Il progressivo radicalizzarsi dello scontro sociale - nelle aree in cui la
rivoluzione borghese o si era ben affermata o si andava sviluppando – e la
crescente consapevolezza dell'inconciliabilità degli interessi di classe
proletari con quelli borghesi, facevano sì che dall’originario associazionismo
operaio di tipo assistenziale/solidaristico (in fondo innocuo per i padroni) si
andassero sviluppando forme di agglutinazione maggiormente idonee
all’innalzarsi del livello di scontro; e parallelamente negli ambienti delle società
operaie aumentasse l’attenzione per i problemi economici e politici. Così alla
fase di resistenza – implicante la contrattazione dei minimi salariali e la
lotta ai licenziamenti – si andò accompagnando la spinta all’abbattimento del
sistema socio/economico. Da qui il successo dell’Internazionale, su un terreno
in cui l’associazionismo operaio assumeva caratteristiche sociali e anche politiche
più radicali. Tant’è che varie organizzazioni sindacali di categoria si
trasformarono in sezioni dell'Internazionale.
Da allora, come dicevamo, molto tempo è trascorso, non enorme in sé,
qualora molti avvenimenti non avessero lasciato un segno pesante, con una
progressiva perdita di speranze e illusioni; di modo che sembra che sia passato
un millennio. Quale senso può quindi avere la memoria di quell’associazione
rivoluzionaria, fonte di paure e incubi per le borghesie europee e i loro
governi? Escludendo lo sterile intento commemorativo, la risposta non è
difficile, e di motivi ce ne sono almeno due, fra loro correlati. Il primo
motivo sta nell’attuale situazione di dominio generalizzato di un capitalismo selvaggio e feroce, che però
manifesta segni di crisi. Proprio per questo è ancora più pericoloso, in quanto
le sue crisi sono sempre accompagnate da avventure belliche, che esse tornano a
profilarsi nello scenario planetario. In questa situazione negli ambienti che
non hanno rinunciato alla lotta di classe proletaria torna a farsi sentire da
un lato il vuoto derivante dalla mancanza di un centro di coordinamento
internazionale di tale lotta, e da un altro lato l’esigenza di porre rimedio a
questa mancanza.
L’ulteriore motivo è dato dagli elementi del contrasto interno, ancora
attuale, a cui in buona parte è imputabile la fine dell’Internazionale: il
contrasto politico e teorico fra Karl Marx e Michail Bakunin. Contrasto da
vedersi, ovviamente, alla luce di tutto quando in seguito avvenuto. Il ruolo
svolto dalle poderose - e tutt’altro che facili - personalità di Marx e Bakunin
è innegabile. Tuttavia, volendo rimettere un po’ le cose al loro posto, vale
partire da quanto precisato da Daniel Guérin, nel senso che Bakunin
«aderisce in pieno alla concezione materialistica
della storia. Egli apprezza più di qualsiasi altro il contributo teorico di
Marx all’emancipazione del proletariato. Ma una cosa non ammette: che la
superiorità intellettuale possa conferire il diritto di dirigere il movimento
operaio» .
E neppure va taciuto che Bakunin, nei fumi della polemica, ha talvolta
attribuito a Marx ed Engels intenzioni che costoro non hanno mai apertamente
espresso, come ancora una volta ha rilevato Guérin . Ma a prescindere da ciò, in concreto erano in
gioco problemi fondamentali per una forza rivoluzionaria, e la mancata sintesi
fra le risposte a suo tempo prospettate ha fatto sì che, in seguito, ciascuno
degli schieramenti in cui si divise la I Internazionale abbia dato le sue
soluzioni in termini nettamente contrappositivi; da muro contro muro. Quelle
soluzioni furono poi riprese senza spirito critico all’interno del movimento
dei lavoratori, con la conseguenza – definibile «tragedia d’origine» - di una
non sanata (e anzi aggravata) spaccatura fra marxisti e comunisti anarchici (o
libertari, come si usa dire nella penisola iberica).
La situazione attuale, ironicamente, ha allineato gli epigoni dei due
schieramenti, nel senso della marginalità per entrambi. A ogni buon conto resta
il fatto che Bakunin ha intuito prima di tutti quali sarebbero stati gli esiti
di un’appropriazione autoritaria delle posizioni di Marx; cioè a dire, che
varie delle sue critiche valgono come preveggenza di quello che sarebbe poi
stato il bolscevismo.
Con buona pace dei fautori del “pensiero unico” capitalista, le situazioni
storiche e vicende sociali non conoscono stasi; le condizioni oggettive della
stragrande maggioranza dell’umanità sono terribili e peggiorano; e, come
abbiamo detto, non mancano i settori intenzionati a proseguire le lotte sociali
e politiche non sentendosi residui folklorici di un morto passato, bensì prodromi
di un futuro tutto da costruire. E per essi vale l’auspicio/certezza espresso
da una canzone di Francesco Guccini (Stagioni):
«e voi reazionari tremate, non sono finite le
rivoluzioni».
In origine la composizione dell’Internazionale fu assai articolata,
avendovi aderito pressoché tutta la gamma della sinistra europea di quel
tempo, compresi i mazziniani e i blanquisti. Il carattere pluralista, tuttavia,
non doveva durare a lungo. Risiedeva infatti nella stessa ragion d’essere dell’Internazionale
il risultato che la classe operaia, per conseguire la sua autonomia, si
emancipasse dalle tutele delle componenti borghesi “illuminate”, in quanto
portatrice di interessi propri non conciliabili con quelli della borghesia, ivi
compresi proprio i suoi settori radicali, che difatti non mettevano in
discussione i fondamenti del capitalismo. Questo comportava una prima
contrapposizione verso i proudhoniani e il loro socialismo da piccoli artigiani
e piccoli imprenditori; e nei confronti dei mazziniani, fautori della
collaborazione fra le classi e della proprietà privata. Comunque, i mazziniani
sarebbero rimasti nell’Internazionale fino alla Comune di Parigi, quand’anche
senza effettiva influenza.
L’adesione di Bakunin fu accettata dall’Internazionale nel 1868, ma per
avere il placet fu necessario che
l’associazione bakuninista Alleanza della
Democrazia Socialista, da poco costituita, si sciogliesse
nell’Internazionale stessa. Le sue sezioni divennero sezioni di quella più
ampia associazione. Diciamo subito che nell’àmbito rivoluzionario europeo
Bakunin era tutt’altro che un isolato, o un capopopolo di sprovveduti, tant’è
che riuscì a collegare a sé molti bei nomi rappresentativi del socialismo
dell’epoca (Benoit Malon, Elie ed Elisée Reclus, Albert Richard, Aristide Rey,
Jean Guillaume, Adhemar Schwitzguebel, Fernando Garrido, Anselmo Lorenzo, Farga
Pellier, Giuseppe Fanelli, Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Alberto Tucci e
Carlo Gambuzzi).
Le divergenze concrete fra Marx e Bakunin non iniziarono su questioni
vitali (difatti ne rimase fuori il tema dell’abolizione della proprietà privata
delle terre e della loro socializzazione, che invece portò alla rottura con i
mutualisti). Il contrasto nel IV Congresso dell’Internazionale, tenutosi a
Basilea nel 1869, si manifestò infatti a proposito del diritto di eredità, la
cui abolizione per Bakunin avrebbe dovuto essere inserita nei programmi
dell’Internazionale. In estrema sintesi, per Marx era dalla proprietà privata
che nasceva l’istituto giuridico del diritto di eredità, secondo un nesso
causa/effetto. Essendo la causa più importante dell’effetto, contro di essa
doveva incentrarsi l’azione dell’Internazionale, se non la si voleva deviante e
dispersiva. Il problema, quindi, era attinente allo schema dei rapporti fra
struttura economica e superstruttura. La posizione di Bakunin non ne implicava
una contestazione netta, tuttavia partiva dall’assunto dell’esistenza di
capacità operative della superstruttura - anche quella giuridica - in un quadro
di interazioni reciproche fra struttura e superstruttura. Sul mero piano
numerico la spuntò Bakunin (32 voti a favore, 23 contrari e 17 astensioni;
mentre la tesi di Marx ne ottenne 19
a favore e 37 contrari), ma senza ottenere l’auspicata
vittoria politica: infatti i voti da lui ottenuti non avevano raggiunto la
necessaria maggioranza prevista dagli Statuti ai fini dell’inserimento nei
programmi dell’Internazionale.
Si noti che in quell’occasione la proposta in favore di una maggiore
centralizzazione nella guida dell’Internazionale, e del conseguente
accrescimento dei poteri del Consiglio Generale, fu approvata pressocché
all’unanimità, e con Bakunin favorevole.
