di Steven Soderbergh
I. CHE — L’ARGENTINO
Il dittico su Ernesto “Che” Guevara, Che — L’argentino ⁄ Che — La guerriglia, diretto da Steven Soderbergh, uno dei registi più sopravvalutati della macchina/cinema hol-lywoodiana… salutato dalla maggior parte della critica italiana (e straniera) come una sorta di “capolavoro”… è un’operazione di basso profilo commerciale. Soderberg, del resto, è un abile confezionatore di cinema e a partire da Sesso, bugie e videotape (Palma d’oro a Cannes) fino a Traffic (Oscar a Hollywood), passando per Erin Brockovich… fino alle banalità ordinarie di Ocean’s Twelve e Ocean’s Thirteen o The girlfriend e-xperience… l’eclettico regista di opere accattivanti e discontinue, mostra che la vici-nanza tra il cretinismo e il genio è piuttosto evidente… e Soderbergh non è certamente un genio.
In Che — L’argentino ⁄ Che — La guerriglia Soderbergh affresca la storia del “Che” (un rivoluzionario e un poeta dell’utopia tra i più importanti del Novecento) su parame-tri convenzionali... lo stile austero non è il suo pane e nemmeno l’etica di un guerriglie-ro in lotta contro le arroganze dell’impero delle multinazionali lo sorreggono… Che — L’argentino) ripercorre le gesta del giovane medico (argentino) nella rivoluzione cubana e l’incontro con Fidel Castro, già maestro e istrione di una politica dittatoriale, che cul-minerà nella battaglia di Santa Clara e al vittorioso ingresso all’Habana. Girato in HD, il film alterna spezzoni (in bianco e nero) del discorso del “Che” all’ONU del ’64 a rico-struzioni/azioni da western di pessima fattura (non ha l’autorevolezza epica di John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh o Nicholas Ray…).
Il Che — L’argentino restituisce una visione quasi astratta della figura e del pensiero politico di Ernesto “Che” Guevara. L’idea del film era venuta a Benicio del Toro (che interpreta il “Che” e appare anche come produttore), mentre giravano Traffic. “Della vita del “Che” non sapevo niente”, dice Soderbergh, e si vede. “Nella società che lui voleva”, rincara il regista, “sarei stato disoccupato”, è vero. I 40 milioni di dollari spesi per l’intero film non si vedono… l’ambientazione è debole, banalizzata, l’attorialità del-le figure comprimarie e la messa in scena sono affabulati nella più tradizionale epopea perbenista che ha fatto le fortune e le glorie di tanto cinema hollywoodiano… Fidel Ca-stro (Demiar Bichir) sembra un luminare che nella Sierra Maestra dispensa saggezze (mai avute) contro il neoliberismo in maniera macchiettistica… la rivoluzione (giusta) dei barbudos è disseminata in battaglie agiografiche e il teatrale subentra allo storico… la fotografia di Peter Andrews (pseudonimo del regista) è rarefatta e poco si accosta al sudore, alla paura, al coraggio, all’utopia in armi dei rivoluzionari del “Che”… nel film c’è il peggio di Indiana Jones di Steven Spielberg, intrecciato al peggio di Via col vento di Victor Fleming… entrambi i film sono pervasi dal medesimo catechismo benevolen-te… un assemblamento di sentimenti truccati, dispersi nell’ordine del discorso filmico che non implicano il tragico, bensì il destino di un tempo andato in frantumi. Il grande cinema esiste solo fintantoché dura la poesia, come la rivoluzione finché dura il canto della rivolta. Benicio Del Toro (Palma d’Oro a Cannes, 2008) è un “Che” formidabile… interpreta un eroe ma non lo trascolora in mito… mostra il carattere di un uomo in rivol-ta attraversato da una sorta di malinconia e ci dà la sensazione di raggiungere finalmen-te il Vero.
Il primo atto del dittico sul “Che” ci lascia attoniti… l’iconografia del guerrigliero sulla quale lavora Soderbergh non è molto distante da quella mercantile (astratta) dei sigari, magliette, tatuaggi… ciascuno ha il suo “Che” e il “Che” per tutti… il mondo comincia e finisce in un’immagine/simulacro ed è inconcepibile aderire a qualsiasi forma di ado-razione/religione fondata dai tenutari della società consumerista… sotto qualsiasi lettura si veda, Che — L’argentino è una catenaria di situazioni rivoluzionarie dove la rivolu-zione sembra un gioco telematico e il “Che” un fantoccio o un super eroe che si spinge oltre la soglia del lecito (permesso dai centri di potere)… la battaglia di Santa Clara poi è girata secondo i moduli sgangherati (e patetici, compresi quelli più artificiati di Sergio Leone) del western all’italiana... tutta un’accozzaglia di titoli che piacciono molto a un autore molto amato da critica e pubblico, Quentin Tarantino, una specie di venditore ambulante di film scopiazzati malamente e che alle tavole dei festival fa l’incensiere di filosofie e linguaggi cinematografici d’impressionante stupidità… è preferibile ascoltare lo “scemo del villaggio” che i palafrenieri (illuminati dalla luce divina) dell’Inconcepibile.
