Lo
schiavo, nell’attimo in cui respinge l’ordine umiliante del suo superiore,
respinge
insieme la sua stessa condizione di schiavo.
Il
moto di rivolta lo porta più in là del semplice rifiuto.
(Albert Camus)
I. L’equivoco
del genio
Il cinema del mercimonio si
nutre di esagerazioni che, alla minima analisi, franano nel banale d’autore o
nel ridicolo. La grande bellezza di
Paolo Sorrentino è una mescolanza di entrambe le cose. Sappiamo bene che negli
artisti senza talento, adorati dalla critica velinara (sinistrorsa), coesistono
il millantatore e il profeta incompreso. Dietro la grammatica filmica di
Sorrentino si scorgono i dettati e i codici che il cinema italiano — dopo il
Neorealismo e una certa commedia di costume, sovente graffiante — ha edulcorato
nella ricerca del successo da “tappeto rosso”, dove zoccole dello spettacolo ed
esteti della genuflessione fanno scena di sé... e pensare che nessuno ancora
non sputa sulle loro splendenti miserie.
Si possono stimare soltanto
gli artisti che — in ogni campo della comunicazione — superano quel minimo
d’insolenza indispensabile per vivere senza padronati e volgono le spalle
all’ordine dell’imbecillità. L’equivoco del genio sta tutto qui. Qualsiasi autore
che aderisca al tempo dello spettacolare integrato rappresenta una perdizione
del bello, del giusto, del buono, perché la santità, la confessione e il peccato
rivelati sono le solite forme sulla quali la mancanza di talento si diletta...
il cinema, la critica, il pubblico finiscono con l’accettare qualsiasi formula
espressiva, qualsiasi futilità elogiativa, qualsiasi visione della nullità,
basta che il prodotto filmico sia conforme alla visione di una vita ordinaria
che si autoammira nella putrefazione. Il cinema, come ogni forma d’arte, sarebbe
intollerabile senza uomini di genio che la negano. A un certo grado di bellezza,
ogni verità diventa indecente.
Il film di Sorrentino è in
linea con l’agonia di un cinema, quello italiano, specialmente, che si nutre di
spazi nobiliari inesistenti... essere parte del mercato vuol dire apparire là
dove esso celebra e si compiace dei propri cerimoniali... la mediologia e la
sociologia delle immagini mercantili presumono assoggettamenti e ridondanze, e
l’identico sapientemente truccato da “evento”, conferma l’infeudamento
dell’impero della merce e aderisce alla cultura dell’ostaggio che sostiene.
Detto meglio. L’estetica generalizzata del cinema italiano — e Sorrentino è uno
dei massimi fautori — è parte dell’estetizzazione della vita politica di un
paese che si spegne, dove gli artisti sono disabituati a dire no!, e solo una
bandiglia di passatori dell’immagine cinematografica agisce in forza di una sapienza
libertaria che li consegna all’indipendenza e conseguentemente al rogo
(all’indifferenza che produttori, distributori, critici gettano sulle loro
opere). Là dove gli altri vedono la funzione del cinema come altare di libertà
concesse, questi costruttori di sogni lavorano alla nudità di storie che
riportano sullo schermo l’innocenza liberata del cinema vero.
Ancora. I cenacoli, i
salotti, le kermesse del cinema-merce sono organizzati in favore di film
designati a fare da cornice ai castelli, peraltro di sabbia, dove i padroni
dell’immaginario decidono la domesticazione sociale... all’interno della
civiltà dello spettacolo alimentano il culto dell’inutile e del superficiale, e
chiedono ai loro vassalli di affilare l’odio, il rancore, il risentimento
contro i cacciatori di bellezza che incrinano alla radice le virtù e i valori
borghesi, anche della sinistra incline al caviale o che veste Armani... tutta
gente devastata dall’insaziabile sete di potere che danza nelle stanze
dell’“ideologia dominante. Va detto. Il potere s’impone grazie al consenso
(elettorale, dottrinario, politico) sui quali viene esercitato. L’oligarchia
della cultura — di destra o sinistra è la medesima cosa — si arroga il diritto
di legittimare il dominio sul maggior numero di sudditi, servi, amministrati, e
ciò che conta è tenere al giogo della partitocrazia la loro condizione di
vittime scarificali ai dividendi della finanza internazionale.