Il 1871 fu l’anno della Comune di Parigi, repressa nel sangue dal governo
borghese di Thiers, e del fallimento delle rivolte di Marsiglia e Lione, nelle
quali forte era statol’impegno dei bakuninisti. Fu la cartina di tornassole per
le componenti radical/borghesi che avevano inizialmente aderito
all’Internazionale (Mazzini, Tolain, Odger, Fribourg, Cremer ecc.), ma in cui
contavano sempre meno, e sempre meno ne condividevano gli obiettivi.
L’indubbio eroismo dei comunardi non aveva palesato solo le debolezze del
proletariato francese, ma anche di quello europeo in genere e
dell’Internazionale stessa. A ciò possiamo aggiungere un fatto di non
secondaria importanza: il proletariato inglese - vale a dire il più consistente
dell’Europa, a cui Marx prestava una particolare attenzione – insieme ai suoi
sindacati si andava decisamente orientando verso la partecipazione alla lotta
politica secondo i percorsi legali; cioè non tirandosi fuori dalle competizioni
elettorali e inviando propri rappresentanti al parlamento. Da tutto questo la
sempre più vigorosa presa di distanza di Marx dalla prassi insurrezionalista e il
suo manifesto favore per l’organizzazione politica del proletariato e lo
sfruttamento degli strumenti istituzionali esistenti nella lotta per la difesa
dei diritti e per la conquista del potere. In quella contingente situazione di
evidente maggior potere della borghesia e dello Stato, per Marx diventava
indispensabile che i rivoluzionari non si limitassero a svolgere tra le masse
lavoratrici un’opera di agitazione, di educazione e di propaganda, bensì
creassero organizzazioni politiche volte alla conquista del potere, oltre a
essere impegnate a mantenere e fare crescere il grado di autonomia di classe
del proletariato di fronte ai settori radicali della borghesia.
I bakuninisti, invece, traevano dalla Comune di Parigi una lezione di segno
opposto: si trattava di incrementare con maggiore decisione lo scontro con lo
Stato borghese per abbatterlo, per poi puntare – senza tappe intermedie – alla
società comunista. Questa si sarebbe costituita mediante forme associative
orizzontali, raggruppate verticalmente in federazioni, come risultato di un
movimento spontaneo. Quest’ultima posizione era senz’altro egemonica in Italia
e Spagna.
In concreto queste due differenti conclusioni, nei loro termini concettuali
e strategici, esprimevano una realtà che solo riduttivamente può essere
esaurita nelle differenti vedute di Marx e di Bakunin. Esse riflettevano invece
le differenti condizioni oggettive, e i diversi gradi di sviluppo, esistenti
nella classe operaia europea genericamente intesa. Siffatto insieme sociologico
includeva infatti una grande varietà di estremamente diversificate situazioni
sociali, economiche, politiche, nazionali, etniche, culturali etc., a fronte
delle quali il centralismo dell’Internazionale e la sua tendenza ad adottare
schemi strategici generali, e quindi astratti, per forza di cose operava in
senso costrittivo.
Al riguardo riteniamo che se a Bakunin va imputata la sua parte di miopia
di fondo, neppure Marx appare essere rimasto esente da tale difetto. L’ottica
di Bakunin era fortemente condizionata da situazioni specifiche come quelle dei
proletariati italiano e spagnolo; e la sua difesa delle posizioni autonomiste
esprimeva l’opposizione al centralismo strategico del Consiglio Generale
dell’Internazionale, ma appare innegabile una certa assolutizzazione attribuita
dal rivoluzionario russo alla fattispecie italo/spagnola.
Dal canto suo Marx operava in senso specularmente opposto, finendo con
l’assumendo quale paradigmatica la situazione della classe operaia britannica.
Sarebbe bello poter dire che che le esperienze delle successive Internazionali
abbiano affrontato in modo più soddisfacente - se non addirittura risolto - il
problema del nesso fra autonomia operativa dei singoli movimenti di classe
locali e prospettive strategiche transnazionali. Ma purtroppo così non è stato,
e la questione resta aperta per l’eventualità che si riesca a costituire un
nuovo organismo rivoluzionario internazionale.
Alla Conferenza di Londra del 1871 ,
i cui partecipanti furono in maggioranza marxisti, Marx partì all’attacco delle
posizioni insurrezionaliste, mediante la chiarificazione del tema della lotta
politica, a cui si faceva cenno nella Premessa degli Statuti nel senso che
«l’emancipazione economica della politica operaia
è il grande scopo a cui ogni movimento politico deve essere subordinato come
mezzo».
Certo, non era il massimo della chiarezza. E infatti fu oggetto di due
differenti interpretazioni: per chi condivideva la posizione di Marx quella
statuizione esprimeva la necessità per la classe operaia di organizzarsi in
partito ai fini della sua emancipazione economica; mentre per gli altri
significava la subordinazione della lotta politica alla lotta economica.
D’altro canto esisteva il «precedente» contenuto nell’Indirizzo Inaugurale
dell’Internazionale, redatto dallo stesso Marx, in cui si diceva a chiare
lettere, dopo aver fatto il punto sul fallimento della rivoluzione in Europa,
«La conquista del potere politico è quindi
divenuta il primo dovere della classe operaia».
La Conferenza di Londra si chiuse ovviamente con la vittoria di Marx,
avvenuta attraverso una nuova disposizione statutaria, l’art. 7 bis:
«Nella sua lotta contro il potere collettivo delle
classi possidenti, il proletariato non può agire come classe se non
costituendosi esso stesso in partito politico distinto e opposto a tutti i
vecchi partiti formati dalle classi possidenti. La costituzione del
proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo
della rivoluzione sociale e del suo scopo supremo: l’abolizione delle classi.
La coalizione delle forze operaie già ottenuta con la lotta economica deve
servire come leva nelle mani di questa classe nella sua lotta contro il potere
politico dei suoi sfruttatori. Poiché i padroni della terra e del capitale si
servono sempre dei loro privilegi politici per difendere e perpetuare il loro
monopolio economico e per asservire il lavoro, la conquista del potere politico
diventa un dovere fondamentale per il proletariato».
Questo implicava che le federazioni nazionali dell’Internazionale si
trasformassero in altrettanti partiti politici. In proposito ha sottolineato
Pier Carlo Masini che in tal modo si veniva
«introducendo nel programma dell’Internazionale un
elemento ideologico uniforme e vincolante che annullava la varietà delle
correnti fino ad allora ammesse sulla base di un solo principio unificatore: la
solidarietà pratica dei lavoratori di qualsiasi razza, credo o nazionalità, per
il miglioramento delle condizioni, la mutua difesa, la completa emancipazione della
classe operaia» .
Durante la Conferenza londinese fu affrontata anche la delicata questione
politico/organizzativa attinente alla presenza dell’Internazionale in Svizzera,
dove le organizzazioni esistenti erano due e non in buoni rapporti reciproci:
il Comitato Federale Romando dei seguaci di Marx e la bakuninista Federazione
del Giura. La Conferenza decise per l’esistenza di una sola sezione
dell’Internazionale in quel paese, e invitò la Federazione del Giura a
confluire nella federazione romanda. La decisione rimase lettera morta per la
reazione dei bakuninisti svizzeri che, riunitisi a congresso a Sonvillier,
accusarono Londra di autoritarismo. Tenuto conto della reazione ostile
suscitata dall’introduzione dell’art. 7 bis in varie sezioni e federazioni
dell’Internazionale, chiaramente si andava ormai allo scontro finale.
A dicembre del 1871 la Federazione Belga prese posizione in favore dei
bakuninisti svizzeri, provocando a marzo del 1872 la condanna di Bakunin per
frazionismo da parte del Consiglio Generale in una circolare privata. La
Federazione del Giura rispose con un documento firmato anche da Bakunin. Ad
aprile dello stesso anno anche il II Congresso delle Società Operaie Spagnole
si schierò con la Federazione del Giura, e ai primi di giugno furono espulsi
dal Consiglio Federale spagnolo Paul Lafargue, genero di Marx, e i partigiani
del Consiglio Generale di Londra. Costoro lestamente costituirono una propria
federazione madrilena. Ben più radicale la scelta effettuata in agosto a Rimini
dal Congresso delle sezioni italiane: oltre a pronunciarsi in favore dei
compagni del Giura, i delegati chiesero la riduzione dei poteri del Consiglio
Generale e la sua trasformazione in mero ufficio di corrispondenza; il
riconoscimento di larga autonomia per le federazioni nazionali; e inoltre essi
dichiararono decaduto il Consiglio Generale in carica e decisero di non inviare
delegati al successivo congresso dell’Internazionale (Carlo Cafiero vi si recò
in veste di mero osservatore).
Dal canto suo la Federazione del Giura inviò i suoi delegati col mandato
vincolante di battersi per l’abolizione del Consiglio Generale e la
soppressione di ogni autorità in seno all’Internazionale.
