Demonizzazione e captatio benevolentiae verso il M5S
È da tempo che la crisi di legittimità della casta
partitico-statale italiana si esprime nella crescita dell’astensionismo: che è
il fenomeno politico maggiormente in crescita di cui poco si parla o se ne
parla per liquidarlo come primitivismo antiparlamentare o «qualunquismo». Come
forma di protesta politica l’astensionismo cresce perché ha profonde e diffuse
motivazioni sociali, alle quali né il centrosinistra né il centrodestra sono in
grado di rispondere in modo credibile e accettabile.
Con le recenti elezioni la crisi di legittimità si è trasferita
anche all’interno dell’istituzione parlamentare, in conseguenza del successo
elettorale del Movimento cinque stelle (M5S): piaccia o no, di fronte ai
partiti che da vent’anni governano il paese è il M5S che costituisce il terzo
polo, quello della protesta.
È questo che spiega l’ambivalenza dell’atteggiamento di politici e
commentatori nei confronti del M5S, che oscilla tra la demonizzazione e la captatio
benevolentiae: in questo
secondo caso ci si aspetta che Grillo «il demagogo» e i parlamentari della
cosiddetta «antipolitica» sappiano anche mostrarsi ragionevoli e costruttivi,
consentendo in tal modo la formazione di un governo, possibilmente di
centrosinistra.
Tuttavia il M5S rifiuta, certamente non senza tensioni, di
giungere ad accordi con il Pd: accordi che in altre circostanze si sarebbero
spregiativamente bollati come consociativi e che costituirebbero il definitivo
colpo di grazia alla ventennale retorica circa l’alternanza bipartitica (colpo,
in effetti, già sferrato dal consenso bipartitico al governo Monti). Tentando
di coagulare il consenso di Pd e Pdl intorno ai presunti «saggi» il presidente
Napolitano non ha fatto altro che giocare nuovamente la carta consociativa.
Ma la sinistra - intendendo Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e
quel che resta del «popolo» che a questi partiti continua a far riferimento –
come si comporta nei confronti dell’impasse cui è giunta la casta partitica,
attualmente più screditata che al tempo di Tangentopoli?
Nell’articolo precedente auspicavo che dai risultati delle
elezioni politiche si sapesse trarre la giusta lezione1.
Evidentemente non è così. La sinistra post-Pci sembra anzi in preda a un crollo
psichico, che si manifesta nell’isteria antigrillina e nella marchiatura a
fuoco della figura di Beppe Grillo, considerato come un seduttore di masse
istupidite, una sorta di Grande fratello totalitario in versione postmoderna,
mentre i risultati elettorali del M5S vengono qualificati come «diversione» o
addirittura come un esempio della «reazione
che avanza». E siamo arrivati al vergognoso paradosso
per cui questa sinistra formalmente antimontiana oggi si scaglia contro Grillo
perché ha il coraggio di dire no a un inciucio tra Pdl e Pd, che di Monti è
stato il più fedele sostenitore2; e questo dopo che Prc, Pdci e
Verdi hanno condiviso responsabilità di governo con il centrosinistra, vale a
dire con la coalizione che negli anni ‘90 fece la maggior parte del lavoro
sporco di stampo neoliberistico. Stiamo parlando di un’area politica (i
Forchettoni rossi) reduce da tre lustri di battimani, in adorazione di ogni
minima svolta del guru e autentico demagogo Bertinotti, oppure di Diliberto,
ministro nel governo D’Alema, quello che bombardò la Jugoslavia.
Non è difficile comprendere i motivi della reazione antigrillina
di questi professionisti della politica e del forchettonismo di sinistra: dal
loro punto di vista, il successo del M5S non ha dato vita soltanto a un enorme
concorrente sul terreno elettorale (come si è potuto vedere), ma intacca anche
il portafoglio economico dei rimborsi, delle sovvenzioni e dei privilegi dei
parlamentari e dei consiglieri regionali. In altri termini, l’insuccesso nel
mercato politico minaccia alla fonte l’afflusso della linfa che è vitale per la
riproduzione di questi apparati e degli apparatini ad essi collegati. La
perdita dello status istituzionale e la minimizzazione del loro ruolo nel
sistema politico compromettono la possibilità di apparire mediaticamente, di
partecipare attivamente allo spettacolo parlamentare e televisivo.
Quanto alle correnti minori, gruppi, blog e social networks vari (considerati in genere erroneamente
come il nocciolo duro del cosiddetto «popolo di sinistra»), lungi dal
valorizzare il dato crescente dell’astensionismo e l’impasse in cui il M5S ha
contribuito a mettere l’intera casta, si sono scatenati nell’opera di
amplificazione di ogni sbavatura dei grillini, nell’estrema semplificazione del
discorso del o intorno al M5S, nell’invettiva urlata (in questo paradossalmente
simili allo stile di Beppe Grillo). Per questo «popolo di sinistra», che nel passato
ha dimostrato ampiamente di essere altrettanto «populista» dei cosiddetti
grillini – anche se in forma più antiquata - la seconda batosta elettorale
consecutiva ha generato frustrazione, risentimento e invidia nei confronti
dell’enorme successo elettorale (ma anche di mobilitazione nelle piazze)
conseguito dal M5S. E questi stati d’animo rancorosi stanno impedendo una
radicale autocritica che, finalmente, faccia i conti sino in fondo con
vent’anni di subalternità strategica al centrosinistra e ai miti
dell’elettoralismo - nonché con il sottostante retroterra ideologico,
togliattiano e ingraiano, dei partiti post-Pci. In effetti, lo zelo
digital-militante sarebbe meglio impiegato nell’autocritica e nella
liquidazione dei Forchettoni rossi che non nella denigrazione di Grillo e del
suo movimento.
Il risentimento e l’invidia non solo rendono più difficile
interpretare il fenomeno M5S (sommandosi in questo a limiti e incapacità di
analisi che noi di Utopia rossa stiamo denunciando da tempo), ma stanno dando
vita a una volontà di rivalsa elettorale, di ricomposizione della «sinistra» in funzione del
ritorno (degli zombies?) in Parlamento, riproponendo per l’ennesima volta il vaniloquio di un «vero e
proprio processo costituente, democratico e partecipato».
Si direbbe che la sinistra post-Pci sia afflitta da una
irresistibile coazione a ripetere secondo un modello di base e dall’incapacità
di rielaborare le sconfitte che necessariamente conseguono. È come se, in
fondo, fosse vittima di un trauma originario mai compreso sino in fondo: la
mutazione del Pci da partito stalinista in partito organicamente capitalistico
– e quindi torni sistematicamente a cercare l’affetto di questo padre padrone e
«traditore». Con ciò non solo si vanifica la possibilità di comprendere e
superare il passato, ma anche di autonomizzarsi, di divenire adulta e battere
nuove vie, costruire il futuro. In tale abisso mentale, la sinistra post-Pci
non riesce nemmeno a sentire il bisogno di incarnare e radicalizzare
politicamente il sentimento antioligarchico che da tempo si sta esprimendo
nella crescita dell’astensionismo e, più recentemente, nel boom del voto per il
M5S – e ciò impedisce a priori di creare le condizioni per convertirlo in lotta sociale fuori e
contro le istituzioni del capitale. È un’ossessione che ha profonde radici
ideologiche, sostenuta dalla necessità di riprodursi di apparati di
professionisti della politica; è una condanna al declino e alla degenerazione,
ormai giunta a uno stadio irreversibile. Questa ossessione forchettonica
continua invece a produrre danni: se ne uscirà fuori solo se e quando dalla
società emergeranno energie nuove, capaci di assimilare le lezioni del passato
e cercare forme nuove della lotta contro il sistema capitalistico.
Un sintomatico post di Paolo Ferrero...
Il 31 marzo, Paolo Ferrero (segretario di Rifondazione ed ex
ministro nel secondo governo Prodi) ha pubblicato questo post, titolato «Capolavoro
di Grillo: il governo Monti resta in carica. Complimenti»:
«Crimi (5 Stelle):
“Una scelta che ci piace. Il Presidente ci dà ragione, Parlamento subito al
lavoro”. Grillo, con un consenso del 25% è riuscito in un vero e proprio
capolavoro: tenere in piedi il governo Monti, uscito sconfitto dalle urne e che
rappresenta il quadro politico peggiore che si possa immaginare. Ovviamente
questo porterà con sé l’elezione di un uomo o una donna gradita ai poteri forti
alla Presidenza della Repubblica. Mai tanti voti espressi per rovesciare le
cose sono stati usati in modo così netto e determinato per rafforzare il
sistema esistente. Come diceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Tutto cambia
affinché nulla cambi”» 3.
