

Per non
dimenticare. La critica italiana — la più servizievole, corrotta, imbecille del
mondo —... esperta in leccate televisive o da “tappeto rosso”... prona a tutti
i santi comandamenti della politica di riferimento che foraggia giornali, festival,
premi e anche le cimici maleodoranti che si annidano nei saperi accademici...
ha visto nel film di Tarantino quello che non c’era, il capolavoro. Il fascio
culturale/politico dei critici è variegato ma Tarantino li mette d’accordo
tutti. Così si accodano a dispensare stellette, acclamazioni, genialità
esplosive ad un film che a giusto vedere è più una sorta di videogioco che
un’opera cinematografica magnificata a tal punto da non credere che parliamo
della medesima cosa... ci si affranca a un film soltanto se — allo stesso tempo
— ci si affranca all’estetica/etica dell’autore... ogni film è un attentato
contro l’innocenza della merce o equivale alla lordura di un imbroglio attinto
dal regno delle apparenze.
Il
fare-cinema di Tarantino è un’apologia della mediocrità... sotto ogni aspetto
strutturale/filosofico ciò che corre nella cinevita del regista statunitense è
l’abuso del paradosso, non della provocazione, né del disgusto di aver compreso
che il pubblico gioca con le immagini nel senso che conviene e il demiurgo
sfrutta con abilità e astuzia questa inclinazione all’incuriosità (sintomo di
una malattia più grave, quella della visione genuflessa diffusa). Là dove
s’incomincia ad esclamare, là dove le parola s’infiamma, là dove l’immagine include
il frastuono del nulla... si direbbe che il genio abbandoni i propri angeli
tremendi (Rilke) e fuoriesca il moralista becero, al servizio di ogni causa, di
ogni libro-paga, banditore di virtù consacrate alla scelleratezza dei valori
dominanti. L’esercizio del potere, come il profeta della macchina/cinema non si
concilia molto con il rispetto per l’intelligenza e la bellezza dell’uomo.
L’attorialità
di Jamie Foxx (Django), Christoph Waltz (il dottor King), Leonardo Di Caprio
(Calvin Candie), Samuel L. Jackson (Stephen), Kerry Washington (Broomhilda),
Walton Goggins (Billy Crash)... è a dire poco bovina, specie Foxx, Di Caprio e
Jackson... forse solo Waltz (comunque sempre sovra le righe) riesce a
tratteggiare il personaggio con una qualche capacità comunicazionale. Del cameo
di Tarantino è meglio lasciar perdere. Sfonda la porta del ridicolo abituale
alla sfornata degli spaghetti-western all’italiana, Django (1966), di Sergio Corbucci, incluso. Il film di Corbucci,
interpretato da Franco Nero (che Tarantino filma in una breve sequenza del
tutto inutile alla peculiarità del film), è un pistolero taciturno, senza
cavallo, porta la sella sulla spalla e trascina una cassa da morto con dentro
una mitragliatrice... in 93 minuti fa quasi cinquanta morti. Insopportabile.
In
Django Unchained violenza e umorismo
(di bassa lega) si confondono... le pistolettate, i morti ammazzati, i negri
serventi, i cattivi e i buoni si affastellano in sequenze girate con l’occhio
rivolto al consenso e perfino DiCaprio è fuori ruolo, non è un cattivo
credibile, ma sopra ogni cosa Django/Foxx non riesce a convincere nemmeno i
ragazzini delle periferie metropolitane... tanto è imbambolato con le pistole nelle mani (e la dentiera al
vento)... uno sguardo di Alan Ladd, una camminata di Gary Cooper, una sparatoria
di Paul Newman bastano a cancellare via l’intera catenaria filmica di
Tarantino. Quando non si possiede tutta la meravigliosa disinvoltura dei
maestri, e cioè quando l’intelligenza della proprie frontiere creative è
sconosciuta, i piccoli epigoni si accontentano di rovistare nel cestino degli
scarti. Il film si chiude sulle note di Freedom
(Richie Havens) e niente poteva essere meno appropriato per questo film
dell’inno di Woodstock (1969)... roba da bassa macelleria.
Il
Far West non c’è nel film di Tarantino... manca il senso del paesaggio, la forza
dell’avventura, il coraggio della diversità come nutrimento di un pensare,
gioire, soffrire all’interno di una concezione tragica del reale. La lotta per
la libertà di un uomo o di un popolo è il luogo in cui si fa il pensiero.
Rifiuto di ogni autorità in materia di filosofia o rivoluzione dell’esistenza.
Solo l’uomo in libertà è il creatore dei propri valori. Nel West che conta,
l’individuo è la misura del vero, del buono e del bene e tutto unicamente in
funzione del proprio arbitrio... l’istante liberato è la sola dimensione del
reale che si trascolora in storia.Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com