Soderbergh filma la lunga sezione della battaglia di Santa Clara con la tele/camera sol-lecitata dai cattivi e i buoni che si aprono la strada verso la gloria… treni deragliati, a-manti in apprensione, fedeli compagni di lotta che s’immolano alla patria, il “Che” feri-to ma ancora in grado di dare ordini ed elaborare strategie… sono “micro sequenze” collegate dalla scrittura filmica “minimale” del regista… le ripetizioni, gli allungamenti figurativi, le inadeguatezze scenografiche, l’anonimità degli attori (Benicio Del Toro è un monumento a sé in qualsiasi film che interpreta)… riportano una battaglia tra le più importanti della rivoluzione cubana a una sorta di scampagnata goliardica tra amici, ar-mi e donne che vanno alla conquista della felicità… merda! Chiunque non muore gio-vane o in una rivoluzione, presto o tardi se ne pentirà, diceva… solo le vite spezzate possono ritenersi compiute… solo gli eresiarchi sanno che dietro a ogni bandiera si na-sconde un boia...ecco perché gli stupidi e i tiranni sono ammazzati sempre troppo tardi.
Lo smarrimento che c’è nel film di Soderbergh è manifesto… lo guardo del regista resta sempre in superficie delle cose che tratta e, come sappiamo, quando le verità diventano irrespirabili si trova rifugio nell’eufemismo. Che — L’argentino è un corollario di sciocchezze figurative e chiacchere filistee che invitano alla rassegnazione e non all’arte di ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato (com’è stata la vita di Ernesto “Che” Guevara). Finché ci sarà un solo padrone, tiranno, generale o papa in piedi, il compito dell’uomo in rivolta non è finito. Tutto questo Soderbergh non lo sa, e nemme-no lo conosce né gli interessa… il suo film dunque è una divagazione edulcorata su un uomo che ha rappresentato (e rappresenta ancora) il disinganno di un’epoca... un uomo che ha detto la mia parola è no!… un uomo che ha preso le armi, ha combattuto la catti-vità dell’imperialismo, del colonialismo, delle menzogne su un “buon governo” e ci ha insegnato a ben vivere come a ben morire.
II. CHE — LA GUERRIGLIA
Che — La guerriglia è il secondo atto (mancato) dell’opus magnum (com’è stato scritto, con grande senso del ridicolo) di Steven Soderbergh. La rivoluzione cubana ha trionfato sulla dittatura di Fulgencio Batista e le ingerenze politiche degli Stati Uniti. Fidel Castro sale al potere nel 1959. Ernesto “Che” Guevara assume un ruolo importante nel governo castrista e nel 1965 lascia Cuba per attuare la rivoluzione proletaria altri paesi… l’otto ottobre del 1967 il guerrigliero argentino viene ferito, catturato da militari boliviani e agenti della CIA a La Huirera, nella provincia di Vallegrande (dipartimento di Santa Cruz). Il giorno dopo lo ammazzano secondo gli ordini di Washington... e il suo corpo martoriato esposto al pubblico a Vallegrande… gli vengono tagliate le mani… la foto-grafia del “Che” disteso su un pancaccio come un Cristo vilipeso, circondato dai suoi assassini, farà il giro del mondo e indignerà le giovani generazioni in lotta del ’68... i bastardi avevano ucciso solo un uomo... le sue idee di amore e libertà non saranno mai cancellate dalla memoria dei popoli… gli insorti di ogni-dove non dimenticheranno mai più le parole del “Che”: “Le battaglie non si perdono, si vincono sempre”… solo chi combatte (con tutti i mezzi necessari) contro la falsificazione e l’impostura merita di essere ascoltato.
Che — La guerriglia si trascina tra il racconto di un assedio e il crollo di una speranza di rivoluzione sociale… per più di due ore assistiamo a colpi d’asma del “Che”, cammi-nate nella foresta dei rivoluzionari, incontri con i contadini boliviani, il tradimento del Partito Comunista Boliviano (filosovietico, come gli apparati e la nomenclatura comu-nista cubana o italiana), militari stupidi che arrivano sempre in ritardo negli assalti ai ribelli, stanchi e impreparati di fronte a un’idea di insurrezione che doveva fare da deto-natore e incendiare i popoli e i padroni dell’intera America Latina. La morte del “Che” e la fine di un sogno di liberazione dei dannati della terra.
