(In relazione all’articolo di Moreno Pasquinelli, «La madre dei dottrinari è sempre gravida»*, con premessa fatta di considerazioni generali su
come nella sinistra italiana non si faccia seria polemica politica).
La polemica è il pepe
della discussione politica, non fosse altro perché costringe a chiarire le
proprie posizioni, ad approfondirle, oppure a rivederle, quando si è onesti.
Per quanto mi riguarda è sempre bene accetta, anche perché è un bene rarissimo
e stimolante.
Purtroppo, però, la
sinistra post-Pci è da decenni disabituata a condurre polemiche in modo serio.
Anzi, si può tranquillamente dire che se si tratta di manovre interne e di
dichiarazioni estemporanee di basso cabotaggio, senza respiro strategico,
fioccano editoriali e articoli; mentre, a fronte di una critica esterna
radicale e argomentata, l’atteggiamento è semplicemente il silenzio. Un
omertoso silenzio.
Uno spettacolare esempio
della capacità di costruire e mantenere negli anni il silenzio è il modo nel
quale Verdi, Pdci, Prc e gruppetti contigui - con il Manifesto e Liberazione
- finsero (e ancora fingono) d’ignorare l’esistenza del libro I Forchettoni
rossi. La sottocasta della «sinistra radicale» (a cura di Roberto Massari, Massari editore, Bolsena
2007). Il libro fu recensito dal Corriere
della sera, dal Giornale (sorvolo
qui su recensioni minori, radio e televisioni locali),
e si vendette in qualche migliaio di copie: ma neppure una parola,
assolutamente nulla, apparve sul Manifesto
e Liberazione, neanche una drastica
stroncatura, magari solo per rispondere alle recensioni di due grandi organi
della stampa borghese, tra cui il più importante quotidiano italiano
(recensioni politicamente «interessate», forse, ma corrette). Giunse solo un
gentilissimo ringraziamento autografo, per l’invio del libro, da parte
dell’allora Presidente della Camera e principale indiziato del libro (Fausto
Bertinotti).
Durissimo nel giudizio a
partire dal titolo, nel merito delle questioni il libro fu però scritto con
metodo scientifico. Tutto è documentato,
l’argomentazione rigorosa e pacata: la ricostruzione delle giravolte
politiche, della manipolazione linguistica, del peso del finanziamento pubblico
e delle carriere dei forchettoni rossi, le tensioni
interne, le responsabilità al femminile. Obiettivamente ciò ne fa un
volume indispensabile, non solo per il militante politico, ma anche per lo
studioso di scienze politiche che sia interessato alla cosiddetta «sinistra
radicale» del tempo.
Per chi dispone di una
seppur piccola nicchia nel mercato editoriale e politico l’arma migliore,
ancorché la più disonesta, è senz’altro il silenzio. Nella società dello
spettacolo il silenzio equivale a una condanna a morte virtuale. Per fortuna,
però, il silenzio non impedisce alla realtà di fare il suo corso o per lo meno
non sempre. Nelle elezioni del 2008 l’elettorato, disgustato dall’opportunismo
politico e dalla palese degenerazione di questa sottocasta della Casta politica,
punì duramente la sedicente «sinistra radicale», cacciandola dal Parlamento. Le
valutazioni dei circa due milioni di elettori che si astennero giustamente dal
votare per Prc, Pdci e Verdi erano le stesse anticipate ne I Forchettoni rossi. E a me piace
pensare che a qualche migliaio di quegli elettori il nostro libro può aver
fornito argomenti razionali e documentati, superiori alla legittima reazione
istintiva e disperata. Oggigiorno può ancora fornire argomenti per non ricadere
nella medesima trappola.
A sinistra della sinistra
forchettonica non è che la situazione del dibattito sia migliore. Siamo molto
al di sotto di quanto sarebbe necessario per costruire un’area
anticapitalistica. Ha dell’incredibile vedere come possano ancora sussistere
residui togliattiani, nostalgici di Berlinguer e dell’Unione Sovietica o
addirittura dello stalinismo. Per altri versi, il dato essenziale è la
frammentazione e una sostanziale autoreferenzialità, negata ma praticata nei
fatti, e la persistente inclinazione alla presentazione elettorale, con quel
che ne consegue in termini di ambiguità politica o di settarismo partitico.
Capita, anche, che la
polemica degeneri irrimediabilmente già dal secondo passo. È quanto accaduto in
seguito al mio articolo «Tornare alla lira e cancellare
il debito? Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria
borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo», nel quale
ho preso posizione, in seguito a una discussione nella redazione di Utopia
rossa, nei confronti delle assemblee di Roma (svolta il primo ottobre) e di
Chianciano (22 e 23 ottobre, all’insegna delle
indicazioni «Fuori dal debito! Fuori dall'euro!»).
