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mercoledì 26 febbraio 2025

I FALLITI NEGOZIATI RUSSO-UCRAINI

Lezioni per il futuro


di Michele Nobile 

 

Esistono diversi ragioni, anche interne agli Stati Uniti, per cui lo sciagurato tentativo di Donald Trump di svendere l’Ucraina alla Russia - i cui motivi e possibili conseguenze meritano una riflessione distinta - è destinato a fallire. Di queste ragioni quella decisiva è che l’aggressione di Putin non è mai stata e non è motivata dalla remota eventualità dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato o da una «minaccia esistenziale» dell’Ucraina alla Russia e ancora meno dal dovere di proteggere i «russi» - cioè gli ucraini russofoni - da un mai esistito tentativo di genocidio da parte di un fantasioso governo «nazista». Per Putin la posta in gioco è sempre stata ed è il controllo politico di tutta l’Ucraina, fallito nel 2004 e nel 2014 grazie alle più potenti mobilitazioni democratiche realizzatesi in Europa negli ultimi decenni; questa volontà di dominio dell’Ucraina è inseparabile dall’intento di costruire una sfera d’influenza eurasiatica della Russia e una identità nazional-imperiale grande-russa che consolidi il regime interno

Se il problema sottostante l’invasione fosse solo lo status neutrale dell’Ucraina la guerra sarebbe terminata entro la prima settimana di marzo, perché su questo Zelens’kyj e il suo governo erano disposti a cedere. Anzi, avevano già ceduto. Zelens’kyj dichiarò fin dal 25 febbraio 2022 che era disposto a mettere da parte l’aspirazione all’ingresso dell’Ucraina nella Nato (che era stata inserita nella Costituzione ma che rimaneva comunque un obiettivo remoto)1. Conseguentemente, lo status neutrale dell’Ucraina era il presupposto condiviso dei negoziati fra rappresentanti russi e ucraini e delle tre bozze di trattato che vennero discusse tra la fine di febbraio e metà aprile di quell’anno, pubblicate nel corso del 20242. Sono trascorsi tre anni ma chi ha la pazienza di leggere le bozze di trattato e le obiezioni e contro-obiezioni delle due parti può comprendere quanto ora un trattato di pace fra Russia e Ucraina sia ora più improbabile di prima e quanto siano illusorie le presunte aperture di Putin al negoziato. È proprio perché Trump mette in difficoltà l’Ucraina e gli alleati europei e confonde il quadro politico internazionale, puntando a una pace rapida - da farsi in 24 ore che sono diventate mesi -, che il dittatore russo ha ora tutto l’interesse a continuare la sua strisciante offensiva militare mentre tira per le lunghe il dialogo con gli Stati Uniti e fa mostra di disponibilità negoziale. 


Pseudorealisti e fintopacifisti pensano che questa guerra possa concludersi con una sorta di ragionevole transazione commerciale, qualcosa di relativamente semplice ma che fino ad ora è stato impedito da pretese eccessive, aspettative infondate, pressioni esterne. Da questo punto di vista sarebbe proprio Donald Trump, il Principe delle bullshit, l’energico e sagace mediatore, capace di imporre la luce della ragione ai contendenti. Non è così, e non solo per le deficienze personali del Presidente e per quel che appare una incompetenza negoziale veramente fuori dell’ordinario, tanto da resuscitare le voci su Trump assoldato dal Kgb nel 19873. Il problema è chiaro, storico e strutturale; rimase latente durante la devastante crisi sociale ed economica che negli anni Novanta travolse sia la Russia che l’Ucraina, ma risorse all’inizio del nuovo secolo, manifesto nelle pressioni sempre più forti esercitate dal regime di Putin sull’Ucraina, culminate nell’aggressione russa del 2014 e nel tentativo di conquista del 2022. Il problema è quello della piena sovranità dell’Ucraina e della sua indipendenza dalla Russia. Per Putin la vittoria non consiste solo nella neutralità e nella mutilazione territoriale dell’Ucraina ma nell’instaurare a Kyiv un governo subordinato a Mosca, debole e indifeso: è questo l’obiettivo che intende conseguire in qualsiasi trattativa diplomatica. Perfino il formale riconoscimento delle annessioni alla Russia del territorio ucraino e di cinque milioni di ucraini, un’estorsione a mano armata e col tradimento di un accordo fra banditi, per Putin non sarebbe altro che una pausa nel processo di destabilizzazione e soggiogamento dell’intera Ucraina. Pur tralasciando la storia imperiale zarista e stalinista, a provarlo ci sono il quarto di secolo di storia delle relazioni russo-ucraine sotto Putin, le invasioni del 2014 e 2022, dichiarazioni ideologiche e pseudo-storiche circa l’«artificialità» di uno Stato ucraino e della nazionalità ucraina, l’analisi dei negoziati russo-ucraini nel 2022. Nessuno può volere la pace più degli ucraini ma essi non possono non continuare a resistere, pena la perdita dell’indipendenza e della libertà, la russificazione forzata e la negazione di una nazionalità distinta da quella russa. 

Il fatto cruciale è che i problemi e le divergenze che esistevano allora sono diventati ancor più gravi nel corso dei tre anni di guerra e si presentano come irrisolvibili, a meno della sconfitta di uno dei belligeranti. L’alternativa è un armistizio che congeli la situazione al fronte. Meglio di niente si dirà, almeno si ferma la strage. Tuttavia questo non sarebbe la pace, men che mai una pace giusta. Sarebbe solo una nuova tappa del conflitto, caratterizzata dall’utilizzo da parte di Putin delle tattiche della «guerra ibrida», possibile preludio alla ripresa della guerra aperta. 