Il quinto e ultimo Congresso di questa associazione si riunì all’Aja il 2
settembre 1872. La maggioranza dei delegati era a favore di Marx, che per
maggiore sicurezza disponeva anche di qualche delegato di sezioni fittizie,
come quelle di Boemia e Ungheria. In tali condizioni l’espulsione di Bakunin
era scontata. E così fu (27 voti a favore, 7 contrari e 8 astensioni; anche
Guillaume incorse nell’espulsione). I poteri del Consiglio Generale vennero
aumentati, e se ne decise il trasferimento (in realtà senza motivi funzionali
concreti) a New York. Vittoria totale – ma pirrica - di Marx, perché fu anche
la fine dell’Internazionale. Contro i risultati del Congresso dell’Aja si
pronunciarono quasi tutte le Federazioni: di Francia, del Belgio, del Giura,
della Spagna, dell’Italia, degli Stati Uniti, dei Paesi Bassi, di Inghilterra.
Questo dimostrava come la maggioranza di quel congresso non rispecchiasse gli
effettivi rapporti di forza esistenti nell’Internazionale, e quindi fosse
precostituita.
Il 15 settembre 1872, a
Saint-Imier i bakuninisti (francesi, spagnoli, svizzeri, italiani, americani)
posero le basi per un’internazionale anti-autoritaria (evidentemente erano di
ben altra tempra rispetto agli attuali ambienti che continuano a riferirsi
all’anarchismo). Del congresso di Saint-Imier sono importanti alcune
affermazioni di principio. In primo luogo quella che attribuiva ai congressi
essenzialmente il ruolo di mettere a confronto le varie posizioni esistenti,
affinché poi nell’agire concreto se realizzassero l’armonia e l’unione; con la
conseguenza che
«in nessun caso la maggioranza di un congresso
qualunque potrà imporre le sue risoluzioni alla minoranza».
Tale statuizione era palesemente rivolta a porre un argine al rischio di
deriva autoritaria della democrazia ma, come ha opportunamente notato Pier
Carlo Masini:
«essa costituirà per tutta la storia del movimento
anarchico un insormontabile ostacolo ideologico
al suo efficiente operare nella lotta politica e darà vita, non senza ragione,
alle correnti individualiste. Queste saranno al principio una interpretazione
estrema, negando (...) valore e utilità ai congressi e ostacolandone in ogni
modo la organizzazione e un sereno svolgimento» .
E inoltre – importante sfumatura progressivamente andata perduta – il
principio affermato a Saint-Imier
«non sembra rifiutare la regola della maggioranza
per la procedura interna dei congressi (il rifiuto è limitato ai poteri
legislativi e direttivi) e non esclude che i congressi rappresentino con
votazioni aventi un semplice valore statistico, gli schieramenti di opinione
venuti a confronto, salva la libertà della minoranza di non conformarsi alla
maggioranza» .
Il secondo principio ribadiva che il proletariato deve distruggere ogni
potere politico, e il suo sapore polemico verso la concezione di Marx è di
tutta evidenza. Tuttavia, esso contrastava con un’altra risoluzione approvata
nel medesimo Congresso:
«il voler imporre al proletariato una linea di
condotta e un programma politico uniforme come la via unica che possa condurla
alla sua emancipazione sociale è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria».
Una contraddizione che ancora aspetta di pervenire a una sintesi superiore.
Va comunque ricordato che negli ambienti di questa Internazionale
libertaria si svolse un’elaborazione teorica di un certo rilievo ai fini della chiarificazione delle
idee in ordine ai problemi di una società postrivoluzionaria e alle possibili
soluzioni. Ci si riferisce innanzi tutto al lavoro di Guillaume del 1876 dal
titolo Idee sull’organizzazione sociale ,
che altresì conteneva una lucida analisi sull’impossibilità della rivoluzione
socialista in un solo paese; e poi al dibattito teorico svoltosi fra il belga
César de Paepe e lo svizzero Adhémar Schwitzguébel sulla gestione dei servizi
pubblici .
A settembre dell’anno successivo a Ginevra i Congressi di entrambe le
Internazionali rivali si svolsero in contemporanea, ma a quello bakuninista
parteciparono i delegati di sette paesimentre alla riunione dell’Internazionale
ormai marxista c’erano solo gli svizzeri. Un capitolo di storia si chiudeva
malamente. La Conferenza di Filadelfia, del 15 luglio 1876, sciolse formalmente
l’Internazionale ormai ridotta a una stentata vita burocratica. E l’anno
successivo si sciolse anche l’Internazionale Antiautoritaria, per una serie di
difficoltà oggettive e soggettive .
Tuttavia negli ambienti bakuninisti rimase viva l’esigenza di fare parte di un
organismo internazionale che coordinasse e unificasse strategicamente le lotte
di classe locali. Ancora non era venuta la lunga fase in cui tra gli anarchici
prevalesse la scelta autistica in favore dell’isolamento dal resto delle
correnti rivoluzionarie; ma i germi già esistevano.
Fallito nel 1881 l’ulteriore tentativo di costituzione di una nuova
Internazionale anarchica, patrocinato da Errico Malatesta, nel 1889 taluni
anarchici si presentarono alla riunione socialdemocratica di Parigi da cui
nacque la II Internazionale, ma ricevettero un’accoglienza pessima degenerata
in violenti scontri con i socialisti. Lo stesso accadde poi nel 1892 a Bruxelles, al
Congresso Socialista Internazionale .
I socialdemocratici presero quindi la loro strada, ma la II Internazionale
dimostrerà la sua inconsistenza teorico/pratica alla prima vera prova di
portata storica: lo scoppio della I Guerra Mondiale. Prevalse il particolarismo
nazionale. Gli anarchici, dal canto loro, ebbero a che fare con un notevole
morbo borghese attecchito fra le loro fila: l’individualismo
con la conseguenza di scelte antiorganizzative. Come ha scritto Masini,
«questo motivo polemico, esaltato e ideologizzato,
comincia a lavorare come un tarlo contro lo stesso anarchismo di tendenza
associativa, a orientamento federalista. (...) favorì la diffusione di un
anarchismo che prima istintivamente e poi in modo più programmatico
razionalizzava questa disorganizzazione di fatto ed avversava qualsiasi forma
di associazione generale e permanente (in una parola del partito anarchico)» .
Trovatisi alle corde, verso la fine del secolo XIX, e isolati rispetto al
mondo del lavoro, gli anarchici si rimisero in carreggiata mediante la scelta
sindacalista. Fondamentale fu il Congresso Internazionale Anarchico di
Amsterdam (24-31 agosto 1907). Già a monte c’era stato l’ammonimento di Pëtr Kropotkin a operare all’interno delle masse popolari e con esse; e nel 1898
Fernand Pelloutier in un denso articolo aveva sostenuto la sua visione del
sindacato come scuola pratica di anarchismo. Quando però Pierre Monatte, al
Congresso di Amsterdam propose una risoluzione in cui si affermava:
«Il Congresso Anarchico Internazionale considera i
sindacati allo stesso tempo come organizzazione di combattimento, nella lotta
di classe, in vista del miglioramento delle condizioni di lavoro, e come unioni
di produttori che possono servire alla trasformazione della società capitalista
in una società comunista anarchica»,
si scontrò aspramente con i «puristi» dell’anarchismo (cioè quelli che mai
hanno fatto una rivoluzione), e in primis
con Malatesta, secondo il quale il sindacato è solo un mezzo per il
miglioramento economico dei lavoratori .
Con buona pace di Malatesta, il movimento libertario, come ha scritto
Guérin ,
nel suo periodo migliore sarebbe rimasto caratterizzato dalla fusione fra
l’idea anarchica e l’idea sindacalista, e le sue più importanti
concretizzazioni si avranno nella spagnola Cnt, nell’italiana Usi e nella
portoghese Cgt. I rispettivi regimi fascisti della prima metà del secolo XX
tuttavia le azzereranno nella tragedia e nel sangue.
* * *
Tra i contenuti dello scontro Marx/Bakunin è rilevante – per il fatto di
coinvolgere problematiche fondamentali per la costruzione rivoluzionaria –
quello riguardante la lotta politica. La sua incidenza sulla storia del
movimento dei lavoratori è stata tragica e sanguinosa. Ma preliminarmente una
considerazione è d’obbligo: è di tutta evidenza che Marx e Bakunin, avendo
entrambi partecipato all’Internazionale per un periodo non breve, dovevano per
forza condividere fondamentali elementi teorici e programmatici; e questo
spiega il malessere con cui vari ambienti dell’associazione vissero il
progressivo aggravarsi del dissidio fra i due. Da questa comunanza è utile
prendere le mosse.
