La «ribellione» delle masse
«La mentalità fascista è la mentalità dell'"uomo della strada" mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi a un'autorità e allo stesso tempo ribelle… Questo piccolo borghese ha copiato fin troppo bene il comportamento del grande e lo riproduce in modo deformato e ingigantito. Il fascista è il sergente del gigantesco esercito della nostra civiltà profondamente malata e altamente industrializzata. Non si può far vedere impunemente all'uomo comune il grande tam tam dell'alta politica» (Reich, op. cit., p. 12).
Che le masse intervenissero apertamente e fattivamente sulla scena politica italiana - interrompendo una stasi protrattasi, con brevi eccezioni, dalla fine del Risorgimento - parve un fatto estremamente positivo agli inizi di questo secolo. E come tale fu salutato da tutta la sinistra, compresi futuri fascisti come il socialista Benito Mussolini, i sindacalisti «rivoluzionari» Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti.
Per giunta erano masse giovanili, imbevute di spirito di rivalsa verso le dominanti forze liberali e monarchiche, insoddisfatte del ruolo marginale che la politica postunitaria aveva loro assegnate e defraudate nelle loro speranze di promozione sociale. Era certo di valenza positiva - da qualunque punto lo si guardasse - il fatto che centinaia di migliaia di giovani chiedessero di agire, di attivarsi, di essere mobilitati per un risveglio generale delle coscienze e una crisi definitiva del vecchio assetto liberaldemocratico. E poiché l'intervento in guerra, a fianco dell'Intesa e rivolto a completare il Risorgimento «tradito», offrì uno sbocco immediato e dinamizzante a quell'entusiasmo giovanile, il movimento interventistico capitalizzò quel ricco potenziale di intelligenze e coscienze9.
Venne poi l'esaltazione del grande conflitto europeo, cui fece seguito la disillusione economica del dopoguerra. Poi l'impresa fiumana. Il combattentismo come categoria politico-culturale: l'opposizione confusa ma decisa a tutto ciò che sapesse di vecchio regime, di vecchi compromessi, di difesa dell'esistente. Infine, l'irruzione massiccia sulla scena degli operai del nord, sindacalizzati, qualificati, politicizzati. Ma era troppo tardi. L'avanguardismo, il combattentismo giovanile aveva già intrapreso altri sentieri e si stava costruendo i propri Fasci di combattimento. Il movimento operaio aveva perso un'occasione storica e il primo accedere delle masse giovanili sulla scena politica italiana di questo secolo si trasformava nell'esatta negazione degli ideali originariamente mobilitatori. La ribellione delle masse aveva mancato il suo primo appuntamento con la storia.
La rebelión de las masas di José Ortega y Gasset vide la luce nel 1930. Fotografava l'afflusso pletorico delle masse nella società industriale moderna e se ne ritraeva inorridita. Come già Reich, anche Ortega y Gasset si rifiutava di ridurre le masse a «masse operaie», ma le vedeva piuttosto come «moltitudini», composte di «uomini medi», di medietà sociali. Accusato più o meno giustificatamente di elitarismo - per lo spazio che assegnava alle «minoranze elette, qualificate» - Ortega y Gasset offrì tuttavia un'immagine empiricamente accettabile e sociologicamente accurata della dinamica in cui i movimenti di massa venivano a trovarsi inseriti nella società della produzione di massa, la società del capitalismo industriale sviluppato, la società della produzione di beni di consumo di massa. Non parlava molto di sistemi politici, il brillante studioso spagnolo, ma dei principali movimenti della sua epoca. «Iperdemocratici» li definiva in blocco (secondo una sua personale e liberale concezione della democrazia), ma non poteva avere sotto gli occhi altro che il movimento fascista italiano quando affermava:
«Il fatto caratteristico del momento è che l'anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l'audacia d'affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque»10.
Molti videro in quel libro una giustificazione dell'avanguardismo fascista nеl suo disprezzo per le masse. Ma esso conteneva invece la prima sistematica disamina del sistema totalitario moderno, fondato per l'appunto sulla mobilitazione reazionaria delle masse. Esso chiamava direttamente in causa, tra gli altri, il sindacalismo e il fascismo (р. 63), oltre allo stalinismo (p. 81), accusandoli d'essere fattori di regresso, degli ostacoli sulla strada dell'umanità verso una sua crescente evoluzione qualitativa.
