Il quadro propagandistico fornito dall’imperialismo Usa
Una certa
attenzione va dedicata all’analisi della politica verso il mondo islamico,
adottata dagli Stati Uniti e dai loro alleati più succubi, nonché della loro
propaganda riprodotta e diffusa dalla quasi totalità degli organi di
(dis)informazione.
A suo tempo, fra
dichiarazioni della Casa Bianca, saggistica e luoghi comuni sullo scontro di
civiltà, pamphlet alla Oriana Fallaci, tuttologi all’offensiva ecc., era parso
di capire che a cavallo fra i secoli XX e XXI il posto lasciato vacante
dal’Unione Sovietica e dal suo pseudocomunismo come “nemico totale” fosse stato
occupato a pieno titolo dall’Islam più estremista, ottuso e sanguinario, attore
e fomentatore di terrorismo indiscriminato, arcinemico del concetto medesimo di
“diritti umani”, retrograda belva assetata di sangue. Gli autoproclamatisi
“padroni del mondo” non facevano altro che ricordarcelo, spesso sfiorando nei
propri servitori zelanti il ridicolo propagandistico. Chi non ricorda la
campagna di menzogne e depistaggi costruita intorno al nome del defunto Usāma bin Lādin, costantemente accompagnato dall’appellativo di “sceicco del
terrore”?
Ovviamente c’era un
fondamento per la campagna ideologica contro l’integralismo islamico, ma resta
il fatto che, per combattere il suo asserito principale focolaio –
l’Afghanistan – siamo stati (dis)informati sulla necessità di occupare quel
paese, rovesciare i Talibani che opprimevano le donne (mentre i membri
dell’Alleanza del Nord erano presentati come dei femministi garantiti!) e che
sarebbero stati addirittura alla fonte dell’attentato dell’11 settembre alle
Twin Towers di New York. Ovviamente l’occupazione del territorio afghano veniva
presentata come un’operazione di disinfestazione dal virus integralista.
Comunque sia, il
quadro era chiaro, come pure per chiunque si interessi alle questioni islamiche
era chiaro il ruolo di cellule cancerose allo stato libero svolto alla fine del
secolo scorso in Algeria dagli integralisti reduci dalla lotta contro i
Sovietici in Afghanistan. Una persona dotata di logica avrebbe potuto pensare
che fosse frutto di momentanea avventatezza tattica l’appoggio (notevole in
armi e addestramento) dato loro dagli Usa per contenere l’espansionismo
sovietico in Asia, e per rifarsi dalla sconfitta.
Se ci si guarda
intorno, invece, il quadro dianzi delineato non trova corrispondenza alcuna con
la realtà. La prima perplessità – ed è di fondo – nasce dal fatto che chiunque
abbia minimamente studiato l’Islam e la storia dei paesi islamici sa benissimo
dell’esistenza endogena (come del resto nelle altre due religioni dette
“abramiche, o abramite”: Ebraismo e Cristianesimo) di un potenziale e devastante
radicalismo religioso; conosce pure quanto grande sia stata la responsabilità
storica di tale radicalismo nell’aver causato il blocco culturale dei paesi
musulmani, che solo dopo l’occupazione napoleonica dell’Egitto incontreranno
direttamente (e traumaticamente) la modernità dell’Europa occidentale; gli è
perfettamente noto come dopo la Prima guerra mondiale i progetti e i tentativi
autoctoni – cioè non imposti dall’imperialismo europeo - per far superare a
quei Paesi il gap in cui si erano trovati da secoli sono stati tutti improntati
alla lotta contro il radicalismo religioso e alla formazione di uno Stato
laico, da cui sarebbe dovuto derivare anche una certa (spesso cauta)
laicizzazione delle società; e infine non gli sfugge quanto elevato sia il grado
di fanatismo esistente in dette società, contenibile solo attraverso il
consolidamento dello Stato laico le cui realizzazioni sono state però di
portata tale da fare aumentare il complesso di inferiorità oggettivamente
indotto dall’incontro diretto con l’Occidente. Ed è proprio questo complessi
d’inferiorità che i gruppi religiosi intendono sublimare affermando nella loro
propaganda la superiorità dell’Islam e l’autosufficienza del Corano,
considerato uno strumento valido ancor oggi per riuscire a gestire le complesse
problematiche della contemporaneità.