La feticizzazione del cinema
(scuole, festival, sovvenzioni statali discriminatorie) è tesa a consolidare la
macchina delle illusioni, invece di farla crollare. Il divenire del cinema
autentico nella storia è nel divenire libertario che autori senza collare disseminano
ovunque loro è possibile e prendono di mira le fortezze/schermi
dell’intollerabile. Il cinema autentico diventa resistenza al potere, perché il
potere riduce la vita quotidiana a merce soltanto, e non è male tentare di
rovesciare — con tutti i mezzi necessari — l’ordine del mondo.
Ci sono critici
(invero pochi) che non sono caduti nella trappola estetizzante di La grande bellezza. Ecco come Fabio
Canessa ha letto, in punta di stiletto, il film di Sorrentino:
“Dov’è la poesia? Otto e mezzo è il più bel film della
storia e Federico Fellini il miglior regista di tutti i tempi. Eppure sono
anche i responsabili dei danni maggiori causati al cinema italiano, che ha
abbandonato i generi per inseguire il miraggio di ambiziose autobiografie
autoriali e ha considerato degradante raccontare storie, preferendo almanaccare
riboboli pretenziosi. Ne è un penoso esempio La grande bellezza, il film uscito in questi giorni, in concorso a
Cannes: La Dolce Vita del 2000,
affrescata da un Paolo Sorrentino che fa il passo più lungo della gamba e
capitombola in una Roma felliniana che del modello mantiene i cliché, ma non
l’ispirazione e il genio. Se l’alter ego di Fellini era Mastroianni, quello di
Sorrentino è Toni Servillo, un attore sopravvalutato: bravissimo a teatro, al
cinema commette sempre l’errore di guardarsi recitare, di volersi troppo bene
(e qui è ancora più manierato del solito), tanto da non riuscire mai a scrollarsi
di dosso l’aura fasulla di chi sta recitando bene. Nel ruolo di un giornalista,
si aggira tra feste cafone, spogliarelliste attempate e sante decrepite, nane e
cardinali, giraffe e fenicotteri. La parata di grottesche bizzarrie felliniane
è al completo. Ma mancano la poesia, la magia, l’ironia, la pietas e la cultura
(Fellini poteva contare su uno sceneggiatore come Flaiano, Sorrentino purtroppo
conta su Contarello), per cui lo sguardo del regista che vorrebbe smascherare
il vuoto pneumatico della inautentica vita contemporanea risulta a sua volta
inautentico e gira a vuoto come la società che sferza. Mancano soprattutto la
felicità e lo stupore di esistere (infatti si esce dalla sala avviliti) e manca
la speranza nel futuro. Così un film deludente (riscattato dall’abilità con cui
Sorrentino sa girare e peggiorato da monologhi sentenziosi da libro stampato)
diventa un documento prezioso, da proiettare nelle accademie, per misurare i
passi da gambero che l’Italia e il suo cinema hanno fatto in mezzo secolo. E
per capire che cosa diventa un film di Fellini senza Fellini: un presuntuoso
esercizio di stile sfilacciato in frammenti senz’anima, un kitsch gratuito
servito freddo da una messinscena artificiosa. Volendo dimostrare che la realtà
è brutta e che il cinema la rispecchia, il film di Sorrentino è abbastanza
brutto da aver centrato il suo obiettivo”. Tutto vero.