Quel che
più mi colpisce in queste parole non è la dichiarazione di Crimi, peraltro
presentata male, in contraddizione con altre e presto seccamente annullata da
Grillo in persona. È il fatto che Ferrero non solo imputa al M5S quel di cui
non ha alcuna responsabilità (la continuità del governo Monti) ma suggerisce
implicitamente che esista la possibilità di un quadro politico migliore, cioè di un governo borghese e
capitalistico (come si diceva un
tempo) migliore. In cosa
consisterebbe questo governo migliore? Ovvio: un governo Bersani!
Questa citazione ha
senso proprio perché si tratta di Paolo Ferrero, l’ex
ministro di Prodi, che condanna l’appoggio del Pd a Monti, considerandolo un
errore e non qualcosa di perfettamente logico e in linea con tutta la storia
del centrosinistra. Ferrero sembra dimenticare che il partito di cui è
segretario per anni ha sostenuto il Pd in sede nazionale e locale; e che in
tempi più recenti ha usato la pregiudiziale anti-Monti come un tempo Bertinotti
(e tantissimi altri) usarono Berlusconi come alibi per ristabilire la
collaborazione con il centrosinistra. Questo però gli ha preferito l’ala più
apertamente governista di Rifondazione, quella di cui Vendola è il capo
carismatico (altro guru, anche se in declino...); infine, è lo stesso
segretario di partito che sarebbe stato disponibile a non fare l’opposizione in cambio di un accordo sul lavoro. Se
ciò fosse accaduto, non ci vuole molta immaginazione per indovinarne gli
inevitabili risultati – basterebbe ripensare alle precedenti esperienze
governative con Bertinotti. Figurarsi le prospettive ora: a quali accordi potrà
mai aspirare un partitino che può vantare un seguito elettorale pari all’1,6%
dell’elettorato?
Nell’idea
che i parlamentari del M5S debbano essere «costruttivi», ovvero che essi
debbano ragionevolmente contribuire a un quadro
politico migliore, si misura la portata dell’involuzione politica della
sinistra italiana e la congenita vocazione governista dei suoi dirigenti.
Sembra che questi non possano neanche immaginare di praticare un’opposizione
dura e intransigente, che non ceda al ricatto della responsabilità e della
governabilità, che sia disposta a rompere irreversibilmente con il centrosinistra assumendolo per quel che è: un progetto
dell’imperialismo italiano, un nemico di classe al pari del centrodestra.
Gli effetti del
professionismo politico e la sua interiorizzazione nel «popolo di sinistra»
Ho accennato a chi
della politica ha fatto una professione, riferendomi quindi a coloro il cui
reddito e il cui status sociale dipendono, da dieci, venti o trent’anni a
questa parte, dai ruoli ricoperti in un partito (o in un sindacato) e nelle
istituzioni; il livello del reddito e le motivazioni personali sono
indifferenti nel definire il fatto obiettivo del professionismo politico. Gli
effetti politici della politica come professione non si riducono al «vendersi»
e al «tradire»: questi fenomeni sono presenti ma, ai fini del discorso, sono
anche del tutto secondari. Molto più importante è la logica o la prospettiva
fondamentale cui il professionismo gradualmente spinge e cui poi costringe in
modo ferreo.
Una logica che, in
poche parole, inverte nei fatti (a
prescindere dai discorsi di cui si ammanta) il rapporto tra fine e mezzi,
facendo della riproduzione e del successo istituzionale dell’apparato il
criterio fondamentale dell’azione e dell’analisi politica. È tenendo conto del
fatto sociologico del professionismo politico - e nell’àmbito della visione del
mondo che ne consegue - che si spiegano l’assoluta centralità del momento
elettorale, che è sempre inteso come lo sbocco naturale di tutta l’azione
extraistituzionale, sindacale, sul territorio, nei movimenti ecc.; ed è sempre
in forza di quanto detto prima che la discussione in seno alla sinistra verte
su come riuscire a determinare le migliori condizioni possibili per giungere a
un qualche tipo di collaborazione col partito di governo detto di
centrosinistra, ovviamente contro la «destra», il neoliberismo, Berlusconi,
Monti e via di seguito.
Va sottolineato che
non solo i professionisti e le figure assimilabili di intellettuali e
giornalisti, ma i militanti e i bravi elettori di sinistra (come furono
definiti in uno dei primi libri di Utopia rossa) sembrano incapaci di
immaginare e apprezzare la possibilità che il funzionamento «normale» del
sistema politico possa essere inceppato e destabilizzato. Questa sinistra
discute, si divide o si unisce in funzione delle elezioni e in base alle
diverse opzioni sulla tattica da seguire per condizionare il centrosinistra:
opzioni più o meno movimentistiche o partitistiche, più o meno accomodanti.
È per queste ragioni
che invece di incitare il M5S a tener duro, così costringendo le due coalizioni
politiche dell’imperialismo italiano a dimostrare quanto siano simili, invece
d’incalzare il M5S nel merito e su eventuali compromessi con la partitocrazia,
Ferrero, e con lui quel che resta dei bravi elettori di sinistra, pretende che
il M5S contribuisca a un governo migliore, che dovrebbe scaturire dall’interno della casta partitico-statale peggiore della storia repubblicana. Proprio così agiscono i
Gattopardi.
Una
premessa
Occorre fare piazza pulita dei pregiudizi (e dell’interesse di
parte del ceto politico e dell’intellettualità di sinistra) che impediscono di
cogliere il significato del successo di Grillo e del M5S (e, non
dimentichiamolo mai, della crescita dell’astensione), di valorizzarlo,
d’intervenire nelle contraddizioni, di radicalizzare la protesta che si è
manifestata nei risultati elettorali. La posta in gioco non è il M5S ma quel
che esso esprime.
Inizio dunque a ragionare partendo dall’interpretazione dei
risultati elettorali e del M5S quale risulta dai documenti di Rifondazione
comunista e dagli articoli del collettivo Wu Ming, in quanto esemplari di una
posizione diffusa nella sinistra «alternativa». Gli articoli di Wu Ming hanno
avuto amplissima diffusione in rete, sono riportati nei siti di Rc: i testi di
Rifondazione comunista ne riprendono alcuni argomenti. Wu Ming è stato
intervistato anche da giornali esteri. È un’interpretazione che rivela molto
più sugli autori che sul M5S.
Una precisazione su oggetto e limiti di questo intervento.
Intorno a Grillo e al M5S è ripresa rigogliosa la discussione
intorno a quell’ambigua nozione che è il populismo, ora declinato in versione
digitale. La prima precisazione è dunque che rimando ad altro articolo la
discussione dell’esperienza del populismo storico e del modo in cui il termine
è ora applicato nella politologia e nella polemica politica. Qui dirò solo che
i problemi da sempre associati con questa categoria sono ora moltiplicati a
dismisura4; che è del tutto fuorviante identificare il concetto di
populismo con la destra; e che, in definitiva, un concetto di matrice
ottocentesca è di limitata o nessuna utilità nel contesto della società dello
spettacolo, della postdemocrazia e dell’atmosfera culturale postmoderna. In
realtà il termine populismo funge da coperta alla difficoltà di comprendere
fenomeni che sfuggono alle coordinate usuali della politologia. Ma,
specialmente, manifesta il pregiudizio, liberale e veterosinistrorso (comune
sia alla socialdemocrazia che ai «leninisti»), contro qualcosa che sfugge
all’organizzazione partitica e all’inquadramento ideologico e che, sia pur
molto confusamente, contraddittoriamente e con una grossa dose di feticismo
tecnologico, rilancia l’idea della democrazia diretta contro gli apparati
partitici del potere politico.