Questo elementare
bagaglio teorico sembrerebbe essere, però, non alla portata dei vari esperti e
analisti al servizio degli organismi governativi di Washington e delle Agenzie
di intelligence. Clome la storia di
questi anni ha dimostrato e come ora vedremo.
Gli errori di un passato non lontano
Nello sviluppo
della politica statunitense verso il mondo islamico sono individuabili due
punti di forza, scaglionati nel tempo: la concorrenza economico-politica nei
confronti della Gran Bretagna – installatasi egemone nel mondo arabo ex ottomano
dopo la Grande guerra – e l’approccio miope ai problemi della Guerra fredda
ossessionato dalla paura dell’espansionismo del blocco sovietico.
Nel primo conflitto
mondiale nel Vicino Oriente, la Gran Bretagna aveva giocato in funzione
anti-ottomana la carta della rivolta araba sotto la guida (nominale) della casa
degli ibn Hashim (gli Hascemiti, per la stampa italica), discendente dal
profeta Muhāmmad, titolare dello Sceriffato della Mecca e della custodia dei
Luoghi Santi islamici, promettendo loro mari e monti (poi ovviamente rimasti
sulla carta). Il grande nemico degli Hascemiti non era tanto il Sultano di
Costantinopoli, quanto la casa araba dei Saud che nel secolo XVIII aveva
aderito alla concezione integralista detta Wahabita dal nome del suo fondatore.
Era stata sconfitta dall’esercito ottomano ma non distrutta, di guisa che
covava la rivincita. La Gran Bretagna, seppure come sempre ambigua, in realtà
non appoggiava i Saud.
Costoro,
approfittando di una serie di situazioni favorevoli riuscirono a sconfiggere
gli Hascemiti nella penisola araba, impadronirsi della Mecca e di Medina
distruggendo santuari e tombe di santi musulmani, costituendo il regno
dell’Arabia Saudita. Era nato il primo Stato integralista islamico del mondo,
che poi con lo sfruttamento del petrolio avrebbe avuto a disposizione mezzi economici
immensi per favorire – nei territori tradizionalmente islamici e in quelli
della diaspora musulmana – il suo credo religioso estremista. La Gran Bretagna,
alle prese con altri problemi, non intervenne per una restaurazione hascemita,
ma sistemò due rampolli dell’esautorato Sceriffo della Mecca Hussain in modo da
poter fungere (fra l’altro) da contenimento delle ambizioni saudite verso nord:
‘Adballāh ebbe l’emirato della Transgiordania, e Faisal la corona dell’Iraq
(entrambe formazioni statali costituite dai Britannici e con i confini da loro
tracciati a tavolino sulla carta geografica). Gli Stati Uniti, dopo aver
sentito odore di petrolio, si schierarono invece con i vincitori sauditi.
Un’alleanza contro natura che non sarà più spezzata fino a oggi.
Nel periodo della
Guerra Fredda si vide ben presto quanto opportunistico fosse l’anticolonialismo
proclamato dagli Usa, e come in realtà fosse diretto solo verso le colonie
britanniche, francesi e portoghesi. Infatti il secondo dopoguerra era stato nel
mondo islamico il maggior periodo di formazione di Stati - in teoria, se non
laici almeno laicizzanti e protesi verso la modernizzazione. Ovviamente le loro
classi dirigenti avevano atteggiamenti nazionalisti, senza molto gradimento per
l’assunzione del ruolo di servi sciocchi del capitale statunitense. Di fronte
alle reazioni e agli ostruzionismi di Washington si volsero ovviamente verso
l’Urss, che però era una superpotenza militare più che economica. L’Occidente,
e in primis gli Usa, fecero di tutto
per mettere in difficoltà i nuovi governi riottosi del mondo islamico, fino al
loro “avvitarsi” su se stessi anche per le contraddizioni interne non risolte;
in ciò avvalendosi del contributo rilevante dell’entità sionista israeliana E
si arrivò al punto di favorire l’ascesa al potere di turpi figuri integralisti
come il pakistano Zia ul-Haq, cui si deve l’apertura del Pakistan al
radicalismo religioso e alle sue organizzazioni.
