Il novecento italiano di Vincenzo Rabito, analfabeta
siciliano
“...L’estate seguente,doppo che venne di Messina,Giovanni ci deceva
la testa che voleva partire per farese una cita,e poi ha cirato tutto Raqusa
per cercare uno zaino.E zaine Giovanni ni ha trovato 4;e di tutte 4 zaine,prese
lo più crante e lo cominciava a principe.Cosi,Giovanni era pazzo che per forza
si ne voleva antare a cirare l’Italia,la Spagna,laFrancia,tutta con l’auto
toppe,e io ci diceva:”Ciovanni reposete.Che vuoi antare a tastare la
fame?!Perchè tu non sai che quanto si va forianto ci vogliono assai solde!?”.E
Ciovanni,per forza,si ne doveva antare.Io,che bastonate non ni sapeva dare,e
Ciovanni faceva come ci piaceva a lui.Poi,io più assai ci poteva dare lire
50000,che li teneva sempre di riserba,ed erono poco,ma che cosa ci poteva fare?Quinte,magare
che non voleva,lui si n’antava lo stesso.E poi,l’altra butta che mi dava,che
era l’unica scupetata che mi dava,che mi diceva:”Io,se tu non mi mante alla cita,non
vado più all’università”:Così,la mia vita era sempre a mienzo queste farse,ma
faceva pazienza:Voldire che io fu nato per vedere tutte queste quaie…”.
Vincenzo Rabito
I. Delle memorie di un “inalfabeta” della terra Iblea
Terramatta; è un
documentario di Costanza Quatriglio, ricostruisce con abilità e sapienza
filmica la vita di Vincenzo Rabito... contadino, soldato, cantoniere siciliano
semianalfabeta, tratto dai suoi sette quaderni battuti a macchina, 1027 pagine
legate con uno spago... migliaia e migliaia di parole interrotte (quasi sempre)
da un punto e virgola, interlinea zero... è una sorta di lingua inventata,
difficile da decifrare, né italiano né dialetto, quasi una sinfonia musicale
propria dei cantastorie siciliani. Il suo diario resta una delle più belle e
profonde testimonianze di vita del Novecento.
Rabito
nasce a Chiaromonte Gulfi (provincia di Ragusa) nel 1899 e qui scompare nel
1989. Consegue la licenza elementare a trent’anni. Dal 1968 al 1975 si apparta
in una stanza della sua casa (senza che i familiari sapessero cosa faceva) e
ogni giorno scrive i ricordi e i sogni di una vita «maletratata e molto travagliata
e molto desprezata». Dopo la morte di Rabito, il figlio Giovanni trova il dattiloscritto
in un cassetto, nel 1999 lo invia all’Archivio Diaristico Nazionale curato da
Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano (Arezzo) e nel 2000 vince il “Premio
Pieve”, che viene conferito ad opere diaristiche, memorialistiche ed epistolari.
La motivazione non è delle più felici: «Vivace, irruenta (sic), non addomesticabile,
la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia.
L'opera è scritta in una lingua orale impastata di “sicilianismi”, con il punto
e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla
scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia
e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così
denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare. L'asprezza di questa
scrittura toglie la speranza di vedere stampato, per la delizia dei linguisti,
questo documento nella sua integralità. "Il capolavoro che non
leggerete". Così un giurato propone di intitolare la notizia sull'improbabile
pubblicazione di quest'opera» (www.archiviodiari.org). Di là dalle
inadeguatezze o sottolineature espresse malamente nella motivazione, va detto
che grazie al contributo per i Beni e le attività culturali e della società
Augustea, il diario di Rabito è pubblicate nel 2007 da Einaudi (a cura di
Evelina Santangelo e Luca Ricci) in una versione ridotta e la veridicità
espressiva che contiene diventa patrimonio dell’Italia intera.
La
lingua anomala, metaforica, surreale di Rabito racconta con notevole fervore le
vicende della sua magra esistenza... Ragusa, Regalbuto, Slovenia, Etiopia, Germania...
sono viatici rivelati nelle sue magiche parole e l’epica narrativa si fa
portatrice di vissuti, situazioni, sentimenti struccati che ci accostano al
punto di vista dello scrittore, come è raro incontrare nella letteratura
odierna, anche la più, incidentalmente, celebrata. Le parole sgrammaticate che
incide sulla carta ripercorrono la sua vita e definiscono un’identità
singolare, una sorta di cantore impulsivo che senza alcun filtro ideologico o
dottrinario si lascia andare alla ricostruzione del suo passaggio nel mondo.