L’orizzonte finale che li accomunava - partendo dalla lotta al sistema di
sfruttamento capitalista, basato sull’acquisto della disponibilità di
forza-lavoro a fronte del salario - era costituito dall’avvento di una società senza
classi e tale da rendere possibile per ogni persona lo sviluppo delle proprie
capacità creative ed esistenziali, grazie anche all’eliminazione della
divisione tra lavoro manuale e intellettuale e all’eguaglianza fra uomini e
donne. Il superamento del sistema capitalista avrebbe consentito a ogni
lavoratore di svolgere una parte attiva nell’organizzazione/pianificazione/ottimizzazione
del processo produttivo. Non si dimentichi che Bakunin condivideva la critica
dell’economia politica effettuata da Marx e il metodo del materialismo storico,
tanto che fu lui a tradurre in russo il primo libro de Il Capitale; e va ricordato che in Italia un illustre militante
bakuninista, Carlo Cafiero, elaborò un’eccellente sintesi di quell’opera per la
diffusione del pensiero marxista tra i lavoratori .
Comune era inoltre la consapevolezza della necessità che la liberazione
fosse opera dei lavoratori stessi (come era proclamato negli Statuti
dell’Internazionale), senza fallaci aspettative in interventi riformisti della
borghesia e dello Stato; e infine entrambi erano convinti che, per avere successo,
la rivoluzione dovesse avere uno sviluppo transnazionale.
C’è un ulteriore aspetto da menzionare, in genere poco considerato.
Aderendo all’Internazionale Bakunin, ovviamente, ne condivise anche il
programma. Poiché quell’associazione non era un partito, ma un fronte unito dei
lavoratori di diversa estrazione ideologica, molto intelligentemente Marx, senza alterare le finalità ultime
anticapitaliste e rivoluzionarie, impostò un programma estremamente realistico,
sia in termini oggettivi (perché recepiva le esigenze immediate del mondo del
lavoro), sia in termini di accettabilità (almeno virtuale) da parte dell’Internazionale
nel suo complesso. Al programma fu improntata l’attività dell’associazione.
Questo è un aspetto di estrema importanza, da non trascurare. Bakunin e i
suoi non contestarono mai quel programma; il che attesta come non sia vero che
gli anarchici non accettano un «programma minimo». Il problema è se siano
persone serie o no. E così abbiamo che l’Internazionale si batté anche per la
promozione del lavoro cooperativo, per la riduzione della giornata lavorativa
per donne e fanciulli, per l’introduzione legislativa della giornata lavorativa
di 10 ore per gli altri lavoratori, per la diffusione dell’associazionismo
sindacale, per il sostegno degli scioperi; e infine estese la sua azione di
solidarietà alla Polonia oppressa e a Lincoln durante la guerra civile fra
Stati del nord e del sud.
Inoltre – aspetto poco conosciuto, poiché in fondo non conveniente per
nessuno dei continuatori della polemica – nel corso dell’attività
dell’Internazionale il contributo della componente libertaria
non fu di secondaria importanza; anzi talvolta fu decisivo, come avvenne al
Congresso di Bruxelles del 1868, durante il quale si decise sulla sorte dei
beni e servizi espropriati e nazionalizzati. Al precedente Congresso di
Losanna, nel 1867, due tesi si erano fronteggiate, quella del belga César de
Paepe, che proponeva di renderne proprietario lo Stato; e quella dell’allora
bakuninista Charles Longuet, per il quale - non dovendo essere lo Stato
qualcosa di diverso dalla collettività dei cittadini - non era ammissibile che
ad amministrare quei beni e quei servizi fossero funzionari statali, in luogo
di compagnie operaie, e quindi ne propugnava la socializzazione contro ogni
deriva statalista. Fu quest’ultima tesi a essere adottata, secondo la formula:
«La proprietà collettiva apparterrà all’intera
società, ma sarà concessa ad associazioni di lavoratori. Lo Stato non sarà più
che la federazione dei diversi gruppi di lavoratori».
Vi è infine da introdurre una questione di merito, tanto per restare ancora
sul piano delle cose fondamentali che univano: Marx va visto e considerato per
la sua azione e il suo pensiero assunti nella globalità, e senza le
superfetazioni derivanti da Engels e dai successivi «marxisti». Non
dimenticando che lo stesso Marx negli ultimi tempi ebbe a dire:
«Tutto ciò che so è che io non sono marxista» .
E al riguardo ha commentato
Maximilien Rubel che in questo modo Marx intendeva
«sottolineare il proprio rispetto verso un
principio fondamentale: la causa del movimento operaio non doveva essere legata
al nome di un pensatore, per quanto geniale potesse essere. Tollerare l’impiego
(...) dei termini «marxista» e «marxismo» significava tradire lo spirito di una
teoria la cui originalità consisteva precisamente nel fatto di essere stata
concepita come espressione della volontà e della coscienza di una classe
sociale (...)» .
Dell’azione politica concreta di Marx va rilevato il costante intervento a
difesa delle libertà democratiche: la difesa dei cartisti inglesi;
l’opposizione a Napoleone III, allo zarismo e allo Stato prussiano sono esempi
sufficienti. Come pure risulta chiaro dai testi marxiani che per lui la
realizzazione della democrazia implicava una società di cittadini/produttori
liberamente associati che non alienano più la loro personalità per costrizioni
politiche ed economiche. Su questo, come pure sull’essere istituzioni
incompatibili con l’umana libertà lo Stato e il capitale, sia lui sia Bakunin
erano perfettamente d’accordo.
In definitiva Marx ha effettuato una duplice azione critica: le critica
dell’economia politica borghese, e la critica sociale incentrata sulla
necessità di liberare la democrazia dal capitale (elemento economico dello
sfruttamento da parte della borghesia) e dallo Stato (elemento politico dello
sfruttamento da parte di quella classe). Su tutto questo non poteva esserci un
disaccordo.
Anche circa il ruolo delle avanguardie nel corso della lotta di classe ci
si deve liberare da vari luoghi comuni frutto solo di spirito polemico. Se è
vero che Bakunin sottolineava spesso e volentieri lo spontaneismo delle masse,
è pur vero che l’assolutizzazione di questo aspetto contrasta – e di molto –
con tutta la sua costante azione cospiratoria e con il suo ricorso alla
fondazione di associazioni rivoluzionarie più o meno segrete. Se queste non
erano avanguardie, allora cosa erano? Se alla parola si dà il corretto
significato di trovarsi più avanti, di fungere da orientamento e guida, e non
il significato «sostituzionista» poi conferitogli da Lenin, non pare che
nemmeno su questo punto vi fosse un contrasto insanabile. D’altro canto Marx
oltre a non essere marxista non era nemmeno leninista!
Si potrebbe forse dire che sul problema della libertà Marx metteva troppo
l’accento sulla determinante economica, mentre per Bakunin libertà ed eguaglianza
non dipendevano da un dato modo di produzione, ma dall’eliminazione di
condizionamenti sociali inerenti alla superstruttura In definitiva si trattava di sfumature, di
punti di vista (in senso proprio) differenti, e a cui possono attaccarsi solo
degli inveterati rimasticatori della dogmatizzazione del pensiero altrui.
Per quanto riguarda lo Stato, paradossalmente – si potrebbe dire – sia Marx
sia Bakunin erano d’accordo anche sulla sua finale abolizione .
Il problema del “quando” di questa finale abolizione finì col diventare
elemento di contrasto, fino alla rottura a cui senz’altro contribuirono le
specificità caratteriali del filosofo tedesco e del cospiratore russo. Possiamo
anche considerare piccinerie la ben scarsa simpatia di Marx per i russi e di
Bakunin per i tedeschi; ma la notevole considerazione di sé stessi manifestata
nei fatti dai due contendenti, e la loro tendenza a caricare di valenze
negative la personalità dell’avversario
dettero un poderoso contributo all’inconciliabilità delle rispettive posizioni.
Il modo in cui entrambi i contendenti si attestarono sulle rispettive
posizioni, in ciò poi imitati dai rispettivi seguaci, ebbe come ovvia
conseguenza il mancato apporto critico dell’uno verso l’altro, con conseguenze
esiziali per le successive fasi del movimento di emancipazione rivoluzionaria
dei lavoratori.
Il problema della lotta politica concretizzatosi - come detto -
nell’introduzione dell’art.7 bis negli Statuti, nella concezione marxiana si
traduceva in due aspetti fra loro collegati: quello della cosiddetta
“transizione” alla società comunista, e quello della dittatura del
proletariato, che dette adito all’accusa di autoritarismo da parte dei
bakuninisti.
A costo di sembrare semplicisti, c’è da dire che le due “scuole di pensiero”
avrebbero potuto anche coesistere (e fornirsi mutui apporti) se – e qui ci
vuole un “soprattutto” – il carattere autoritario di Marx e l’intransigenza di
Bakunin non avessero complicato le cose, col risultato di collocare i due
orientamenti nella sfera dell’inconciliabilità. Degli epigoni si è già parlato.