A parte il caso
dell’appoggio ai ribelli afghani è da rimarcare il fatto che dopo la Seconda
guerra del Golfo gli Stati Uniti hanno provveduto a smantellare con zelo degno
di miglior causa lo Stato iracheno che – tiranno Saddam a parte – costituiva
insieme alla Siria un baluardo contro l’integralismo nel mondo arabo: patente
riconosciutagli durante la guerra di aggressione all’Iran, fatta “su procura”
statunitense.
L’oggi è peggio di ieri
La situazione
attuale si rivela ancora meno comprensibile a causa della visibilità di un
impegno contro il radicalismo islamico assolutamente parziale, cioè solo contro
certi radicalismi, ma non contro tutti, anzi… Al riguardo sono importanti due fattori: il persistere dei
cordiali rapporti commerciali e politici fra Stati Uniti e Arabia Saudita (un
vero e proprio amico-nemico), e l’utilizzazione continua – diretta o indiretta
– di elementi islamici radicali contro regimi non necessariamente amici, ma
nemmeno nemici tout court, e in più non integralisti, come Libia e Siria. Qui
– come più volte ripetuto – il contrasto democrazia/tirannide non c’entra per
niente; semmai sono in campo due tipi di tirannidi, entrambe sanguinarie di cui
una è di matrice religiosa. Lo stesso discorso va fatto, e lo facciamo
nell’ultimo paragrafo, anche per le monarchie reazionarie del Golfo Persico.
Conciamo col primo fattore.
Il paradosso è che
per quanto la propaganda di Washington continui a usare il luogo comune
dell’Arabia Saudita come paese islamico “moderato”, la stampa e la saggistica
statunitensi sono piene di lavori sul vero volto del regime di quel Paese. Per
esempio da essi si ricava il dato statistico per cui – con le truppe Usa
impegnate nell’Iraq a combattere la sovversione sunnita – l’Arabia Saudita è
stata il paese da cui è partito per la Mesopotamia il maggior numero di
jihadisti; come pure che la caduta di Tripoli si deve ai miliziani di ‘Abd al-Hakim Belhaj, veterano
dell’Afghanistan e dell’Iraq e integralista puro.
Non è difficile comprendere l’importanza degli Usa per l’Arabia Saudita,
uno dei principali fornitori di petrolio e gradito cliente del complesso industriale-militare
statunitense per le vendite di armamenti, come pure l’aiuto saudita agli Usa
nel contrastare nasserismo e socialismo arabo. Meno facile è la comprensione
del fatto che Washington non metta in atto verso Riyadh mezzi di pressione
forti, anche ricattatori, perché cessi di operare questa fonte mondiale di
contagio estremista islamico. Ricordiamo che da questo Paese viene ormai finanziata
una vasta rete di moschee e scuole coraniche dall’Asia meridionale ai Balcani,
dall’Africa alla Penisola Arabica e agli Usa stessi (la propaganda wahabita
viene diffusa in decine di moschee di Los Angeles, New
York, Oakland, Chicago, Houston e Washington); e che al mondo solo Arabia Saudita, Emirati Arabi
Uniti e riconoscevano il governo talibano di Kabul. Si potrebbe arrivare alla
rottura, certo, ma non essendo quello saudita un regime dai solidi piedistalli,
non si dica che la Cia non avrebbe i mezzi per uno dei suoi soliti lavoretti
sporchi e rovesciare l’attuale regime, o approfittare dell’attuale crisi interna
saudita (di cui non si parla) dovuta allo stato di agitazione della minoranza
sciita per lo più stanziata, come abbiamo più volte ricordato, in zone ricche
di petrolio.