 

La bozza di trattato del sette marzo 2022

domenica 16 febbraio 2025

STATI UNITI, RUSSIA E UCRAINA DA BIDEN A TRUMP

di Michele Nobile


ITALIANO - ENGLISH


Dall’appeasement all’incoerenza, all’idiotismo negoziale


- 1. Zelens’kyj: «Sinceramente, hanno tutti paura»

- 2. Marzo 2014-febbraio 2022: l’appeasement verso la Russia

- 3. Biden, febbraio 2022: la non-strategia delle «devastanti» sanzioni economiche

- 4. L’escalation di Putin e l’alibi delle «linee rosse»

- 5. Stati Uniti e alleati europei: una strategia incoerente 

- 6. The art of the deal e l’Ucraina


1. Zelens’kyj: «Sinceramente, hanno tutti paura»

Nel pomeriggio del 25 febbraio 2022, quando non solo a Mosca e Pietrobur, ma anche nelle capitali europee e a Washington si riteneva imminente l’occupazione di Kyiv e i russi alimentavano la falsa voce della fuga di Zelens’kyj all’estero, il Presidente ucraino comparve davanti al Palazzo presidenziale, insieme al Primo ministro e ad altri alti esponenti politici, per dire semplicemente: my vsi tut, siamo tutti qui. Lo stesso giorno Zelens’kyj ribadì il concetto in un più lungo messaggio che informava il popolo ucraino della situazione: «Secondo le nostre informazioni, il nemico mi ha contrassegnato come obiettivo numero uno. La mia famiglia è l’obiettivo numero due. Vogliono distruggere politicamente l’Ucraina [Вони хочуть знищити Україну політично] distruggendo il Capo dello Stato» ma, continuava, sono qui, ho tenuto dozzine di telefonate internazionali, la mia famiglia e i miei bambini sono in Ucraina. E poi: 


«Oggi ho chiesto ai ventisette leader europei se l’Ucraina entrerà nella NATO. L’ho chiesto direttamente. Tutti hanno paura. Non rispondono. (...) ho sentito alcune cose. Innanzitutto ci sostengono. E sono grato a ogni Stato che aiuta concretamente l’Ucraina, non solo a parole. Ma c’è una seconda cosa: siamo lasciati soli nella difesa del nostro Stato. Chi è pronto a combattere con noi? Sinceramente non ne vedo nessuno. Chi è pronto a garantire all’Ucraina l’adesione alla NATO? Sinceramente, hanno tutti paura [Чесно, всі бояться]». 

Noi non abbiamo paura di niente. Non abbiamo paura di difendere il nostro Stato. Non abbiamo paura della Russia. Non abbiamo paura di parlare con la Russia. Non abbiamo paura di dire tutto sulle garanzie di sicurezza per il nostro Stato. Non abbiamo paura di parlare di status neutrale. Ora non siamo nella NATO. Ma la cosa principale è: quali garanzie di sicurezza avremo? E specificatamente, quali Paesi le daranno? Dobbiamo parlare di come porre fine a questa invasione. Dobbiamo parlare di un cessate il fuoco»1

Ho voluto fare questa citazione non tanto perché rende la drammaticità del momento ma perché, rileggendola a distanza di quasi tre anni, sono rimasto impressionato dal fatto che, dal primo giorno dell’invasione, Zelens’kyj poneva problemi che hanno attraversato tutta la durata della guerra e sono ora decisivi, perché molto influenzeranno tempi, modi e contenuti del possibile negoziato di cui si torna a parlare. 

Innanzitutto, fin dall’inizio un importantissimo obiettivo tattico del regime russo è stato eliminazione di Zelens’kyj, fisica o per delegittimazione politica. Non per caso, il punto è stato nuovamente ribadito con forza da Putin nel dicembre 2024, per via dell’aspettativa per lui positiva suscitata dall’elezione di Trump. Putin sostiene la menzogna che, secondo la Costituzione ucraina, la continuità della presidenza Zelens’kyj sia illegale e quindi pretende che un negoziato possa esserci solo dopo nuove elezioni presidenziali. È buffo che questa richiesta venga da qualcuno che è al potere da un buon quarto di secolo anche grazie a brogli elettorali e all’eliminazione dei concorrenti come Aleksej Naval’nyj, morto in carcere, molto probabilmente assassinato. La pretesa è di un’ipocrisia sconfinata anche perché viene da chi, avendo voluto l’annessione alla Russia del 18% del territorio ucraino e dei suoi abitanti - «piccoli russi» secondo l’ideologia imperiale russa - rende impossibile l’elezione di un nuovo Presidente ucraino che sia scelto dall’intero elettorato nazionale. Putin ha però ottime ragioni per volere l’eliminazione di Zelens’kyj: perché agli occhi dell’opinione pubblica mondiale ha benissimo incarnato l’identità nazionale e la volontà di resistenza dell’Ucraina, tanto che il suo modo di comunicare merita d’essere studiato; e poi perché può sperare che una campagna elettorale offra opportunità alla Russia di destabilizzare la politica interna ucraina. Anche più importante è che Putin intende ridurre al minimo la voce dell’Ucraina in un eventuale negoziato: dal suo punto di vista l’ideale è scavalcare del tutto Zelens’kyj per trattare il destino del Paese direttamente con Trump, così come ai tempi del colonialismo le grandi potenze trattavano la spartizione di territori e popoli, un bell’esempio di cosa possa significare multipolarità in versione russa. Per quanto il Presidente americano sia intenzionato a incontrare il collega ed amico russo, il tentativo di decidere alle spalle e sulla pelle degli ucraini difficilmente riuscirà. 