Come è evidente, si è trattato di un articolo
di polemica politica immediata, seria ma dura. Il taglio dell’articolo era
molto diverso da quello prevalente nelle decine di articoli e saggi, e qualche
libro, che nell’ultimo quarto di secolo sono andato scrivendo sull’economia
mondiale del passato e del presente, inclusi alcuni «pesanti» articoli presenti
nel blog di Utopia rossa sulla crisi in corso. Nella maggior parte dei casi di
questi scritti l’intento politico è nei presupposti e nelle conclusioni, ma non
struttura il contenuto né la forma.
Dal lato dei promotori dell’assemblea di Roma
non ho avuto risposte dirette, cosa comprensibile dati anche i tempi ristretti.
Posso sbagliarmi, ma mi pare che nell’assemblea sia emersa un’evoluzione nel
senso che auspicavo e in qualche modo, a quel che mi si dice, i contenuti del mio articolo sono riusciti a
entrare nella discussione (se tutto ciò
è vero, e in che misura, ce lo diranno i fatti). Attenersi rigorosamente alla
parola d’ordine «noi il loro debito non lo paghiamo» è cosa diversa dalla
rivendicazione che «lo Stato italiano non paghi i suoi creditori»: nel primo
caso ci si contrappone al padronato e allo Stato, nel secondo si difende lo
Stato (imperialistico) dai suoi creditori.
Una replica al mio
articolo è invece venuta dal compagno Moreno Pasquinelli, uno dei principali
promotori dell’assemblea di Chianciano. Se non fosse andata persa, sarebbe
stata un’ottima occasione di discussione, polemica quanto si vuole ma
pertinente nel merito. E invece così non è andata e l’articolo di Pasquinelli
può ben essere citato come un esempio da manuale di come non si debba condurre una polemica, o, più precisamente, di quel
che è l’opposto di una polemica razionale, che si confronti con le reali posizioni dell’avversario. Si
tratta di un bell’esempio di come l’esigenza garantire il proprio orticello a
fronte delle critiche e di autoassolversi ricorrendo alla demonizzazione e al
deliberato travisamento degli argomenti dell’avversario possano prevalere
sull’uso della ragione.
Il mio articolo definiva nazionalsciovinista
la rivendicazione dell’uscita dall’eurozona. Indubbiamente è un duro giudizio
politico, ma non un attacco personale; mira a colpire il significato oggettivo
della parola d’ordine, non la soggettività di chi la formula né la bontà delle
intenzioni dei suoi sostenitori; il giudizio politico è accompagnato da
argomenti, che si possono condividere o respingere totalmente, ma che per
sostanza e forma rientrano nel quadro della discussione razionale. Lo stesso
dicasi per il giudizio di quella soluzione come «retrograda» e «reazionaria».
Sulle capacità politiche e intellettuali soggettive mi sono limitato a un
garbato «ingenui», che può comunque essere ancora interpretato in termini
politici e non necessariamente psicologici o personalistici.
L’articolo di Pasquinelli
invece non è altro che un lungo attacco ad
personam - la mia nella fattispecie - infarcito di improperi che non
aiutano il lettore a comprendere i termini del dissenso. Ne è stato fatto un
elenco, forse incompleto, ma certamente rappresentativo: velenoso, primitivismo politico, prolisso saggetto, corbellerie
teoriche, da bocciatura secca, ultrasinistrismo teorico, indecente, la più
classica delle fuffe (?), massimalismo parolaio, cazzate, puerili, pacchiano,
sporco delle unghie, grossolano, volgare, capzioso, puerile (di nuovo),
libello, carte false, asinerie economiche, castronerie.
Gli insulti personali che
Pasquinelli mi rivolge sorprendono per varietà e numero, ma non per questo
possono sconvolgermi: il callo agli insulti cominciai a farlo decenni orsono
quando mi accadeva di riceverne da esponenti della Fgci o dai
«marxisti-leninisti»; ma non era la norma e anche i secondi non scendevano
tanto in basso, nonostante il loro riferimento ideologico allo stalinismo.
Lo stile, però, è vettore
di un contenuto, la forma è essa stessa sostanza. Va quindi detto,
innanzitutto, che questo stile e questa forma non sono congeniali a una
polemica che abbia come fine la ricerca del vero e del giusto, per
avvicinarvisi il più possibile.
Ma questo è solo
l’inizio. Fatto ancor più grave, molto più grave degli insulti, è la
sistematica deformazione di quanto da
me scritto. Deformazione, anzi, non rende l’effettiva gravità del procedimento.
