3. La diplomazia competitiva nell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato)
Il candidato Trump suscitò un gran vespaio quando dichiarò:
«Penso che la Nato sia obsoleta. La Nato è stata fatta in un momento in cui c’era l’Unione Sovietica, che era ovviamente più grande, molto più grande della Russia odierna. Non sto dicendo che la Russia non sia una minaccia. Ma abbiamo altre minacce. Abbiamo la minaccia del terrorismo e la Nato non discute il terrorismo, la Nato non è destinata al terrorismo. La Nato non ha i Paesi giusti per combattere il terrorismo»10.
Nella National Security Strategy del presidente Trump si legge:
«Gli alleati e i partner sono una grande forza degli Stati Uniti. Ampliano direttamente le capacità politiche, economiche, militari, di intelligence e altre ancora degli Stati Uniti. Insieme, gli Stati Uniti, i nostri alleati e i nostri partner rappresentano oltre la metà del Pil globale. Nessuno dei nostri avversari ha coalizioni comparabili. Incoraggiamo coloro che vogliono unirsi alla nostra comunità di Stati democratici e migliorare le condizioni dei loro popoli»11.
Questa dichiarazione esprime l’ovvia ragione per cui le alleanze sono indispensabili alla maggiore potenza mondiale e dimostra l’assurdità di attribuire alla politica estera statunitense un carattere isolazionista. La NSS 2017, le dichiarazioni del presidente, del vicepresidente e del segretario della Difesa distruggono pure l’altrettanto assurdo timore - o la folle speranza - che gli Stati Uniti possano fare a meno della Nato: ribadiscono la fedeltà degli Usa all’Alleanza atlantica e all’articolo V del Trattato di Washington, secondo il quale l’aggressione a uno dei firmatari sarà considerata un attacco contro tutti gli altri e gli Stati Uniti si impegneranno a rispondere con tutti i mezzi necessari a contrastarlo; la NSS ricorda che il deterrente nucleare statunitense protegge oltre trenta fra alleati e partner. Dall’Europa all’Oceano Pacifico, le alleanze sono indispensabili per mantenere l’equilibrio del potere internazionale e promuovere la prosperità; ed è per questo motivo che nella NSS 2017 si dice che la Russia punta a dividere gli Stati Uniti dai suoi alleati, mentre l’Amministrazione intende invece lavorare con alleati e partner nei campi della sicurezza e dell’economia e rafforzare i vincoli reciproci12.
Le affermazioni del candidato Trump preoccuparono gli alleati e rallegrarono i «sinistri» con paraocchi putiniani e da nazionalista granderusso. A ben vedere, benché esprimendosi sopra le righe - alla fin fine era in campagna elettorale - il candidato Trump si riferiva alla particolare minaccia del terrorismo - e la Russia rimaneva tra le minacce - e al contributo finanziario degli alleati alla difesa comune. In ogni caso, Trump ha fatto esplicitamente autocritica nella conferenza stampa del 12 aprile 2017 con il segretario della Nato, Jens Stoltenberg: «ho detto che [la Nato] era obsoleta; non lo è più»13. Ha però continuato a insistere su quella che per lui è sempre stata la questione centrale: i soldi.