«Vogliono distruggere politicamente l’Ucraina»: cioè negarne l’indipendenza e, addirittura, l’identità come nazionalità distinta da quella russa. L’obiettivo di guerra del Presidente russo è sempre stato e rimane questo, rispetto al quale sono strumentali le altre sue rivendicazioni, come la neutralità e l’annessione dei territori che l’imperialismo russo definisce Nuova Russia. 

Al contrario di quanto pensano i creduloni (o gli ignoranti) e di quel che proclamano i fintopacifisti che gongolano ad ogni avanzata russa, Putin non ha mai inteso negoziare seriamente una pace che non equivalga alla resa politica dell’Ucraina. Il negoziato russo-ucraino del marzo-aprile 2022 non fallì perché un intervento «occidentale» avrebbe impedito di concludere un trattato su cui le parti concordavano. Chi si prende il disturbo di leggere le bozze di trattato di pace discusse dai rappresentanti russi ed ucraini - tre bozze, analizzate in un mio prossimo articolo - si renderà conto che ad essere in gioco non era affatto lo status neutrale dell’Ucraina, non solo perché il suo ingresso nella Nato era una mera aspirazione unilaterale, da molti anni respinta dalla Nato e di assai dubbia realizzazione in futuro. Zelens’kyj aveva dichiarato subito la disponibilità a rinunciare a quell’aspirazione - «non abbiamo paura di parlare di status neutrale» - e questo era il primo e non controverso punto di tutte le bozze di trattato. Se le trattative tra febbraio e metà aprile 2022 non portarono a nulla fu perché le pretese dei russi andavano ben oltre lo status neutrale e non-allineato dell’Ucraina su cui, ripeto, c’era accordo. I rappresentanti di Putin ponevano un insieme di condizioni politiche, militari e territoriali che, di fatto, avrebbero negato l’indipendenza politica e l’integrità territoriale dell’Ucraina. A Putin non interessava affatto né interessa ora un’Ucraina neutrale come l’Austria e la Svizzera, o come lo sono state la Finlandia e la Svezia. L’obiettivo dell’invasione era e rimane l’assimilazione totale dell’Ucraina nella sfera d’influenza russa e, in prospettiva, la sua forzata russificazione; in subordine, Putin punta ad annetterne quanto più possibile e a lasciarsi dietro un Paese devastato e debole, possibile preda di un’altra «operazione speciale». Che dopo tanti decenni di neutralità Finlandia e Svezia abbiano aderito alla Nato dovrebbe fare intendere come i Paesi vicini alla Federazione Russa percepiscano l’ampiezza e la pericolosità delle ambizioni imperiali del dittatore russo.  

Con l’annessione alla Federazione russa degli oblast ucraini di Donec’k e Luhans’k, Cherson e Zaporižžja, in aggiunta alla Crimea già invasa e annessa nel 2014, Putin si è volontariamente privato della carta più forte per contrattare con il governo ucraino una soluzione di compromesso al conflitto. In nessuna circostanza gli ucraini possono riconoscere l’annessione di quasi il 20% del loro territorio, con i relativi concittadini, alla Federazione Russa. Per cui, se i russi non si ritirano dai territori occupati è concepibile un armistizio di tipo coreano, ma non una pace duratura. Quanto alle presunte aperture di Putin al cessate il fuoco e al negoziato con il governo ucraino, queste sono una finzione parte della strategia bellica russa il cui scopo è semplicemente generare dubbi e confusione nella scena politica degli Stati che sostengono la resistenza ucraina2

In terzo luogo, ed è di questo che qui specialmente mi occupo, la frase pronunciata da Zelens’kyj riferita ai Paesi amici: «sinceramente, hanno tutti paura», non ha mai cessato d’essere vera e costituisce il più grave problema strategico per la condotta bellica dell’Ucraina e per i tempi e i contenuti di un trattato che ponga fine alla guerra. Di quella frase si sente l’eco a metà gennaio 2025, nell’intervista di Zelens’kyj a un giornale polacco in cui ha ringraziato Biden dell’aiuto dato ma ha anche dichiarato che «chiedevamo armi e sanzioni. Ma l’America disse che “prenderemo provvedimenti, solo se succede qualcosa”. Credo che questa sia stata una posizione debole»; e aggiunse che «non ho mai capito del tutto e non capirò mai» perché non siano stati forniti all’Ucraina più sistemi di difesa antiaerea Patriot, necessari per proteggere la popolazione.

venerdì 14 febbraio 2025

CONTRO LO STATO TURCO, IN DIFESA DEL POPOLO CURDO

di Piero Bernocchi (portavoce Confederazione Cobas)


Fermiamo lo Stato turco, criminale e genocida. 15 febbraio a Roma (Circo Massimo, ore 14.30) manifestazione nazionale in difesa del popolo curdo