In realtà Pasquinelli mi attribuisce, direttamente o
indirettamente, concetti che non solo poco o nulla hanno a che fare con
l’oggetto del contendere, che non solo non ho mai pronunciato o scritto in
quell’articolo, ma che sono in radicale antitesi con quanto da me detto,
scritto e fatto in quasi quarant’anni di cosciente vita politica trascorsi
sempre dalla parte della rivoluzione e senza grandi svolte o pentimenti
ideologici. La cosa è senza giustificazioni perché Pasquinelli può anche
non conoscere né la mia persona né i miei scritti, ma conosce più che bene
Utopia rossa: e poiché si tratta di una corrente politica internazionale di cui
faccio parte da quando essa mosse i primi passi meno di una quarantina d’anni
fa, avrebbe avuto a disposizione qualche strumento teorico in più per evitare
di attribuirmi in modo così spregiudicato e frettoloso concetti e posizioni che
non appartengono né a me né a questa associazione politica.
Ho rilevato ben tredici
passi puntuali nei quali Pasquinelli letteralmente
inventa le mie posizioni o, per il contesto, fa in modo che il lettore possa
ritenerle mie:
1) per me «ogni difesa
della sovranità nazionale (...) sarebbe passatismo, far girare indietro la
ruota della storia»;
2) per me «ogni suo atto
[della borghesia], per quanto indesiderato, sarebbe non solo irreversibile, ma
avrebbe, suo malgrado, una destinazione funzionale progressista»;
3) avrei un «atteggiamento
indifferentista o disfattista rispetto a tutte le vicende politiche che esulino
dai "puri" rapporti tra capitale e lavoro»;
4) per me «il movimento
rivoluzionario non deve impicciarsi delle grandi questioni politiche ed economiche
che sconvolgono le società borghesi»;
5) per me «i rivoluzionari
debbono farsi i cazzi loro»;
6) per me «occorre
infischiarsene se il sistema secerne un qualche fascismo»;
7) sono assimilato a «certi ultrasinistri» che rifiutano «di
difendere le lotte di liberazione nazionale» (menzogna colossale smentita, tra
l’altro, dal secondo punto della Dichiarazione di principi di Utopia Rossa e,
in tempi recentissimi, da un mio articolo del 17 settembre 2011, giusto dodici giorni prima dell’articolo di Pasquinelli: «Rosa Luxemburg e la questione nazionale (sulla Polonia, 2)», utopiarossa.blogspot.it;
8) esprimerei il «rifiuto della
lotta politica tout court, osannando di converso la lotta sindacale»;
9) ragionerei «Come se ogni proletariato, dal
momento che in potenza è portatore del socialismo, fosse non solo
unilinearmente condannato a questa missione, come fosse socialismo in atto»;
10) sarei soggetto al «feticismo della
lotta sindacale»;
11) per me «gli operai
dovrebbero limitarsi a farsi fantomatici fatti loro, aggrappandosi ai loro
specifici interessi corporativi»;
12) con la conseguenza di «giammai» opporre
«un programma politico per un'uscita rivoluzionaria dalla crisi»;
13) respingerei riforme
migliorative nell’ambito del capitalismo.
Ho rilevato questi passi
perché ciascuno di essi può agevolmente essere smentito con articoli, documenti
e addirittura interi capitoli di miei libri. Ma forse è più utile accennare
all’effetto d’insieme, all’architettura complessiva del testo di Pasquinelli.
Pasquinelli mi associa a
«Giuliano Ferrara, a Nichi Vendola, a Prodi o a Trichet»: la
cosa è talmente comica che può solo far ridere (anche perché quei quattro, a
loro volta, non sono associabili tra loro se non a costo di violente forzature
della storia, della teoria e dell’attualità politica). Se si volesse
restare sulla stessa lunghezza d’onda, si potrebbe allora associare Pasquinelli
e chi sostiene l’uscita dall’eurosistema a Roberto Fiore e a Forza nuova, a Marine Le Pen e al Front
National, insomma alla destra fascista o fascistoide, razzista e xenofoba. Ma
forzando un altro po’ anche ai fautori di un nuovo zecchino aureo padano.
Stando al metodo impiegato, a posizioni invertite Pasquinelli
certamente mi assimilirebbe ai fascistoidi; ma io non mi
sogno neanche di seguirlo su questa strada, preferendo mantenere l’attenzione
sull’oggetto in discussione e sulle posizioni da lui realmente sostenute. Ciò
non toglie che in sede di analisi, potrei anche fornire delle spiegazioni del
perché la
feccia della reazione europea sia antieuro e sia nazionalista anche in campo
monetario, riconducendo il tutto alla tradizionale difesa della sovranità di
uno Stato imperialistico.
