Per il “pensiero unico” dominante si deve guardare con favore all’esito del referendum costituzionale turco in quanto grazie a esso la Turchia si avvicina di più all’Europa. Le voci dissonanti non si sentono granché. Ora, è fuori dubbio che con questo evento la Turchia abbia storicamente voltato pagina, ma resta da vedere se in senso “europeo” oppure no. Sicuramente si volta pagiona rispetto alle scelte laiciste di Mustafà Kemal, le cui icone sono sempre meno rappresentative. La repubblica kemalista cessa del tutto di esistere nel pomeriggio del 12 settembre 2010.
La sua ideologia non operava tanto nel campo socio/economico, quanto in quello politico, innanzi tutto con il nazionalismo. Per quantro possa sembrare strano, essendo noi abituati a parlare sempre e solo di Turchi, nell’impero ottomano erano considerati tali i “burini” di campagna: il sentimento della nazione turca è nato ai primi del secolo scorso con la rivoluzione dei Giovani Turchi, e si è completato con l’avvento al potere di Kemal, la distruzione dell’ottomanismo e l’introduzione di una lingua turca diversa da quella ottomana, cioè con alfabeto latino ed eliminazione degli elementi arabi e persiani. E poi c’era il laicismo statale volto a una modernizzazione occidentalizzante. L’Islam era considerato espressione di arretratezza e la religione era rigidamente separata/subordinata rispetto allo Stato. In quest’ottica vanno visti i provvedimenti introduzione della domenica come giorno festivo al posto del venerdì islamico, e di proibizione del fez per gli uomini e del turban (fazzoletto che copre il capo) per le donne.
Il premio Nobel Orhan Pamuk ha parlato di referendum contro i golpe militari, per il ridimensionamento dei ruoli dell’esercito e della magistratura derivante dalla vittoria dei “sì”. E che i militari turchi abbiano malamente abbondato nei colpi di stato è fuori discussione. Si può solo notare che – investiti da Kemal del ruolo di ferrei custodi della laicità della Repubblica – al pari di Atatürk hanno continuato nel senso dell’europeizzazione della Turchia con metodi a dir poco autoritari (qualcuno ha detto “asiatici”). Pur tuttavia sembra proprio azzardato tacciare di golpismo la massa di elettori che ha votato “no”; come del resto non sarebbe giusto imprimere il marchio della mezzaluna su tutti quanti hanno votato “sì”.
La situazione politica turca è alquanto complessa, e qui diremo solo che la Turchia è un paese culturalmente e politicamente spaccato in due; in due componenti ciascuna delle quali guarda all’altra come se fosse il diavolo incarnato: i laici e gli islamici. L’esito del referendum riproduce geograficamente questa divaricazione: la parte occidentale della Turchia ha votato per il “no”, e in quella orientale ha vinto alla grande il “sì”. Il referendum rientra nella strategia politica del partito islamico “moderato” Giustizia e Sviluppo (Akp), che oggi ha in mano la Presidenta della repubblica (Abdullah Gül) e la guida del Governo (Tayyip Erdoğan; si legge “Erdooan”). Si badi bene: per lo più si è trattato di ineccepibili modifiche costituzionali (la Costituzione emendata era frutto dell’ultimo golpe militare del 1980), effettivamente nel senso di una maggiore liberalizzazione. Nulla da dire sulle nuove norme che sottraggono i civili alla giurisdizione dei tribunali militare, o che aprono la via al controllo della giustizia civile sulle decisioni del Tribunale Superiore Militare, oppure su quelle che portano i militari sotto la giurisdizione dei tribunali ordinari. Né sull’elimionazione del divieto di appartenenza a più di un sindacato, o sul riconoscimento del diritto a negoziare contratti collettivi, a scioperare e a ricorrere contro azioni disciplinari ingiustificate per gli impiegati statali.
Non è qui che si è giocata la vera partita, cioè in tema di ampliamento dei diritti e delle tutele dei cittadini. Essa si è giocata invece sul tema delle riforme della magistratura, e particolarmente del Tribunale Costituzionale, modificando i precedenti rapporti di forza fra il potere politico e quello giudiziario, che – e i successivi provvedimenti normativi per adeguare (o riscrivere) la Costituzione in base ai risultati referendari ci diranno in quali termini – ha buone probabilità di essere subordinato al primo. Infatti su questo ambito si sono concentrati i timori e l’opposizione dei partiti laici. Aumenta il numero dei componenti del Tribunale Costituzionale – da 11 a 17 – e si riduce il periodo di mandato; 3 giudici saranno nominati dal Parlamento e gli altri 14 dal Presidente della Repubblica. Il Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori (equivalente al nostro Consiglio Superiore della Magistratura) passa da 6 a 21 membri, dei quali 1/3 sarà nominato dal Parlamento.