L'UIKI (Ufficio d'informazione del Kurdistan in Italia), struttura che rappresenta in Italia la comunità curda, ha promosso per il 15 febbraio una manifestazione nazionale a Roma (e una a Milano) con un Appello, ove tra l'altro si legge: "Il 15 febbraio 2025 segnerà il 26° anniversario della cattura di Abdullah Öcalan, il leader storico del movimento curdo...Dal 1999, Öcalan è detenuto in isolamento sull’isola-prigione di Imrali. La sua prigionia rappresenta un simbolo della più ampia repressione contro le rivendicazioni curde, ma anche della difficoltà della Turchia nell’affrontare una soluzione politica e pacifica a un conflitto che perdura da decenni.La liberazione di Abdullah Öcalan non riguarda soltanto la giustizia per un uomo imprigionato in condizioni che violano il diritto internazionale e lo stesso sistema giuridico turco, ma costituisce anche un passo fondamentale per la costruzione di una pace duratura tra lo stato turco e il popolo curdo. Nel corso degli anni, Öcalan ha più volte espresso la sua disponibilità a negoziare e a promuovere la pace, avanzando proposte che prevedono il riconoscimento dei diritti dei curdi all’interno di una Turchia democratica e pluralista. In tutto il paese, le pratiche utilizzate sull’isola di Imrali sono state estese per soffocare ogni forma di dissenso e di opposizione che veda nella soluzione politica della questione curda una possibile svolta verso una trasformazione democratica dell’intero Medio Oriente".

Nel frattempo, il 5 e 6 febbraio 2025 a Bruxelles si è riunita la 54° Sessione del Tribunale Permanente dei Popoli sul Rojava.  Nella sua dichiarazione il Tribunale Permanente ha affermato che lo Stato turco sta commettendo sistematicamente crimini di guerra e crimini contro l’umanità con l’obiettivo del genocidio. La dichiarazione denuncia tra l'altro: "Le testimonianze che abbiamo ascoltato dipingono un quadro di punizione diffusa e sistematica di un popolo. I loro crimini? Essere curdi e creare una società fondata sui principi di uguaglianza, giustizia e solidarietà. L’obiettivo della punizione è lo sradicamento dell’identità, della presenza e della cultura curda. Gli abitanti di Afrin sono stati costretti ad abbandonare le loro case quando la città è stata occupata dalla Turchia nel 2018. La popolazione curda è passata da oltre il 90% al 25%, poiché le loro case sono state sequestrate e offerte ad arabi sunniti e turkmeni . Le proprietà sono state sistematicamente saccheggiate, vetrine e cartelli stradali sostituiti con nomi turchi, il turco ha sostituito il curdo come lingua di insegnamento. Terreni e proprietà sequestrati, fabbriche smantellate, l’industria olearia confiscata.... Circa 120.000 persone sono state costrette ad andarsene: il 40% bambini, un altro 40% donne e molti altri anziani. Il totale attuale degli sfollati è stimato in 300.000 unità...Abbiamo sentito di esecuzioni sommarie di attivisti politici e soccorritori, sparizioni e di come le persone potessero capire l’ora dalle urla e dai pianti delle persone torturate, dalle 9 del mattino alle 5 di pomeriggio... Ci hanno raccontato di rapimenti, aggressioni sessuali e stupri di donne e ragazze, prigioni segrete ricavate da scuole, edifici agricoli e stazioni ferroviarie, e l’incapacità dei sopravvissuti di parlare per paura della detenzione e della tortura.. Abbiamo visto prove dell’uso di fosforo bianco... Abbiamo visto prove fotografiche di ripetuti bombardamenti di impianti di gas ed elettricità e di installazioni petrolifere, il che significa niente combustibile per il riscaldamento e la cucina, ma anche niente acqua, lasciando un milione di persone senza acqua corrente pulita, portando a dissenteria e colera.... Abbiamo sentito di attacchi a strutture mediche che curano decine di migliaia di pazienti a Kobani e Qamlişo...Gli attacchi contro le donne - il “femminicidio politico” delle donne che sfidano il patriarcato e si battono per l’uguaglianza di genere, gli stupri brutali delle donne curde da parte dei servizi segreti turchi nelle prigioni segrete – sono stati presentati come un attacco diretto al modello del Rojava... I bombardamenti, attacchi con droni e atrocità contro i civili, gli spostamenti forzati e la sostituzione delle popolazioni, la distruzione dell’energia elettrica e il danneggiamento delle riserve idriche, i danni ambientali, la distruzione del patrimonio culturale e delle istituzioni educative, l’uso di stupri, torture, detenzioni segrete costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra e sono indicativi di genocidio". 

E questo infine è un brano del commento dell’Avv. Margherita D’Andrea, dell’Esecutivo GD, che con una delegazione dei Giuristi Democratici ha partecipato alla sessione: "Quello che è emerso nel corso delle audizioni dei testimoni è che dal 2018 in Rojava è in atto un  sistematico e pervicace tentativo di sradicare il popolo curdo dalla propria terra, di distruggerne non solo la vita ma l’identità, la cultura, l’economia, costringendo migliaia di persone a fuggire. Un tentativo che è stato definito dal Collegio dell’accusa proprio di una vera  ingegneria demografica, al fine di attuare una politica di sostituzione nell’area del Nord Est Siria dei curdi con popolazioni arabe sunnite e turcomanne..I giudici hanno scritto che la comunità internazionale è consapevole delle continue sofferenze del popolo curdo e dei crimini degli imputati...E' dunque fondamentale che i responsabili dei crimini di guerra e crimini contro il popolo curdo siano portati davanti alla giustizia e che la comunità internazionale assicuri immediatamente la cessazione degli attacchi della Turchia in Rojava. Questo al fine di scongiurare il rischio di un vero e proprio genocidio".