Nell’argomentare la predetta conclusione si farà riferimento anche alle
esperienze pratiche delle due rivoluzioni di carattere comunista anarchico del
secolo scorso – quella ucraina dopo il 1917 e quella spagnola del 1936 – alla
luce del principio “la prassi verifica tutto”.
Cominciamo dall’impostazione marxiana contenuta nel Manifesto del partito comunista (1948). Dopo aver affermato che il
primo passo della rivoluzione operaia sta nell’elevarsi del proletariato a
classe dominante, la previsione di Marx ed Engels era che
«Il proletariato si servirà della sua supremazia
politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per
accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a
dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per
aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive.
(...) Quando nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno sparite
e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il
potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso
proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione
di un’altra. Se il proletariato nella lotta contro la borghesia, si costituisce
necessariamente in classe, per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in
classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce,
insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza
dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo
proprio dominio di classse» .
Nel 1852 Marx tornò sul tema in una famosa lettera a Weidemeyer,
specificando
«1. che l’esistenza delle classi è soltanto legata
a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta di
classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa
dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte
le classi e a una società senza classi» .
Non si può negare ai passaggi a annuncio profetico, stante l’assenza di
ogni spiegazione contenutistica e relativa alle modalità
organizzativo/istituzionali con cui si verificherebbero le fasi sopra indicata.
Comunque sia i testi citati espongono la teoria di una rivoluzione che si
evolve a tappe, durante le quali lo Stato non viene immediatamente distrutto,
ma si estingue alla fine di una fase di transizione che si presenta come
un’evoluzione necessaria.
Bakunin ben conosceva il Manifesto
del ‘48 e sviluppò una critica che, come già detto, vista retrospettivamente ha
il sapore di un’esatta previsione di quel che sarebbe poi accaduto in Unione
Sovietica:
«Lo Stato diventato solo proletario (...) sarà
anche l’unico capitalista, il banchiere, il finanziatore, l’organizzatore, il
direttore di tutto il lavoro nazionale, e il distributore dei suoi prodotti.
(...) Questa rivoluzione consisterà nell’espropriazione successiva di tutte le
terre e di tutto il capitale da parte dello Stato che, per poter svolgere la
sua grande missione sia economica che politica, dovrà essere necessariamente
molto potente e assai fortemente accentrato. (...) Nello Stato popolare di
Marx, ci si dice, non ci saranno classi privilegiate (...) ma un governo
eccessivamente complicato, che non si accontenterà di governare e di
amministrare le masse politicamente, come fanno tutti i governi oggi, ma che
amministrerà anche economicamente, concentrando nelle sue mani la produzione e
la giusta ripartizione delle ricchezze, la coltivazione della terra, lo
stabilimento e lo sviluppo delle fabbriche, l’organizzazione e la direzione del
commercio, infine l’applicazione del capitale alla produzione da parte di un
solo banchiere, lo Stato» .
Tuttavia l’elaborazione di Marx non era rimasta ferma al 1848, non essendo
egli il classico dogmatico ottuso (come invece molti suoi seguaci,
contemporanei e non), impermeabile agli effetti di avvenimenti suscettibili di
fungere da stimolo per rimeditare precedenti dati teorici. E così fu che
l’esperienza della Comune di Parigi indusse Marx ad apportare un significativo
aggiustamento alla posizione espressa nel Manifesto.
Nel merito sono importanti tre scritti: una lettera a Kugelmann durante la
rivoluzione parigina, l’Indirizzo redatto da Marx nel 1871 a nome del Consiglio
Generale dell’Internazionale sui fatti della Comune, e la prefazione del 1872 a una riedizione del Manifesto medesimo.
La tesi in essi esposta da Marx era che la classe operaia non deve
limitarsi all’impossessamento della macchina statale che trova già pronta;
bensì la deve spezzare. E, ulteriormente, nell’Indirizzo del ’71 Marx
affermava in termini netti che la Comune era
«la forma politica, finalmente trovata, con cui
realizzare l’emancipazione economica del lavoro».
Ciò poteva rappresentare, sul piano della prassi teorica, uno sforzo di
sintesi con le posizioni bakuniniste, e così venne inteso, per esempio, da Jean
Guillaume, benché con una riserva di fondo sulla sincerità di Marx. Ad ogni
modo queste nuove prese di posizione rappresentavano – nell’oggettività delle
parole scritte – un mutamento di rotta non secondario. Vale la pena di
riportare quanto scritto dallo studioso anarchico Arthur Lehning:
«È un’ironia della storia che nel momento stesso
in cui la lotta delle tendenze autoritarie ed antiautoritarie raggiungeva
l’apogeo, Marx, impressionato dall’enorme effetto del sollevamento
rivoluzionario del proletariato di Parigi, si sia fatto portavoce delle idee di
questa Rivoluzione, che erano l’opposto di quelle che egli rappresentava, in un
modo tale che si potrebbe considerarle il programma di quella tendenza
antiautoritaria che egli combatteva con tutti i mezzi (...). La Comune di
Parigi non aveva niente di comune con il socialismo di Stato di Marx, ma andava
molto più d’accordo con le teorie di Proudhon e la teoria federalista di
Bakunin (...). Il principio essenziale della Comune (...) era che il
centralismo politico dello Stato doveva essere rimpiazzato da un autogoverno dei
produttori, con una federazione delle comunità autonome a cui doveva essere
affidata l’iniziativa fino ad allora lasciata allo Stato (...). La Comune di
Parigi non ha centralizzato i mezzi di produzione nelle mani dello Stato.
L’obiettivo della Comune di Parigi non fu di lasciare “deperire” lo Stato, ma
di abrogarlo immediatamente (...) L’annientamento dello Stato non era il
risultato finale inevitabile di un processo storico dialettico (...). La Comune
di Parigi annientò lo Stato, senza realizzare nessuna delle condizioni definite
precedentemente da Marx come preludio alla sua abrogazione (...)» .
Lo stesso Lenin in Stato e
Rivoluzione – scritto alle soglie della Rivoluzione d’Ottobre, non
giudicato negativamente dagli anarchici russi, e la cui impostazione Lenin
stesso relegò nell’oblio dopo la vittoria – ha attribuito alle conclusioni
marxiane sulla Comune
il carattere di emendamento sostanziale del Manifesto
Addirittura il marxologo Maximilien Rubel (che a differenza di Lehning ha
considerato Marx un libertario) ha sostenuto che con la svolta determinata
dalle vicende parigine il pensiero marxiano avrebbe trovato la sua forma
definitiva riguardo al problema politico .
Una conferma può essere inferita da alcuni passaggi della Critica al Programma di Gotha (1875)
laddove si pone il contrasto fra lo Stato come
«organo sovrapposto alla società (...) ente
autonomo (...) organismo a sé» ,
e il periodo della trasformazione rivoluzionaria della società capitalista
nella società comunista in cui
«Stato non può essere altro che la dittatura
rivoluzionaria del proletariato» .
Dovendo questa «dittatura» differenziarsi dallo Stato per non essere
anch’essa un organismo politico sovraordinato alla società, la conclusione
obbligata è che in essa il potere deve muoversi dal basso: deve essere la
democrazia proletaria.
Tuttavia l’ulteriore sviluppo del pensiero marxiano ebbe un’incidenza
pressoché nulla sullo sviluppo dei contrasti nell’Internazionale, che
seguirono il loro nefasto corso in piena autonomia. E anche dal punto di vista
teorico non ebbe alcuna influenza sulle elaborazioni dei seguaci di Marx, in
quanto – come rilevò in uno scritto del 1918 l’illustre marxista Franz Mehring
- Engels, dopo la morte dell’amico, in polemica con gli anarchici tornò
radicalmente alle posizioni espresse nel Manifesto.
Ad ogni buon conto la svolta marxiana del ’71 da sola non chiudeva la
questione della lotta politica. Infatti, la lectio
ricavabile dalla Comune riguardava la fase dello scontro rivoluzionario
finale, mentre rimanevano in piedi il cosa fare e come organizzarsi soprattutto
quando la rivoluzione non è dietro l’angolo. La sua posizione tradizionale fu
ribadita negli Statuti approvati nel 1872 dal Congresso dell’Aja, al punto 7a:
«Nella sua lotta contro il potere unificato delle
classi possidenti il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in
partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti
dalle classi possidenti. Questa organizzazione del proletariato in partito
politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione
sociale (...). L’unione delle forze della classe operaia, che essa ha già
raggiunto grazie alla lotta economica, deve anche servirle di leva per la lotta
contro il potere politico dei suoi sfruttatori».
Il partito politico del proletariato, quindi,
come organizzazione di classe volta a conferire unità di pensiero e azione alla
lotta contro la borghesia per il potere.
Orbene, a seconda dalla situazione oggettiva la lotta contro
il dominio della borghesia per il suo abbattimento, e per la creazione di un
diverso assetto sociale, è esperibile con due modalità, che tengono conto dei
rapporti di forza esistenti: o l’insurrezione o la partecipazione alla
competizione politica secondo i canali stabiliti dal sistema
liberal/democratico. Eventualmente ricorrendo ad ambedue le modalità.
