7. Trump come espressione della postdemocrazia
Il «fenomeno» Trump può invece spiegarsi nel quadro generale del regime postdemocratico, ora tipico di tutti i paesi a capitalismo avanzato.
Non è facile definire nella loro totalità - nelle loro relazioni dialettiche - le ambiguità e le contraddizioni della postdemocrazia22. È un regime che per definizione poggia sul degrado del concetto politico, sicché la confusione è grande. Si vede nel modo in cui si impiegano a sproposito termini come populismo, fascismo, bonapartismo, golpe (colpo di Stato), che pure hanno una loro storia, sia reale che teorica. L’impressione è che si usino iperboli e superficiali analogie imitando gli effetti speciali dello spettacolo mediatico.
Si vede anche nell’ampia diffusione di teorie complottistiche - sia particolari sia come visione d’insieme - che proliferano grazie al Web, ma che sono pure la spia del disagio psichico e del tentativo di razionalizzare una realtà alienata. Ne è un esempio la campagna scatenata contro Obama dai birthers - in particolare dal Tea Party - che sostenevano che egli non fosse nato cittadino statunitense e che quindi - per l’articolo 2 della Costituzione - non potesse candidarsi alla presidenza.
Il regime postdemocratico gioca molto sulla sua ambiguità, palese nel fatto che mentre la governabilità è esaltata sopra la rappresentanza partitica e il parlamentarismo, si pretende anche di esportare a mano armata la democrazia; o nel fatto che governi e caste politiche nazionali rinuncino volontariamente a parte della propria autonomia decisionale e quindi del libero esercizio della «sovranità popolare», sempre a sfavore dei diritti sociali dei comuni cittadini e dei lavoratori.
Parte integrante della postdemocrazia sono la convergenza programmatica dei partiti politici, il declino del ramo parlamentare, il degrado della funzione di rappresentanza, la spettacolarizzazione e personalizzazione della politica intorno alle vedettes.
La postdemocrazia non è un fatto solo statunitense - in modi diversi, l’Italia e la Russia ne sono casi esemplari - e non è neanche una forma fascisteggiante o riconducibile a un qualche tipo di stato d’eccezione. Al contrario, il regime postdemocratico è un regime liberale, deprivato della rappresentanza e della mediazione politica fra interessi di classe diversi che, per quanto squilibrata, parziale e temporanea, ha contraddistinto i sistemi politici dei paesi a capitalismo avanzato per un periodo relativamente breve, nell’insieme per alcuni decenni nel secondo dopoguerra. È il motivo per cui potevano dirsi liberaldemocratici.
Peter Mair, che non mi risulta abbia mai usato il termine, ma che al concetto di postdemocrazia ha dato un fondamentale contributo d’analisi lavorando sulla trasformazione dei partiti e dei sistemi di partito, fece un interessante confronto fra l’uso più comune del termine populismo - inteso semplicemente come strategia di mobilitazione elettorale contro le élite - e quella che definiva la «democrazia populista», in sostanza un altro nome per la postdemocrazia23. L’esempio analizzato era quello del Partito laburista di Tony Blair. Senza escludere la mobilitazione di protesta, Mair sosteneva che la «democrazia populista» fosse la tendenza destinata ad affermarsi. La sua peculiarità veniva individuata nella salvaguardia del costituzionalismo in un sistema caratterizzato dal declino della funzione di rappresentanza e di mobilitazione dei partiti, a cui corrisponde la dominanza delle loro funzioni procedurali e istituzionali, in particolare della selezione del personale politico. È importante l’osservazione che diversamente da Thatcher e Reagan, esplicitamente partigiani e sostenitori di un ben definito conservatorismo, la «terza via» di Blair è «deliberatamente formulata in termini non partigiani, presentandosi come una nuova sintesi al di sopra delle tradizionali divisioni fra sinistra e destra, in grado di unire tutte le parti dietro un approccio oggettivamente convalidato a cui non esiste una vera alternativa»24. In questa «democrazia senza partiti» (non nel senso letterale) diviene logico richiedere il consenso popolare, presentandosi non come «parte» ma come amministratori secondo criteri «obiettivi», rivolgendosi al popolo come un tutto indifferenziato: la legittimazione in un sistema depoliticizzato, in cui sono venute meno prospettive alternative. È il trionfo del «populismo dei politici» o pseudopopulismo.