Poiché questo non accade, diventa legittimo interrogarsi su un punto
politicamente scorrettissimo: esiste davvero incompatibilità fra politica
imperialista statunitense e radicalismo islamico? Sembra più argomentabile
sostenere – alla stregua della miope politica estera Usa, del tutto incurante
degli scenari futuri che va a costituire, ma attentissima agli interessi
economico-politici del momento – che l’incompatibilità non vi sia, esistendo
certe condizioni. Avendo ormai chiaro il fatto che, propaganda a parte, a
Washington e dintorni il grado di interesse per la difesa dei diritti umani e
democratici è pressoché a livello zero, a meno che non siano di pretesto per
interventi (diretti o indiretti) nell’immediato interesse statunitense,
possiamo dire che la politica Usa e il radicalismo islamico sunnita sono
compatibili nei limiti in cui da quest’ultimo versante vi sia disponibilità ad
alleanze tattiche convenienti a entrambi. Come è nel caso del libico Belhaj e
come è stato alla base dell’attacco Usa all’Afghanistan dei Talibani. Ci
ricordiamo o no che se i dirigenti di quei rozzi barbuti col turbante non
avessero frapposto ostacoli ai desiderata
statunitensi per un oleodotto asiatico voluto dal capitale Usa probabilmente
non vi sarebbe stato nessun attacco?
Nell’ottica di una grande potenza imperialistica è indubbio dove starà il
maggior peso se si mettono su un piatto dell’ideale bilancia della dea
Giustizia la possibilità reiterare lucrosi affari (come l’acquisto, nel 2010,
di ben 60 miliardi di dollari in armamenti fatto dall’Arabia Saudita) e
sull’altro piatto l’essere il Regno saudita l’antitesi di qualsiasi base
elementare di democrazia - mancanza di elezioni politiche, celebrazione di
elezioni amministrative dopo il 2005 solo nel 2012, divieto di formare partiti
politici e di fare dimostrazioni pubbliche (con punizioni
che vanno da 40 anni di prigione alla pena di morte), sottomissione totale
delle donne (anche se sembra che dal 2013 potranno votare alle municipali),
sfruttamento bestiale dei lavoratori immigrati (sono l’80’% della forza lavoro
totale), media ferreamente
controllati, divieto di praticare altre religioni (si vuole imporre anche ai
residenti stranieri non-musulmani l’obbligo del digiuno durante il Ramadan),
paghe non superiori a 400 dollari al mese, il 60% della popolazione in povertà
e travagliata dalla disoccupazione, un sistema giudiziario senza avvocati ecc.
Si deve quindi prendere atto del
disinteresse del brain-trust Usa per
il contagio in tal modo prodotto nei Paesi islamici, delle sofferenze che ne
derivano, delle vite rubate. Business is
business e pecunia on olet; il
resto alla malora.
La propaganda e gli indirizzi di vita per Musulmani duri e puri, diffusi
(anche negli Usa) dalle moschee e scuole musulmane finanziate dall’Arabia
Saudita, sono terribili sul piano dei contenuti. Alcune “perle” per intenderci
bene. Il meno è il divieto di salutare un Cristiano o un Ebreo
per primi, giacché abbiamo la pesante equiparazione fra bere alcool, commettere
omicidio o fornicare ed augurare buone festa a un infedele! Da qui il consiglio
di non diventare mai amico di uno di costoro, a meno che non si punti alla sua conversione.
Lavorare per un infedele è cosa da non fare mai, né vestirsi come lui. Se si ha del
personale domestico non-musulmano, esso va odiato per la grazia di Allah.
Imitare il buon Samaritano deve essere evitato, poiché l’infedele in ogni caso
non va aiutato. Il musulmano tollerante verso gli infedeli è assimilato
all’apostata, e quindi può essere ucciso tranquillamente. Inoltre dovunque è
opportuno lottare per creare uno Stato islamico; anche negli Usa.
Farneticazioni,
certo, ma che esigono il loro tributo di sangue, e la storia ha sempre
dimostrato a cosa porti la mancanza di limiti etici nei comportamenti umani,
sol che essa venga richiesta, giustificata, sancita e assolta da un placet attribuito a Dio. Dostoevskij,
formatosi nel secolo XIX, sottolineò che se Dio non esistesse tutto sarebbe
permesso; ma non avendo utilizzato per il suo problema la lezione globale della
storia passata, e non potendo conoscere alcunché delle tragedie del secolo
successivo, gli sfuggì che laddove si crede (e si induce a credere) che sia
lecito davanti a Dio compiere ignominie di ogni sorta a danno dei propri
simili, allora la cattiveria umana si scatena, si esalta, si ritiene
onnipotente e si chiude in se stessa. Quindi aveva ragione Goya ammonendo che è
il sonno della Ragione a scatenare incubi e mostri.