Il nazismo doveva vincere in Germania tre anni dopo la pubblicazione del libro di Ortega y Gasset, ma il significato più autentico della sua critica premonitrice si sarebbe capito all'indomani della guerra, nel clima febbrile della ricostruzione economica capitalistica, nell'avvento livellatore della società dei consumi, dei consumi di massa per l'appunto…
«L'uomo massa attuale è, effettivamente, un primitivo, che dalle quinte è scivolato sul palcoscenico della civiltà…
Ci sarà chi si sente più sorpreso per altri sintomi di barbarie emergente che, essendo di natura positiva, di azione e non di omissione, saltano di più agli occhi e si concretano come spettacolo…» (pp. 71 e 75, corsivo nostro).
Si apriva l'era dello spettacolo… l'era che stiamo vivendo.
Dalla Spagna radicale di Ortega y Gasset si deve volare in Germania per trovare un proseguimento di quella riflessione sul totalitarismo della società di massa, visto agli inizi nelle sue varie manifestazioni sul piano caratteriale, artistico, economico, ludico. E poi nell'esilio statunitense. È il gruppo di studiosi, marxisti e non, che verrà in seguito conosciuto come «Scuola di Francoforte». In quel contesto culturale verrà prodotta la prima ricerca sociologica moderna - dopo Reich - sull'apporto della costituzione caratteriale dell'individuo-massa nella sua adesione all'ideologia fascista11.
Herbert Marcuse inizia fin dal 193412 la sua battaglia solitaria contro le interpretazioni proposte dall'antifascismo democratico, chiaramente interessate a riabilitare i vecchi regimi liberali.
È una battaglia controcorrente e di non poco conto, che si alimenta della ricchezza di ricerche collaterali che il vecchio gruppo francofortese può condurre nell'esilio e soprattutto di un nuovo apparato critico-interpretativo, fatto di marxismo e psicoanalisi, di approdi più recenti della sociologia nordamericana e di riflessione sui dati empirici tratti dalle esperienze dei regimi autoritari in corso.
Nasce in tal modo la categoria del totalitarismo, vecchia nel nome, ma densa di nuovi significati. Marcuse la tesserà e riempirà di contenuti negli anni del dopoguerra, consegnandola nelle sue formulazioni più mature alle avanguardie studentesche degli anni '60, alla generazione che per comodità si usa definire «del '68».
Lì l'abbiamo raccolta, e lì ci riallacciamo a nostra volta per completare il discorso su cosa debba intendersi per «fascismo» oggi, in rapporto alla dimensione totalizzantе del potere capitalistico nell'era attuale, versione moderna di quell'intreccio tra a) azione autoritaria dello Stato borghese e b) mobilitazione reazionaria, determinata da bisogni insopprimibili delle masse, ma canalizzata nell'alveo della conservazione del sistema vigente di rapporti sociali di produzione.
Fili connettivi di tale connubio e premesse di una potenziale mobilitazione reazionaria di massa in sua difesa sono le categorie operative del moderno totalitarismo di massa: conformismo, assuefazione, standаrdizzazione e rеifiсaziоnе dei comportamenti, paura del cambiamento, sessuofobia (permissiva), culto della personalità carismatica, mutilazione delle capacità fantasmatiche, autosublimazione repressiva - per usare ancora una volta un termine caro a quello stesso Marcuse che ci ha fornito l'immagine più completa della struttura caratteriale dell'individuo-massa moderno ne L'uomo a una dimensione.
In questi tratti si cela, a nostro avviso, l'essenza del fascismo moderno, non «figlio», ma nipote naturale del fascismo prebellico.
La dittatura della spettacolarizzazione di massa
Il fascismo mussoliniano si garantì due strumenti istituzionali per la conquista e il mantenimento del potere, che trovano delle forti analogie con comportamenti recenti della nuova destra al potere in Italia e con quella di altri paesi. Ve ne sarebbe una terza - la ricerca di consenso da parte della monarchia - oggi irripetibile perché anacronistica, mentre rimane pienamente valida la ricerca di un riconoscimento morale da parte della Chiesa cattolica.