Di questo pseudopopulismo Donald Trump è stato abile interprete. Egli non era affatto il più «ideologico» fra gli aspiranti alla nomination repubblicana - battuto sotto questo aspetto da Ted Cruz, che non era sostenuto dai dirigenti nazionali del partito. Questi ultimi appoggiavano semmai Jeb Bush e Marco Rubio, che però non avevano sufficienti consensi nella base degli attivisti. Trump ha fatto irruzione in un partito molto diviso, inizialmente con più di una dozzina di aspiranti candidati; nella campagna per la nomination si è presentato con l’immagine di un outsider, attaccando duramente i competitori e conquistandosi il sostegno degli attivisti. Aveva il vantaggio del denaro e ancor più di essere una vedette, tanto più che i suoi atteggiamenti e i suoi tweets erano utili sia a marcare la differenza dall’élite disposta al compromesso che a dominare il ciclo delle notizie.
Sappiamo come è andata, ma la strategia elettorale trumpiana non ha futuro. Può ricordare quella di Barry Goldwater nel 1964, applicata con successo da Nixon quattro anni dopo - con maggior oculatezza e nel contesto più «caldo» delle proteste contro la guerra in Vietnam, delle rivolte degli afroamericani, dell’esplodere dei nuovi movimenti e della controcultura. Adesso, invece, il Partito repubblicano si è alienato non solo il voto degli afroamericani ma anche quello dei latinos, il gruppo con la crescita demografica più forte, che può essere determinante per l’esito delle elezioni nei prossimi decenni. L’ostilità di molti dei «grandi» del Partito repubblicano verso Trump è giustificata.
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© Drew Angerer |
Vedremo cosa accadrà, ma intanto sottolineo che la postdemocrazia non è illiberale. Il punto è importante per la prognosi e la comprensione della dinamica dell’amministrazione Trump. Il nucleo del liberalismo è il costituzionalismo, la delimitazione dei poteri attraverso un sistema di checks and balances, di controlli e contrappesi, costituzionali e istituzionali, politici e giudiziari; è un sistema in cui si devono fare i conti anche con i mezzi di comunicazione di massa e l’opinione pubblica. Il fascismo e i regimi dittatoriali sono differenti dai regimi liberali proprio perché in questi casi la repressione del movimento operaio, del conflitto sociale e dell’opposizione politica si esprimono istituzionalmente nell’eliminazione reale del sistema di checks and balances e dei diritti politici elementari, nel bando dei partiti e delle organizzazioni della società civile, nell’eliminazione - formalizzata in legge, ma comunque reale nella prassi - delle garanzie giuridiche a difesa dei cittadini.
Ebbene, il costituzionalismo e il garantismo non godono affatto di buona salute; e negli Stati Uniti esiste da sempre il problema del rapporto fra potere presidenziale, da una parte, e poteri del Congresso e degli Stati federali, dall’altra. La notevole espansione dei poteri presidenziali è ben nota e ampiamente studiata e criticata; essa ha il suo culmine nella politica estera, ma non si limita affatto solo ad essa; ed era ben presente, ad esempio, anche durante le amministrazioni di Barack Obama.
Detto questo, il sistema di checks and balances continua ad esistere e a operare, con risultati alterni ma nondimeno reali. E si vede che la popolarità di Trump declina, mentre non mancano le proteste. In questo come in altri campi, gli Stati Uniti mostrano al più alto grado entrambe le facce della modernità capitalistica: da una parte la concentrazione del potere nella «presidenza imperiale», dall’altra la separazione dei poteri, che può realmente contrastare e limitare il potere presidenziale. Quando e in che misura questo accada dipende dall’orientamento prevalente al Congresso e dalla volontà politica di fare uso degli strumenti di cui dispone; ma è palese che l’amministrazione Trump dovrà muoversi in un quadro di forte resistenza sia istituzionale - perfino negli apparati di sicurezza - sia extraistituzionale.
