Scuola
Parlerò un po' di scuola (è il campo in cui lavoro: insegno italiano e storia alle superiori, da ormai oltre quindici anni).
La scuola è in sofferenza, sotto più di un aspetto, un po' in tutto il mondo, salvo forse in pochi paesi in cui si sono fatte scelte coraggiose nei metodi e contenuti e grandi investimenti. Vi sono paesi - ormai ne hanno parlato molti media - nei quali si è deciso che l'istruzione fosse un terreno strategico e di preminenza assoluta - su tutti la Finlandia. Questo piccolo paese, da anni in testa a quasi tutti gli indicatori di qualità dell'istruzione, spende per essa oltre il 7% annuo del suo Pil (inutile dire che il ritorno di questo investimento, anche solo strettamente economico, è ampiamente positivo).
Un punto di sofferenza molto comune a tanti sistemi scolastici nel mondo è la distanza fra i modelli educativi ereditati dal passato e le modalità di comunicazione, interazione e ricerca/utilizzo di informazioni e contenuti, così come avviene nell'era digitale, soprattutto da parte di chi è più giovane.
Dall'esterno forse non si ha cognizione del livello del divario che sta allontanando sempre di più la scuola italiana dalla media europea. Un dato recente parla di un 7-9% di aule informatizzate nella scuola italiana, a fronte di paesi dove lo stesso dato viaggia dal 60 al 95%.
Un altro dato recentissimo riguarda i tempi e l'efficacia dello studio, anche individuale: gli studenti italiani sono in assoluto fra quelli che spendono più ore di tutti nei compiti a casa (ovviamente ciò non riguarda le fasce più deboli, che i compiti non li fanno per niente, per più di un motivo, fasce che da noi sono fortemente concentrate nelle scuole professionali, altro fenomeno tutto e solo italiano); bisogna aggiungere che queste molte ore dedicate ai compiti non sono spese bene, perché se andiamo a vedere i risultati, studenti che studiano a casa molto meno (Finlandia, ma anche Gran Bretagna, Germania, tutto il Nord Europa…) vanno meglio o molto meglio dei nostri nella maggior parte delle materie.
Le cose necessarie da fare sarebbero (sono) tante, indicherò alcuni punti chiari e urgenti, in negativo e in positivo.
In negativo: per quello che resta della "sinistra", in tema di scuola uno dei primi obiettivi che si enuncia è la "stabilizzazione dei precari". È un errore, e grave; una concessione populistica e corporativa. È sacrosanto il principio del diritto al lavoro, ma non per questo si può e si deve difendere il diritto ad insegnare per chi di insegnare non è in grado.
Uno dei problemi della scuola italiana è che i canali di formazione degli insegnanti sono deboli, generici, poco selettivi, ma soprattutto pochissimo formativi (nel senso di reale, impegnativa trasmissione degli elementi di una professione - funzione tutt'altro che semplice fra l'altro). È sbagliato seguire la deriva facile per cui la scuola italiana è tutta da buttare, gli insegnanti sono tutti dei privilegiati che lavorano solo 18 ore a settimana e tutti incapaci di rapportarsi col mondo esterno. Questo è un altro populismo, un altro stereotipo da respingere senz'altro. Ciò detto, è vero che un'anomalia della scuola italiana è la facilità con cui può accadere e accade che si trovi ad insegnare personale che nel modo più evidente non è in grado di farlo. Ogni sistema educativo ha pregi e difetti nel mondo, ma avviene solo in Italia che nella stessa scuola ci possano essere classi dai risultati buoni o molto buoni e classi, a parità di ambiente di provenienza e formazione pregressa, dai risultati disastrosi. Spesso questo avviene perché una classe ha, in una materia (a volte, più d'una) un insegnante non in grado di
insegnare - spesso l'incapacità è soprattutto relazionale ed educativa, non di rado vi sono casi di logoramento personale molto vicini al burnout.
Per decenni si è potuti diventare insegnanti semplicemente prendendo una laurea e mettendosi in graduatoria per fare supplenze (e accumulare punteggio), in attesa della "sanatoria", che assicurava l'abilitazione e in prospettiva l'assunzione in ruolo, praticamente quasi solo grazie a una laurea e alla pratica. In tanti abbiamo fatto questa trafila, e in tanti siamo diventati insegnanti più o meno capaci - anche molto capaci; ma c'è chi invece capace non era, in grado non era, ed è entrato lo stesso, e insegna.
L'Italia è forse l'unico paese Ocse nel quale gli insegnanti non sono tenuti, per legge (per contratto), ad aggiornarsi - ed è pieno di insegnanti che insegnano da venti o trent'anni le stesse cose allo stesso modo. Il mondo negli ultimi venti o trent'anni è cambiato molto, e più o meno per tutti. Tanti, senza aggiornarsi, avrebbero dovuto chiudere: non solo l'informatico, ma anche il meccanico, l'elettrauto, il grafico, il fotografo, l'infermiere… l'insegnante no. Da contratto l'aggiornamento è un "diritto", ma non un dovere.