Di fronte a questa terrificante e feroce aggressione, è indispensabile che, nel quadro di una mobilitazione generale a livello europeo e internazionale per porre fine ai crimini di guerra, con scopi apertamente genocidi, nei confronti del popolo curdo nonché per ottenere quanto prima la liberazione di Abdullah Öcalan, il leader storico del movimento curdo, si garantisca la massima riuscita alle due manifestazioni nazionali di Roma e Milano, indette per sabato prossimo 15 febbraio dai rappresentanti del popolo curdo in Italia. La Confederazione COBAS è particolarmente impegnata alla riuscita della manifestazione di Roma, per la quale diamo appuntamento a tutti i difensori della causa del popolo curdo per il corteo che partirà da P. La Malfa (Circo Massimo) alle ore 14.30

Piero Bernocchi   portavoce Confederazione COBAS


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

martedì 11 febbraio 2025

POSSO DIRE QUALCOSA ANCH’IO, CITTADINO DI GAZA?

di R. ibn al-Masari

(10 febbraio 2025)

 

 ITALIANO - ENGLISH - FRANÇAIS - ESPANOL


Sono un arabo palestinese, mussulmano «laico» (se così si può dire), nato nella capitale della Striscia di Gaza (Madīnat Ghazza) da una famiglia di piccoli commercianti, a sua volta discendente da nomadi beduini. Mi sono laureato in Scienze sociali all’Università di Tel Aviv e sono sposato con una biologa. In arabo, il mio nome masari vuol dire «denaro», ma io ne ho molto poco. Sono cittadino, quindi, di uno dei più piccoli Stati esistenti al mondo: uno staterello lungo circa 41 km (Los Angeles è lunga quasi il doppio), con una popolazione che a ottobre 2023 superava di poco i 2 milioni. Benché così piccolo, il mio Paese è tuttavia il prodotto geopolitico di una storia plurimillenaria di continue guerre e occupazioni.

Un po’ di storia

Cominciarono gli egizi verso la metà del secondo millennio e rimasero per alcuni secoli, finché arrivarono i filistei (da loro deriva il nome di noi palestinesi), seguìti dagli assiri, gli israeliti, due volte ancora gli egizi, i babilonesi, i persiani, i greci-macedoni, i seleucidi, i maccabei, gli asmonei, i romani, i bizantini, gli islamici, i crociati, gli ayyubidi (curdo-mussulmani), i mongoli, i mamelucchi, gli ottomani e i mandatari britannici (1920-1948). Alcune di queste occupazioni hanno fatto migliorare la vita del mio popolo; altre lo hanno impoverito e portato alla disperazione.

Alla fine del Mandato britannico, la Risoluzione 181 dell’Onu stabilì nel 1947 che anche Gaza avrebbe fatto parte del nuovo Stato palestinese: un secondo Stato che sarebbe dovuto nascere accanto a quello d’Israele. Israele accettò la proposta dei due Stati, ma i principali Stati arabi del Medio Oriente - Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq raccolti nella Lega araba(quindi senza l’Arabia Saudita e lo Yemen) - la respinsero e impedirono che nascesse lo Stato di Palestina. Questo perché esso avrebbe implicato il riconoscimento d’Israele e impedito le annessioni territoriali della regione palestinese che essi progettavano da tempo.

L’Egitto, in particolare, mirava a impadronirsi del territorio di Gaza, su basi puramente coloniali, senza alcuna giustificazione d’ordine geografico, storico o culturale... a meno che non si voglia richiamare la breve parentesi di occupazione tolemaica al tempo di Cleopatra VII, la celebre regina.

I 5 Stati arabi aggredirono il neonato Stato d’Israele nel 1948 - guerra subito condannata dall’Onu e, tra gli altri, dagli Usa e dall’Urss (che tramite la Cecoslovacchia aiutò militarmente Israele) - ma furono duramente sconfitti: fu la famigerata Nakba. E fu così che il mio Paese perse la grande occasione storica di diventare parte del nuovo Stato arabo-palestinese voluto dall’Onu. A nulla valse la nuova Risoluzione dell’Onu, la 194.

Nel 1949 Israele firmò armistizi separati con Egitto, Libano, Transgiordania (ormai Regno Hascemita di Giordania), Siria. E fu così che al mio Paese toccò in sorte d’essere occupato dall’Egitto.Ma nel 1967, al termine della Guerra dei sei giorni, il governo militare degli occupanti egiziani fu cacciato, solo per essere sostituito dall’occupazione israeliana, destinata a durare circa 27 anni. 

Anche la prima occupazione israeliana ebbe termine e, nel 1994, il mio Paese finalmente divenne indipendente - per la prima volta nella sua storia plurimillenaria - grazie agli accordi di Oslo del 1993. Questi istituivano l’Autorità nazionale palestinese e stabilivano il ritiro degli occupanti israeliani dalla nostra terra. L’accordo fu rispettato con qualche difficoltà da ambo le parti, ma col tempo  il ritiro degli israeliani divenne totale, cioè vennero smantellate anche le colonie abusive che erano state impiantate nel nostro territorio.

Purtroppo non fu fatto un referendum a favore dell’indipendenza e noi gazesi non fummo consultati sulla nascita del nostro nuovo Stato, ma era ovvio che saremmo stati tutti d’accordo su un tale meraviglioso evento storico. Finalmente liberi, autonomi e indipendenti: che emozione...

Un’indipendenza troppo breve

E invece l’autonomia - conquistata dopo più di tre millenni di sottomissione a occupanti stranierie e dopo tante tragedie - durò poco, anche se il primo governo della Gaza indipendente lo potemmo eleggere noi, nel 1996. Lo assegnammo al gruppo dirigente dell’Anp - vale a dire i rappresentanti della vecchia Organizzazione per la liberazione della Palestina (al Fatḥ) - raccolto intorno a Yasser Arafat (che, dopo la sua morte nel 2004, verrà sostituito da Abu Mazen).