Continua l’utilizzazione imperialistica degli estremisti
sunniti
Mentre vanno in
rete queste considerazioni continua l’afflusso di jihadisti verso la Siria,
continua il loro addestramento statunitense, Arabia Saudita ed Emirati del
Golfo, continuano a fornire soldi e armamenti, entrambe le parti in causa
compiono massacri, in genere tutti attribuiti all’esercito di al-Assad, anche
quando ne siano stati autori i ribelli.
In ordine a questo
massiccio afflusso in genere non vengono posti soverchi problemi. Al massimo si
si paventa (ma non da tutti), in caso di una loro vittoria, una radicale
trasformazione coatta della Siria, di cui il fenomeno meno importante (comunque
sintomatico) riguarderebbe la moda con il passaggio dalle magliette, dai jeans
ecc. alle barbe (per i più Salafiti senza i baffi), alle tuniche e alla
copertura più o meno integrale per le donne, come sta accadendo in Tunisia,
Egitto e Libia. Non si pensa molto, invece, su quel che accadrebbe nei paesi
circostanti in caso di sconfitta dei ribelli: sparpagliamento di cellule
cancerose islamiche radicali, e destabilizzazione sicuramente di Giordania e
Libano. E la Turchia?
Al riguardo si può
dedicare un commento a parte. Innanzi tutto i jihadisti sono per lo più di
lingua araba, e questo potrebbe ridurne l’efficacia propagandistica. Tuttavia
si deve tenere conto dell’esistenza dei loro sostenitori anatolici, cioè
turchi. Una saldatura fra il contagioso esempio degli Internazionali di Allah e
l’esistente radicalismo islamico turco potrebbe attivare germi di
destabilizzazione anche in Turchia. Allora si vedrebbe (cosa peraltro non
auspicabile perché pericolosa) fino a che punto sia “moderato” il partito di
Erdoğan e fino a che punto l’esercito turco abbia ancora la mano pesante a
difesa della laicità della Repubblica, ma col rischio di una guerra civile
senz’altro sanguinosa seppure possa essere di breve durata.
Per inciso, l’Arabia Saudita va a tutto campo, ma …
Anche l’Arabia
Saudita, tuttavia, ha i suoi problemi, e con le sue numericamente scarse forze
armate potrebbe trovarsi fra non molto in una situazione di tipo siriano. Si ha notizia che un reparto di polizia saudita è
recentemente caduto in un’imboscata di ribelli sciiti presso il villaggio di
Tarut, subendo un morto e un ferito; e che a Qatif, nel corso di una
manifestazione è rimasto ucciso un militare. È forse il segnale che fra gli
Sciiti di quel paese - stanchi di essere vessati, discriminati e repressi, e
sicuramente non scoraggiati da Teheran – si sta iniziando la lotta armata.
Staremo a vedere. Al momento possiamo facilmente dire che il verificarsi di una
tale situazione, oltre a destabilizzare profondamente la monarchia, causerebbe
una notevole crisi petrolifera, in ordine sia all’aspetto materiale degli
approvvigionamenti (le riserve saudite sono valutate essere il 19,1% di quelle
mondiali) sia della lievitazione dei prezzi del greggio, tanto più che gli Usa
e i loro alleati non acquistano petrolio iraniano. L’esplodere di una
guerriglia sciita potrebbe mettere in ginocchio l’economia del Paese se gli
adepti non-combattenti attuassero iniziative di sabotaggio facilitate dallo
stato di vetustà degli impianti, che ovviamente sarebbe difficile sostituire
con nuovi in un teatro di guerra civile.