Qui in effetti un’ombra islamica potenzialmente esiste. Finora il tribunale costituzionale era stato il rigido custode legale della laicità della Repubblica, mentre i militari hanno svolto lo stesso ruolo violando la legalità repubblicana. Non si dimentichi che nel 2008 il governo di Erdoğan fu a un pelo dall’essere messo fuori legge dal tribunale costituzionale per violazione della laicità dello Stato. Per il domani è lecito prevedere una massiccia immissione di giudici islamici - “moderati” quanto si vuole, ma islamici - a copertura delle immancabili riforme legislative che daranno maggiore spazio legale alle manifestazioni di islamicità nel corpo sociale turco. In Turchia è in atto una rinascita dell’orgoglio islamico che – ovviamente – i precedenti provvedimenti repressivi non hanno frenato, ma che invece il nuovo corso favorirà. Già si parla del prossimo varo di una legge che consenta l’uso di abbigliamenti islamici nei luoghi pubblici. La questione è discussa e discutibile ovunque, come dimostra il “caso francese”; ma le guerre si combattono anche con i simboli, e in Turchia non vi è certo pace fra laici e islamici (es.: la famosa cantante Sezen Aksu, avendo appoggiato il “sì”, rischia che il Municipio della laicissima Izmir revochi l’intestazione di una strada al suo nome).
Esiste una metaforica cartina di tornassole per stabilire se le intenzioni di Erdoğan sono veramente nel senso di una maggiore democratizzazione del paese: un’adeguata riduzione dell’attuale sbarramento al 10% che in buona sostanza impedisce un’adeguata rappresentatività politica alle opposizioni, e soprattutto ai partiti dei Curdi. Chi vivrà vedrà.
Comunque non ci si aspetti, nell’immediato, nessuna restaurazione della sharia: questo vorrebbe dire un’esplosione politica nel paese e un intervento dell’esercito, o una sua tragica spaccatura.
L’Unione Europea e taluni suoi governi statali favorevoli all’ingresso della Turchia nella Ue da tempo si sono schierati a favore del governo di Erdoğan, sbandierandone il carattere “moderato” e sostenendo che proprio il fatto di una Turchia islamica “moderata” nell’Unione sarebbe stato un colpo per l’estremismo islamico, dentro e fuori dalla Turchia. I partiti dell’opposizione laica sono stati quasi visti come nemici dell’Europa, perché virtualmente appoggiati dai militari. Non ne discutiamo l’esattezza; solo osserviamo trattarsi di una scommessa, più che di una valutazione in base ad elementi di fatto. L’esperienza storica, è vero, ci insegna che con il tempo, col mutare delle situazioni e – soprattutto – con l’esercizio del potere, gli uomini cambiano, e tante volte i radicalismi del passato servono solo a fini elettorali.
Questo è vero, ma è pure vero che i radicalismi infiammano e poi si deve tenere conto delle difficoltà nel domare gli incendi eccessivi. E altresì, talvolta, chi aveva confezionato discordi incendiari con l’esperienza si è reso conto di quanto sia più conveniente rinunciare ad agire in modo estremisticamente avventato, e optare più saggiamente per tattiche di maggiore respiro temporale, mangiando il metaforico carciofo foglia dopo foglia, invece che tutto insieme, col rischio di trovarselo bloccato in gola.