I due strumenti, comunque, sono facili da individuare. In primo luogo - a luglio del 1923 - il mutamento del sistema elettorale in senso maggioritario, con premi di rappresentanza per i partiti più forti. La legge elettorale venne votata dal parlamento su iniziativa di Mussolini, ma se ne avvantaggiò solo il Partito fascista, che nelle elezioni dell'aprile 1924 passò da 35 a 286 seggi, la maggioranza assoluta.
La nuova destra italiana ha potuto usufruire di un analogo vantaggio elettorale, grazie all'abolizione del sistema proporzionale e l'adozione di un ibrido sistema maggioritario-uninominale; ma questa volta tra i più accesi sostenitori di tale misura antidemocratica vi è stata un'ampia convergenza di forze progressiste13.
In secondo luogo, il fascismo si dotò immediatamente degli strumenti necessari a garantirsi uno stabile e duraturo monopolio sull'informazione, la cultura, la vita ricreativa del popolo italiano, culminato nella costituzione del massimo organismo di controllo, il Ministero della cultura popolare:
«La politica fascista produsse, in ultima analisi, un vero e proprio convergere di cultura e propaganda, sino al punto che il regime non fece quasi più alcuna distinzione tra i due fenomeni»14.
È un aspetto del totalitarismo che non può trascurare chiunque intenda garantirsi il consenso popolare in maniera diretta, rapida e massiccia.
Manipolazione delle condizioni istituzionali in cui avviene il confronto politico (elettorale, sindacale, imprenditoriale ecc.) e controllo sui processi di formazione del consenso.
Sono i due elementi comuni più vistosi tra l'agire del fascismo mussoliniano e quello della destra italiana d'oggi. Altri caratteri minori si possono di certo rintracciare, ma il gioco delle analogie non sembra poter andare molto oltre. Nessun modello economico di tipo corporativo, nessun sogno di avventure imperialistiche autonome oltre frontiera, nessuna irreggimentazione dei giovani, degli operai e delle donne, nessuna legislazione «speciale» in funzione anticomunista. Eppure nel fronte della destra giunta al potere legalmente in Italia vi è la presenza di una formazione - Msi-An - che esplicitamente si richiama all'eredità del fascismo.
È «fascista» il partito di Fini?
La risposta non può essere che negativa alla luce delle considerazioni fin qui svolte. Si tratta infatti di una formazione di centro-destra, attratta fortemente verso il centro, interessata a gestire un proprio spazio istituzionale, priva di grandi ideali reazionari, preoccupata di assicurarsi la patente di perbenismo che la nuova alleanza politica le concede, terrorizzata dalla possibilità che settori popolari scontenti la utilizzino come canale di mobilitazione extraistituzionale15.
Il nuovo partito del Msi-An - ormai sempre più spesso definito come «postfascista» - ambisce fondamentalmente a riconquistare il favore del ceto imprenditoriale italiano - di settori decisivi della Confindustria o del capitalismo di Stato - come già fu con Mussolini. Ma sa realisticamente di non potervi fare affidamento per ora. I suoi alleati di Forza Italia o della Lega sono collocati in posizione privilegiata, per una serie di fattori inscritti nella storia politica dell'ultimo quindicennio, e il Msi non sottovaluta nemmeno il peso di quei settori confindustriali che hanno apertamente appoggiato l'ipotesi di un inserimento governativo del Pds, al termine dell'esperienza (per loro positiva) compiuta col governo Ciampi. Il neofascismo di Fini può riproporsi invece di canalizzare sul terreno istituzionale lo scontento diffuso a livello di massa nei settori sociali più disparati, che non sono stati raggiunti o sono stati raggiunti male, negli ultimi decenni, dalla politica consociativa (vale a dire collaborazionistica) delle confederazioni sindacali e dell'attuale Pds. A domande concrete esso tenterà di dare risposte concrete e ciò aprirà inevitabilmente lacerazioni e contraddizioni nel suo stesso seno.
È evidente che tale prospettiva non può lontanamente rispondere alle esigenze del «piccolo uomo comune represso».
Questi è il nuovo padrone della scena politica italiana e la sua massificazione costituisce il fenomeno politico-sociale più vistoso degli ultimi decenni.