Nella galassia anarchica la partecipabilità alla competizione elettorale
borghese è per i più qualcosa che sta fra il dogma e il tabù. La ben nota la
critica svolta da Lenin in L’estremismo
malattia infantile del comunismo conteneva molte esattezze. A dire il vero
è capitato che nella Spagna del 1936 gli anarchici abbiano votato, per il Frente Popular, ma senza avere candidati
propri; tuttavia hanno finito con l’avere propri ministri nel governo
repubblicano (peraltro, ministri tecnicamente molto efficienti la cui condotta
potrebbe essere classificata più “da
socialisti di sinistra” che non da distruttori del sistema). La scelta
astensionista – in senso attivo e passivo – non ha però carattere strategico
per tutti, e militanti dei moderni gruppi comunisti anarchici (soprattutto in
quelli ispirati dalla Piattaforma di
Machno e Aršinov) votano in occasione di referendum su questioni fondamentali o
inerenti alle c.d. “regole del gioco” di immediata incidenza sulla vita di
tutti.
Passando a un altro argomento, possiamo dire che ancora una volta la I Internazionale ha messo in campo due
tematiche terribili, troppo spesso oggetto di argomentazioni svolte con toni
apodittici e/o semplicisti. Il tema del partito rivoluzionario richiederebbe un
ampio studio a parte, condotto anche in base al dato di fatto che sono esistiti
e ci sono state delle rivoluzioni che tali partiti se le sono trovate davanti
per la discesa in campo spontanea delle masse popolari; e spesso e volentieri
hanno svolto un ruolo controrivoluzionario, strumentalizzando le insorgenze per
acquisire un proprio dominio sul popolo medesimo.
In linea di massima, nell’ambiente anarchico la parola “partito”, se non è
tabù, è tuttavia connotata negativamente. Ma i settori comunisti anarchici non
hanno mai potuto eludere il problema dell’organizzazione politica
come avanguardia (altra parola “tabù”, ma qui utilizzata perché corrispondente
alla realtà delle cose) da collegarsi con l’organizzazione di massa,
equivalente all’organizzazione sindacale.
Per un partito rivoluzionario, o organizzazione politica di classe che sia,
qualunque scelta esso effettui in ordine alla partecipazione alle elezioni, il
risvolto della medaglia non manca, come la storia ha dimostrato. Gli anarchici
hanno effettuato una scelte opposta quella dei partiti marxisti, avendo di mira
solo l’esito rivoluzionario. Ma dove esso è inesistente, quand’anche esistano
tensioni e conflitti sociali, non riescono a far capire alle masse in lotta
quale sia il senso – o la prospettiva – del volgersi dalla loro parte. E il
cosa fare, e come rendersi presenti (al di là dei fatti testimoniali),
risultano problematici.
Anche la scelta elettoralista, però, ha le sue spine ed esse aumentano se
la si assolutizza (come per converso la assolutizzazione nuoce alla scelta
astensionista fine a sé stessa). Ogni medaglia ha il suo rovescio, e una volta
Eduardo Galeano ricordò una scritta comparsa su un muro di Montevideo, che
diceva:
«Se le elezioni cambiassero le cose, sarebbero
illegali».
E quando poi a vincerle sono partiti di sinistra con la seria intenzione di
incidere sugli interessi economici della borghesia una feroce reazione alla
cilena è assicurata. Seppure – per ipotesi teorica – essa non si verificasse, è
fuori dubbio il ritorno alla situazione pregressa alla prima vittoria dei
partiti borghesi. È come se la storia ci ammonisse sulla necessità di fare
seguire “l’assalto al cielo” alla vittoria elettorale. Ma spesso più facile a
dirsi che a farsi.
Pur prescindendo dalle svolte alla cilena, l’accesso al parlamento borghese
è foriero di pericoli suoi propri per i rappresentati delle classi popolari.
Innanzi tutto – ed è fenomeno ricorrente – questo accesso, unitamente al
suffragio universale e alla possibilità di ricevere il mandato per un numero
infinito di legislature, fanno scendere una pesante coltre di oblio su intere
biblioteche di analisi critiche circa la natura dello Stato, e quindi del
parlamento medesimo.A ciò si aggiunga l’altro ricorrente fenomeno del distacco
progressivo degli eletti rispetto alle classi che sono stati chiamati a
difendere, e il loro ingresso nella classe politica ufficiale, le cui
connotazioni oligarchiche sono ben visibili.
Su questo punto la critica di Bakunin è degna di meditazione. Il passo che
segue riguarda la partecipazione al governo, ma le considerazioni ivi contenute
sono suscettibili di estensione anche all’agone parlamentare:
«Basta ad un uomo, anche al più aperto e al più
popolare, di fare parte di un qualunque governo perché cambi natura; a meno che
non si rituffi molto spesso nell’ambiente popolare, a meno che non sia
costretto a una trasparenza e a una pubblicità permanenti, a meno che non sia
sottoposto al regime salutare, continuo, del controllo e della critica popolare
che deve ricordargli sempre che non è il padrone, né il tutore delle masse, ma
soltanto il loro rappresentante o il loro funzionario eletto e ad ogni istante
revocabile, egli corre inevitabilmente il rischio di guastarsi nel frequentare
esclusivamente aristocratici come lui, e di diventare uno sciocco pretenzioso e
vanitoso, tutto tronfio per il sentimento della sua ridicola importanza» .
Disgraziatamente non si tratta di problemi risolvibili a tavolino una volta
per tutte; e comunque quand’anche esistessero i meccanismi di controllo e di
revoca a cui faceva cenno Bakunin, essi rischiano di restare sulla carta
laddove le masse popolari – vuoi come residuo di un’originaria educazione
religiosa, vuoi per le loro attuali caratteristiche antropologiche culturali –
abbiano la tendenza o a ricercare l’ennesimo “salvatore della patria” dalla
colorazione variabile, oppure a demandare ad altri l’ardua impresa del pensare.
Ci sarebbe poi la vexata quaestio
della dittatura del proletariato, ispiratrice di varie tonnellate di carta
stampata sia in favore sia contro. Sul suo contenuto molti ritengono che Marx
non abbia fornito cenni adeguati. L’espressione «dittatura della classe operaia»
risulta da lui usata per la prima volta nel libro Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850; ma gli avvenimenti della Comune in
realtà dettero modo a Marx anche di chiarire che cosa intendesse (se lo si
vuole intendere). Infatti, nel suo La guerra civile in Francia, avente ad oggetto quella esperienza, egli
evidenziò quali fossero le oggettive caratteristiche della Comune parigina in rapporto
proprio alla dittatura del proletariato. Tali caratteristiche riguardano: l’abolizione
dell’esercito permanente e organizzazione di una milizia operaia; la soppressione
del parlamentarismo e la realizzazione della democrazia diretta, con la creazione
di assemblee dei delegati eletti a suffragio universale, retribuiti con salario
operaio, direttamente responsabili del loro operato e – soprattutto -
revocabili in qualsiasi momento dal corpo elettorale; soppressione dei
privilegi burocratici ed eliminazione di tutte le funzioni repressive e
parassitarie tipiche dello Stato borghese.
E poi Marx tornò sul tema qualche anno dopo nella Critica al
programma di Gotha, testo in
cui la sua critica al programma del Partito Operaio Tedesco affronta anche la ben
scarsa attenzione dedicata ai processi di trasformazione di tipo rivoluzionari
e al futuro della società comunista.
Quindi è arbitrario intendere la dittatura del proletariato alla maniera
giacobina di Louis Blanc o di Lenin. Né deve cadere nell’oblio la riflessione
che ne fece un illustre menscevico di sinistra (marxista), Julij Martov. A
giudizio di Martov il concetto di dittatura del proletariato doveva essere
inteso in analogia con il termine “dittatura della borghesia” per esprimere la
realtà del potere egemonico di questa classe nelle società capitaliste riguardo
al proletariato. Realtà definibile in quel modo anche in rapporto a paesi di
tradizione democratica/parlamentare come la Gran Bretagna, la Francia o la
Svizzera.
Di modo che la dittatura del proletariato in senso marxista non è sinonimo
di dominio giacobino come è risultato con il “socialismo reale”, bensì indica
l’egemonia economica e politica del proletariato sui residui della borghesia e
dei suoi asserviti. Sicuramente Marx con quel concetto non ha indicato una
specifica forma di governo, tant’è che in una lettera a Nieuwenhuis del 22
febbraio 1881 sostenne che la dittatura del proletariato può esistere anche in
presenza del suffragio universale (e certo non si riferiva al elezioni fittizie
alla vecchia maniera bulgara).