Sta di fatto che finora Erdoğan e Gül hanno usato con ponderazione e successo l’obiettivo europeo, e il discorso sui diritti umani, per neutralizzare quelli che per Mustafá Kemal dovevano essere i due baluardi della laicità della Turchia: esercito e magistratura. Erdoğan, inoltre – forse in Europa sono meno di 100 le persone che se lo ricordano, ma in Turchia sono di gran lunga di più – è anche colui che in passato (e non nei primi anni della sua infanzia) pubblicamente si riferì alla democrazia come mezzo e non come modo (letteralmente: amaç değil, araç) e proclamò “Dio sia lodato, io sono un difensore della sharia” (letteralmente: Elhamdülillah, şeriâtçiyim), e tutto felice recitò una poesia del teorico del nazionalismo turco, Ziya Gökalp, che paragonava le cupole delle moschee a elemetti e i minareti a lance. Al riguardo ha scritto lo studioso turco Taner Akçam (in esilio per un libro sul genocidio armeno!) che queste dichiarazioni per taluni sono come le foto pornografiche di una stella del cinema scattate prime di diventare tale, tuttavia notando che l’attuale moderazione di
«opinioni che potevano essere ritenute radicali, evidenzia un altro dei problemi fondamentali della Turchia, cioè che questi attori, proprio come Erdoğane il suo Akp, si trovano ad affrontare il problema del dubbio e della sfiducia della gente comune» (Nazionalismo turco e genocidio armeno, Guerini e Associati, Milano 2005, p. 45).
I laici turchi, comunque, sono convinti che sia in atto una deriva islamica sempre più accentuata, ma all’estero non trovano sponde di sorta. La vera partita (in buona parte decisiva) si giocherà con le prossime elezioni legislative (a luglio dell’anno prossimo) e – a parità di condizioni – non sembra proprio che saranno vinte dall’opposizione laica. Ma la storia è imprevedibile.
A essere molto meno imprevedibile è invece la svolta intervenuta in Turchia in questi ultimi decenni, se non ci si limita a valutare questo paese in base alle grandi città come Istanbul, Izmir (ex Smirne), Antalya, o altri centri turistici. Le società dell’Anatolia centrale e orientale sono altra cosa. E non a caso. In fondo Atatürk nell’occidentalizzare a forza il paese (qui e là in modo effettivo; qua e lì superficialmente; altrove per nulla) aveva rotto traumaticamente con quel passato ottomano e islamico del paese senza il quale non si può parlare di identità culturale turca (quella etnica riguarda ormai solo la minoranza turcomanna); questo in una fase storica in cui valori ed elementi occidentali potevano sembrare un valido sostitutivo, atteso che l’Occidente (pur avendo iniziato la sua decadenza) appariva ancora l’effettiva civiltà vincente. Oggi la sua vera valenza sta nella difesa dei diritti umani. Non pare che Erdoğan e compagni finora abbiano portato nocumento a questa sfera. E se riuscissero – è un’ipotesi – a estenderli davvero nel paese, creando un assetto in cui gli spazi per i laici non venissero intaccati – allora avrebbero assicurato al loro partito una permanenza nel potere di lunga durata. Ma potrebbe accadere il contrario.
Ancor meglio sarebbe per loro se la nuova politica estera turca avesse positivi e tangibili esiti. È sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere come il governo di Erdoğan abbia dato una significativa sterzata, da media potenza regionale, alla sua politica estera: neutra verso l’Occidente, ostile alle aggressioni statunitensi nell’area del vecchio impero ottomano e a Israele; interessata alle popolazioni musulmane dei Balcani; attiva verso le aree turcofone dell’ex Urss, che all’inizio del sec. XX erano oggetto dell’ideologia panturanica; così intelligente da migliorare i rapporti con l’Armenia; interessata alla Siria e all’Iran. Oggi la Turchia gioca in proprio. Un’iniezione di fiducia non da poco per una nazione con un vecchio e irrisolto complesso “del nemico esterno” (significativamente esiste un proverbio che dice “il solo amico del Turco è il Turco”) e un orgoglio immenso (il detto di Mustafà Kemal “felice colui che può dirsi Turco – ne mutlu Türküm diyene - è ancora valido e non lo discutono certo gli islamici “moderati” ).