Rabito
è franco, ironico, salace e, forse, senza saperlo, disegna l’emersione di un
Paese di voltagabbana, prima fascista, poi comunista, già omologato al dispositivo
televisivo che debutta nell’immaginario degli italiani negli anni cinquanta. I
suoi quaderni attraversano le guerre, le sconfitte, i tradimenti di un’Italia
in piena mutazione sociale e vede negli ultimi, negli esclusi, nei poveri i
soli che continuano a patire la miseria (non solo in Sicilia) per mano dei
soliti profittatori della politica. Non mostra di avere nessuna inclinazione
ideologica, frequenta fascisti, comunisti, baroni solo per poter lavorare,
sfamare la famiglia e mandare i figli a scuola. La laurea in ingegneria del
figlio maggiore segna la realizzazione più alta della propria disperata
esistenza.
La
singolarità comunicazionale di Rabito sembra seguire una partitura scritturale
immaginifica, senza mai cadere nell’illustrazione o nella rappresentazione
manierata... ciò che più affascina dei suoi racconti è il sale dell’autenticità
che si scontra con la bronzea indifferenza delle istituzioni verso gli
esclusi... c’è stupore e sdegno, c’è desiderio e richiesta di una quotidianità
meno feroce, più umana, nelle sue parole... e anche la coscienza di una
giustizia sempre disattesa o negata. Una ricerca di verità, di libertà, di
democrazia che risponda ai bisogni dell’anima e ai diritti dell’uomo. Sembra
dire — tra le righe — che la giustizia dovrebbe essere la sola misura del
dovuto ad ogni essere umano e la pietà verso la memoria, la cultura dei padri,
il rispetto per bene comune sul quale si fonda il presente e il futuro di una
civiltà, gli appare sconosciuta.
Va
detto. La sicilianità di Rabito che emerge in Terramatta; è trattata con grande dignità e le sue parole sparse su
immagini di repertorio e frammenti dei suoi scritti, esprimono un elogio
all’uomo e alla terra nella quale ha vissuto, sofferto e amato. La regista è
cortese non solo con la frasistica di Rabito, ma anche con gli ambienti, le
persone che lo ricordano con contenuta gioia, tanto da andare a toccare le
corde della commozione. Il docufilm insomma è un canto d’amore per un uomo e
una Sicilia che nobilitano la bellezza di una terra sovente massacrata o
derisa. Degno del nostro interesse è soltanto chi non ha alcun riguardo delle
menzogne elettorali, delle convenienze e dei privilegi che una minoranza di
saprofiti continua a perpetuare contro la parte migliore della società.
II. Terramatta;
Terramatta; è
storia del Novecento raccontata da un ultimo, Vincenzo Rabito. Le pagine
dattiloscritte (in blu) del suo straordinario diario di vita vera... sono
filmate dalla Quatriglio e intrecciate a paesaggi siciliani, testimonianze, cinegiornali
della prima e seconda guerra mondiale... la voce fuori campo narra le gesta e
la “disonesta vita” del Guerin Meschino
(scrive Rabito), di un povero tra i poveri... e la sua storia intrecciata a
quella dei migranti, degli affamati, degli offesi... diventa la storia di un
intero Paese. La regista è abile... sporca il bianco e nero dei filmati di rosso,
blu, verde, giallo e, ad esempio, le visioni del regime fascista in Sicilia
escludono il tono caricaturale per ricordare un tempo dove la tragedia sociale
si mostrava tutta nell’impalcatura olezzante della dittatura. Il consenso
collettivo incluso.
Terramatta; è un film
sulla memoria martoriata di un uomo e di una nazione. Lo sguardo è quello di un
accadere tutto narrato al maschile e non è la storia scritta — questa volta —
dai vincitori e dagli storici che la storia non ha ammazzato. Il pezzo in cui Rabito
parla della partecipazione allo stupro di una ragazza con un gruppo di soldati
alla fine della prima guerra mondiale è agghiacciante, lucido fino a suscitare
la collera nello spettatore più sensibile... tanto più che dopo sessant’anni
Rabito lo descrive “senza chiedere perdono né sentirsi in colpa, consegnandoci
pagine tanto scomode quanto scrupolose nella descrizione dell’orrendo atto di
vendetta” (Costanza Quatriglio) o banale/abituale violenza contro il genere
femminile.