Nelle precedenti amministrazioni, la questione dei costi per le missioni militari non era affatto ignorata. Ad esempio, nella sezione della NSS clintoniana del luglio 1994 che descrive i criteri per decidere i modi e i livelli di partecipazione degli Stati Uniti a specifiche operazioni militari, in quarto luogo si specifica che «il nostro impegno deve soddisfare ragionevoli soglie di costo e di fattibilità. Saremo più inclini ad agire dove c’è ragione di credere che la nostra azione porterà un miglioramento duraturo. D’altra parte, il nostro coinvolgimento sarà più circoscritto quando altri attori regionali o multilaterali saranno in posizione migliore della nostra per agire»14. Nella NSS 2002, la stessa che consacrò la «guerra al terrore» dell’unilateralista Bush Jr., un intero capitolo è dedicato a «sviluppare agende per l’azione cooperativa con gli altri principali centri del potere globale», ovvero l’Unione europea - di cui si saluta lo sforzo di forgiare una propria politica estera e militare - il Giappone, la Russia, la Cina e l’India, «una delle due maggiori democrazie del mondo». Dal punto di vista strettamente economico, della Nato si diceva che avrebbe dovuto sviluppare nuove capacità e strutture - come una forza d’intervento rapida - e che occorreva far leva sulle «opportunità tecnologiche e le economie di scala nella nostra spesa per la difesa allo scopo di trasformare le forze militari della Nato in modo che possano dominare potenziali aggressori e diminuire le nostre vulnerabilità15. E quanto alla strategia di Obama, la NSS 2010 prevedeva la revisione e razionalizzazione dei programmi del Dipartimento della Difesa e la riduzione della spesa militare degli Usa, ma non richiedeva aumenti della spesa agli alleati europei - «la pietra angolare dell’impegno degli Stati Uniti con il mondo» - con i quali si doveva però potenziare la cooperazione economica complessiva. Il problema di Obama era che, «quando usiamo troppo la nostra forza militare, o non investiamo in o non impieghiamo strumenti complementari o agiamo senza i partner, allora le nostre Forze armate sono sovraccaricate (overstretched), gli americani sopportano un carico maggiore, e la nostra leadership in tutto il mondo è identificata in modo troppo ristretto con la forza militare»16. Di qui l’enfasi sulla divisione del lavoro fra le istituzioni locali, nazionali e globali, le diverse agenzie internazionali, i programmi «per rafforzare le capacità regionali per il mantenimento della pace e la gestione dei conflitti per migliorare l’impatto e condividere gli oneri»17, lo spostarsi del dialogo intorno al coordinamento delle politiche economiche, dal G8 al G20.
Quel che Trump pare abbia trasformato in un comandamento è l’impegno preso nel 2006 - e ribadito nel 2014 dai membri della Nato - di portare la spesa per la difesa al 2% del Pil in un decennio, cioè entro il 2024, destinando il 20% dell’aumento alle risorse militari18. Oltre agli Usa, stando alle stime ufficiali, dei 29 Stati della Nato (compreso il Montenegro, appena entrato) nel 2017 destinavano almeno il 2% del Pil alla difesa (ai prezzi del 2010) Grecia, Estonia, Regno Unito, Romania e Polonia; Francia, Lettonia e Lituania erano intorno allo 1,7-1,8%19.
Dal punto di vista statunitense il punto è che, mentre non a caso la spesa dei Paesi baltici e dell’Europa centro-orientale è abbastanza elevata, quella media dell’Europa è all’1,5% a confronto del 3,6% degli Stati Uniti, e che, fatto particolarmente irritante, quella della Germania è all’1,2%. Ed è alla Germania che Trump si riferiva quando parlava - da candidato - di una nazione «estremamente ricca» ma che non spende abbastanza per la difesa, a cui era disposto a dire: «congratulazioni, ti difenderai da te»20.
Altra questione è quella del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Virtù originaria e difetto contemporaneo del Consiglio di sicurezza è che la sua composizione esprime la struttura del potere mondiale qual era nel secondo dopoguerra e, più precisamente, la divisione fra il mondo dominato dalle potenze capitaliste e quello degli pseudosocialismi totalitari: anche la tardiva sostituzione di Taiwan con la Cina popolare, nel 1971, ne è una conferma.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è un organismo oligarchico la cui principale funzione politica reale non è assicurare il rispetto del diritto internazionale - men che mai del diritto alla ribellione all’oppressione nazionale e sociale, che può essere esercitato solo dai diretti interessati - ma promuovere un certo grado di cooperazione fra le grandi potenze. Poiché nelle sue decisioni e non-decisioni il Consiglio di sicurezza registra lo stato dei rapporti fra le grandi potenze che ne sono membri permanenti con diritto di veto, durante la Guerra Fredda questo fu di fatto inoperante e viceversa si è in certa misura rivitalizzato dopo il crollo del blocco sovietico, approvando - all’unanimità - una serie di interventi militari, dall’invasione dell’Iraq nel 1991 a quella dell’Afghanistan dieci anni dopo. Cruciale è lo stato dei rapporti fra Stati Uniti e Russia - oltre e più che con la Cina – che a cavaliere di XX e XXI secolo hanno avuto fasi diverse e contrastanti: si raffreddarono dopo la guerra in Kosovo, migliorarono nel 2001-2003, peggiorarono - ma non troppo - con le «rivoluzioni colorate» e la guerra tra Russia e Georgia (2005), si riscaldarono con il reset dei rapporti da parte di Obama (2009). Solamente dal 2014 questi rapporti si sono avvicinati a una condizione di quasi Guerra Fredda.