Anche Gül ed Erdoğan hanno proclamato a caldo che con questo referendum il paese si avvicina all’Europa. A prescindere dall’esistere un’incognita sul persistenza dell’effettiva volontà attuale di entrare nell’Ue da parte del governo turco, c´è da dubitare sulla fondatezza di tale giudizio. Però tutto può accadere, come già si diceva. L’adesione della Turchia al “felice” mondo europeo costituisce ormai una moderna “questione d’Oriente”, che si trascina faticosamente da tempo (dal 1987), seppure non si possa fondatamente sostenere l’estraneità del mondo turco all’Europa: sol che si pensi ai secoli di presenza turca nei Balcani, all’influenza culturale turca in quell’ambito, all’essere turca la Tracia orientale, e via dicendo. I requisiti per l’adesione sono: essere europeo lo Stato richiedente; trattarsi di uno Stato di diritto che rispetta i principi di libertà, democrazia e i diritti dell’uomo; rispettare le condizioni economiche e politiche note come “criteri di Copenhagen”. E se si pensa che pure l’Albania e la Croazia hanno presentato richiesta di adesione, senza che sia fatto il can can causato dalla richiesta turca ... E pare che sia intenzionata a farlo anche il Kóssovo!
La Turchia di recente sin è mossa nel campo della democratizzazione e dei diritti umani, seppure ancora molto ci sia da fare: ma non siamo nel campo dell’impossibilità. Però politicamente è alle prese con due problemi ancora irrisolti e di un certo peso: la questione cipriota e la questione curda. Temi delicati, perché a Cipro la Turchia, se all’inizio aveva l’alibi della difesa della minoranza turca verso cui i greco-ciprioti non sono mai stati teneri, poi ha esagerato estendendo la zona di occupazione, trasferendovi coloni dall’Anatolia sì da modificare la composizione etnica dell’area e favorendo la proclamazione di uno Stato turco cipriota che solo la Turchia riconosce. La questione curda (che qui non possiamo trattare esaustivamente) è ancora più delicata a motivo della pericolosità di spinte indipendentiste in un contesto etnicamente non omogeneo quale è la Repubblica turca; ma è pur vero che con una certa intelligenza il passaggio dei Curdi a un’autonomia ben calibrata potrebbe stemperare di molto l’indipendentismo del Pkk.
Ma il vero problema per la Turchia è che in Europa sono in molti i contrari ad avere a tutti gli effetti più di 70 milioni di Turchi musulmani, che si prevede saranno 90 milioni nel 2030 (dimenticare che gli Albanesi sono in grande maggioranza tali e che in Macedonia – altra aspirante a entrare – esiste una minoranza islamica per il momento è cosa facile. Poi domani si vedrà).
Essendo oggi i nemici dell’ingresso turco nell’Ue Francia e Germania, si potrebbe agevolmente concludere che per Ankara non c’è nulla da fare. Insegnano i nostri vecchi che non si deve mai dire “mai”: infatti la Turchia può spuntarla per motivi economici (come al solito), e particolarmente di natura energetica – quand’anche resti aperta la domanda sull’effettiva convenienza per il popolo turco. E sempre che i tentennamenti europei non finiscano con l’irritare l’orgoglio turco e a fargli dire “chi se ne frega dell’Europa”; anche perché la Turchia non ne avrebbe un danno irreparabile.
La Turchia non ha consistenti risorse energetiche, e attualmente è un paese di transito degli idrocarburi per l’Europa con il gasdotto Itgi (Interconnettore Italia/Edison-Grecia.Turchia), in parte già operativo: il Nabucco è in fase di progettazione. Da qui la sua importanza per l’Europa, e anche la sua delicatezza, poiché la Turchia – che aspira a diventare un hub energetico, e non solo paese di transito, e quindi a commercializzare al suo interno parte degli idrocarburi che transitano all’interno delle sue frontiere – può giocare su più tavoli. Oggi uno si chiama Mosca e l’altro Teheran.
Tutta l’area che va dai confini dell’Asia Centrale al Mediterraneo è notoriamente di vitale importanza strategica per gli approvvigionamenti energetici europei (e italiani). Da qui l’importanza della presenza turca, ancora nel ruolo di osservatore, nell’Energy Community Treaty. Inoltre la Turchia è importante nella strategia di contenimento della strategia russa volta al monopolio dei trasporti energetici verso l’Europa. Ma la Turchia – se è rivale di Mosca nel Nabucco – è però suo partner nel progetto Blue Stream. Con Teheran Ankara ha stipulato un accordo sul trasporto del gas iraniano, scontentando gli Stati Uniti (avrebbero preferito che Ankara utilizzasse la rotta del Caspio). Lo spettro di un accordo russo/turco relativo allo sfruttamento delle immense risorse di Kazakhistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirgizistan potrebbe essere utile ad Ankara per vincere le resistenze.
Certo è che le prossime puntate saranno interessanti.