L’oggetto di questo articolo è l’interpretazione corrente a
sinistra del M5S e del significato dei risultati di queste elezioni. Tuttavia,
le questioni cruciali non sono la valutazione di Grillo e del M5S, ma la
caratterizzazione dell’involuzione dei sistemi politici contemporanei, la
prospettiva circa i rapporti tra lotta sociale e rappresentanza istituzionale,
la decisione se il centrosinistra è oppure no un nemico di classe, in quanto
formazione politica dell’imperialismo italiano al pari del centrodestra, la
coerenza etico-politica.
Rifondazione comunista e la sua valutazione cinque volte
ipocrita dei risultati elettorali
Per quel che dice e per quel che omette, il Documento approvato
dal Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista (Rc) del 9 e 10 marzo
2013 è un compendio delle ragioni del fallimento della sinistra post-Pci e
dell’incomprensione del successo del M5S.
La valutazione complessiva dei risultati elettorali è quella di «una
rivolta dell’elettorato che si è espressa però non sul terreno della lotta di classe ma
su quello della contrapposizione dei cittadini contro la casta»: la funzione di
Grillo e del M5S sarebbe stata dunque «diversiva».
Il crollo della sinistra post-Pci, tanto più grave perché in
cartello con l’Italia dei valori, è coperto dalla foglia di fico della banalità
per cui «va riconosciuto il fallimento del tentativo Rivoluzione Civile che non
è riuscita a diventare il punto di riferimento per la domanda di cambiamento e
la protesta di milioni di elettori».
In quel però si racchiude il nocciolo del congenito opportunismo di questo
quadro dirigente, tanto più ipocrita perché cerca di nascondersi con l’uso di
una fraseologia apparentemente classista, la cui unica funzione è suscitare una
reazione d’identificazione ideologica nei militanti e di alleggerire le proprie
responsabilità. È un però cinque volte ipocrita, per cinque buone ragioni.
Innanzitutto perché le elezioni non sono la lotta di classe: al meglio ne costituiscono un riflesso
distorto e parziale ma, per lo più, sono un modo mediante il quale la lotta
di classe è neutralizzata,
appunto perché effettivamente deviata sul terreno della delega istituzionale e
scissa dalla lotta diretta contro il capitale. Se si vuole usare coerentemente
un linguaggio classista è questo il concetto da cui si dovrebbe partire; ne
conseguirebbe, allora, che la decisione se presentarsi o meno alle elezioni non
è affatto ovvia, ma deve essere attentamente valutata, e che si determini in
funzione dell’utilità congiunturale per la lotta di classe e della natura del
regime politico.
Invece, come in una sorta di lapsus freudiano qui traspare
l’inconscio politico della direzione di Rifondazione: che la lotta di classe
debba esprimersi come voto per il partito e in una folta rappresentanza di
eletti, magari con qualche rappresentante della «società civile». Un inconscio
che è poi quello del buon elettore di sinistra.
Discorso
analogo si può fare per la valutazione dei risultati elettorali fatta dal
Partito comunista dei lavoratori che ha
definito il risultato elettorale «sconfitta del movimento operaio». Ma di quale
movimento si parla? Dove starebbero oggi questi partiti operai in versione
elettorale e soprattutto dove starebbero lottando? Quale partito rappresentava il movimento operaio? Ovviamente
il Pcl stesso che andava dicendo in campagna elettorale di essere l’unico
partito operaio che si presentava alle elezioni. Allora sì, il suo miserrimo
risultato elettorale (il gruppo ha più che dimezzati i voti precedenti,
prendendone poco più di ottantamila) può essere considerato una sconfitta del
movimento operaio. Ma non si negherà che tale criterio è piuttosto presuntuoso
e schiettamente elettoralistico, a voler restare nel campo della politica senza
sconfinare in altri campi di analisi...
Fatto è
che, stando alla ricerca sintetizzata da Ilvo Diamanti su La Repubblica, il 40% degli operai italiani che non si
sono astenuti, ha votato per il M5S, che sotto questo profilo stacca di 16
punti di percentuale il Pdl, di 18 il Pd e di 36 Rivoluzione civile5.
Gli operai, dunque, si sarebbero gettati nelle braccia del «populismo
reazionario» di Grillo? Bene, provassero per lo meno a chiedersi perché.
Parentesi sul referendismo
Corollario, a futura memoria: le campagne referendarie lanciate
dalla sinistra più o meno radicale su normative relative ai diritti
socioeconomici sono anch’esse il frutto di una visione profondamente
elettoralistica della lotta di classe (ovvero, di una non-visione della
stessa). Sia perché, a prescindere dalla bontà del quesito referendario, sono
concepite come anticipazione propagandistica delle campagne elettorali; sia
perché l’esperienza storica insegna che lo strumento del referendum può essere
utile quando riguarda i diritti civili o l’ambiente (il nucleare, l’acqua), in
generale tematiche trasversali alle classi sociali; lo stesso strumento ha
invece un’altissima probabilità di risolversi in un fiasco quando riguarda i
diritti socioeconomici (si ricordino il referendum del 1985 sul taglio della
scala mobile promosso dal Pci e il referendum del 2003 sull’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, referendum fin dall’inizio «a perdere» - come lo
definimmo in un celebre libro di Utopia rossa6. A chi prende sul
serio la lotta di classe è chiaro il motivo di questi fallimenti: quello
elettorale è il terreno in assoluto meno favorevole alla conquista di un
obiettivo specifico dei salariati, per quanto sulla carta essi possano essere
la maggioranza della popolazione. Una maggioranza astratta, se si prescinde dai
tanti meccanismi strutturali e dai tanti motivi ideologici mediante i quali la
società capitalistica frantuma l’unità teorica della classe; unità che può
costruirsi, con estrema difficoltà, solo in un processo di mobilitazione e lotta di massa, non nell’istante della votazione anonima e individualizzata,
soggetta a tutte le enormi pressioni che il sistema può esercitare sui singoli.
Il tardivo scimmiottamento della strategia referendaria del
Partito radicale è la forma perfetta del cretinismo elettorale di sinistra.
Spesso e volentieri praticato sulla pelle degli operai, quelli che poi pagano i
prezzi delle sconfitte referendarie volute dagli apparati e dai loro
fiancheggiatori.
Altre valutazioni ipocrite dei risultati elettorali
In secondo luogo, quel «però» è del tutto ipocrita perché i partiti
della sinistra post-Pci (Rc, Pdci, Verdi) hanno passato vent’anni a corteggiare
il centrosinistra a tutti i livelli, diversificandosi per le tattiche, oscillanti tra il movimentismo
strumentale e la pronta disponibilità a far comunque parte di un qualsiasi
governo, nazionale o regionale. Da sempre, nel cuore delle direzioni politiche
di Rifondazione comunista si annidano: 1) una corrente che con il
centrosinistra vuol collaborare facendosi forte di una presunta rappresentanza
dei movimenti, il cui capo e maestro fu a lungo Bertinotti, ma le cui
prospettive elettoralistiche sono ormai a zero; 2) una corrente disposta a
utilizzare la propria posizione nelle istituzioni per collaborare con il
centrosinistra, anche a costo della scissione: fu prima la volta degli
ingraiani doc come Magri e della maggior parte dei parlamentari (che fecero la
scissione per poter appoggiare il governo Dini, confluendo poi nel progenitore
del Pd); poi quella dello staliniano non-pentito Cossutta e del suo erede
Diliberto; poi di Bertinotti insieme al governatore Vendola, in attesa di
vedere chi saranno i prossimi. E non è che le scissioni «purifichino» il
partito: il meccanismo si ripete puntualmente. Continuerà ad essere così,
almeno fino all’estinzione di Rc o al suo scioglimento in qualcosa d’altro.
Una delle ragioni per cui si può sostenere che l’attuale regime
politico sia postdemocratico è appunto il fatto che nel Parlamento la lotta dei
salariati non appare neanche come riflesso parziale e distorto: quel che si
produce realmente è l’attacco istituzionale ai diritti sociali - per restare
alla sola politica interna. Ciò a causa della mutazione del Pci e della
volontaria cooptazione dei partiti post-Pci nel sistema politico.
In terzo luogo, sul terreno delle elezioni, cos’altro deve auspicarsi una forza
politica che si pretende «comunista» se non la «contrapposizione dei cittadini
contro la casta»? Forse i
comunisti dovrebbero invece auspicare un voto a favore della casta bipartitica?