Quando si usano due pesi e due misure è meglio tacere
La
Siria laica era nell’elenco Usa degli “Stati canaglia”; il regime è
obiettivamente dittatoriale (ma non è sunnita) e violentemente repressore,
quindi viva i ribelli (Sunniti) e al loro fianco si pongono indignandosi Stati
Uniti, governi alleati e anime belle occidentali. Tuttavia non si parla molto e
non ci si indigna per quanto accade nell’Emirato del Bahrain, dove la
popolazione – nella stragrande maggioranza sciita – lotta per i diritti
democratici contro l’ultrareazionario Emiro al-Khalifa, sunnita e integralista,
ed è repressa con brutalità (non inferiore a quella di Assad) però con l’aiuto
militare dell’Arabia Saudita che si avvale anche di feroci mercenari pachistani
fatti venire per la bisogna. È interessante rilevare che non se ne parla più di
tanto, non ci si indigna e non ci si mobilita. E gli Stati Uniti tacciono. Ma
si sa: per la loro propagandasciita è uguale a Iran e terrorismo è uguale a Sciismo
anche se praticato dai Sunniti.
Si tratta di
un’incredibile contraddizione nella politica Usa, di un punto debole di cui
sarebbe un vero peccato non approfittare.
Ed ecco che la Russia – appoggiata dalla Cina - ha colto di sorpresa
tutti presentando al Consiglio di Sicurezza dell'Onu la richiesta di valutare
gli ultimi diciotto mesi nel Bahrain. Nel cinismo della politica
internazionale poco conta che dal canto suo la stessa Russia non abbia le mani
pulite in ordine alla Cecenia (ne riparliamo al prossimo paragrafo). Ma tant’è.
L’importante è che l’iniziativa abbia seguito e metta in difficoltà la politica
degli Stati Uniti in quell’area.
L’iniziativa non ha
riscosso molta pubblicità sulla stampa internazionale, ma in questo vi è una
perversa coerenza: si è notato che tutti i più importanti reportages
(dis)informativi sulla Libia e sulla Siria sono stati e sono fatti da inviati
operanti nelle zone in mano ai ribelli? Manca la voce delle controparti: è come
un processo mediatico in cui si ode solo la voce dell’accusa.
Negli Usa qualcuno si sta accorgendo di cosa potrebbe
capitare, ma non basterà
Certo non tutti
negli Stati Uniti leggono il New York
Times, ma è significativo che questa importante testata, dopo essersi per
lungo tempo distinta tra i fautori di una democratica crociata contro al-Assad,
da un po’ di tempo sta cambiando registro. Ci si è accorti che massacri
imputati all’Esercito regolare siriano sono stati invece compiuti dai ribelli,
a danno di minoranze religiose. E adesso si vengono a conoscere particolari
tanto tragici quanto illuminanti: che ben 80.000 Cristiani sono stati costretti
a fuggire da Homs; che ci sono Sunniti – originariamente sostenitori della
rivolta – i quali adesso vedono nel regime (autoritario e corrotto per quanto
sia) il baluardo della pacifica convivenza religiosa ed etnica; che già a
giugno del 2011 l’ambasciatore Usa in Siria, Robert Stephen Ford, aveva allertato circa la presenza di elementi del franchising di al-Qaida tra i ribelli e
circa il forte rischio, andando a rimorchio dell’Arabia Saudita, di
destabilizzazione nell’area e di crisi umanitaria, invece dell’auspicato (da
Washington) sostegno a Israele e indebolimento dell’Iran; che fra i Siriani
laici o delle minoranze religiose l’antiamericanismo monta sempre di più.
Tuttavia non
risulta che né la sig.ra Clinton né il resto dell’Amministrazione se ne
preoccupino più di tanto. Le conseguenze si vedranno, e c’è da temere che si
vedano troppo.
Sulla politica statunitense, oggi assai fiacca, si profila
l’ombra di concreti interessi altrui
Qualcuno ha
osservato che il conflitto in Siria è considerabile una guerra per procura, i
cui interessati dietro le quinte sono il duetto Arabia Saudita/Qatar e l’Iran
tirato in mezzo in quanto massimo alleato del regime siriano. In fondo è la
reazione sunnita al decennio precedente caratterizzato dalla volontà di
riscossa degli Sciiti.