Anche le elezioni presidenziali del 2005 furono vinte da al Fatḥ, che invece perse le successive elezioni politiche del 2006, a favore di un’organizzazione armata, nata nel 1987 come braccio operativo dei Fratelli mussulmani: Hamas. Questo gruppo sunnita e fondamentalista era avversario radicale dell’Olp, rifiutava la soluzione dei due Stati (quella che bene o male si era cominciato a mettere in pratica con l’indipendenza di Gaza, di alcune zone cisgiordane e di Gerusalemme est) e respingeva gli accordi di Oslo, che erano invece alla base della nostra conquistata indipendenza.

Nel suo Documento programmatico del 2017, al punto 20, si riproponeva l’idea della cacciata «dal fiume al mare» degli ebrei residenti in Israele, cioè il loro sterminio. Un proposito genocidache era già emerso con Amin al-Husseini, il gran Muftī di Gerusalemme, all’epoca in cui collaborava con le SS naziste e reclutava mussulmani per loro in Medio Oriente e in Bosnia. Le stesse idee, di «gettare a mare gli ebrei», erano state riprese poi da Ahmad al-Shukeiri, il primo presidente dell’Olp fino al 1967, quando fu sostituito da Arafat. Propositi disumani che la maggior parte, o perlomeno la parte migliore del mio popolo, respinge e che per fortuna non hanno alcuna possibilità di essere realizzati concretamente.

Nel 2007, dopo la vittoria elettorale di Hamas (dovuta soprattutto ai voti dei gazesi), il conflitto con l’Anp della Cisgiordania fu deciso dalle armi. Vi furono esecuzioni di militanti da entrambe le parti, ma non poteva che vincere Hamas, data la superiorità militare delle sue squadre addestrate al terrorismo e l’aiuto finanziario ricevuto dall’Iran.

La dittatura di Hamas

Hamas prese il controllo totale di Gaza e vi instaurò una dittatura islamica fondamentalista, impegnata soprattutto a organizzare la lotta contro Israele, intesa come sterminio degli ebrei israeliani.

Noi gazesi non avevamo avuto alcuna possibilità d’impedire lo scontro militare con l’Olp ed eravamo rimasti passivi di fronte a una guerra fratricida tra palestinesi. Né potevamo ancora immaginare quale immane tragedia stesse preparando per il nostro popolo la vittoria militare di Hamas.

Restammo passivi anche negli anni seguenti, mentre il nuovo governo del nostro piccolo Stato faceva uso delle sue ingenti risorse finanziarie (un bilancio di circa due miliardi dollari l’anno, provenienti dagli Stati arabi, dalla Ue, dagli organismi delle Nazioni Unite e soprattutto dall’Iran) per aumentare il proprio arsenale bellico, scavare i tunnel sotterranei e organizzare gli attentati e il lancio di missili contro Israele, invece di utilizzarli per migliorare la vita sociale dei gazesi. Molti osservatori hanno affermato che con quella massa di denaro si sarebbe potuto imprimere un grande sviluppo economico alla Striscia di Gaza e cambiare il destino del nostro popolo. Di questo grande crimine «economico» fu corresponsabile il governo di Netanyahu, che tramite il Qatar facilitò l’afflusso di denaro ad Hamas allo scopo di indebolire l’Anp cisgiordana e il regime di Abu Mazen.

Di questa follia, comunque, frutto di cecità politica, hanno parlato i giornali di tutto il mondo. E lo stesso governo d’Israele si è dovuto pentire amaramente: se bloccato in tempo, Hamas non avrebbe potuto compiere il pogrom antiebraico, con tutto ciò che ne è seguìto.

Il pogrom del 7 ottobre

Il 7 ottobre 2023 Hamas ha dichiarato guerra a Israele, uccidendo nel territorio israeliano in maniera atroce (con stupri, squartamenti e torture di ogni genere, incluso contro donne e bambini) circa 1.200 cittadini inermi e rapendo come ostaggi 254 civili.

L’immagine che è stata data al mondo esterno di noi mussulmani palestinesi, come barbari assassini, è orribile. Va però fatto sapere al mondo che a noi gazesi non appartenenti ad Hamas non è stata data la benché minima possibilità di intervenire o far sentire la nostra voce. La feroce iniziativa di Hamas non dev’essere attribuita all’intero popolo di Gaza: in una situazione democratica e non di dittatura militare forse l’avremmo impedita. Ma la speranza di una democrazia per il mondo palestinese - inclusa l’Anp cisgiordana - è ancora molto lontana dal realizzarsi.

Hamas ha dichiarato guerra a Israele, ben sapendo che era una guerra impossibile da vincere e che essa avrebbe provocato morte e distruzione nel nostro Paese. Era stato messo in bilancio che decine di migliaia di noi civili sarebbero morti, solo per poter conservare gli ostaggi. Tutto ciò senza avvisare noi gazesi, lasciati inermi davanti alla prevedibile rappresaglia israeliana. La quale è andata molto oltre le aspettative di Hamas (e forse dell’Iran suo burattinaio) e ha portato alla morte di decine di migliaia di gazesi, più della metà dei quali non appartenenti alle milizie fondamentaliste.

Per ostacolare la rappresaglia, Hamas ha usato cinicamente masse di civili di gazesi (anche donne e bambini) trasformando scuole, ospedali e altri centri di vita sociale in scudi umani contro i bombardamenti israeliani.