Stante una capacità di proiezione della potenza militare di gran lunga inferiore a quella statunitense, quel che preme a Cina e Russia - come gli Usa prontissime ad agire unilateralmente e in spregio del diritto internazionale e dell’autodeterminazione nazionale ogni volta che ne abbiano necessità e possibilità - è la mediazione che può essere conseguita nel Consiglio di sicurezza. Quindi, è a seconda dei propri interessi nazionali che le grandi potenze accettano o meno il ruolo del Consiglio di sicurezza quale istituto oligarchico interprete autentico del diritto internazionale.
Ora il Consiglio di sicurezza non è più adeguato, e non solo perché esclude Germania, Giappone e altri grandi Stati come India e Brasile, che possono aspirare a entrare nell’oligarchia del potere mondiale. Una ragione più profonda dell’inadeguatezza di questo istituto è che, venendo meno la contrapposizione fra i due sistemi ed essendo oggi Cina e Russia potenze capitaliste, la scena geopolitica si è enormemente fluidificata. Non esiste più il blocco sovietico e non è possibile che gli Stati Uniti - e gli alleati - possano accettare la ricostituzione di una zona d’influenza russa nell’area ex sovietica o del Patto di Varsavia; e con la guerra afghana gli Stati Uniti hanno sviluppato un interesse stabile e precarie connessioni anche in Asia centrale, per quanto lì la vera competizione a lungo termine sia fra l’influenza russa - che in gran parte dipende dal passato sovietico e dal controllo di giacimenti di risorse energetiche - e quella ascendente della Cina, economicamente imbattibile sotto tutti gli altri aspetti21.
Per quella che è la dimensione globale dei suoi interessi economici e geopolitici, gli Stati Uniti non possono farsi legare le mani dalle mediazioni del Consiglio di sicurezza. Altra questione è la posizione dell’amministrazione Trump nei confronti della più importante alleanza politico-militare degli Usa: la Nato.
4. Motivi e contraddizioni di una politica estera pseudopopulista
Da quanto sopra è evidente che la riduzione o anche la cancellazione della spesa degli Stati Uniti per le agenzie delle Nazioni Unite sia in sostanza irrilevante dal punto di vista della riduzione del proprio debito pubblico e del rilancio dell’economia interna. La motivazione dei tagli non può che essere politica e ideologica.
Per quel che riguarda la pianificazione famigliare, la contraccezione e l’aborto, si tratta di accontentare la destra integralista interna. In termini più generali, la diplomazia competitiva dell’amministrazione Trump è un modo per ricattare l’Onu a causa del dissenso prevalente nell’organizzazione su alcune posizioni del governo statunitense: il caso più recente è quello del riconoscimento da parte di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. Fin qui l’Amministrazione continua con enfasi maggiore una linea nota: l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, era già ben noto per le controversie suscitate in qualità di ambasciatore presso le Nazioni Unite, dentro l’organizzazione e negli stessi Stati Uniti.
La dimensione dell’attacco dell’Amministrazione corrente alle Nazioni Unite si comprende come parte coerente di un quadro più ampio e più specifico: rimanda a e nello stesso tempo alimenta l’idea - forte a destra, ma in termini diversi presente anche a sinistra - degli Stati Uniti come un gigante avvolto dai lacci di infidi lillipuziani e della globalizzazione come complotto dell’élite politica e culturale transnazionale e multiculturalista sulla pelle dei forgotten men and women of our country.