Com'è possibile che partiti e sindacati che a parole si dicono difensori della scuola pubblica - esaltata come leva di equità, progresso sociale ecc. - non vedano il problema? È concepibile una scuola di qualità in
cui gli insegnanti non sono tenuti ad aggiornarsi?
Ci deve essere una spiegazione. La spiegazione è semplice. Per i partiti e i sindacati italiani la scuola - lo sappiano coscientemente o no gli interessati - è welfare mascherato. Welfare mascherato. Un comparto la cui funzione fondamentale è dare lavoro a della gente. L'Italia è probabilmente l'unico paese al mondo in cui insegnanti e bidelli hanno lo stesso contratto, le stesse rappresentanze e le stesse elezioni per la designazione dei rappresentanti sindacali (esistono scuole nelle quali nelle Rsu siedono solo bidelli e non insegnanti, e la cosa è del tutto legale e possibile). Questa è la dignità e l'importanza che il sistema italiano riconosce alla figura insegnante nella scuola "pubblica".
Si potrebbe dire di altre storture e rigidità, tutte assurde, gravi, tali da rendere impossibile (o quasi) il fare scuola in modo moderno, sensato, gratificante per tutti. Altra conferma del modello sotteso "scuola = welfare mascherato" lo si vede dalla struttura del bilancio dell'istruzione. Oltre il 90% è assorbito dalla voce "stipendi del personale". Qualunque organizzazione il cui bilancio sia così strutturato è impossibilitata anche solo a ragionare di futuro, di investimenti, di innovazione: senza risorse non si ricerca, non si innova: si riproduce il tran-tran usuale, e basta.
Nella scuola italiana ci vogliono sì maggiori risorse anziché tagli su tagli, ma anche, anzi ancor di più, ambizione, gusto e passione per la sperimentazione e l'innovazione, meritocrazia - e in dosi da cavallo. Il pregiudizio secondo cui la meritocrazia sia una bestemmia e un cavallo di Troia per far passare idee e pratiche aziendaliste, competitive, discriminatorie, è semplicemente idiota. Va abbandonata. Le persone capaci sono fondamentali - in ogni campo della vita - e la scuola ne ha bisogno.
È vero che a livello di propaganda la "meritocrazia" è stata ed è un cavallo di battaglia dei bocconiani liberisti a oltranza, ma questa è appunto propaganda: non si può lasciare a questi specialisti ignoranti (magari dai titoli taroccati) un valore come quello della competenza. Non si può.
Che la meritocrazia sia un'arma ideologica della destra è un pregiudizio che va demolito. Basta guardare la realtà italiana per demolirlo. Primo: proprio la scuola italiana - così vecchia e così poco efficace - è fonte di discriminazione. All'estero, i sistemi educativi più mostrano standard alti (e fanno selezione all'ingresso per gli insegnanti) e più funzionano da volàno di promozione sociale; sono questi i sistemi che consentono anche a chi proviene da strati sociali deboli di raggiungere risultati alti.
In Italia questo avveniva negli anni Sessanta e Settanta, poi ha iniziato ad avvenire meno e da decenni non avviene più, per niente (o quasi). La scuola italiana non solo registra e "riceve", per così dire, ma spesso conferma e allarga la distanza fra studenti provenienti da un ambiente socio-culturale alto e studenti di ambiente svantaggiato. Lo dicono statistiche pubbliche, di non difficile lettura.
Una delle statistiche meno usata e citata - forse per l'imbarazzo e la vergogna che provoca - riguarda i livelli generali di scolarizzazione in Italia. La curva di ascesa degli anni Sessanta e Settanta si è arenata e ha poi cambiato segno. Siamo uno dei paesi più ignoranti dell'Ue, e lo siamo di più ad ogni anno che passa. Una causa diretta di questo sono i numeri degli abbandoni scolastici: gli studenti, letteralmente, scappano dalla scuola. Decenni fa lo facevano così pochi che la cosa poteva sembrare marginale: oggi la cosa investe percentuali a due cifre e va tutta ad allargare la voragine fra una parte d'Italia che
resta "a galla" (con fatica crescente per i più) e un'altra parte sempre più alla deriva.
Uno dei fattori dell'invecchiamento e della deriva di inefficacia crescente della scuola italiana ha le sue radici negli anni Settanta, ma nella politica, non nell'istruzione. In quegli anni si consumò un accordo non scritto fra i principali partiti e sindacati (allora erano molto forti i tre sindacati confederali, Cgil-Cisl-Uil, oltretutto uniti da un patto per cui agivano sempre di concerto nelle cose di maggior rilievo). Cosa diceva questo accordo non scritto? Una cosa semplice: la scuola sarebbe diventata una specie di grande ammortizzatore sociale per assorbire la domanda di occupazione dei settori socialmente e/o geograficamente più deboli, a cui si riteneva che il sistema economico nel suo insieme non avrebbe saputo dare altrimenti risposte adeguate.