È ormai chiaro, però, che la decisione di sacrificare decine di migliaia di vite umane gazesi è stata presa da Hamas a nostra insaputa e non aveva niente a che vedere con gli interessi del nostro popolo. Lo scopo principale dell’azione, infatti, doveva essere, nell’immediato, d’interrompere la distensione tra Israele e l’Arabia Saudita; in prospettiva, di aiutare il progetto genocida antiebraico dell’Iran. Ma questo potrà realizzarsi solo il giorno in cui l’Iran disporrà delle armi nucleari e il regime dei mullah deciderà quasi certamente di autoimmolarsi pur di far scomparire Israele dalla faccia della Terra. Credo che nessuno dei gazesi militanti di Hamas si renda conto che il fanatismo dell’Iran porterà alla distruzione anche di Gaza, del mondo palestinese e forse scatenerà una guerra nucleare di più vaste dimensioni.

Netanyahu ha gravissime colpe per il massacro indiscriminato di civili gazesi, che non può essere giustificato dalla volontà di liberare gli ostaggi, a fronte del rifiuto di trattative da parte di Hamas - fin dall’inizio e lungo protratto - e soprattutto della passività degli organismi internazionali, ai quali va attribuita una grande responsatà per le stragi che hanno colpito il mio popolo. Resta il fatto, però, che Hamas non ha voluto deliberatamentebloccare i massacri del nostro popolo, facendo l’unica cosa che il governo israeliano chiedeva legittimamente: la liberazione degli ostaggi ancora vivi.

Di questa possibilità di fermare le stragi si è avuta la conferma indiscutibile con l’attuale tregua: è bastato promettere la liberazione di una trentina di ostaggi per ottenere la sospensione immediata delle operazioni militari. Se Hamas lo avesse fatto subito - o se addirittura non avesse preso ostaggi - oggi sarebbero ancora vivi decine di migliaia di palestinesi di Gaza, miei concittadini e confratelli mussulmani. Se volessi fare una graduatoria dei colpevoli per quanto è avvenuto a Gaza, metterei al primo posto Hamas/Iran, poi gli organismi internazionali (che in questa vicenda hanno perduto ogni residua credibilità) e infine il governo israeliano. Delle manifestazioni di sostegno ad Hamas e delle dichiarazioni antiebraiche in giro per il mondo (a partire dai campus statunitensi) non voglio nemmeno parlare.

La questione degli ostaggi

Tutto ciò mi porta a formulare un’ipotesi, forse cinica perché fondata sul computo delle vittime, in un contesto di totale inumanità: se Israele avesse deciso di sacrificare gli ostaggi - come aveva fatto in un lontano passato, quando rifiutava di trattare, come per es. alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 - si sarebbero risparmiate alcune migliaia di vite umane?

Probabilmente sì. È terribile ammetterlo, ma - dopo aver verificato che Hamas non intendeva cedere gli ostaggi e che il mondo intero, a partire dalle Nazioni Unite, non intendeva muoversi per liberarli - decine di migliaia di vite umane sarebbero state risparmiate se Israele avesse rinunciato a salvare gli ostaggi e bombardato a fondo, fino a distruggere completamente i tunnel dei terroristi estesi per centinaia di chilometri.

Delle migliaia di soldati israeliani uccisi o feriti, quanti si sarebbero salvati? e degli oltre 40.000 gazesi uccisi, quante migliaia sarebbero sopravvissute?

Il quesito orrendo, ma imposto dall’azione di Hamas, è il seguente: sarebbe stato giusto sacrificare i circa 200 ostaggi (metà dei quali è stata comunque fatta morire in condizioni disumane) ed evitare così la morte di alcune centinaia di soldati israeliani e di alcune decine di migliaia di miei connazionali? Il ragionamento è cinico, ma quando si tratta di salvare vite umane si deve avere il coraggio di esaminare tutte le ipotesi possibili, senza ipocrisie.

Il governo di Netanyahu, però, non ha voluto o non ha potuto esaminare alternative per la liberazione degli ostaggi, perché premuto dai fanatici religiosi dell’estrema destra israeliana e dai famigliari degli ostaggi che hanno cominciato a manifestare fin dal primo giorno, come è umanamente comprensibile. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e non richiede commenti.

Per il futuro sono molto preoccupato, sia perché noi gazesi continuiamo ad essere tiranneggiati da Hamas, sia perché il governo israeliano non dichiara ufficialmente che d’ora in avanti non accetterà più trattative per i sequestri di ostaggi. In assenza di una tale dichiarazione ufficiale, infatti, i sequestri riprenderanno su più ampia scala e diventeranno l’arma favorita dei tanti gruppi terroristici antiebraici. Ciò sarà favorito dal ritorno in attività di migliaia di militanti di Hamas e sarà alimentato dalla comprrensibile rabbia dei gazesi che hanno visto morire i loro famigliari e distruggere le loro abitazioni. Sembra incredibile, ma è interesse di noi gazesi che Israele dichiari di non accettare più di trattare sui rapimenti di ostaggi. Il prezzo che abbiamo pagato questa volta per l’azione di Hamas non dobbiamo più pagarlo.

Le macabre manifestazioni di gioia

A ogni liberazione di ostaggi viene organizzata da Hamas una manifestazione di giubilo popolare, con folle di individui festanti che inneggiano a questo vile e orrendo crimine. Ciò fa sì che l’immagine di noi gazesi, che viene fornita agli occhi del mondo, è quella di un popolo barbaro, disumano e ancora avvolto in ideologie feudali. Sembriamo peggio della plebe che nell’Antichità godeva alla vista dei martiri condotti in pasto alle belve,negli anfiteatri romani durante i circenses.