Il
film si dipana in avvenimenti legati alla storiografia nazionale... sequenze documentali
della prima guerra mondiale sono interpolate a cartelli, frasi, tasselli metafilmici
che bene fanno comprendere il lessico “selvatico” di Rabito e la quotidianità
della “soldataglia” si configura come carne da macello. La guerra nell’Africa
coloniale è vista come una sorta di film propagandistico rovesciato e il
racconto di Rabito la testimonianza di un antieroe del fascismo che è soltanto
un uomo che ha paura di morire per qualcosa che non capisce e nemmeno lo
riguarda. Il passaggio dalla caduta del fascismo alla seconda guerra mondiale è
trattato come un cinegiornale inchiodato alle parole/immagini crude del
siciliano e in qualche modo riesce anche ad evidenziare l’avanzamento della
società omologata annunciata da Pier Paolo Pasolini nei suoi attacchi feroci
contro la televisione, il cinema, la letteratura, il giornalismo, la politica
dominante, la sinistra tradita... negli occhi degli spettatori passano (anche
per assenza) commedianti, saltimbanchi, alfieri dell’Italia preindustriale e
nelle loro falsità politiche già echeggiano i terrori del domani. La bellezza
muore quando tollera o nasconde verità che la escludono.
La
regista non teme di inserire nel corpo testuale film amatoriali in super8 della
famiglia Rabito che lascia sullo schermo una traccia di sé, dei propri desideri
e delle proprie piccole gioie... al di qua di ogni considerazione
estetica/etica di questo “realismo epico”, ciò che più sborda dalla narrazione
filmica sono le incursioni nella vita quotidiana dello scrittore e la
tracimazione del semplice sul superficiale, del bello sul brutto, del vero
sulla cattività della ragione imposta. La Quatriglio lavora sulla forza
evocativa del testo di Rabito... filma i luoghi, i segni, le tracce del suo
diario, li addossa alle sue parole impervie, anche infuocate, sempre
dolorose... elabora un film in soggettiva dunque, riveste i ricordi del siciliano
di verità intangibili e il ticchettio della sua macchina da scrivere rimbomba
nella coscienza di ciascuno, opera un risveglio che buca l’indifferenza
generale e insegna il valore del giusto, anche.
La
regia della Quatriglio si chiama fuori da ogni compiacenza stilistica, lascia
parlare le immagini che si legano al testo di Rabito e dà al suo docu-film
un’impronta di notevole impegno civile. La sceneggiatura (Quatriglio, Chiara Ottaviano)
è più complessa di quanto sembra a una prima visione... le articolazioni
costruttive sono asciutte, tese ad esplicitare il viatico del personaggio. La voce
del narratore (Roberto Nobile) riprende il ritmo scritturale di Rabito, lo depone
lungo i filmati e i contrappunti vocali (le sottolineature discorsive) accompagnano
lo spettatore in una dimensione intima, anche sentimentale del diarista. La
fotografia (Sabrina Varani) e la musica (Paolo Buonvino) avvolgono il film con
delicatezza e amorevolezza, cosa abbastanza insolita nelle vetrine del documentario
corrente. Al tempo della società
consumerista costruire un film con questa autorevolezza poetica significa
fare anche un buon uso dell’indignazione.
Terramatta; mette a
fuoco con precisione il cuore della tragedia di un uomo, dei siciliani (ma non
solo) tenuti nella soggezione, nella sottomissione, nel crimine del potere
feudale, religioso, mafioso, politico che in cambio del consenso raggiunto con
l’abuso e il sopruso, calpestano la dignità e i diritti dovuti agli uomini
liberi... sono i responsabili impuniti della distruzione della coscienza
personale e collettiva di un intero Paese. L’abbiamo già detto altrove: sugli
scranni del parlamento la partitocrazia si è sempre comportata come ratti su un
cumulo di spazzatura ed ucciso ogni forma di libertà reale. Ogni schiavitù ha i
propri teatri e ogni boccascena i suoi buffoni. Restano gli insorti del
desiderio di vivere tra liberi e uguali a lavorare per la caduta del Palazzo e
dare agli inquilini la sorte che meritano. Un tocco d’anarchia è indispensabile
per dare alla società che viene la bellezza che spezza la cultura dell’osceno,
e la forma visibile della bellezza è la giustizia.
Piombino, dal vicolo dei gatti in
amore, 18 volte giugno, 2013.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com