È un piccolo uomo, per l'appunto, prodotto informe di due processi concentrici, in azione fin dagli anni '60: perdita di identità socio-culturale per la diffusione totalitaria dei processi di meccanizzazione tecnologica in tutti i gangli della vita sociale e rigetto delle ideologie libertarie che, in quegli stessi anni, gran parte della gioventù intellettuale e lavoratrice portava rumorosamente nelle piazze, ingenerando nuove insicurezze e frustrazioni.
Gli anni sono passati e il piccolo uomo li ha trascorsi tutti incollato davanti al teleschermo. Non si è perso un telegiornale, ha bevuto come oro colato tutto il miele istupidente dei talk-show, ha assaporato visivamente il miraggio di cosce e lustrini delle show-girl di turno, ha letto i libri lì raccomandati, ha vibrato di commozione ad ogni round dello scontro Rai-Fininvest. Il suo sogno è una vita da telenovela le cui puntate non finiscano mai.
La domenica è dilagato negli stadi, contrario alla violenza degli ultras, ma affratellato in un grande bagno comunitario di folla orgiastica a ogni goal, a ogni partita decisiva del campionato. Hа comprato tutto ciò che vi era da comprare, anche le cose inutili, e ciò l'ha fatto sentire ricco, certamente privilegiato rispetto ai popoli del Terzo mondo, ai paesi dell'Est e agli stessi neri delle sommosse di Los Angeles. È stato chiamato quasi annualmente ad esprimere un proprio voto nel segreto dell'urna e ciò ha rafforzato il suo istinto di potenza, alla luce soprattutto dell'avidità con cui le forze politiche si contendevano il suo voto: lo facevano da quella stessa televisione, in quegli stessi stadi, attraverso il messaggio accattivante della merce appena comprata.
Nel frattempo si consumavano grandi drammi sociali, nel paese e all'estero. L'Italia tornava ad aggredire popoli «coloniali»: con ferocia l'Iraq e più bonariamente la Somalia. Il piccolo uomo tifava per l'Italia, come allo stadio, mentre viveva ad ogni coppa del mondo sogni di grandezza nazionalistica che sembravano sepolti per sempre. I suoi punti stabili di riferimento erano la tracotanza rassicurante dei politici di regime (che egli sapeva corrotti, ben prima di Tangentopoli) o la sfilata nostalgica dei padri della patria, pronti a condannare con parole appropriate qualunque eccesso, di destra e di sinistra. Il piccolo uomo non si considera di destra. O per lo meno non gliel'ha mai detto nessuno. Lui sta con la patria, con i padri della patria e con la nazionale azzurra.
Qualcosa mancava, però, a unificare quel suo mondo. La fabbrica appariva separata dallo stadio, la scuola dalla televisione. Il sistema politico in frantumi oscurava l'orizzonte radioso di una crisi economica sempre in via di soluzione (giornalisti e lustrini erano lì a ripeterglielo e a garantirlo).
E allora il piccolo uomo ha cominciato a guardarsi intorno e a scoprire che c'erano tanti altri piccoli uomini come lui. Si sono ritrovati fuori degli stadi, in comizi, funerali di Stato, adunate leghiste, magari alla presenza degli stessi imbonitori ed eroi del teleschermo. E hanno cominciato a tifare in gruppo, poi in massa: l'ebbrezza di ritrovarsi in tanti. È il loro modo di riscoprire la politica, lo «stare insieme» - come si diceva un tempo - l'«esserci», come dirà loro tra breve un qualche filosofo di regime, heideggerianamente ammiccando.
E allora nacque l'idea, in un qualche grande studio televisivo, in una qualche grande azienda di marketing, in un qualche convegno di imprenditoria rampante. Perché non dare a questa massa di piccoli uomini comuni e repressi uno strumento che unifichi cosce e lustrini con politica ed economia? Perché non canalizzare televisivamente - nel senso proprio del termine - le aspirazioni modeste, ma pur sempre insoddisfatte, di questa massa avida di sensazioni e protagonismo?