Di là dalla nostra
valutazione su Fellini come “il miglior regista di tutti i tempi”, gli preferiamo
senz’altro Welles, Buñuel, Vigo, Godard, Pasolini... la lettura di Canessa del film di
Sorrentino è coraggiosa, fuori coro, rispetto alla critica compromessa dei
giornali a tiratura nazionale... si vede che Canessa conosce il cinema e si
chiama fuori dai paludamenti accademici propri a quanti sono a servizio della
ragione indotta... andare oltre l’uniformità significa destituire gli altari
innalzati alla gloria di un cinema della miseria, passare dal cannibalismo
dell’economia politica a un’etica dei saperi dove l’organizzazione della
benevolenza è denudata... in ogni forma d’arte la poesia si erge
sull’incompiuto e sottolinea che l’abisso tra intelligenza e stupidità sta nel
modo di maneggiare l’interrogazione... c’è sempre una giusta definizione
all’origine di tutte le disobbedienze e dare fuoco ai palazzi o ballare sulla
testa dei re impedisce di annegare nell’idolatria.
II.
La grande bellezza
Il film di Sorrentino,
La grande bellezza, è già stato fatto
nel 1960, si chiama La dolce vita, il
regista è Federico Fellini. Non è nemmeno il suo film migliore, sicuramente il
più visto nel mondo della sua opera. Sorrentino non fabbrica un remake, un
rifacimento del terzo millennio... si adopera a confezionare un prodotto di
basso profilo che viene spacciato dalla produzione, dai commentatori
televisivi, dalle schede di accompagnamento... come qualcosa d’importante,
qualcuno l’incensa come “capolavoro”. Vero niente. Il regista napoletano muove
la macchina da presa (sovente a vuoto) su una Roma che conosce poco e fa delle
passeggiate notturne del suo attore feticcio, Toni Servillo (sempre sovra le
righe attoriali), una sorta di spot pubblicitario di una metropoli quasi
deserta, quasi fosse un palcoscenico teatrale dove si muovono personaggi goffi,
abbrutiti, falsi, da reality televisivo. Le sregolatezze, le dismisure, le
cadute esistenziali sono letterarie, una specie di formulario estetico nel
quale nessuno sembra credere a quello che fa e ciò che fa riflette un totale
mancanza di idee, dove l’indecenza del falso abbonda nel mascherato, nel
conforme dove ciascuno è modello di qualcosa di già visto e qui citato fuori
luogo. Pensiamo alla surrealtà felliniana, quanto alla realtà tragica di Mamma Roma, dove Pasolini racconta che
c’è sempre qualcuno che preferisce l’ingiustizia dell’ordine istituito alla
giustizia della propria madre. La grande
bellezza non è nemmeno paragonabile all’affresco felliniano che anticipava
la società spettacolare degli anni sessanta, annunciata meglio dalla
filmografia di Marco Ferreri, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio e perfino
dalla protocritica della quotidianità di Pietro Germi, Vittorio De Sica,
Roberto Rossellini, Francesco Rosi. Per difendere la bellezza, i greci presero
le armi, Albert Camus, diceva. La bellezza, come la libertà, non si concede, ci
si prende.
Il film di Sorrentino
è un coacervo di storielle così pedanti da far rimpiangere perfino certi
siparietti di Alberto Sordi, con i quali il comico romano riusciva a demitizzare
morali e ingiunzioni della società dell’apparenza. Sorrentino sembra prendersi
sul serio. Sfoggia inquadrature ricercate e si abbandona a visioni sinistre
(che sfociano nell’horror da B-movie) spalmate lungo l’intero film... le
allegorie non mancano (la giraffa) e nemmeno piccole mostrificazioni (la nana
che governa un giornale o Serena Grandi, elefantesca, che esce da una “torta”
di cartone)... il cartolinesco giganteggia ovunque, anche negli interni,
l’attenzione all’arredamento è preponderante e l’attorialità sbriciolata fino
all’inconsistenza fanno di questo film una baracconata invedibile.