Magari a favore della sua frazione più a «sinistra», quella di Bersani?
Per chiarezza: la casta politica una e bina dei partiti di
governo è organica ad uno Stato che è irrimediabilmente capitalistico e
imperialistico. Questo
concetto non può affatto appartenere alla cultura politica del M5S; ma
sicuramente esso non appartiene neanche alla pratica della sinistra italiana e,
direi, neanche alla sua teoria, ammesso ne abbia una, sempre pronta a ricorrere
all’espediente retorico della «sovranità popolare» e della Costituzione.
Dunque, per la corretta valutazione del risultato delle elezioni
da un punto di vista anticapitalistico e anti-istituzionale, quel che importa
sono il grado e la dimensione che assume la contrarietà espressa dagli elettori nei confronti
della casta dirigente partitico-statale: è in questo che si esprime, sempre
come un debole eco, la tensione extraelettorale tra classe dominante e classe
dominata, la lotta tra le classi. Che piaccia o no, il significato obiettivo
sia della crescita dell’astensione sia del successo del M5S è appunto quello di
esprimere la contrarietà alla casta partitico-statale. Questo significato può essere
apprezzato, con ciò valutandone anche i limiti, solo nel suo contesto
macrosociale, non cercando con la lente d’ingrandimento le pulci dei deputati
M5S o mettendo sotto il microscopio il linguaggio di Beppe Grillo. Si può e si
deve fare, come con tutto il personale politico (con il proprio innanzitutto!),
ma non in alternativa o predeterminando i risultati dell’operazione
fondamentale, il cui oggetto è il rapporto tra le classi come è filtrato (e
distorto) attraverso le elezioni.
Innanzitutto è doveroso riconoscere che i cittadini hanno
ampiamente scavalcato a sinistra tutti i partiti e i partitini che hanno fatto campagna
elettorale: o perché hanno rifiutato a priori, con l’astensione, di legittimare
il regime postdemocratico attraverso il rito del voto; oppure perché, con il
semplice buon senso (un tempo si sarebbe detto con l’istinto di classe), hanno
individuato nel M5S l’arma con cui potevano ferire la casta politica, sputarle
in faccia, svergognare anche il partito di Bersani e Renzi, rivendicare un
margine d’autonomia critica. Se questo fa paura, figurarsi allora quanta paura
farà un vero processo di radicalizzazione extraparlamentare o antiparlamentare di
massa, con le sue espressioni confuse e contraddittorie, le sfasature, le
molteplici correnti ideologiche... L’idea del popolo monoliticamente unito
sotto la rossa bandiera e l’illuminata guida del Capo è ormai, per fortuna,
solo mitologia; perché nella misura in cui è apparsa reale attraverso
l’esercizio del potere si è rivelata un orrore.
Che nel caso italiano la tensione sociale tra classe dominante e
classe dominata non si sia espressa come consenso elettorale per la lista
Ingroia ma per il M5S, non può spiegarsi con la constatazione che la lista
Ingroia «è rimasta schiacciata tra le spinte al voto utile e quelle al voto di
protesta» (comunicato della segreteria nazionale di Rc del 27 febbraio). Questa
è argomentazione tautologica, cioè vuota, ovvero un esempio della popolare
scoperta dell’acqua calda. Ovvio che, date determinate circostanze, un presunto
vuoto politico venga in qualche modo colmato da qualcosa. Berlusconi ci riuscì
benissimo all’alba della Seconda repubblica, Grillo ci è riuscito al tramonto
della stessa. Ciò che i militanti in buona fede dovrebbero chiedersi è allora:
come mai anche loro, la sinistra presuntamente alternativa o radicale, la
presunta vera sinistra, sono stati travolti dalla crisi di rappresentatività e
di legittimazione del sistema dei partiti?
La questione non può neanche ridursi al ritardo della proposta di
«Cambiare si può» e alla obbligata rapidità della formazione del cartello
intorno a Ingroia (come da comunicato Cpn di Rc), o alla mancanza di carisma e
alla fragilità politica del candidato Ingroia; e neanche allo spudorato
opportunismo dell’alleanza con Antonio Di Pietro.
(Osservo, di passata, che Di Pietro è stato qualificato, con
alcuni ottimi titoli, tra i potenziali leader populisti italiani e, in
aggiunta, che la sua percezione, almeno in parte della sinistra, fu di un populista «manettaro» (poliziesco),
se non al servizio di qualche complotto destabilizzante della prima Repubblica.
Lo ricordo solo per ritorcere il facile uso dell’etichetta populista, per evidenziare
l’incoerenza, l’opportunismo e la smemoratezza della sinistra, e per porre un
altra questione: come mai lo spazio aperto dalla crisi di rappresentatività dei
partiti maggiori non è stato occupato dal cosiddetto populista Di Pietro?)
Come mai la lista Ingroia è riuscita a perdere il 70% della somma
dei voti espressi nel 2008 per la Sinistra arcobaleno e per Italia dei valori o
circa l’85% dei voti cumulati di Rc, Pdci, Verdi e Idv nelle politiche del
2006? Il quadro non migliora granché se nel calcolo si considerano anche i voti
ottenuti da Sel, organicamente alleata del Pd. Diciamo che da un’apocalissi di
livello estintivo si passa a una catastrofe, che ci si augura possa essere
definitiva per le mire elettoralistiche di questa parte della ex sinistra.
Tutti gli ultimi fattori indicati hanno concorso all’insuccesso e nessuno
di essi è casuale, bensì
il frutto marcio di una lunga storia. Il tempo, ad esempio, conta poco: Rc e
partiti associati hanno deciso l’affossamento di «Cambiare si può» e l’accaparramento delle
posizioni migliori nelle liste a favore dei professionisti di lungo corso della
politica. Ed è anche un fatto che questa è la seconda clamorosa bocciatura elettorale, che
continua un corso iniziato prima dell’entrata in gioco del M5S. Ciò di cui occorre rendere conto,
inoltre, non è solo lo spostamento di voti verso il M5S, ma anche – lo ripeto -
la forte crescita dell’astensione nelle ultime due elezioni politiche.
Per non essere banali occorre spiegare le ragioni di lungo periodo
per cui il malcontento sociale e il disgusto politico nella congiuntura attuale
non siano stati capitalizzati dai partiti post-Pci.
Tuttavia,
è autoassolutorio assumere «che la nostra sconfitta è l’ultimo capitolo di una
sconfitta più grande e storica che è quella del movimento operaio e di processi
di atomizzazione sociale di lungo periodo» (comunicato Cpn di Rc).
È la
quarta affermazione ipocrita perché la sinistra post-Pci non è caduta
combattendo contro il centrosinistra e la casta partitico-statale, non ha un suo campo dell’onore, ma è
stata invece esclusa contro la propria volontà dal campo del centrosinistra
nelle elezioni politiche
(ma non nelle regionali lombarde). È tesi fuorviante perché, se si guarda al
tanto decantato esempio di Syriza in Grecia, si può ben constatare che in una
situazione di crisi è pur possibile che un partito balzi dal 3,6% al 16,6% del
consenso sul totale degli elettori (le percentuali sul totale dei votanti sono
diverse ma mistificanti, considerando l’alto tasso di astensione dal voto, in
Grecia come in Italia)7. Ma i forchettoni rossi e verdi italiani,
che per il tempo di un sospiro si vollero far forti della suggestione di «fare
Syriza» in Italia, non sono affatto Syriza, che volente o nolente, si è
contrapposta non solo alla destra di Nuova democrazia ma anche al Pasok, e che
nei confronti della violenza degli scontri intorno al Parlamento greco ha
tenuto un atteggiamento inconcepibile per i forchettoni rossi italiani, che di
sicuro parlerebbero di provocazione voluta o consentita dalla polizia. Non a
caso hanno avuto come capilista ben 3 magistrati...
L’idea che
i forchettoni rossi potessero «fare Syriza» in Italia era ridicola fin
dall’inizio e, con un personale politico incapace di comprendere il significato
di queste elezioni, resta tale. Chi è riuscito a «fare Syriza» in Italia è
stato, invece, il M5S, non il «populista» Di Pietro o Rivoluzione civile
(anch’essa definibile «populista» nel senso generico in cui possono esserlo tutte le formazioni politiche non anticapitalistiche). Perché?