Devo dire che in quasi
quaranta anni di discussioni politiche non ero mai stato sottoposto a un così lungo elenco d’insulti e a una così articolata arbitraria invenzione
delle mie posizioni: il tutto fatto freddamente, stilato nero su bianco, quindi
con tutto il tempo per riflettere, piuttosto che nell’animazione del confronto
faccia a faccia. La reazione di Pasquinelli appare eccessivamente scomposta,
furibonda e motivata da pulsioni aggressive da far pensare con qualche
fondamento che il mio articolo deve aver toccato qualche nervo scoperto o
qualche zona dell’inconscio, al di là del contenuto politico in quanto tale.
Giustifico così il titolo
scherzoso di questo pezzo, sperando di non sembrare offensivo a mia volta o
perlomeno di non essere sceso al livello di Pasquinelli.
Purtroppo, però, è
talmente forte la carica politico-psicopatologica da rendere impossibile lo
sviluppo di una discussione seria e l’elaborazione di una mia controreplica nel
merito. Prima di discutere del debito e dell’uscita dall’eurosistema sarei
costretto a correggere punto per punto le falsità e le arbitrarie deformazioni
del mio pensiero, entrando in controversie astratte o pseudofilosofiche, che ci
porterebbero lontani dall’oggetto del contendere. Ma forse proprio per questo
Pasquinelli vi ha fatto ricorso: perché l’attenzione fosse deviata dalla
sostanza dei problemi, dall’evidente matrice nazionalista delle sue posizioni e
dall’incongruenza se non infondatezza delle sue indicazioni da «economista»… al
posto della borghesia finanziaria.
Non scenderò quindi su
tale terreno: non m’interessa rispondere agli insulti, non m’interessa
discettare dei massimi sistemi (con riferimenti storici fasulli o infondati da
parte del mio interlocutore), non m’interessa riempire pagine di scrittura che
invece di avvicinarci alla soluzione dei problemi reali ce ne allontanino per
semplice gusto della polemica oppure per nascondere la propria impreparazione
teorica. Tutto ciò sarebbe inutile e io non sono minimamente interessato a
condurre una polemica sterile nel peggior stile della gruppettistica. (Una
gruppettistica, sia detto en passant, della quale Moreno è certamente uno degli
interpreti italilani più variegati e camaleontici, ma anche più settari e
autoreferenziali.)
Solo una cosa mi sento in
dovere di rilevare. Il testo di Pasquinelli trasuda disprezzo verso ciò che io ho definito il sano «istinto» di classe:
l’istinto che fa sì che i lavoratori possano lottare con i sindacalisti
«onesti» in difesa dei loro interessi immediati che, proprio per essere tali,
si contrappongono congiunturalmente
agli interessi del padronato e dello Stato capitalistico, e che comportano il
rifiuto di schierarsi a favore della propria impresa contro la concorrenza, di
appoggiare un settore del padronato contro un altro. Notavo che, su scala più
ampia, ciò implica che i lavoratori possano e debbano giustamente rifiutarsi di
prendere parte per questa o l’altra opzione politica borghese o per il proprio Stato
imperialistico (come è quello italiano) nelle sue beghe con altri Stati
imperialistici o con le banche internazionali. A tutto ciò Pasquinelli oppone
una sorta di ultraleninismo che, ripeto, trasuda disprezzo nei confronti di quelle lotte reali, che oggi mancano o
sono purtroppo del tutto insufficienti, che costituirebbero la condizione
elementare perché si possa resistere al feroce attacco padronale e statale.
Lenin avrebbe come minimo cacciato a pedate nel sedere dalla frazione
bolscevica chi avesse inteso «difendere» la «sovranità» del proprio Stato
imperialistico, in questo caso proponendo l’uscita dall’eurosistema e il
ritorno all’italianissima lira. Ma è il disprezzo per quelle che sono dette
lotte «corporative», limitate e parziali ma pur sempre condotte da donne e
uomini reali fuori degli schemi politici di compromesso di classe, che
disturba. E non solo sul piano politico, bensì anche sul piano teorico e
soprattutto umano.
Nell’impossibilità e
inutilità di una controreplica, concludo consigliando al lettore di leggere il
mio articolo incriminato ed eventualmente gli altri già presenti in questo
blog, poi – rompendo un’inveterata tradizione per la quale si cerca sempre di
non far leggere i testi dell’avversario – invito invece a leggere o rileggere
quello di Pasquinelli e, quindi, di trarre le debite conclusioni.
5 ottobre 2011