È nato così il Grande Fratello-Forza Italia, alla maniera in cui si vara un palinsesto televisivo o si lancia un prodotto sul mercato. La remissività del movimento operaio ufficiale e la mancanza di prospettive della sinistra hanno favorito il processo, come già negli anni '20. È un progetto di restaurazione capitalistica con seguito di massa, in cui per la prima volta - nella storia di una «democrazia occidentale» - si vede coincidere il potere politico con settori imprenditoriali in grado di controllare oligopolisticamente il sistema delle comunicazioni di massa. E ciò per giunta nella figura di un solo uomo: è la chiusura dell'«universo politico» di cui parlava Marcuse.
Si può considerare «fascismo» tutto ciò?
No, o per lo meno non ancora. Potrà diventarlo, però, se alcuni corpi dello Stato riusciranno a indirizzare la rabbia di questi piccoli uomini, comuni e repressi, contro le forze vive dell'insubordinazione di massa, quando essi si accorgeranno che per loro sono state riservate solo immagini catodiche delle cosce e dei lustrini. Del gusto della vita reale e dell'appagamento di bisogni biologici, neanche l'odore.
Allora saranno guai, se non si reagirà con decisione…
1 Il discorso meriterebbe d'essere approfondito e ampliato facendo riferimento all'esauriente monografia di Leonardo Rapone, Trotsky e il fascismo, Roma/Bari 1978, in particolare alle pp. 7-8 sgg.
2 Si veda Gilbert Badia, Clara Zetkin, femminista senza frontiere, Roma 1994, in particolare il cap. 23 «Sul fascismo». La Zetkin morirà nel 1932, dopo aver fatto di tutto per modificare l'orientamento del Partito comunista tedesco e la linea del «socialfascismo» che tanta responsabilità doveva avere nella vittoria del nazismo in Germania.
3 Nicos Poulantzas, Fascisme et dictature, Paris 1970, pp. 62-3.
4 Sul contesto italiano della «svolta» e la discussione sul fascismo non mancano i buoni lavori. Suggeriamo tra i migliori: Ferdinando Ormea, Le origini dello stalinismo nel Pci, Milano 1978; Giancarlo De Regis, La «svolta» del Comintern e il comunismo italiano, Roma 1978.
5 «What is fascism?» (15 nov. 1931, in The Militant, 16 genn. 1932 [trad. italiana in Scritti sull'Italia, a cura di Antonella Marazzi, Roma 1990, pp. 105-6].
6 Per amore di sintesi riprendiamo qui, in forma abbreviata, la parte dedicata all'analisi trotskiana del fascismo nel nostro Trotsky e la ragione rivoluzionaria, Roma 1990, pp. 260-83.
7 Wilhelm Reich, «Prefazione» del 1942 a Psicologia di massa del fascismo, Milano 1974, p. 11.
8 Come si vedrà nel proseguimento della nostra argomentazione, non pensiamo che basti dichiararsi «fascisti» o «nazisti» per esserlo realmente, vale a dire per esercitare il ruolo politico corrispondente. Ciò non toglie che in Europa esiste una vasta gamma di gruppi, associazioni o movimenti che ai simboli dell'estrema destra si richiama. Di loro qui non si parla perché considerati irrilevanti rispetto ai grandi e profondi processi di «radicalizzazione di destra» effettivamente in atto. Ci riferiamo ovviamente al National Front, il British National Party o gli skinheads inglesi; i Republikaner, il Npd o i naziskin tedeschi; il Vapo austriaco; con le dovute distinzioni anche il Front National di Le Pen; il Vlaams Blok del Belgio fiammingo; la Hrvatska Stranska Prava in Croazia ecc. Per l'analisi di questi movimenti non si può che rimandare al lavoro di Guido Caldiron, Gli squadristi del 2000, Roma 1993. Per la Francia in particolare: Gilles Martinet, Le reveil des nationalismes français, Paris 1994.
9 Si veda l'ottima ricerca di Paolo Nello, L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari 1978, in particolare le pp. 3-86.
10 José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna 1962, p. 12.
11 Theodor W. Adorno e altri, The authoritarian personality, New York 1950 [La personalità autoritaria, Milano 1973]; Max Horkheimer (a cura di), Studien über Autorität und Familie, Paris 1936 [Studi sull'autorità e la famiglia, Torino 1974].