Gli insulti al personaggio Trump sono comprensibili, ma agli occhi dei suoi sostenitori non fanno altro che ribadirne la pretesa estraneità al corrotto establishment liberal-progressista. Epiteti come «fascista!» e simili rivolti a Trump - o a Berlusconi o ad altri della stessa risma - sono solo apparentemente «estremisti». In effetti essi fanno confusione e mistificano la reale portata della trasformazione della statualità e dei sistemi di partito dei paesi a capitalismo avanzato, auspicando il ritorno a un tempo irrimediabilmente perduto e molto idealizzato.
Occorre liberarsi di questa nostalgia. Negli Stati Uniti si tratta di liberarsi della fascinazione esercitata dalla presidenza e dall’illusione che un presidente liberal e pseudopopulista possa risolvere i problemi per conto del popolo.
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1 L’espansione dei poteri presidenziali si fonda su un’interpretazione estensiva della missione attribuita dalla Costituzione al potere esecutivo; trova la sua origine e la sua massima espressione nel ruolo del Presidente come commander-in-chief, ma investe tutti gli àmbiti dell’amministrazione. Operativamente la «presidenza imperiale» si basa sulla crescita quantitativa e sul proliferare degli uffici e dei consigli del White House Office e dell’Executive Office del Presidente a partire da Franklin Delano Roosevelt: questo passò da 1.400 dipendenti nel 1952 a 5.600 nel 1972. Si pensi che nel 1857 il Congresso concesse al Presidente un segretario privato e altri due, più un assistente amministrativo nel 1929. Il classico «presidenza imperiale» è The imperial presidency di Arthur M. Schlesinger Jr., pubblicato nel 1973. Andrew Rudalevige ne ha tracciato la storia, l’utilizzo dei diversi strumenti, la vicenda del relativo e temporaneo declino della «presidenza imperiale» dopo lo scandalo Watergate e poi della sua brillante ripresa. Per i presidenti più recenti: William F. Grover-Joseph Peschek, The unsustainable presidency: Clinton, Bush, Obama, and beyond, Palgrave Macmillan, New York 2014; Ryan C. Hendrickson, Obama at war: Congress and the imperial presidency, University Press of Kentucky, Lexington (KY) 2015.
Sul braccio presidenziale: Harold C. Relyea, The Executive Office of the President: an historical overview, Congressional Research Service, Report for the Congress, 2008; Matthew J. Dickinson, Bitter harvest: FDR, presidential power and the growth of the presidential branch, Cambridge University Press, New York 1996.
2 Il riferimento è ai saggi di Richard Hofstadter - direi ora più che mai influenti, benché non sempre se ne abbia consapevolezza - in The paranoid style in American politics, and other essays, Alfred A. Knopf, New York 1965. Il declino dei Repubblicani moderati è dolentemente tracciato da Geoffrey M. Kabaservice in Rule and ruin: the downfall of moderation and the destruction of the Republican Party, from Eisenhower to the Tea Party, Oxford University Press, Oxford/New York 2012.
3 Dal XIX secolo fino al 1964 il Partito democratico mantenne ininterrottamente l’egemonia elettorale nel Sud segregazionista, la base della destra del Partito che collaborava con i Repubblicani nella conservative coalition; tuttavia erano i Repubblicani a porsi come eredi di Lincoln e ad avere una posizione complessivamente più avanzata dei Democratici sul problema razziale. Fu Barry Goldwater, il candidato repubblicano nel 1964, al tempo della lotta degli afroamericani contro la segregazione razziale e dell’approvazione del Civil Rights Act, che per primo afferrò la possibilità di sfruttare la contraddizione razziale interna alla coalizione newdealista per sfondare tra i bianchi della fortezza meridionale del Partito democratico. Ottenne un certo successo nel Sud, ma venne sepolto da una valanga nazionale di voti per Lyndon B. Johnson, 43 milioni contro 27. La southern strategy venne realizzata con successo da Nixon nel 1968, e infine nel 2000 la mappa elettorale del voto per le presidenziali fu esattamente opposta a quella delle storiche elezioni del 1896. Nel 1969 Kevin P. Phillips, un giovane studioso che lavorava nella squadra di Nixon, analizzò dettagliatamente la southern strategy in un libro: The emerging Republican majority. Come buon esempio d’interpretazione dell’ascesa di Reagan si vedano: Mike Davis, «The new right’s road to power», New Left Review, I/128, 1981, gli altri saggi di Davis citati nella bibliografia e quelli in Metamorfosi, n. 1, 1986.