Nella foresta boliviana Soderbergh si accosta alla quotidianità rivoluzionaria del “Che” e dei suoi compagni… lo fa costruendo dei “ritrattini” abbastanza gradevoli e innocui dei giovani rivoluzionari… c’infila dentro anche i tradimenti, la paura della popolazione indigenza, l’asma continua del Comandante “Che” Guevara… la colorazione del film è quasi sbiadita, vorrebbe imitare le sgranature dei cinegiornali di guerra (come era riusci-to a fare col bianco e nero, Marcello Gatti, in La battaglia di Algeri di Gillo Pontecor-vo)… la trappola finale si risolve in una scaramuccia di poco valore emotivo… anche il “Che” prigioniero non sembra avvertire la paura, rabbia (che possiamo vedere nelle po-che fotografie scattate prima della sua esecuzione) e nemmeno la dignità del guerriglie-ro esce da questa stanza/prigione buia… parla con l’uomo che lo ucciderà… che gli chiede: “Credono in Dio i cubani? E tu, tu credi?”… il “Che” risponde, “Io credo nell’uomo”… poi incita il soldato a sparare… la storia o la leggenda vuole che le ultime parole del “Che” siano queste: “So che sei qui per uccidermi. Spara dunque, codardo, stai solo uccidendo un uomo”.
È meraviglioso che ogni giorno l’immagine politica del “Che” (non solo quella di Al-berto Korda) ci porti una ragione nuova per continuare a combattere la rassegnazione del divenire... alla violenza sistematica del potere occorre opporre una critica della vio-lenza (Benjamin, diceva) dove gli oppressi individuano il momento per disfarsi dell’infelicità che li attanaglia nei secoli… l’epifania della rivolta è dunque un’irruzione del tempo consacrato alla macchina/capitale, in qualche modo dà visibilità ai popoli im-poveriti e mostra come si può abitare il mondo alla fine del mondo. L’innocenza del di-venire auspicata da Nietzsche è tutta qui. Lo spirito sottile della rivolta e il libero uso di sé sogna l’insorgenza del ludico, del meraviglioso, dell’inedito e la fine dell’impostura... è l’eccesso che dà la misura di tutte le cose. È la rivolta che porta il cielo in terra. Per gli uomini dotati di libertà e per gli amanti della piccola saggezza o talento in amore dell’uomo per l’uomo come il Comandante Ernesto “Che” Guevara… il piacere della rivolta abolisce l’impossibile e annuncia la comunità che viene.
Soderbergh allunga la minestra riscaldata del “Che”… lo mostra invecchiato, malato, bello sempre… esegue una partitura benevola e cronachistica delle sue gesta ma non riesce mai a entrare nella pelle della storia… la macchina da presa si muove palpitante su nulla e perfino i morti sono filmati con quel tanto di “tocco” estetizzante che andreb-be bene per una pubblicità di automobili, una banca o gli stracci dell’Emporio Arma-ni… c’è anche la bella rivoluzionaria (Tanya) che tutto comprende e tutto approva della disastrosa avventura rivoluzionaria di “Che” Guevara… e il fantasma di Jules Régis Debray, alcune fonti dicono che è stato questo emissario di Castro ad avere tradito il “Che”… la sentita interpretazione del “Che” di Benicio del Toro è tutto quanto resta negli occhi dello spettatore, ma nemmeno la figurazione dell’uccisione del “Che” riesce a commuovere, tanto è circoscritta a inquadrature (insolitamente) liquide, anche per un funambolo della tele/camera come Soderbergh. Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi sulle spoglie di un rivoluzionario autentico.
La sceneggiatura del film (scritta da Peter Buchman e Benjamin A. van der Veen), tratta malamente dai Diari boliviani del “Che”… è un lavoretto di trascrizione abbastanza confuso e il dittico di Soderbergh si chiude nella retorica del pianto plateale… l’eroe è stato ammazzato con le sue illusioni e l’icona o il mito risorge dalle sue spoglie insan-guinate. Il metodo più efficace per conquistare spettatori fedeli e applausi festivalieri è affascinare la loro compiacenza, affogarli nella prolissità estetica (la tessitura filmica) e nella fine dello stupore del rivoluzionario che ha scelto la morte per ascendere al più alto dei cieli, quello della storia dell’infamia. Bisogna essere fuori dal mondo come un politico o come un idiota per credere che l’assassinio del “Che” non è stato un crimine contro l’umanità.
Hasta la victoria siempre!
Pino Bertelli
29 volte agosto 2010