12 Herbert Marcuse, «La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato» (apparso in Zeitschrift für Sozialforschung), in Cultura e società, Torino 1969, pp. 3-42].
13 Può forse essere utile ricordare che uno dei sostenitori di tale cambio elettorale, Norberto Bobbio, grazie al successo di un suo libricino (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma 1994) ha contribuito ad alimentare la confusione sugli argomenti di cui ci stiamo occupando. Egli scrive: «… appare chiarissimamente che un estremista di sinistra e uno di destra hanno in comune l'antidemocrazia (un odio, se non un amore). Ora l'antidemocrazia li accomuna non per la parte che rappresentano nello schieramento politico, ma solo in quanto in quello schieramento rappresentano le ali estreme. Gli estremi si toccano. L'antidemocrazia peraltro non è che uno dei punti di accordo fra gli "opposti estremismi"» (p. 27).
Tra i punti comuni agli «opposti estremismi» vi sarebbe anche la visione generale del mondo nettamente «antilluministica», una concezione catastrofale e «profetica» della storia, contrapposta alla visione processuale, graduale del progresso storico, che - non si capisce per quali ragioni - Bobbio assegnerebbe addirittura a Marx (oltre che a Kant, Hegel e Comte). «Anche rispetto alla morale e alla dottrina della virtù, gli estremismi delle opposte sponde s'incontrano e nell'incontro trovano le loro buone ragioni per contrapporsi ai moderati… Il tema della mediocrità democratica è tipicamente fascista. Ma è un tema che trova il suo ambiente naturale nel radicalismo rivoluzionario d'ogni colore» (ibid., p. 30).
Il livello, come si vede, non è dei migliori e sarebbe il caso di ignorare gli errori su Marx o il curioso amalgama di fascismo e comunismo, se tale amalgama non avesse una conseguenza ideologica molto grave: nel maldestro tentativo di mascherare le grandi differenze ideali, etiche e programmatiche tra comunismo e fascismo si nasconde infatti una parziale giustificazione storica del fascismo, giacché esso sarebbe stato (e potrebbe continuare ad essere) il movimento impegnato in prima linea a combattere contro i nemici da sinistra della democrazia. Insomma, il fascismo avrebbe difeso il destino della moderna liberaldemocrazia suo malgrado, ma in anni cruciali: anni in cui la liberaldemocrazia non avrebbe certo potuto resistere all'assalto delle masse operaie di mezza Europa momentaneamente attratte dal comunismo, il bolscevismo e il «radicalismo rivoluzionario di ogni colore». Sono tesi che il lettore può ritrovare, ma con ben altra strumentazione teorica e ricchezza di riferimenti, nell'opera «revisionistica» dello storico Ernst Nolte, da questi recentemente ribadite in riferimento alla nuova destra italiana in un'intervista a l'Espresso del 29 aprile 1994.
14 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari 1975, p. 5. Si veda in particolare il capitolo dedicato alla radio e al monopolio statale su di essa costituito attraverso l'Eiar. Mussolini vi fa la parte di un apprendista stregone che solo gradualmente arriva a rendersi conto dell'importanza cruciale dello strumento che il genio di Marconi gli ha messo tra le mani. Sotto questo profilo il paragone con l'odierna Fininvest non regge di certo. Presso la stessa casa editrice si veda anche Victoria de Grazia, Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista. L'organizzazione del dopolavoro, Roma/Bari 1981.
15 Questa trasformazione dell'attuale Msi in partito moderato di centro, pienamente inserito nei giochi istituzionali del sistema, è denunciata anche da parte di chi insegue ancor oggi il mito di un fascismo rivoluzionatore ed eversivo. Si veda, per esempio, il mensile extraparlamentare di destra Avanguardia, in particolare il numero di aprile 1994, dove Mario Cecere («Costruire un nuovo radicalismo: linee di azione per l'ultima eresia», pp. 13-6) denuncia il carattere «neoconservatore» della politica di Fini, in un articolo in cui tra l'altro si afferma che «il "fenomeno" naziskin in Italia e in Europa è l'espressione attivistico-patologica assunta (nonostante le sbandierate velleità "rivoluzionarie") dal movimento neoconservatore, attualmente "vincente" nei paesi del capitalismo reale».