Se poi ci volgiamo alle esperienze storiche delle rivoluzioni di segno comunista
anarchico, risulta che l’effetto allergico suscitato in tanti anarchici
dall’uso di quella espressione marxiana è più voluto che effettivamente
giustificato. Vanno ricordati sia l’ammonimento di Shakespeare sul fatto che la
rosa continua a profumare anche sotto un altro nome, sia il detto inglese sullo
sciocco che non vede il bosco a causa degli alberi. Per chiarimento ci
permettiamo un’autocitazione da un nostro precedente lavoro sulla rivoluzione
spagnola:
«(...) all’atto pratico, nelle zone a egemonia
libertaria, che cosa hanno fatto i militanti anarchici – e le masse con cui
operavano – se non instaurare una dittatura del proletariato (come classe)
senza chiamarla così? (...) dov’era la libertà di azione per i nemici di
classe? Come spiegare altrimenti tutte le lamentele e le denunce dei borghesi
per il comportamento rivoluzionario dei miliziani confederali, che operavano
come hanno sempre operato i rivoluzionari laddove hanno potuto agire come tali.
La requisizione e la gestione collettiva delle imprese e delle terre furono
azioni da dittatura del proletariato; né più né meno. Idem per le fucilazioni
sommarie dei simpatizzanti degli insorti in quanto nemici di classe. E quando
in Ucraina, durante la Rivoluzione russa, in una zona passava la c.d. “armata
nera” di Machno, anch’essa praticava nella realtà dei fatti la dittatura di
classe del proletariato, e nessuno, nemmeno gli anarchici della corrente
“pontificatrice” da accademia sono mai arrivati a negare l’anarchismo di
Machno. (...) Nascondersi dietro un dito non vale, perché in una rivoluzione
sociale la dittatura di classe degli sfruttati
è cosa fisiologica. (...) Possiamo non chiamarla dittatura del proletariato, se
pensiamo che il nome sia stata inquinata dalla storia: chiamiamola democrazia
proletaria o quello che ci pare. I nomi, in fondo, sono convenzioni. Quando
nella Piattaforma dell’Unione Generale
degli Anarchici-Progetto, di Machno, Aršinov ecc. Si sosteneva che «per
trasformare la società capitalista in una società di lavoratori liberi non vi è
altra strada che quella della rivoluzione sociale violenta», che cos’altro si
deve intendere se non un’imposizione di classe sui nemici di classe?» .
È opportuno rammentare che il programma approvato nel 1880 dalla
Federazione del Giura tra l’altro prevedeva l’organizzazione delle forze
insurrezionali e la costituzione di una serie di commissioni che gestissero la
sicurezza contro i nemici della rivoluzione, assumessero il controllo del
capitale sociale dopo la distruzione dei titoli di proprietà e le opportune
confische, e tutta una serie di incombenze per la gestione sociale della
società organizzata. Se non era dittatura del proletariato ....
In aggiunta a quanto detto c’è da riflettere sul problema della transizione
alla società comunista, assumendo come dato non controverso lo sviluppo dato da
Marx alla questione politica dopo i fatti della Comune. Il tema non si
esaurisce con l’abbattimento delle strutture statuali e la loro sostituzione
con assetti organizzativi della società in cui il flusso del potere non sia più
dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto. Questo evento
rivoluzionario non determina in sé e per sé il passaggio alla società
comunista, bensì apre necessariamente una fase di transizione (se non piace, il
nome è sostituibile, magari con «intermedia»). E al riguardo vanno affrontati
almeno due punti problematici, non risolvibili dall’oggi al domani.
Innanzi tutto il passaggio qualitativo dall’uomo “vecchio” della società
fondata sul dominio all’uomo “nuovo” della società rivoluzionaria. Tema non
affrontato adeguatamente da Bakunin. Il detto marxiano secondo cui l’essere
individuale è determinato dalle sue materiali condizioni sociali esprime una
valutazione realista, ma dal canto suo l’impostazione di Bakunin risulta
condizionata da un’ottica eccessivamente ottimista, e in definitiva un po’
semplicista. La sua etica, in fondo, era di tipo naturalistico e in essa il
male in definitiva veniva collocato in una sfera estranea all’applicazione
delle leggi naturali. C’è da tenere conto – ferme restando le variabili
filosofiche – che l’anarchismo rivoluzionario richiamantesi a Bakunin, riguardo
alle pulsioni socialmente negative degli esseri umani manterrà un rilevante
deficit nel mettere a frutto le progressive scoperte delle scienze umane in
ambito psicologico e sociologico. Ivi compresa quell’oscura pulsione verso la
servitù volontaria su cui già nel sec. XVIII Étienne De la Boétie aveva messo
in guardia (invano) .
Bakunin imputava a Marx la mancanza di considerazione per aspetti della
natura umana come gli istinti e il temperamento; nonché per i caratteri
specifici acquisiti da ogni popolo come prodotti naturali di svariate cause
etniche, climatiche, storiche ed economiche. E tra questi caratteri lo spirito
di ribellione nei suoi differenti gradi di sviluppo. Il problema è che Bakunin
sopravvalutava quest’ultimo elemento a scapito di qualcosa che invece per Marx
era essenziale: l’educazione politica delle masse, lo sviluppo della coscienza
di classe, senza la quale i lavoratori non focalizzano adeguatamente il fatto
che la loro condizione di sfruttamento è un dato fisiologico del sistema
dominante, e quindi sono facile preda di manovre riformistiche nel segno della
compatibilità col sistema stesso Marx aveva ben chiara la non riducibilità
della coscienza di classe al mero istinto di ribellione, di per sé
insufficiente a contrastare la propaganda ideologica della borghesia
finalizzata a fare intendere che il suo sistema socio/economico è il vertice
della libertà e della giustizia.
Si tenga presente che se in ambito più specificamente marxista il problema
della difesa di una rivoluzione inizialmente vittoriosa verso i nemici esterni
e interni non ha mai suscitato problemi di natura teorica, oltre che pratica,
invece sul versante anarchico la cosa spesso e volentieri sia stata impostata
in un modo pericolosamente ottimistico/volontarista anche da settori definitisi
rivoluzionari: si pensi alle assurde elucubrazioni di un Errico Malatesta sulla
necessità che la rivoluzione abbia l’appoggio della quasi totalità del popolo,
o alla paralisi operativa dei vertici della spagnola Cnt-Fai di fronte a una
prospettiva o – peggio ancora – a una realtà rivoluzionaria in cui non fosse
coinvolta la stragrande maggioranza della popolazione di un paese. Che poi, in
concreto, militanti libertari abbiano dato risposte realiste d’altro segno è
questione diversa.
Tornando al problema della transizione, alla critica bakuninista all’azione
per la conquista del potere statale mancava l’elaborazione di un progetto
organico – sia pure a fini indicativi – contenente una concreta e chiara parte
propositiva: riguardo a ciò le linee di fondo esistevano, ma molto restava
ancora da esplicitare. Questo è stato realizzato solo successivamente: si pensi
solo a Il Comunismo Libertario. Il regime
di transizione di Christian Cornelissen, dell’inizio de secolo scorso, o a Il comunismo libertario dell’anarchico
spagnolo Isaac Puente Amestoy, che prima della guerra civile ha delineato un
dettagliato progetto/proposta di strutturazione dell’auspicata società
libertaria.
Bakunin non era uno sciocco sognatore, e in più – da buon cospiratore –
sapeva benissimo quale fosse il valore dell’organizzazione. Con la conseguenza
che era ben lungi da lui concepire una società rivoluzionaria disorganizzata.
Ben sapeva altresì che lo Stato (monopolista assoluto della forza e della
produzione di norme) non è l’unica forma possibile di organizzazione sociale;
semmai è un’organizzazione sovraordinata alla società per dominarla nell’interesse
delle classi dominanti. In realtà il corollario della posizione di Bakunin non
poteva che consistere nella realizzazione di forme dinamiche di democrazia
proletaria; in una autorganizzazione della società, come già detto, dal basso
nella quale il flusso del potere fosse invertito rispetto all’assetto di tipo
statuale: cioè non più dall’alto verso il basso bensì, viceversa, dal basso
verso l’alto.
Tuttavia nell’elaborazione
bakuninista non era palese la consapevolezza delle inerenti complessità operative.
E in assenza di ciò quella impostazione era suscettibile dell’accusa di astrattismo
e di automatismo semplicistico. Su questa linea negativa furono, per esempio, il Programma
degli Anarchici del 1920 e molti scritti di Malatesta, che ci offrono il quadro
di una rivoluzione che “in tempo reale” abbatte il tiranno/Stato e pone le basi
per una società libertaria la cui difesa dissidenti nostalgici del regime borghese
e controrivoluzionari non presenterebbe soverchie difficoltà. Nella galassia
anarchica, inoltre, la corrente individualista è stata veicolo di germi
ideologici piccolo-borghesi, e il ricorso a un certo confusionismo
terminologico è ancora tale da ricordare il detto di Nanni Moretti
«chi parla male, pensa anche male».