Contestualmente, si recideva il legame "naturale", la possibilità di comunicazione che vi era sempre stata fra scuola e università, per cui l'insegnante di scuola bravo e/o ambizioso che voleva terminare la carriera da docente universitario lo poteva tentare. Dalla fine degli anni Settanta ciò non fu più possibile e la "carriera" professionale scolastica venne separata in modo invalicabile da quella universitaria. L'unica possibilità di "carriera" della scuola italiana finì di fatto per essere agganciata agli scatti di carriera; l'anzianità come unico criterio di merito.
Coi decenni si è prodotto una sorta di "modello" di fatto, peculiare, tutto e solo italiano. Quello che ha iniziato a funzionare è un patto implicito molto semplice fra lo stato e il dipendente assunto nella scuola: io, Stato, ti chiedo molto poco, tu, insegnante, accontèntati anche di poco.
Uno dei risultati di questa situazione è che avviene una scrematura di fatto: le persone più dotate, ma anche (legittimamente) ambiziose, saranno portate a lasciare la scuola come ultima scelta nei loro progetti, perché la scuola è un comparto che non offre possibilità di carriera. Si è data la possibilità a molti di identificare la scuola non come il laboratorio impegnativo che
dovrebbe essere, ma come "il posto", nel senso più piatto, fantozziano e impiegatizio possibile. Ovviamente gli insegnanti che credono nel loro lavoro ci sono e restano, ma una diffusa, strutturale, pesante presenza degli "impiegati" della scuola, poco attenti a ciò che va oltre lo sbrigare le procedure (spiegazione-voto-tenuta del registro-scrutinio), è costantemente alimentata dal meccanismo generale.
Le strutture consolidate del mercato del lavoro non sono immutabili, ma per cambiarle in modo pensato e secondo un pensiero sociale evoluto e democratico occorrono grande determinazione e grande capacità di scegliere - oltre all'affidarsi alle competenze, che non va scordato.
Crisi educativa e umiltà
Molti segni sembrano indicare che, prima ancora che scolastica, viviamo una crisi profonda educativa e morale. Sempre più bambini e adolescenti crescono nella debolezza, confusione o latitanza di figure di riferimento adulte, e i bisogni inevasi, il disagio, la domanda inarticolata (o aggressiva, o autolesionistica) che tutto questo genera si scarica sul sistema scolastico. Il circolo vizioso del rimpallarsi dei rispettivi rancori, delle rispettive impotenze e fragilità fra singole famiglie e singole scuole va rotto (andrebbe considerato, fra l'altro, come corrispettivo trasparente e addirittura logico delle dinamiche di guerra tra poveri care al potere).
Invece di dividersi fra difese corporative e fuori tempo della scuola e degli insegnanti (come se la scuola andasse bene così com'è) e sostegno populistico dei genitori e delle famiglie "a prescindere", bisogna capire e accogliere il disagio e i disagi, ma anche parlare senza timori di crisi - di valori e di modelli, sia familiari, relazionali, che educativi e scolastici, e accettare con umiltà che abbiamo bisogno ciascuno e tutti di studio, di aiuto e auto-aiuto, e di spirito di comprensione e accoglienza come pre-condizioni per vedere una via d'uscita.
Credibilità e fiducia
Con questa consapevolezza potremo iniziare a ricostruire, ognuno già dal suo proprio àmbito, e potremo essere credibili come persone (come gruppo? come gruppi?) preoccupate sinceramente del bene comune e della cosa pubblica. Senza la capacità di ispirare questo tipo di fiducia ogni tentativo politico (che non voglia essere pura cosmesi) sarà destinato ad altri insuccessi. Bisogna invece puntare al successo, se no è stupido anche solo cominciare.
Budrio (BO), 14 febbraio 2015
NOTA BENE:
Queste pagine sono una bozza di lavoro, offerta alla discussione e al confronto fra poche/i amiche/i e compagne/i, colleghe/i, genitori, amministratori, nella speranza che possano apparire utili e interessanti. Sono le riflessioni personali di una persona di 53 anni, padre e marito, insegnante, per il quale la politica (e lo studio) sono sempre state cose molto importanti, fin da ragazzo. Vedere che la politica è sempre più svilita (fino a coincidere con cialtroneria conclamata o crimine) e lo studio irrilevante, nelle cose
pubbliche italiane, è sempre più preoccupante, e non riesco a tollerarlo - mi spaventa pensare a chi è bambino oggi.
Questo non è un documento pubblico, non è destinato ad alcun tipo di propaganda o campagna - per cui sarebbe evidentemente poco adatto. Invito chi legge a tenere conto di questo. Ogni osservazione, critica, aggiunta, correzione è la benvenuta - nei limiti della correttezza e del rispetto. Grazie.
G.V.