Per gli Stati Uniti
la caduta del regime di Assad non sarebbe solo una soddisfazione morale per il
concretizzarsi di un sogno a lungo nutrito, ma anche l’occasione (illusoria?)
di avere a Damasco un governo più amichevole e malleabile in favore del
capitale yankee. Anche se islamico
radicale? Probabilmente sì, anche se il massimo sarebbe di poterlo spacciare
passabilmente per democratico-parlamentare. Se poi ciò si trasformasse in
“democrazia totalitaria”, peggio per i Siriani, tanto potrebbero sempre
manifestare il loro mancato gradimento alle elezioni. Una cosa è certa: fino
alle prossime elezioni presidenziali gli Usa non interverranno in Siria: se lo
facessero, la sconfitta di Obama sarebbe garantita. Ma probabilmente anche dopo
– salvo ribaltamenti della situazione attuale – mancheranno i presupposti per
la ripresa di un attivismo politico statunitense
che vada al di là del gioco sporco dei servizi segreti.
Sul piano della
propaganda Assad fin dall’inizio ha messo sul tavolo una carta che in vari
organi di informazione internazionale comincia a essere considerata: l’essere
la Siria sotto attacco del terrorismo islamico sostenuto dall’esterno. Il fatto
che i rivali degli Usa non abbiano ancora fatto valere la contraddizione fra la
sua conclamata lotta a tutto campo contro il terrorismo islamico e l’appoggio a
esso dato in Siria significa solo che a livello internazionale non è cominciato
lo scontro formale sulla questione.
La palese
incapacità statunitense ad affrontare efficacemente i problemi politici (a
bombardare e/o invadere saremmo buoni tutti) non poteva che attivare gli
appetiti e le iniziative delle potenze regionali, per le quali la Siria è solo
un’occasione. Poiché dell’Arabia Saudita abbiamo già avuto occasione di
parlare, vediamo gli altri soggetti in campo. Nel nostro elenco manca Israele,
per il semplice motivo che Assad è un nemico noto e bene o male lo si sa gestire,
mentre dopo di lui c’è l’ignoto; e solo in due casi si può ipotizzare
l’intervento armato dell’entità sionista: attacchi aerei per evitare che
l’armamento chimico-batteriologico siriano cada in mani poco raccomandabili,
nonché l’eventuale intervento massiccio di truppe iraniane in Siria.
a) L’Iran
Nell’interesse
dell’Iran per la Siria – oltre a quanto già detto nel precedente nostro
articolo sulla vicenda - vi è anche il fatto che la caduta di Assad farebbe
perdere a Teheran il collegamento territoriale arabo con l’Hezbollah libanese, e la conferma delle
voci sulla presenza di circa 50.000 pasdaran
in Siria confermerebbe la convinzione che l’Iran non mollerà tanto facilmente.
Teheran dovrà anche tenere conto dei suoi rilevanti problemi geostrategici, da cui
discende la necessità di non fare all’Arabia Saudita il regalo di farsi
formalmente ingabbiare nella trappola del conflitto tra Sunniti e Sciiti. Per
capire bene questa esigenza un passetto indietro nel tempo è indispensabile.
Il carattere
islamico della rivoluzione che abbatté lo Shah aumentò di poco il prestigio
iraniano a motivo della base ideologica sciita; nel conflitto Iraq-Iran
quest’ultimo paese non ebbe appoggi da parte del mondo arabo, eccezione fatta
per alcune minoranze sciite, ma non tutte, giacché nell’Iraq –
maggioritariamente sciita - era prevalso il nazionalismo arabo; la coalizione
arabo-sunnita all’epoca creatasi fu frantumata proprio da Saddam Hussain con
l’invasione del Kuwait; di fronte a questa situazione l’Iran mutò politica, e puntando
sulla combattiva minoranza sciita libanese ha fatto la scelta di non puntare
più sulla sua rivoluzione islamica, bensì di porsi come vero campione della
causa araba contro l’entità sionista e gli Usa e come garante degli
equilibri del Golfo Persico. La gloria militare conseguita dall’Hezbollah
sembrava aver posto una pietra angolare al progetto di Teheran. Con la Seconda
guerra del Golfo, invece, tutto è cambiato di nuovo, perché la fine di Saddam è
stata vista nel mondo arabo come una rivincita sciita in Mesopotamia,
appoggiata, in termini di fatto, da un’anomala convergenza fra Stati Uniti e
Iran. Da qui l’importanza e il senso dell’iniziativa iraniana – concretizzatasi
lo scorso 9 agosto – per un incontro internazionale sulla Siria (se ne è parlato
nell’articolo precedente) a cui hanno partecipato i governi di vari Stati
musulmani, ovviamente sunniti.
