Premessa
Riprendiamo il discorso sulla santità istituzionale, ma stavolta centrando
l’interesse sul fenomeno della santificazione e dopo aver effettuato un
doveroso chiarimento sul modo di procedere di chi scrive. Vero è che i testi in
genere fanno trapelare l’orientamento dei loro autori; tuttavia è sempre meglio
evitare il possibile fraintendimento dei lettori, in buona o cattiva fede che
siano.
Innanzi tutto va messa in chiaro l’inesistenza di qualunque intento
offensivo verso il sentimento religioso, e ciò per un duplice ordine di motivi.
Cominciamo col primo, che è di carattere generale. Non si tratta solo di buona
creanza in quanto – alla fin fine – né i “credenti” né gli atei e/o agnostici
possono dimostrare more geometrico la
fondatezza inconfutabile delle loro rispettive posizioni filosofiche di base.
In più c’è da dire che muovere dall’esterno all’attacco di un sistema di
pensiero e di vita equivale a parlare col muro, sia per le reazioni che suscita
sia a motivo della diversità (di presupposti e ottica) fra i sistemi in gioco.
Il secondo motivo – di natura soggettiva – consiste nel fatto che l’autore di
queste pagine non è per nulla ateo, bensì è filosoficamente teista.
Tirando le somme, il nostro proposito (che è anche un’ambizione) consiste
nello sviluppare analisi critiche a partire dall’interno stesso di un dato
sistema religioso (quand’anche non sia il proprio), cioè alla luce dei suoi
elementi fondamentali; e non già dal di fuori. Altrimenti sarebbe come voler
individuare gli errori di grammatica e sintassi nella pratica di un dato
sistema linguistico alla luce della grammatica e della sintassi di una lingua
diversa.
A questo punto si impone una scelta di fondo riguardo al sistema religioso
da prendere in esame. Chi scrive è da tempo assolutamente convinto che non si
possa parlare del Cristianesimo come di una realtà unitaria: al di là delle
apparenze dovute a certi elementi formalmente
comuni: Cattolicesimo, Ortodossia di matrice bizantina, Nestorianesimo, Chiese
Copte e galassia del Protestantesimo, costituiscono mondi specifici, diversi
fra loro ben più di quanto ritengano i non-specialisti. E altresì considerato
che la stragrande maggioranza dei lettori italiani conosce sommariamente il
Cattolicesimo e quasi niente sa delle altre confessioni cristiane, allora la
conclusione diviene obbligata: il nostro discorso va centrato essenzialmente
sul Cattolicesimo, fatto salvo qualche riferimento ad altri contesti cristiani
ove necessario. Detto questo, soffermiamoci sul fenomeno della santificazione.
I gradi della santificazione
istituzionale nel Cattolicesimo
In termini sintetici, i Santi sono quei cristiani che dopo la morte vengono
ufficialmente venerati nella Chiesa e dalla Chiesa per i loro particolari
meriti spirituali. Nel Cattolicesimo essi si dividono in due categorie, alla
stregua del diritto canonico: i canonizzati e i beatificati. In buona sostanza,
i primi – dopo la proclamazione ufficiale circa la certezza che essi si trovano
in Paradiso – sono venerati e venerabili dalla Chiesa universale, mentre i
beati sono da venerare in una Chiesa locale; ma poco male se qualcuno li venera
anche fuori.
Nel mondo protestante sono assenti sia le canonizzazioni sia le
beatificazioni, con l’eccezione della Chiesa anglicana, che però finora (se non
andiamo errati) ha canonizzato solo Carlo I di Inghilterra (il significato
estremamente - e bassamente - politico della cosa è evidente, al pari della
canonizzazione dello zar Nicola II e della sua famiglia fatta dalla Chiesa
ortodossa russa).
La Chiesa cattolica presenta invece una folta schiera di Santi (erano
almeno 544 fino al 1990), poderosamente incrementata durante il pontificato di
Giovanni Paolo II, che ne ha fatti ben 482 (Pio IX aveva elevato agli altari 52
persone, Leone XIII 18; Pio X 5; Benedetto XV 2; Pio XI 33; Pio XII 33;
Giovanni XXIII 11; Paolo VI 83).