Per il
semplice motivo che il personale politico dei partiti post-Pci ormai è
percepito dai cittadini per quel che è: una componente subordinata del
sistema dei partiti, una frazione della casta politica, un insieme di
mini-apparati diretti da professionisti della politica. Si tratta di una percezione che si può
obiettivamente sostanziare con i dati sul finanziamento dei partiti: con
l’eccezione del 1991, anno in cui la quota fu «solo» il 66,5%, tra il 1992 e il
2004 la somma delle sovvenzioni statali e dei contributi dei parlamentari sulle
entrate totali di Rifondazione fu mediamente il 93% e di oltre il 98% la
corrispondente media del Pdci per gli anni tra il 2001 e il 2005; e questi
partiti hanno sempre condiviso le decisioni volte a garantire il finanziamento
che ha completato la trasformazione dei partiti in organi parastatali. I veri
costi della politica non sono essenzialmente economici, ma squisitamente
politici: e questo è vero specialmente per la sinistra, che pure pretende di
cambiare il mondo.
Quinto, è pure ipocrita e autoassolutorio imputare i risultati
elettorali al «mancato sviluppo del conflitto sociale». Con questo si potrebbe spiegare la stasi
del consenso per la sinistra post-Pci, ma non il suo netto arretramento né il
consenso raccolto dal M5S in alcune situazioni di lotta (come in Val di Susa) o
in quartieri la cui composizione sociale dovrebbe favorire la sinistra,
ragionando un po’ meccanicamente.
Il M5S come fattore «diversivo» e «criptofascismo», secondo il
collettivo Wu Ming
Il ruolo diversivo del M5S, che nel comunicato di Rc suona come insinuazione, è
invece tesi forte degli articoli del collettivo Wu Ming. Nell’intervista di Wu
Ming per il Manifesto
del primo marzo si legge: «quella di Grillo è una strategia diversiva. Serve a
spingere l’ “indignazione”, tanto celebrata nelle acampade spagnole o negli occupy americani, lontano dalle piazze
italiane». Il concetto è ripreso nell’articolo dell’8 marzo per New
Statesman: «“the Caste
vs. the Honest People” proved to be the perfect diversionary narrative» e «5SM acts as a diversionary
movement and prevents social conflict from erupting»8.
Sempre nell’intervista per il Manifesto, Wu Ming sostiene che «la nascita del
grillismo è una conseguenza della crisi dei movimenti altermondialisti di
inizio decennio» e che, «in seguito, la crescita tumultuosa del M5S è
divenuta a sua volta una causa - o almeno una concausa importante -
dell’assenza di movimenti radicali in Italia, per via della sistematica “cattura” delle istanze delle lotte
territoriali, soprattutto di quelle più “fotogeniche”» (corsivo mio). Infine,
la ragione della crisi che «una decina d’anni fa» ha colpito i movimenti è da
attribuirsi al fatto che, secondo Wu Ming, «non c’è stato un lavoro
riorganizzativo, e i cicli di lotte che si sono susseguiti non hanno radicato
senso comune».
Ora, che il «grillismo» come movimento politico inizi dopo la
crisi dei movimenti altermondialisti è un fatto, ma Wu Ming si guarda bene dal
periodizzare in modo più preciso e logico, così da stabilire un rapporto di
causa ed effetto tra ciò che è accaduto «dopo» e quel che accadde «prima».
Se la crisi dei movimenti altermondialisti precede il 2006,
allora essa non impedì la trionfale entrata nel parlamento italiano di 110
«onorevoli» di Rc, Comunisti italiani e Verdi, di cui 68 di Rc, determinanti
per la formazione del governo Prodi e consapevoli pontieri tra Piazza e
Palazzo, tra governo e movimenti di cui appunto si atteggiavano a
rappresentanti. Come è
noto, fatto qualificante dell’azione dei forchettoni rossi in Parlamento fu
l’impegno ad approvare e a far approvare, anche a chi si faceva scrupoli di
coscienza, il rinnovo della missione italiana in Afghanistan e tutte le altre
sedicenti «missioni di pace»: funzione di ponte tra Piazza e Palazzo effettuata
il 19 luglio 2006.
E se invece la crisi dei movimenti altermondialisti fu
successiva al 2006, allora è difficile sottrarsi all’idea che essa abbia
qualcosa a che fare con la partecipazione ministeriale della sinistra post-Pci
nel secondo governo Prodi:
idea che sarebbe confermata dalla batosta elettorale del 2008. E allora, chi ha
svolto una funzione «diversiva» per i movimenti: Grillo oppure Bertinotti,
Ferrero, Diliberto & co.? Il M5S oppure i partiti, in primo luogo Rc?
E poi, quale straordinario potere viene attribuito a Grillo! Come
se dei movimenti sociali
- non uno, ma più movimenti! - possano essere suscitati o affossati da un
individuo, per quanto influente. Mi riesce difficile immaginare un’asserzione
più antimarxiana di questa e più mimetica dei movimenti effimeri della società
dello spettacolo.
Insomma, se è difficile capire esattamente in qual modo Grillo
possa essere causa o «concausa importante – dell’assenza di movimenti radicali
in Italia», è invece facile intendere, limitandomi qui a considerare solo il
livello del governo centrale e delle alleanze e collaborazioni parlamentari,
quanto l’orientamento della sinistra post-Pci abbia contribuito ad affossare se
stessa, non senza aver prima prodotto grandi guasti nelle prospettive dei
movimenti, reali e potenziali, e nel cosiddetto popolo di sinistra. Ciò a causa
delle illusioni nel centrosinistra e nei suoi governi che i partiti post-Pci
hanno contribuito a suscitare e della conseguente disillusione, che giustamente
si è tradotta nel tracollo elettorale. Non insisto su questo, rimandando ad
altre analisi9; osservo però che sono stati proprio i partiti
post-Pci a nutrire a sinistra la logica del meno peggio che Wu Ming attribuisce
al solo centrosinistra. Sicché, parafrasando il titolo dell’intervista per il
Manifesto e un espediente
comunicativo da Wu Ming attribuito al solo M5S, si potrebbe dire che
«Rifondazione crebbe sulle macerie dei movimenti, presentandosi come “non c’è
alternativa”». Altro che assenza di lavoro riorganizzativo: la questione è
tutta politica.
Inoltre, è contraddittorio e ipocrita imputare a Grillo e al M5S
una funzione diversiva nei confronti dei movimenti e sostenere o insinuare,
nello stesso tempo, la natura reazionaria o addirittura criptofascista del M5S:
«Questi elementi di destra finora sono rimasti coperti da un manto
di confusionismo: dire “né destra, né sinistra” serve a questo, ecco perché
diciamo che nel M5S c’è del “criptofascismo”, del fascismo nascosto. Ma la
macchina grillina cattura e semplifica anche elementi e parole d’ordine di
sinistra, e conquista voto di sinistra»10.
Se presa sul serio, questa diffamazione del M5S in quanto
«criptofascista» significa che buona parte di coloro che hanno lottato nei
movimenti (ad esempio tanti no Tav) o sono dei perfetti cretini o hanno una
coscienza politica di livello infinitesimale o nulla. Al punto che viene
spontaneo chiedersi se per caso anche quei movimenti non fossero criptofascisti
o, magari, solo un po’ troppo populisti, visto il frequente accostamento dei
due termini nella vulgata corrente.
Il punto più grave e politicamente diseducativo è però un altro.
Il fascismo e il nazismo si affermarono dopo le sconfitte sul campo del movimento
operaio o, meglio, dopo che la lotta tra le classi aveva raggiunto un punto di
non ritorno: cioè quando il culmine della mobilitazione e della
radicalizzazione di massa era stato già raggiunto sicché, svanita la finestra
d’opportunità in cui era possibile estendere ed approfondire l’offensiva, il
movimento non poteva che arretrare cercando di ridurre i danni (nel vivo della
situazione critica questo non fu chiaro per tempo a tutti né intendo connotare
meccanicisticamente la tesi); in ogni caso, i movimenti reazionari o
fascistoidi non ebbero una funzione diversiva ma distruttiva dei movimenti sociali progressisti,
distruttiva fino alla liquidazione fisica. Una vera funzione diversiva della
lotta di classe è invece quella esercitata dai partiti e dai sindacati di
sinistra: sono questi che
hanno la capacità di deviare l’energia sociale sul piano elettorale,
istituzionale, del compromesso sociale, della mediazione subalterna tra Piazza
e Palazzo. Tipicamente, questo avviene attraverso il feticismo della
rappresentanza parlamentare e dello Stato «democratico nato dalla Resistenza».