La storia. Jep
Gambardella (Toni Servillo) è un giornalista di costume, critico teatrale,
opinionista (la sobrietà interpretativa di Marcello Mastroianni in La dolce vita mostra che nel cinema meno
“mossette” si fa meglio si configura il ritratto del personaggio, come Humphrey
Bogart, Jean Gabin o Erich von Stroheim insegnano)... gli piace vivere
di notte tra feste e camminate nelle strade “buone” della città eterna... abita
in una casa di fronte al Colosseo... è autore di un solo libro, citato con
dovizia di particolari, “L’apparato umano”. È il principe della mondanità
romana... il cantore supremo del nulla, tuttavia molto considerato da
drammaturghi falliti (Carlo verdone), scrittrici di sinistra, spogliarelliste,
donne di mezza età, cardinali rincoglioniti e condivide la sua solitudine con
la serva di colore. C’è Ramona (Sabrina Ferilli, una mummia senza bende) che
affascina Jep ma preferisce la sua compagnia che farci l’amore, la espone fuori
luogo e quanto basta ad infatuare i devoti del nudo gratuito. Le chiacchere e i
sermoni si sprecano. Sorrentino vorrebbe descrivere la decadenza della
borghesia capitolina (forse) che dispiega i suoi deliri sulle terrazze di Roma,
ma ciò che ne esce dal suo film è il pittoresco e, in fondo, l’assoluzione di
una casta che la notte si ubriaca e il giorno fustiga, reprime, sfrutta gli
esclusi per mantenere i propri privilegi (ma questo Sorrentino non lo dice). Se
This Must Be the Place (2011) era
orrendo, qui perfino Sean Penn recita come un attore da parrocchia, La grande bellezza è ancor peggio. La
cartografia di un’epoca si misura dalla disaffezione alla politica, religione,
economia che produce e si afferma solo grazie agli emarginati che provoca. La
velata critica alla chiesa di Sorrentino è da fumetto, si parla di piatti
culinari invece che di implicazioni criminali con i trafficanti d’armi... la
chiesa tollera anche il dissenso, soltanto a patto che poi i dissennati si mostrino
servili e vigliacchi... c’è sempre un papa al principio e alla fine di ogni
genocidio dell’intelligenza... la scienza delle lacrime non teme immoralità.
Il cast di Sorrentino
è nutrito... le esibizioni di Servillo, Verdone, Ferilli, Iaia Forte, Pamela
Villoresi, Carlo Buccirosso, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari, Franco
Graziosi, Serena Grandi... sono poco più che patetiche macchiette da avanspettacolo
e si resta basiti (non troppo) della loro inconsistenza attoriale. Il soggetto
(Sorrentino) è una scopiazzata felliniana di nessuna rilevanza e la
sceneggiatura (Sorrentino, Umberto Contarello) è, a dire poco, confusa, quanto
stesa come una sceneggiata napoletana. La scenografia e i costumi (Daniela
Ciancio, Stefania Cella) è roba da soap-opera. Il montaggio (Cristiano
Travagioli) allunga gli intrecci sequenziali nel cineromanzo e insieme alla
musica (Lele Marchitelli) ammorba il film fino alla noia o all’uscita dal
cinema. In qualche modo la fotografia (Luca Bigazzi) riesce a figurare una Roma
a volte vedibile, ma non impedisce il naufragio del film.
La grande bellezza figura la fisionomia di un fallimento,
quello della pretenziosità sulla quale il regista ha fondato il culto di se
stesso, più ancora è un casellario di nozioni cinematografiche dove si
santificano i funerali del cinema che vale e tutto si degrada in ripetizioni
inutili, in un cattivo edonismo che è il pretesto per giustificare scenari o
esercizi di stile dove la bellezza e la giustizia sono calpestate nel fervore
di diventare santi, martiri o eroi di un mondo di celluloide (o digitale) che
non merita essere difeso, ma aiutato a crollare. I film dell’immaginario
liberato sono più lievi delle ali degli angeli ribelli e nel cimitero della
macchina/cinema riposano i princìpi e le formule... non c’è alcun bisogno di
credere nel cinema per sostenere le menzogne e i tradimenti di un’epoca dove la
politica, la religione, la finanza, la cultura giustiziano ogni forma di
democrazia partecipata, ogni misfatto è dimostrabile ad ogni farsa elettorale e
anche nell’ossario della sinistra la stoltezza regna ma non governa a fianco
degli impoveriti... un popolo muore quando non ha più la forza di inventare
nuove insubordinazioni. Anche il (questo) cinema è da distruggere.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte maggio 2013
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