b) La Russia
Nello scacchiere
siriano è altresì presente la Russia in termini di interesse per il suo ultimo
baluardo arabo nel Mediterraneo e di presenza fisica con una base navale. Ma
ciò non basta a rendere sensibile il Cremlino e a dare per scontate nuove
utilizzazioni del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza: la Siria non è
lontana dal Caucaso terra tormentata in cui già opera l’integralismo islamico.
Si può giurare che Putin farà il possibile perché non aumentino i presupposti
per la destabilizzazione del versante meridionale della Federazione Russa.
In questo settore
della politica mediorientale, la Cina appoggia la Russia e con tutta
probabilità continuerà a farlo per lo stesso motivo per cui – seppure con
finalità diverse – Francia e Gran Bretagna sono all’erta: la collocazione
geopolitica della Siria in ordine agli approvvigionamenti energetici. Per gli
occidentali questo è il vero problema; il resto sono chiacchiere. Comunque per
tutte le entità coinvolte nella vicenda siriana o ad essa interessate si
profila all’orizzonte una situazione generica con cui dovranno fare i conti:
chiunque vinca nell’attuale guerra civile, poco o niente in Siria sarà come
prima, e per una normalizzazione stabile ci vorrà molto tempo ed essa non sarà
indolore. E in una transizione non breve e difficile potrà accadere di tutto.
Certo è che nella
fase attuale ogni sbaglio – soprattutto statunitense – produrrà effetti
difficilmente rimontabili, come qualora venisse accolta la brillante idea di
Hillary Clinton per l’introduzione di una no
fly zone in Siria. La domanda su chi la farebbe rispettare (cioè su chi
abbatterebbe gli aerei siriani che la violassero) deve tener conto del fatto
che tale proposta troverebbe al Consiglio di Sicurezza il veto o russo o cinese
o di entrambi i Paesi. Si assumerebbero il compito gli Stati Uniti in proprio,
magari con l’appoggio di qualche monarchia araba reazionaria e integralista? E
l’Iran starebbe quieto? Se invece intervenisse, e dal canto suo Israele volesse
fare la zelante affiancando gli Usa? Una sola cosa è certa per concludere: il
primo che sbaglia può fare sprofondare il Vicino Oriente (e forse non solo
esso) in una guerra di ampio respiro. Ma siamo proprio certi che nessuno la
voglia?
c) La Turchia
La svolta turca in
politica estera è la vera novità. Ormai la Turchia è soggetto attivo del fronte
contrario ad Assad, avendo abbandonato il precedente atteggiamento di acquiescenza
verso il regime di Damasco. Questo maggiore attivismo nelle questione del
Vicino Oriente prosegue la linea – già notata dagli osservatori politici – di
definizione della Turchia come potenza regionale di quell’area, e può essere
letto come cambiamento di rotta rispetto al desiderio di entrare nell’Unione
Europea, finito in fase di stallo con un’umiliante attesa imposta da alcuni
governi dell’Ue. Infatti, l’estrema prudenza turca in politica estera verso il
Vicino Oriente, che aveva caratterizzato la fase di proclamato interesse
all’ammissione nell’Ue, appare oggi superato dal desiderio di essere parte
attiva negli avvenimenti di questo scacchiere. Con l’iniziale posizione da
mediatore via via sfumatasi con l’appoggio attivo dato alla rivolta siriana.
Indipendentemente
da quali possano essere le considerazioni statunitensi su questa svolta, sta di
fatto che la sua efficace prosecuzione potrebbe trovare un pesante ostacolo
nell’irrisolta questione della posizione di milioni di Curdi nella repubblica
turca. L’arcinemico Pkk è presente anche in Siria, in Anatolia ha ripreso le
attività e fruisce di una frontiera turco-irachena praticamente incontrollata,
ideale per il transito libero di armi e munizioni. Il problema curdo potrebbe
essere il tallone di Achille delle ambizioni di Ankara.