Una specialità che in Italia è da vent’anni prerogativa anche della sinistra
post-Pci.
Dunque, se il M5S ha avuto una qualche funzione diversiva è
appunto dello stesso genere di quella per diversi lustri esercitata da
Rifondazione comunista, Pdci e Verdi.
Purtroppo è vecchia consuetudine assegnare con grande facilità
l’etichetta di fascista; anzi, con tanta più disinvoltura ed energia si lancia
l’epiteto «fascista!» tanto più ci si sente mooolto di sinistra; discorso analogo può farsi per la
facilità con cui si parla di colpo di Stato (Berlusconi e il golpe strisciante;
Monti e il golpe delle banche; adesso forse sarà il turno di Napolitano? Temo
d’aver perso il conto dei golpes italiani...). Questo modo di fare esprime la rabbia e/o un senso
d’appartenenza ideologica, ma non un’analisi della situazione reale, per cui
può adattarsi a prospettive politiche diverse. Tuttavia, non è solo questione
di povertà di strumenti d’analisi e d’ignoranza del dibattito politico (dei
tempi) e storiografico intorno al fascismo. La faciloneria con cui si evocano i
paurosi spettri del fascismo e del criptofascismo, del regime, del golpe ecc.,
ha la sua ragion d’essere nella necessità di giustificare, in nome della lotta
al peggio, la disponibilità alla collaborazione subalterna con i partiti
presuntamente «progressisti» o che rappresentano il meno peggio. In questa
sindrome ossessiva della ricerca dell’accordo si esprime la persistenza,
neanche tanto nascosta, della matrice togliattiana (e quindi stalinista) della
sinistra post-Pci. Potrebbe dirsi un complesso edipico male o poco superato,
che richiede un «altro» cattivo che, sotto la minaccia di una simbolica
castrazione, consenta la sottomissione al Padre, odiato ma, più di tutto,
amato.
Dulcis in fundo, ma con amara ironia, ritengo che l’uso inopportuno e
inflazionato del fascismo-epiteto abbia contribuito a consumare il valore
dell’antifascismo storico nella coscienza comune, alla maniera del pastore
della favola che si divertiva a gridare «al lupo, al lupo!»: e se questo è vero
allora, paradossalmente, si tratta anche dello specifico contributo
dell’antifascismo mooolto di sinistra all’indebolimento della dicotomia destra-sinistra, già di per sé
aggiustabile a seconda delle convenienze.
È poi bizzarro come Wu Ming tratta l’elettorato del M5S,
enfatizzando l’apporto dei voti in precedenza dati alla destra e all’estrema
destra. Ma un partito che nel 2013 si presenta per la prima volta nelle
politiche, e ottiene il consenso del 18% degli elettori (cioè degli aventi
diritto al voto e non dei votanti), ovviamente non può che pescare voti da
tutti gli altri partiti e da tutte le categorie sociali. Tuttavia, dall’analisi
dei flussi elettorali di nove comuni svolta dall’Istituto Cattaneo, a cui Wu
Ming allude ma che non specifica, risulta che, con le sole eccezioni di
Padova e Reggio Calabria,
è dal centrosinistra (compresi i partiti della ex Sinistra arcobaleno) che il
M5S ha attinto la maggior parte dei suoi voti: da un minimo della metà, a
Brescia, tra il 60% e il 65% negli altri centri. L’apporto di chi aveva votato
per il centrodestra e la destra è estremamente variabile a seconda delle città,
oscillando tra l’11% di Torino e il 58% di Reggio Calabria.
Per quanto i dati non siano confrontabili, può essere utile motivo
di riflessione considerare la composizione sociale del voto per Syriza, secondo
la tabella riportata da politologo greco Xristoforos Vernardakis. Ebbene, Syriza
ottenne le percentuali più alte non solo tra i lavoratori salariati pubblici e
privati (32%) e i disoccupati (32,7%), ma anche tra i managers privati (34%) e
pubblici (34,9%), gli artigiani e i negozianti (32,6%): ovviamente, anche i
voti per Syriza non potevano non
provenire dagli altri partiti; e questo mentre si asteneva il 37,5% del corpo elettorale11.
Sul piano politico la questione fondamentale non è però l’esatta
provenienza del voto relativamente alle elezioni passate (per chi vede sfumare
o ottenere la poltrona, al contrario, sarà tutta lì) e neanche il senso di
appartenenza ideologica alla destra piuttosto che alla sinistra.
In un movimento che interessa milioni di persone saranno sempre
presenti più livelli di coscienza politica, motivazioni diverse, differenze
nell’appartenenza ideologica. Quel che conta, però, non è la fotografia del
movimento in un istante dato ma la direzione (più o meno tendenziale) nella quale
queste persone collettivamente si muovono e ciò che collettivamente esse fanno
e sperimentano nel presente. Sono la dinamica complessiva del
movimento e l’esperienza pratica nel presente che possono trasformare le
coscienze, e pure l’appartenenza a una famiglia ideologica; è nella lotta
che mette fianco a fianco soggetti con storie diverse che si può creare il
senso di condividere un medesimo destino, d’essere fratelli e sorelle di fronte
allo stesso nemico politico e di classe, superando precedenti differenze e
divisioni. Tanto più duro
il conflitto e radicale il movimento, tanto più veloce, ampio e profondo potrà
essere l’impatto sulle coscienze individuali, spingendo verso la loro
convergenza.
Tenendo conto che le elezioni e il voto non sono l’esperienza della lotta, quanto
sopra vale metodologicamente anche per la decisione circa l’indicazione di voto
o di non-voto e per la valutazione dei risultati elettorali. Quel che importa è
la direzione che vogliamo dare al voto o al non-voto, e la direzione effettiva
verso cui muovono le decisioni dei cittadini: un aggregato di decisioni
individuali che può però esprimere correnti sociali profonde da far emergere,
potenzialità diffuse che possono essere concentrate, divenire azione.
Se, ipotizziamo, in futuro Rc riuscisse a ottenere il 20% del voto
espresso per la Lega nord in questa scadenza elettorale (circa 280 mila voti),
si direbbe che è diventata per quasi un quarto leghista? Si direbbe che Rc si è
spostata verso la xenofobia? Oppure si direbbe che ha ottenuto un grande
successo, capitalizzando parte del voto di protesta dei lavoratori e
spostandone l’orientamento da destra verso sinistra? Dovremmo considerare tale
spostamento di voti come un fatto progressivo oppure reazionario?
E quindi, ritornando al caso concreto del voto per il M5S,
costituisce qualcosa di progressivo o di regressivo il fatto che si spostino
voti, molti voti (circa 8,5 milioni!), verso un partito che attacca
l’oligarchia governante di centrosinistra e di centrodestra? È progressivo o
regressivo che questo avvenga in nome della democrazia diretta? È fatto progressivo o reazionario che
un’organizzazione politica che sostiene movimenti di lotta e obiettivi associati
al riformismo di sinistra (e non alla destra) ottenga il consenso del 18% dei
cittadini, superando l’ala destra della casta partitica e pareggiando con l’ala
«sinistra»? È bene o no che per la prima volta dopo almeno un paio di decenni
torni in Parlamento un’opposizione che a quanto ha dimostrato in questa fase di
avvio sarà probabilmente degna d’esser detta tale dopo vari decenni di
inesistenza di un’opposizione reale e radicale?
Conclusione
Il successo di Grillo e del M5S è inconcepibile fuori del regime
postdemocratico (che, ripeto, è fatto internazionale e non solo italiano). Esso
esprime la crisi di rappresentatività e di legittimazione di tutti i partiti
(inclusi quelli dei Forchettoni rossi) che hanno avuto responsabilità di
governo.