È per questo che la «critica» di Trump alla globalizzazione ha entusiasmato nazionalisti, «sovranisti» e nazional-monetaristi di destra e di sinistra. Tuttavia, i primi non hanno capito nulla delle implicazioni della politica economica di Trump per le loro piccole patrie oppure fingono di ignorarle, perché preferiscono farsi forti del successo di un nazionalista xenofobo, tutto «legge e ordine» e sfacciatamente reazionario come Putin. I secondi hanno dimostrato di aver cestinato non soltanto le categorie dell’analisi marxista, ma più semplicemente qualcosa che potrebbe dirsi «buon senso di classe», dimostrando in questo una coscienza politica di gran lunga inferiore a quella della destra.
Il presidente contesta l’impegno internazionalistico di denaro e cittadini degli Stati Uniti per proteggere altri paesi e popoli perché - così ritiene - il suo Paese non è adeguatamente ricompensato. Anche in questo caso sembra che Trump attacchi un dogma bipartitico che può sintetizzarsi come teoria della «pace democratica», secondo cui le democrazie non sono propense alla guerra ed è quindi nell’interesse nazionale degli Usa impegnarsi per la promozione della democrazia e dei diritti umani nel mondo; l’ultima concretizzazione di questa teoria ha avuto forma decisamente militarista e megalomane sotto l’amministrazione di Bush figlio.
Eppure, nonostante il linguaggio demagogico e il caratteristico stile assai poco «presidenziale», neanche da candidato Trump ha mai avuto intenzione di mettere in crisi la Nato in quanto tale. Quel che ha posto con insolita determinazione programmatica è la questione della ripartizione dei costi all’interno dell’organizzazione. Si aggiunga a questo il fatto indiscutibile che Trump non si è mai proposto di sostituire un più alto livello di spesa per la difesa degli alleati europei con una minore spesa degli Stati Uniti: al contrario, ha sempre sostenuto la necessità di aumentare la spesa militare nazionale. E l’ha fatto.
Una prima conclusione logica è quindi questa: sotto il profilo finanziario, la linea di Trump ha sempre comportato un rafforzamento della Nato, non una sua crisi. In questo àmbito ha un senso che aumenti il contributo dei Paesi europei: tant’è vero che l’obiettivo di alzare il livello della spesa militare in percentuale del Pil è stato fatto proprio da tutta l’alleanza fin dal 2006, che molti Paesi europei sono ben avviati su quella cattiva strada e che dalla crisi ucraina il tasso di crescita della spesa militare dei membri europei della Nato è passato da una media di -1,35% (2014) al 3,7% (2017), con punte di oltre il 22% per Lettonia e Lituania. I tassi di crescita della spesa militare della Germania nel 2016 e nel 2017 sono stati, rispettivamente, del 3,2 e del 4,12%22. Quel che si discute fra Usa e Stati europei è il ritmo di crescita della spesa militare in funzione dell’obiettivo del 2% del Pil entro il 2024, se questo debba essere considerato un obbligo o un’approssimazione e il modo in cui deve essere calcolato l’ammontare complessivo della spesa per la difesa. Ad esempio, non si tratta solo di tener conto del contributo per la Nato dei suoi membri europei, ma anche di altre spese che questi considerano inerenti alla sicurezza nazionale. Ne è una prova il governo tedesco, che nel 2016 programmava di spendere 93 miliardi di euro per i rifugiati entro il 2020, mentre dati ufficiali per il 2016 e il 2017 indicano una spesa stimata nell’ordine dei 21 miliardi di euro23.