4 Guy-Ernest Debord, La società dello spettacolo, a cura di Pasquale Stanziale, Massari ed., Bolsena 2002; rinvio alla serie di libri intitolata «Punto della situazione» di Massari editore e a «La società dello spettacolo e la critica rivoluzionaria», di chi scrive, in Debord e il Situazionismo revisited, a cura di Antonio Saccoccio, Massari ed., Bolsena 2015.
5 Per la critica della nozione di globalizzazione e per la discussione intorno ai concetti di imperialismo e di sviluppo ineguale e combinato rimando al mio Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari ed., Bolsena 2006.
7 American Psychiatric Association, Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5), American Psychiatric Association Publishing, Washington, D.C. 2013, pp. 669-72. Per le menzogne e non-verità di Trump, giorno per giorno fino al 21 giugno: David Leonhardt-Stuart A. Thompson, «Trump’s lies», The New York Times, 23 giugno 2017.
8 Robert Samuels, Psychoanalyzing the left and right after Donald Trump: conservatism, liberalism, and neoliberal populisms, Palgrave Macmillan, New York 2016.
9 Douglas Kellner, American nightmare: Donald Trump, media spectacle, and authoritarian populism, Sense Publishers, Rotterdam/Boston 2016, p. 20.
10 Robert Kagan, «This is how fascism comes to America», The Washington Post, 18 maggio 2016.
11 Margaret Canovan, «Two strategies for the study of populism», Political Studies, vol. 30, n. 4, 1982. Queste le varietà o categorie della tipologia di Canovan: populismo dei farmers; degli intellettuali rivoluzionari; dei contadini; dittatura populista; democrazia populista; populismo reazionario; populismo dei politici.
12 J. Eric Oliver-Wendy M. Rahn, «Rise of the Trumpenvolk: populism in the 2016 election», The Annals of the American Academy of Political and Social Science, vol. 667, n. 1, 2016.
13 Bart Bonikowski-Noam Gidron, «The populist style in American politics: presidential campaign discourse, 1952–1996», Social Forces, vol. 4, 2016.
14 Michael Kazin, The populist persuasion: an American history, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1998 (ed. riveduta e corretta), p. 272.
17 Cfr. la discussione nel capitolo 8 - «Immigration: a reinforcing cleavage that now constrains the Republican Party (GOP)» - del volume di Marc J. Hetherington e Jonathan D. Weiler Authoritarianism and polarization in American politics, Cambridge University Press, New York 2009.
18 Robert Pollin, Contours of descent: U.S. economic fractures and the landscape of global austerity, Verso, London/New York 2005 (2ª ed. aggiornata), pp. 5-6.
19 Questa era l’esilarante definizione di Eisenhower offerta da Robert H.W. Welch Jr., fondatore nel 1958 della John Birch Society, citato da Richard Hofstadter in The paranoid style in American politics, and other essays, cit., p. 28.
20 Così secondo Walter Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, Garzanti, Milano 2002, p. 285.
21 Cit. dalla lettera di Thomas Jefferson a William Stephens Smith, 13 novembre 1787, mentre era ambasciatore a Parigi - in Thomas Jefferson, Political writings, a cura di Joyce Appleby e Terence Ball, Cambridge University Press, New York 1999, p. 110. Mead si sforza di delineare una tradizione jeffersoniana in politica estera, ma non mi convince. Jefferson incarna le contraddizioni o i paradossi della Rivoluzione americana, ma era lontano dal neomercantilismo e dal genere di «realismo» geopolitico di Alexander Hamilton, intenzionato a promuovere l’oligarchia commerciale, un esercito regolare e una flotta d’alto mare legandosi alla Gran Bretagna. È vero che con l’acquisto della Louisiana - appena tornata a Napoleone, ma per lui rivelatasi inservibile - realizzò la più ampia espansione territoriale degli Stati Uniti, ma le sue motivazioni erano molto diverse da quelle dell’imperialismo mercantile o dei piantatori schiavisti: al contrario era mosso dalla visione di una Repubblica di farmers.
22 A tal fine rimando a Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma/Bari 2003 e alla seconda parte del mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012.