Oltre
trent’anni fa Nicos Poulantzas aveva già individuato la tendenza alla totale
integrazione dei partiti nello Stato e alla formazione di una sorta di partito
unico; negli anni ‘90 questa tesi è stata confermata dalle ricerche che hanno
portato al concetto di cartel party, detto così proprio per la tendenza a escludere, appunto formando
un cartello col
partito competitore, l’ingresso di nuovi attori nel sistema politico12.
Nella discussione si è però chiarito che i caratteri più rilevanti di questo
nuovo tipo di partito sono la convergenza programmatica tra «destra» e
«sinistra», l’assoluto prevalere delle funzioni di governo su quelle di
rappresentanza e la piena integrazione nello Stato, con la connessa dipendenza
economica dal finanziamento pubblico. Tutti elementi che rientrano nel quadro
delle trasformazioni involutive della statualità nei paesi a capitalismo
avanzato (qualcosa quindi che comprende ma va oltre le politiche cosiddette neoliberistiche o, come preferisco
dire, neomercantilistiche) e che permettono di definire il passaggio da un regime
liberaldemocratico a uno postdemocratico.
In diversi paesi il passaggio alla postdemocrazia è stato
accompagnato dall’emergere di competitori che sfidavano i partiti
tradizionalmente dominanti, collocandosi di fatto alla loro destra, però spesso
dichiarandosi «né di destra né di sinistra»: la Lega lombarda (poi Lega nord),
il Front national in Francia, il Partito della libertà (Fpö) di Jörg Haider in Austria, la
Lista di Pim Fortuyn in Olanda, per fare alcuni esempi importanti in Europa
occidentale. Il «né di destra né di sinistra» che, attenzione!, è motto che fu
già dei Verdi (che con la «sinistra» di governo hanno frequentemente e
diffusamente collaborato), è indicativo della convergenza delle politiche dei partiti
tradizionali, appunto sia di «destra» che di «sinistra», della loro
statalizzazione. L’appello al popolo e il particolare registro linguistico
frequente nella retorica di questi competitori, basso o anche volgare, si
comprende con l’intenzione di far leva sulla diffusa e crescente alienazione
dei cittadini dalla politica istituzionale, dalle sue pratiche come dal suo
stile. Questi partiti sono sovente indicati come populisti o neopopulisti: da
qui la volgare identificazione tra populismo e destra ricorrente nella polemica
politica (ma non nella letteratura scientifica).
Se si riesce a escludere il risentimento di parte e i pregiudizi
liberali e partitistici, e se si adotta un metodo diverso da quello della
costruzione di un tipo ideale, detto «populismo», assemblando elementi
disparati e poi dividendolo in sottocategorie nel tentativo di mantenere
l’unità di fenomeni qualitativamente diversi, la posizione del M5S risulterà
molto diversa da quella dei partiti citati sopra.
Ciò che il M5S esprime e si propone è una «rivoluzione
democratica»: in realtà si tratta di una rivolta contro la casta politica, che è bipartitica ma unitaria nel suo
essere integrata nello Stato capitalistico e convergente, nella prassi reale di governo, nell’esclusiva
garanzia di interessi contrari a quelli dei lavoratori, dei giovani, delle
donne, dei pensionati, insomma delle classi dominate. È questa casta che
s‘incarna nel sistema dei partiti ad essere il vero sovrano politico, la
«partitocrazia» del linguaggio quotidiano. È questa aspirazione da «rivoltoso» che spiega la durezza
sarcastica del linguaggio di Beppe Grillo, che gli costa l’etichetta di
populista: motivata dall’accusa, letteralmente antidemocratica, di voler
restituire la sovranità al popolo, facendola finita con la partitocrazia, non
con la democrazia parlamentare e i partiti in quanto tali. Come, tra l’altro,
dovrebbe essere secondo la lettera della Costituzione repubblicana: che è,
tuttavia, la Costituzione di uno Stato capitalistico che, per strutturale necessità,
nega la socializzazione del potere politico perché, altrettanto
necessariamente, nega la socializzazione del potere socioeconomico, garantendo
la riproduzione del potere di classe e del capitalismo.
A differenza della Lega dei primi tempi, l’attacco antipartitocratico
del M5S muove da una prospettiva democratica che sarà pure zeppa di illusioni e
contraddizioni (anche per quel che riguarda i rapporti interni al movimento
stesso), ma non si tratta d’illusioni peggiori di quelle del «bilancio partecipato»
e di altre formule presuntamente partecipazionistiche che hanno furoreggiato
nel cosiddetto popolo di sinistra» (salvo poi dimenticarsene all’apparizione di
una nuova moda. Chi ricorda ancora il bilancio partecipato di Porto Alegre? Non
certo i cittadini di Porto Alegre, che si sono liberati della giunta di allora
appena hanno potuto).
Al di là
della retorica, dei riti e dei simboli, delle chiacchiere dei dirigenti, della
buona fede dei militanti, né Rifondazione comunista né il Pdci (un partito –
non lo si dimentichi mai, nato per rendere possibile la formazione di un governo imperialistico
e guerrafondaio!) né i Verdi (non parliamo dell’Idv!) possono definirsi
anticapitalisti: sotto questo aspetto non si distinguono dal M5S. Per
convincersene basta fare un rapido confronto tra il programma di Rivoluzione
Civile e la Lettera agli italiani di Beppe Grillo; nel programma del M5S sono
inclusi l’abolizione della legge Biagi e il sussidio di disoccupazione
garantito (detto per chi ha diffuso voci infondate al riguardo). Rispetto a
Rivoluzione Civile il grosso buco programmatico del M5S è nella politica
internazionale (ma Grillo propone anche un referendum sull’euro, errore di cui
non ha affatto l’esclusiva, come ho esaminato in altri miei precedenti lavori).
Non si può però accusare Grillo di sciovinismo o militarismo; mi piace questo
esempio:
«La
guerra... Esportiamo la democrazia con una siringa. Come il botulino.
Accettiamo parole senza significato: “guerra preventiva”, “pacificatori”... Ma
stiamo scherzando? Ma quando dici che un mitragliere su un elicottero è un
costruttore di pace, io divento pazzo. Perché non ho più parole per definire
Emergency, Gino Strada, i Beati Costruttore di Pace, quelli veri. Io sono stufo
di essere preso per il culo»13.
Il testo di Grillo è del 2005. Chi l’anno dopo votò per le
«missioni di pace» e i «pacificatori» elitrasportati e mitraglia-muniti oggi
dovrebbe avere la decenza di tacere – a partire da Rifondazione e l’intera
sottocasta dei Forchettoni rossi. Anche perché, se non fosse più disponibile a
votare le «missioni di pace», non potrebbe neanche più considerare il
centrosinistra come propria sponda politica, illudendo il prossimo di poterlo
condizionare da sinistra.
Insomma, sia la sinistra sia il M5S hanno come orizzonte dell’azione
politica un capitalismo «dal volto umano». Senza affatto negare la possibilità
di conquistare riforme parziali che migliorino le condizioni di vita e di
lavoro, ritengo sia una prospettiva sbagliata ma, in questo momento, non
discuto di riforme o di rivoluzione in generale, bensì della natura del M5S e
del significato del suo successo elettorale.
E dunque, la differenza tra i partiti post-Pci e il M5S si
riduce al fatto che la «rivoluzione democratica» del secondo, a differenza
della «rivoluzione civile» propugnata dai forchettoni rossi, è veramente un
attacco frontale alla casta politica del regime postdemocratico italiano, condotta da chi ha le carte in regola
per farlo e che così è stato percepito da una parte importante dell’elettorato.
Allora, se si mettono da parte le stupidaggini sul M5S
«reazionario», «diversionista» o «criptofascista» si potranno definire meglio
le contraddizioni nelle quali inizia a dibattersi insieme a una prospettiva
politica che possa renderle feconde.