Seconda conclusione logica: gli alleati europei e gli avversari statunitensi di Trump hanno agitato strumentalmente lo spauracchio di una crisi dell’alleanza atlantica - i primi per rafforzare la propria posizione contrattuale ed entrambi perché, dal punto di vista dell’interesse complessivo degli imperialismi atlantici, esiste effettivamente motivo di obiettare alla prassi del presidente Usa. Tuttavia, si tratta di un «qualcosa» ben diverso dalla speranza che i nazionalisti di destra e di sinistra hanno coltivato per ottusità. Dalle Filippine all’Arabia Saudita, la «critica» di Trump alla teoria della pace democratica e al ruolo secondario dei «diritti umani» nella politica estera ha entusiasmato su scala mondiale conservatori e reazionari, che si sono sentiti giustamente rassicurati. Per conservatori e reazionari, il fatto è logico; per i simpatizzanti di sinistra di Putin, ciò è indicativo del fatto che quanto a ideali di libertà si collocano in effetti a destra del pensiero liberale - il che non è una novità - e che hanno definitivamente gettato nell’immondezzaio il senso dell’internazionalismo socialista a favore del nazionalismo imperiale granderusso (e in verità neanche questa è una novità).
Del «qualcosa» accennato sopra mi sono già occupato: in breve, non si tratta dell’isolazionismo24.
Dal punto di vista dell’interesse generale dei vari imperialismi - di quello statunitense e di quelli europei - il problema cruciale posto dalla visione del mondo di Trump non è l’obiettivo ovvio che il presidente abbia a cuore la prosperità del capitalismo degli Stati Uniti, ma l’enfatica definizione dell’interesse nazionale (capitalistico) come un gioco a somma zero, anziché mediato dall’impegno alla cooperazione per la stabilità del sistema internazionale e alla prosperità dell’economia mondiale. Quel che non quadra è che il rapporto fra costi e benefici sia impostato in modo nazionalistico, nell’ottica della «protezione» degli Usa, e in termini immediatamente economici. Se s’intende perseguire una politica della sicurezza aggressiva, facendo a meno della ricerca di mediazioni nel Consiglio di sicurezza, occorre un minimo di lungimiranza nella definizione del trade-off o dei necessari compromessi fra politica della sicurezza nazionale e politica economica internazionale: il «qualcosa» di cui l’amministrazione Trump difetta, se possibile in misura anche superiore a quella di Bush figlio. Su tutta una serie di questioni - finanziamento delle agenzie dell’Onu, accordo di Parigi sul clima, intesa sul nucleare con l’Iran, questione di Gerusalemme capitale, contributi finanziari dei membri della Nato, programma nucleare della Corea del Nord - l’Amministrazione continua polemiche tradizionali della destra vetero e neoconservatrice, ma le amplifica qualitativamente trasformandole in motivo d’irritazione per gli alleati e di propaganda rivolta agli elettori statunitensi.
Come sottolineato in precedenza, i fondi per l’Unfpa e l’Unicef sono sostanzialmente irrilevanti per i problemi di bilancio degli Stati Uniti; e il contributo degli Usa al finanziamento della Nato non è dell’80%, come «cinguetta» Trump, ma del 22%, essendo anche il costo di mantenimento dei militari nordamericani in Europa, sostenuto almeno per il 90% dai Paesi del vecchio continente. E ciò senza contare il fatto che la strategia mondiale degli Stati Uniti verrebbe gravemente compromessa e senza la Nato costerebbe molto di più: motivi per cui la Nato è semplicemente irrinunciabile per qualsiasi Presidente degli Stati Uniti. Se Trump volesse realmente impegnarsi a diminuire il debito pubblico, allora non dovrebbe far altro che ridurre - invece di aumentare - la spesa militare nazionale; e se volesse davvero venire incontro ai suoi «dimenticati» concittadini, non avrebbe proposto tagli ai fondi sociali e una riforma fiscale di cui si avvantaggiano solo gli strati più ricchi e le corporations.
E infine, il nocciolo della questione. La trumpiana «diplomazia competitiva» dell’America First è un modo pseudopopulista di esternalizzare i problemi interni degli Stati Uniti, utilizzando la logica della «protezione» - si tratti del muro col Messico, delle tariffe, dell’Onu o delle polemiche con gli alleati - per aggirare il problema della riforma interna, peraltro atteggiandosi a racketeer, ovvero «ricattatore». Questa politica estera si sposa con una politica economica ad un tempo neomercantilista verso l’estero - il che non significa affatto contraria alla liberalizzazione finanziaria e, per gli altri, commerciale - e brutalmente neoliberista all’interno. Questo pseudopopulismo è però intrinsecamente contraddittorio e pone seri problemi di coerenza politica complessiva. Per quanto riguarda la sicurezza nazionale, il non riconoscimento dei limiti della potenza americana non può che risultare in passi indietro, ma eventualmente anche in pericolose fughe in avanti. E le contraddizioni si moltiplicano quando si consideri la sua applicazione nel campo della politica economica, sia nazionale che internazionale.