Beatificazione e canonizzazione avvengono a seguito di uno specifico
processo canonico, di cui ai nostri fini non è particolarmente interessante
ripercorrere le tappe. Interessa invece un particolare aspetto che va a
collidere con il resto delle confessioni cristiane (tutte), per le quali il
Vescovo di Roma non è il capo della Chiesa. A collidere non è il fatto che la
dichiarazione di beatificazione e/o canonizzazione sia atto papale. Fin qui
poco male, poiché in definitiva ogni Chiesa si organizza come meglio ritiene.
L’aspetto delicato e conflittuale consiste nel fatto che la dottrina cattolica
fa rientrare tale dichiarazione nella sfera di esercizio di quella innovazione
moderna che è il dogma dell’infallibilità del Papa. Questo dogma fu proclamato
da Pio IX a ridosso della conquista di Roma da parte dell’esercito italiano
(una delle conseguenze fu la scissione dalla Chiesa di Roma di una piccola ala
che ha costituito la Chiesa dei “Vecchi Cattolici”).
Quindi, ogniqualvolta viene proclamato un Santo (locale o universale che
sia) il Papa è nell’esercizio dell’infallibilità e si riafferma dentro e fuori
dalla sua Chiesa come Vicario di Cristo e fondamento di verità sotto l’asserita
guida datagli dallo Spirito Santo. Proprio tutto ciò che gli altri cristiani
non riconoscono.
Prima del citato nuovo dogma non mancarono nella Chiesa di Roma le
opposizioni di dotti teologi a voler considerare infallibile la proclamazione
papale di un Santo. Valgano per tutti i teologi Agostino d'Ancona (1243-1328) e
Cajetan [Thomas o Gaetanus (di Gaeta), al secolo Tommaso De Vio] (1469-1534) i
quali affermavano che la Chiesa, non potendo penetrare nelle coscienze umane, neppure
poteva infallibilmente valutare la santità di una persona. Per completezza va
detto che dopo il Vaticano II tesi similari sono state riprese, per esempio da
padre Daniel Ols, professore nella Pontificia Università dell'Angelicum e altresì
relatore della Congregazione per la causa dei Santi.
La santificazione: un abbozzo
di analisi
A questo punto può essere utile affrontare il problema della santificazione
in sé, a motivo di ciò che essa rivela.
Non vi sarebbero soverchi problemi se la santificazione ecclesiale:
-
si
risolvesse nell’additare determinate figure di cristiani al resto del fedeli
come esempi di vita, per la loro fede e per il loro modo di essere;
-
e
altresì (visto che parliamo di dimensione religiosa) se si invitassero i fedeli
a indirizzare anche ai Santi le loro preghiere per ottenerne dall’al di là
aiuto spirituale per una vita più degnamente cristiana.
Sul secondo punto resterebbe aperta l’obiezione circa l’utilità di queste
preghiere esistendo la possibilità di rivolgersi direttamente a Dio. Ma l’obiezione
potrebbe essere parata in parte considerando che l’umanità dei Santi li rende
ontologicamente e sentimentalmente più vicini rispetto all’incommensurabilità
divina. Tuttavia nella santificazione non c’è solo questo; ed è proprio tale
“altro” a creare problemi alla stregua del contenuto medesimo dei Vangeli
canonici.
Innanzi tutto c’è il fatto che la Chiesa non solo tollera, ma altresì
incentiva, l’immagine dei Santi per la valenza miracolistica. Le conseguenze
sono almeno duplici. La prima consiste nel mettere prepotentemente in ombra
l’identità “Santo=modello per il Cristiano”, la quale viene oscurata dalla
funzione di tipo “simil-magico” consistente nell’erogazione di grazie riferite
a bisogni materiali dei postulanti, e non più spirituali. Il tutto calato in un
circuito di superstizione estraneo a qualsiasi dimensione sacrale e spirituale.