La contraddizione fondamentale del M5S è di voler fare una
rivoluzione democratica entrando nelle istituzioni di uno Stato che è ormai e
irreversibilmente postdemocratico. E questa è complementare (successiva e
forse, ma non necessariamente, conseguente) a quella per cui, con le sue
straordinarie doti di comunicatore, Beppe Grillo è riuscito, a ribaltare
temporaneamente a proprio favore il meccanismo spettacolare della società dello
spettacolo che era stato armato contro di lui. Come nella citazione sui
«costruttori di pace», la spettacolarità progressista del linguaggio di Grillo
consiste nella decostruzione, attraverso l’ironia, il sarcasmo e l’ossimoro,
del linguaggio della società dei consumi del capitalismo avanzato e della
postdemocrazia, questo sì del tipo della neolingua di 1984 di Orwell. Certamente, Grillo è un
giullare moderno, anzi criticamente postmodernista, non un «militante
rivoluzionario» o un intellettuale militante con esperienza politica e ampia
formazione teorica; e questo si vede anche dal livello medio del militante del
M5S e dalle stupidaggini (amplificate) e dalle ingenuità di alcuni esponenti.
Bene, e allora?
Non è insolito in un movimento politico giovane, per giunta dopo
decenni culturalmente devastanti (e quante grandi stupidaggini e ingenuità si
sentivano e si sentono dalla ex estrema sinistra!). La questione più importante
dovrebbe essere: in cosa abbiamo sbagliato, noi «rivoluzionari» (dei
forchettoni rossi si è già detto), per cui la più grande rivolta politica
almeno dal 1968 si è espressa solo nelle elezioni ed è stata catalizzata da un
movimento che si propone (soltanto?) una «rivoluzione democratica»?
L’altra contraddizione è relativa alla democrazia interna del M5S:
originata dal modo in cui il M5S si è formato intorno alla figura e al blog di
Grillo, essa può esplodere in conseguenza del successo elettorale. L’entrata
nelle istituzioni tende a creare professionisti della politica e a
istituzionalizzare in partito quel che pure vorrebbe essere un movimento. È a
questo punto che la leadership di Grillo può svilupparsi in modo ambivalente:
da una parte come argine alle pressioni «da destra», cioè all’accordo col Pd,
all’integrazione nel sistema dei partiti, alla strutturazione in partito, con
le sue gerarchie, formali e informali (che contano molto più dei momenti
assembleari); dall’altra, si palesa come illusoria l’idea che la Rete possa di
per sé assicurare la democrazia interna, piuttosto che essere solo un mezzo che
può, ma non necessariamente, facilitare processi democratici.
Che anche gruppi e individui della sinistra detta erroneamente
«rivoluzionaria», quella per capirsi che si richiama al marxismo e
all’anarchia, cada nella trappola della demonizzazione del M5S ritengo sia
indice della devastazione politico-culturale di questi decenni o della sclerosi
dogmatica. Se si vuole criticare Grillo e il M5S, allora bisogna partire dal
presupposto che, in regime postdemocratico, l’espansione della democrazia deve
volgersi contro l’istituzione che funge da centro formale del potere della casta
partitico-statale, il Parlamento, e che occorre rifiutare di partecipare al
rito di legittimazione di questa casta attraverso la partecipazione alle
elezioni politiche. Del resto è proprio su questo aspetto che il M5S entra in
contraddizione ed è l’errore di continuare a presentarsi alle elezioni che in
prospettiva può risultargli fatale.
L’alternativa può essere abbandonare il terreno delle istituzioni
statali per contrapporre ad esse un Antiparlamento dei movimenti sociali,
strumento di lotta e di sperimentazione di nuove forme di democrazia.
1) «I risultati elettorali confermano e accelerano il
disfacimento del sistema parlamentare italiano», http://utopiarossa.blogspot.com.ar/2013/02/i-risultati-elettorali-confermano-e.html
2) Siamo addirittura al livello di minacciare manifestazioni
contro il M5S, come pare si sia fatto a Genova per la «libertà dei parlamentari
5 stelle», leggo sul sito Globalist; che questo si faccia o meno, resta il dato di fatto
dell’atteggiamento mentale nei confronti del M5S: che in massima parte preme
da destra, cioè verso la collaborazione col Pd. Questa storia della possibile
manifestazione contro il M5S mi fa venire in mente quella realissima dei metalmeccanici bresciani guidati da Maurizio Zipponi sotto la sede del Prc nell’ottobre 1997: anche questa spingeva a destra,
avendo lo scopo di evitare la rottura di Rc con il governo Prodi. Zipponi fu poi
Segretario generale della Fiom milanese nel 2002, nel 2006 membro della
Segreteria nazionale di Rc e responsabile per l’area Lavoro, quindi
parlamentare e sostenitore di Prodi. Attualmente Zipponi è Responsabile
nazionale Dipartimento Lavoro e Welfare per... l’Italia dei valori, ovviamente
è stato candidato di Rivoluzione civile. Lo cito solo per fare un ironico
esempio della carriera dei professionisti della politica e del sindacalismo
della sinistra italiana, nonché della solidità dell’«anima di classe» dei suoi
dirigenti. Bisognerebbe ricordarseli tutti i forchettoni rossi del 2006-2008 e,
tanto per iniziare, mandarli a casa.
5) «Destra
e sinistra perdono il proprio popolo. M5S come la vecchia dc: interclassista», di
Ilvo Diamanti, La Repubblica, 11 marzo 2013; elaborazione su 4585 casi, http://www.demos.it/a00832.php
6) Referendum fallito per mancanza del quorum, seguito il giorno
dopo, 17 giugno 2003, da una Direzione nazionale nella quale Bertinotti
rilanciava «un confronto di peso con il centrosinistra» per «guadagnare un
accordo politico programmatico di profilo». Confronto con la stessa forza che
il referendum aveva boicottato! Il giorno dopo! Si veda «La sottocasta dei
forchettoni rossi», di Roberto Massari, in I Forchettoni rossi. La
sottocasta della «sinistra radicale», Massari editore, Bolsena 2007, pp. 69-77.
7) Rimando a Grecia I - «Formazione e crisi del regime
postdemocratico in Grecia» e Grecia II - «Analisi dei risultati delle elezioni
del 17 giugno 2012», di Michele Nobile, articoli per il blog di Utopia Rossa.
8) Intervista
a Wu Ming, a cura di Roberto Ciccarelli, «Grillo cresce sulle macerie dei
movimenti», il Manifesto,
1° marzo 2013; l’articolo per New Statesman («Grillo leads yet another right-wing
cult from Italy), interviste e documenti del collettivo si possono leggere sul
sito http://www.wumingfoundation.com/giap/, oltre che su numerosi altri siti e blog.
La mia dura valutazione di come Wu Ming «legge» Grillo e il M5S non coinvolge
gli altri aspetti del loro lavoro.
9) Si veda I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra
radicale», a cura di
Roberto Massari, op. cit.
11) La ricerca dell’Istituto Cattaneo
a cui mi riferisco è «I flussi elettorali in 9 città: Torino, Brescia, Padova,
Bologna, Firenze, Ancona, Napoli, Reggio Calabria, Catania»; una sua versione
aggiornata aggiunge alle precedenti città Milano e Roma, dove l’apporto dei
flussi dal centrosinistra è rispettivamente il 36,5% e il 26,9% del voto per il
M5S, quello dal centrodestra 37,9% e 36,5%. Il dato più interessante in questi
due casi importanti è però quello del flusso di voti proveniente
dall’astensione: il 20% per Milano e il 35% per Roma (la percentuale più alta
fra le 11 città considerate). Ricordo che la crescita dell’astensionismo nel
2008 interessò principalmente il centrosinistra e, in particolare, la «sinistra
arcobaleno». Si veda: http://www.cattaneo.org/images/comunicati_stampa/Analisi%20Istituto%20Cattaneo%20-%20Elezioni%20politiche%202013%20-%20Flussi%20elettorali%20in%2011%20citt%2015.03.13.pdf
12) Mi riferisco ai lavori di Richard Katz e Peter Mair, tra cui Party
organization 1960-1990. A data handbook, Sage, London 1992; di Mair: «La trasformazione del partito di
massa in Europa», in Come cambiano i partiti, a cura di Mauro Calise, il Mulino,
Bologna 1992; sempre di Mair, più accessibili dei saggi su riviste
specialistiche: «Partyless democracy?», New Left Review, n. II/2, marzo-aprile 2000 e «Ruling the
void», in New Left Review, n. II/42, novembre-dicembre 2006.
13) Tutto il grillo che conta. Dodici anni di
monologhi, polemiche, censure,
Feltrinelli, Milano 2006, p. 224.