» – «se non avesse avuto alle sue spalle l'autorità dello Stato prussiano. [...] Oggi molti filosofi stanno perdendo interesse per Hegel. Ma la sua influenza, e specialmente quella del suo linguaggio, è ancora potentissima nella filosofia morale e sociale come nelle scienze sociali e politiche (con la sola eccezione dell'economia)».
È stato il filosofo di riferimento dei totalitarismi del XX secolo. Se Heidegger ne fu un allievo, un altro suo allievo fu Lenin, che gli dedicò una delle sue imbarazzanti opere metafisiche, i Quaderni filosofici (Lenin non osò pubblicarli in vita, ma furono in seguito celebrati dal prussianesimo bolscevico: il marxismo-leninismo). Fu hegeliano Bakunin, e furono hegeliani «di sinistra», in giovinezza, anche Marx ed Engels, salvo smettere d’«hegeleggiare» (quasi del tutto) nella maturità. Sono e restano hegeliani, in compenso, quasi tutti i marxisti rimasti su piazza: funamboli della dialettica, tifosi della «contraddizione», reduci da tutte le baruffe, ex operaisti, ex maoisti, look giovanilista, sciupafemmine, universitari dal ciuffo ribelle, scamiciati, ex o post o vetero a giorni alterni.
Al pari di Lenin, e di Heidegger, anche «i marxisti moderni mancano completamente di modestia intellettuale. Amano fare sfoggio del loro sapere e d’una terminologia roboante», dice ancora Popper. Solo che «chi ha da dire qualcosa di nuovo e d'importante ci tiene a farsi capire. E farà pertanto tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente di più facile dello scrivere difficile». In Italia, tra gl’invecchiati paladini del marxismo esoterico degli anni settanta, «abbiamo un supercampione di tale processo degenerativo nella figura di Massimo Cacciari, pubblicamente osannata dalla società spettacolare di massa. Baldini mostra come il “difficilese” dell'ex sindaco di Venezia», scrive Massari, «ruoti intorno all'uso e l'abuso di espedienti linguistici [...]: ammiccamenti grafici, utilizzo frenetico dei segni d'interpunzione (virgolette, corsivi, trattini, parentesi varie, apici), intrusioni citative incontrollabili, uso spropositato di terminologie straniere ricavate da autori irraggiungibili per noi comuni mortali... Ebbene, la prosa incomprensibile di Cacciari è soltanto la punta) d’una totale vuotezza [...] camuffata da garbugli linguistici iperermetici».
Incomprensibili, dogmatici e narcisi, questi squadristi o pasdaran della filosofia hanno un’opinione indiscutibile su tutto: la pace e la guerra, la politica interna e quella globale, il calcio, il cinema, la moda, la Royal Family inglese, Fellini, Paperino, Madonna e la Madonna, il Festival di Sanremo. Chi li contraddice o (peggio) li ignora lo fa a proprio rischio e pericolo. Nelle società «prussianizzate» si rischia puramente e semplicemente il collo, mentre in quelle fondate, tipo la nostra, sui tweet e sulle ospitate nei talk show si rischia al massimo l’isolamento, oppure di passare per «babbani», come chi non pratica la magia nelle storie di Harry Potter. Del resto, è raro, ormai, che i moderni hegeliani parlino, sia pure oscuramente, di filosofia. Cercano, per lo più, la luce dei riflettori. Strano (e terribile) è che la trovino.
Roberto Massari, Hegel, una «mistificazione». Con testi drasticamente antihegeliani di Schopenhauer, Fries, Marx, Brecht, Russell, Popper e altri, Massari editore 2022, pp. 258, 15,00 euro.