Questo confusionismo ha ulteriormente fatto sì che spesso
non ci si capisca fra marxisti e anarchici, e spesso nemmeno fra anarchici. Un
esempio macroscopico si ha quando in discorsi anarchici appare come bestia nera
il concetto di «potere»: classico caso di una parola diventata eteronoma,
accomunando situazioni fra loro irriducibili. Infatti ci si dimentica che il
potere è in realtà una funzione sociale regolatrice, oppure l’insieme dei
processi attraverso cui la società si autoregola, producendo norme e facendole
rispettare per la sua sopravvivenza; l’autorità invece si riferisce alle
facoltà e capacità decisionali, la cui ragion d’essere è certo maggiore in una
società complessa; e infine il dominio è il monopolio del potere esercitato da
una minoranza (politica e/o economica) tale da escludere dal suo esercito il
resto della società. Chiarito ciò, va da sé che per un anarchismo che non
voglia correre il rischio di incorrere nella categoria che Camillo Berneri
definì «anarco-cretinismo», il vero nemico è solo il dominio, mentre potere e
autorità sono funzioni sociali in sé neutrali e ineliminabili in qualsivoglia
contesto sociale, compreso quello libertario.
Spesso negli ambienti anarchici non rivoluzionari è
sfuggito un fatto
ineluttabile per ogni rivoluzione sociale: cioè che essa si deve confrontare
con una serie di fattori che non le consentono di
essere un evento istantaneo, bensì un processo di lunga durata. In questo lasso
temporale i problemi della rivoluzione non attengono solo allo Stato e agli
assetti capitalistici: i nemici da affrontare sono sempre interni ed esterni.
Tra quelli interni oltre ai signori del capitale e ai loro mercenari
nell’esercito e nella polizia ci sono anche le masse di cittadini che (indipendentemente
dall’essere anche loro vittime del sistema) temono gli esiti rivoluzionari e
sono legati a meccanismi ideologici e psicologici che ne fanno degli strumenti
delle classi dominanti.
Inevitabilmente la lotta rivoluzionaria per un periodo di
durata aprioristicamente indeterminabile non coinvolge la maggioranza degli
oppressi, e solo una parte di essi gestirà lo scontro finale, eventualmente
contro il resto della popolazione. Lo scontro finale è il momento culminante
della lotta di classe, e non viene mai preceduto da votazioni per verificare se
vi sia o no il consenso della maggioranza del popolo. Semplicemente, raggiunto
un certo grado di intolleranza allo sfruttamento, alcuni sfruttati decidono di
dire “no” all’ordine socio/economico che li sfrutta; e se ne hanno la forza ci
riescono..
Quando lo sviluppo della lotta abbia raggiunto elevati
livelli quantitativi e qualitativi si determina una specie di “spazio” virtuale
in cui vengono costruiti gli elementi della nuova società. E allora la lotta
punta all’estensione progressiva di questo spazio: lì si formano le strutture
del potere proletario, sempre più operative nella misura in cui o si debilita o
viene sostituito l’apparato statale/capitalista. Qui nascono gli organismi
della gestione popolare, della riorganizzazione della società con gli strumenti
di massa per combattere i nemici di classe. Con la demolizione delle precedenti
istituzioni politiche, disfatto il potere dello Stato, il nuovo potere popolare
si afferma e si estende.
Per finire una considerazione che reputiamo non
peregrina: la I Internazionale - al di là del ruolo da essa svolto e dai
problemi di prassi teorica sollevati – ci lascia un legato la cui validità non
risulta intaccata dl tempo trascorso e dagli avvenimenti intervenuti fino a
oggi; questo legato (inserito nelle considerazioni poste a premessa degli
Statuti), proclama che
«l’emancipazione della classe operaia
dovrà essere opera dei lavoratori stessi».
Infatti solo l’emancipazione autorealizzata è definibile
tale, altrimenti si resta in quella dimensione giacobina a cui si deve la
frase-ossimoro
«costringere a essere liberi».
Il principio sancito dalla I Internazionale si
contrappone alla valenza data dal bolscevismo al partito e al cosiddetto Stato
operaio; da esso deriva inoltre che l’organizzazione politica dei lavoratori
vale solo se opera quale strumento della classe, senza vedere in termini di
fatalità – senza il partito-guida, metafisico possessore del vero – la deriva
tradunionista della classe medesima.
Un grande militante rivoluzionario, il francese Daniel
Guérin - a cui si deve la frantumazione dello stereotipo di una certa volgata
propagandista che presentava Bakunin come un arruffapopoli inconcludente,
pasticcione e di poco cultura – ha messo in evidenza un aspetto da non
trascurare, e da cui partire, a proposito di certi pregiudizi e giudizi di
Bakunin su Marx:
«Attribuire a Marx una concezione
tanto autoritaria, significa certamente forzare il pensiero di Marx. Ma ci
sembra oggi, rileggendolo, che Bakunin avesse previsto il bolscevismo e,
quindi, la III Internazionale- Per quanto riguarda il problema dello Stato, il
grande libertario non si è dimostrato meno profetico. I socialisti dottrinari
«non sono mai stati, e non lo saranno, nemici dello Stato, ma, al contrario ne
sono stati e ne saranno sempre i più zelanti campioni» poiché aspirano a
«mettere al popolo nuovi finimenti» e ad «ammucchiare [su di lui] i vantaggi
delle loro misure governative» (...) Noi verremo veramente a capo di questo
flagello, e ne libereremo finalmente il mondo, accelerando il momento in cui
sia realizzerà – attraverso l’esercizio della democrazia diretta operaia,
dell’educazione e dell’autogestione – la fusione annunciata da Lassalle della
scienza e della coscienza con la classe operaia» .
A dire il vero un primo ma dimenticato contributo al
corretto inquadramento del contrasto fra i due grandi rivoluzionari c’era stato
ai primi del secolo scorso, da parte di Franz Mehring nella sua opera sulla
vita di Marx (che non a caso sul punto fu criticato da Karl Kautsky (il «papa
rosso» della II Internazionale). Questo specifico aspetto del predetto libro fu
esaminato da quell’acuto studioso dell’anarchismo che fu Pier Carlo Masini. E
vale la pena citarne un passaggio:
«Bakunin, secondo Mehring,
interpretava determinate istanze del movimento operaio, e l’anarchismo
costituiva la formulazione politica di queste istanze. (...) Qui un ceto
operaio ben pagato, con diritti politici che gli consentivano di partecipare
alla lotta parlamentare, ma che lo attiravano anche in ogni sorta di discutibili
alleanze con partiti borghesi; là uno strato operaio mal pagato, privo di
diritti politici, che poteva contare soltanto sulla sua nuda forza. (...) Non era una caso che Bakunin contasse
un certo numero di seguaci che si sono acquistati grandi meriti nella lotta di
emancipazione del proletariato. Liebknecht non apparteneva certo al numero
degli amici di Bakunin, ma al tempo stesso al congresso di Basilea si pronunciò
per l’astensione politica almeno con lo stesso fervore di Bakunin. Altri invece
erano i più fervidi bakuninisti (...) come Jules Guesde in Francia, Carlo Cafiero
in Italia, César De Paepe, Pavel Axelrod in Russia; se poi essi diventarono
altrettanto fervidi marxisti, ciò accadde come taluno di loro ha espressamente
affermato, non perché essi si siano sbarazzati delle loro precedenti
convinzioni, ma solo perché erano legati a cuò che Bakunin aveva in comune con
Marx»
Sulla base dall’esperienza della I Internazionale, per
concludere, dovrebbero essere recuperati gli elementi che unirono i marxisti e
i bakuninisti e assunti come fattori cementanti; andrebbero ripensati
a-dogmaticamente i temi del loro scontro con una latitudine mentale ampliata e
arricchita da tutto quanto è accaduto nel secolo scorso; sarebbe necessario
avere il coraggio di confessare che la rottura fra marxisti e anarchici fu un
disastro per entrambi, e comportarsi di conseguenza su un percorso insidiato,
però, da quell’oscura pulsione che si chiama “spirito settario”; e infine
affrontare gli enormi problemi attuali – aggravati dall’affievolimento del
fattore-speranza e dal conseguente entusiasmo nella lotta – utilizzando il
contributo teorico di Marx e il suo metodo con spirito libertario. Realizzando,
cioè, una dimensione tale da poter dire (con una parafrasi di quanto scrisse
Cafiero)
«comunisti libertari perché marxisti,
e marxisti perché comunisti libertari».
Se si pensa che tutto ciò sia troppo, allora il passato
si ripeterà, e probabilmente – per dirla con Marx – in termini di farsa;
sperando che almeno la tragedia interna alle fila rivoluzionarie venga
risparmiata.