La cosa porta a esiti non privi di ridicolo. Due soli casi: uno è:
l’attribuzione di un preteso miracolo a un determinato Santo invece che a un
altro. Al riguardo – e senza entrare nel merito dei criteri di attribuzione
usati - viene spontaneo chiedersi che fine abbiano fatto le legioni di Santi
che (poveretti) da secoli e secoli non fanno più miracoli: ciò quantomeno sulla
base delle attribuzioni effettuate dai “fedeli” che asseriscono di averne
ricevuti.
L’altro caso riguarda il problema dell’assegnazione papale di un settore
specifico della vita umana e/o sociale a un dato Santo, senza conferma di
accettazione da parte dell’incaricato: cioè a dire, siamo sicuri che S. Barbara
protegga gli artiglieri e S. Francesco d’Assisi l’Italia? Il margine per le
battutine non mancherebbe, ma al prezzo di un totale scadimento di stile.
Cercando una risalita qualitativa, si deve sottolineare un aspetto
importante: ridurre la santità a forza erogatrice di miracoli (o consentendo
che ciò accada) significa collocarsi appieno nella linea di pensiero
anticristiano stigmatizzato da Dostoevskij nella “Leggenda del Grande
Inquisitore”. Quando l’Inquisitore ne I
fratelli Karamazov dice che l’uomo non cerca tanto Dio quanto i miracoli,
applica a un aspetto specifico la sua generale sfiducia nell’essere umano e la
sua avversione verso la libertà spirituale. Venerare un Santo senza miracoli è
un libero atto di fede; il Santo miracolista, invece, si impone in virtù del
potere esercitato (o presunto tale). Mentre per la vera fede non c’è bisogno di
miracoli.
Vi è poi un’altra conseguenza da esaminare: essa riguarda il proficuo giro
speculativo (in termini economici) innescato dal ruolo di erogatore di
interventi soprannaturali diventato – come dicevamo dianzi - del tutto
prevalente e onnivoro. Una visitina a Fatima o a Pompei sarebbe sufficiente a
verificare quanto poco ci sia di spirituale nelle “sacre botteghe”. Niente di
nuovo, per carità. Già Girolamo Savonarola doveva constatare che ormai da vari
secoli la Chiesa (e questo non riguarda solo il Cattolicesimo) era passata dai
vescovi d’oro con calici di legno, ai vescovi di legno con calici d’oro.
Strettamente intrecciato a quanto detto è l’uso strumentalmente politico
delle santificazioni, di modo che la scelta del Santo di turno diventa la
gratificazione simbolica (ma propagandisticamente utile) per determinate
fazioni a scapito di altre di volta in volta sgradite al supremo vertice ecclesiale.
Si pensi all’infornata in massa, fra la schiera dei beati, dei preti cattolici
uccisi e/o giustiziati dai repubblicani durante la Guerra civile spagnola.
Ma il discorso sulla santificazione non può finire qui, cioè sugli aspetti
più degenerativi (o comunque criticabili) dell’uso ecclesiastico della santità.
A nostro avviso il fenomeno di cui parliamo esprime un più ampio processo,
senz’altro definibile come “tradimento” della Buona Novella. Si consideri che
nella storia del mondo cristiano è individuabile, già nei primi secoli, una
mutazione schematicamente inquadrabile fra il III e il IV secolo, più o meno in
corrispondenza con le controversie cristologiche (da cui è derivata la
formalizzazione della dogmatica cristica e trinitaria). La mutazione è
consistita nella prevalenza conquistata dal “credere” rispetto all’”essere”;
nell’importanza data all’adesione a una data ortodossia dogmatica, in concreto
risolventesi nel far passare in secondo piano lo sforzo di realizzazione come
“figli di Dio”.
Se invece fosse prevalso un orientamento di segno diverso, forse oggi il
mondo cristiano apparirebbe (sottolineo “forse”) come un campo in cui “cento
fiori” coesistono pacificamente, con la realizzazione interiore come fine più
importante. Così come accade nell’area buddista.
Per concludere, accenniamo a un ultimo aspetto della santificazione
ecclesiastica, riguardo al suo essere da lungo tempo espressione di un
trionfalismo ormai antistorico: infatti, tenuto conto delle attuali condizioni
spirituali del Cristianesimo, non c’è davvero molto da stare allegri o da
atteggiarsi a trionfatori.
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