1 National Security Strategy of the United States of America, The White House, Washington, D.C., marzo 2006, p. 33. Di seguito le diverse National Security Strategy sono indicate con la sigla NSS e l’anno corrispondente. L’archivio dei rapporti è consultabile all’indirizzo http://nssarchive.us/.
2 NSS 2017, p. 17.
3 Ibid., pp. 40-1.
4 Ibid., p. 40.
5 Ivi.
6 Ivi.
7 NSS 2010, p. 40.
11 NSS 2017, p. 37.
12 Ibid., cit. dalle pp. 48, 30 e 25.
14 NSS 1994, p. 10.
15 NSS 2002, p. 25.
16 NSS 2010, p. 28.
17 Ibid., p. 47.
21 A lungo relativamente trascurati dalla politica estera statunitense, gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale hanno improvvisamente acquisito grande rilevanza strategica dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a causa della logistica dell’intervento militare in Afghanistan. Si tratta anche dell’area nella quale la Russia può tentare di costruire un blocco politico ed economico alternativo alla Nato attraverso l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto, secondo l’acronimo inglese), ma quando si considera attentamente la situazione si nota: a) che nonostante la crisi successiva alla «rivoluzione dei tulipani» in Kirghizistan nel 2005 e lo «sfratto» dalla base di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, la collaborazione militare degli Stati dell’Asia centrale con gli Usa continua dietro le quinte, ad esempio tramite accordi diretti con il Central Command (Centcom) - il comando combattente unificato degli Stati Uniti che è responsabile anche dei teatri del Medio Oriente e dell’Asia centrale - che utilizza i fondi nella propria disponibilità discrezionale; b) che nonostante la penetrazione della Russia nel settore energetico, questi Stati si sforzano di aggirare la rete energetica russa e di diversificare i clienti, con speciale interesse per la Cina, che in questo è in concorrenza con la Russia; c) che essi tendono a fare un gioco di equilibrismo politico principalmente fra Cina e Russia, ma senza escludere gli Stati Uniti; d) che, energia a parte, il traffico legale e ancor più quello di contrabbando fra questi Stati e la Cina è superiore a quello della Russia; e) che le cricche dominanti in Asia centrale appaiono poco propense a farsi coinvolgere in una Guerra Fredda con gli Stati Uniti per le faccende europee; f) che nel «grande gioco» dell’Asia occorre tener conto dell’India, oggi molto più vicina agli Usa, di cui necessita per equilibrare i rapporti con Cina e Pakistan, entrambi Stati nucleari con i quali l’India ha guerreggiato - rispettivamente nel 1962 e nel 1947, 1965, 1971 e 1999 - e con cui continua ad avere questioni in sospeso.
Il grado di corruzione e di clientelismo dei ceti dirigenti degli Stati dell’Asia centrale è tale che essi sembrano sempre ben disposti a collaborare in cambio di un’adeguata retribuzione, diretta o indiretta, che traggono anche - ma non solo - dai servizi logistici per gli statunitensi di compagnie «private» da essi controllate. L’unico punto sul quale gli oligarchi dell’Asia centrale sono sicuramente uniti è la salvaguardia del proprio potere: è innanzitutto in questo modo che vedono la Csto e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco, per l’acronimo inglese) in cui la Cina è decisamente più influente. Cfr. Alexander Cooley, Great games, local rules: the new great power contest in Central Asia, Oxford University Press, New York 2012; Harsh V. Pant-Yogesh Joshi, The US pivot and Indian foreign policy: Asia’s evolving balance of power, Palgrave Macmillan, Basingstoke/New York 2016.