Senza contare che noi gazesi sembriamo gioire di un’impresa criminale che ha portato alla morte decine di migliaia di nostri connazionali. Non vedo rispetto per la memoria di coloro che sono morti sotto le bombe o durante gli esodi di massa. Invece di festeggiare dovremmo dichiararci in lutto a tempo indeterminato, coinvolgendo nel lutto tutto il mondo arabo palestinese. Questa sarebbe l’immagine umana di noi gazesi che dovremmo offrire al mondo e non quella di folle urlanti e feroci che si ammassano intorno a delle povere vittime, sopravvissute a oltre un anno di disumana prigionia.

È la regia di Hamas che organizza queste lugubri manifestazioni di giubilo, ma, ancora una volta, noi gazesi non abbiamo alcuna possibilità di impedirle. A protestare si verrebbe uccisi immediatamente. Da noi non è come in Israele dove, nonostante la guerra, si possono fare manifestazioni contro il governo anche tutti i giorni, e addirittura uno sciopero generale. Quando arriveremo anche noi arabi palestinesi a questo grado di maturità civile e democratica?

Per impedire questi orrendi crimini di Hamas, a noi abitanti di Gaza non è stata data alcuna possibilità di intervenire, sia per la totale assenza di democrazia nel nostro piccolo Stato, sia per reponsabilità degli organismi come Nazioni Unite, Croce Rossa, Amnesty International, Tribunale dell’Aia, Vaticano, Ong varie, e tutte quelle organizzazioni internazionali che non solo non hanno fatto nulla per costringere Hamas a liberaregli ostaggi, ma nemmeno hanno chiesto di poter incontrare i prigionieri rapitio, facendo appello al diritto umanitario. Chissà quante migliaia di gazesi sarebbero ancora vivi se tutti costoro (da António Guterres a papa Francesco) o solo alcuni di essi avessero fatto qualcosa per ottenere la liberazione degli ostaggi.

Quale futuro?

Ebbene, nonostante tutto ciò, si continua a non voler sentire la voce di noi gazesi riguardo al nostro futuro: se dobbiamo restare qui, in un paese distrutto e da ricostruire nei prossimi 15 anni (ma chissà quanti di più...), oppure cominciare altrove una nuova vita. È una scelta importante e quindi è un’altra ragione per la quale questa volta il nostro futuro dobbiamo deciderlo noi.

Se l’alternativa è tra 1) vivere in campi profughi, in un territorio devastato, inquinato dalle macerie, pieno di bombe inesplose, per giunta ancora tiranneggiati da Hamas e col pericolo di tornare ad essere massacrati ogni volta che vi saranno nuovi rapimenti di ostaggi; oppure 2) andare a vivere in un altro paese arabo, in villaggi civili, in case prefabbricate, con posti di lavoro e assistenza sociale assicurata, e senza più la dittatura del fondamentalismo islamico - ebbene, la scelta che noi gazesi dovremmo fare, e probabilmente faremmo, è quasi ovvia.

Ma, ripeto, questa dev’essere esclusivamente una scelta nostra, avendo chiare le alternative. Dovremmo poter discutere tra noi abitanti di Gaza, senza le minacce dei capi d Hamas (gli stessi che nei primi giorni tentarono di fermare l’esodo dei gazesi che fuggivano verso il sud, ordinando loro di restare a morire sotto le bombe) e senza condizionamenti da parte di osservatori esterni. Questi non hanno alcun titolo per intervenire nelle nostre vicende, ma non perdono l’occasione di dire qualcosa. E qui intendo riferirmi alla valanga di esclamazioni indignate con cui è stata accolta la proposta di Trump riguardo al trasferimento dei gazesi sopravvissuti in una parte del mondo più accogliente.

Trump è Trump ed è ovviamente libero di proporre ciò che vuole, anche se in genere non è attendibile e inoltre non traduce in pratica molte delle sue esternazioni. Ma è scandaloso il modo in cui è stata ridicolizzata la sua proposta per Gaza, per giunta deformandola a piacimento, senza affrontare una discussione seria al riguardo. Sembra incredibile, ma finora è stato l’unico leader politico ad essersi posto il problema concreto del nostro futuro, giusta o sbagliata che sia la soluzione proposta, realizzabile o irrealizzabile.

Che sarà di Gaza, se noi e la nuova generazione dovremo vivere in una terra devastata, ancora sotto la tirannia di Hamas (o comunque si chiamerà una qualche nuova sigla fondamentalista), in un regime di dittatura e di terrore? Agli indignati ciò non interessa: sono troppo innamorati della propria indignazione per potersi porre il problema concreto di cosa si può fare per far vivere finalmente in condizioni civili, democratiche e umanamente decenti i gazesi sopravvissuti.

Tutta l’indignazione che esplode ora, e che non vi è stata in precedenza per le stragi provocate a Gaza dall’azione di Hamas, appare come un’offesa ulteriore alla memoria delle decine di migliaia di vittime innocenti. Che tacciano una buona volta i benpensanti indignati - che nell’inferno della Gaza attuale non andrebbero a vivere nemmeno per un giorno - e lascino a noi gazesi il compito di esaminare collettivamente, con calma e lucidità, quale potrebbe essere il destino migliore per noi.

L’alibi dei «due Stati»

E che tacciano una volta per tutte i propagatori della «teoria dei due Stati». Questa è diventata ormai solo un alibi per salvarsi l’anima e non affrontare concretamente il futuro degli arabi palestinesi.

Nel 1947-48 ci fu l’ultima possibilità di creare un autentico Stato palestinese, ipoteticamente nella Transgiordania di allora. Israele disse di sì, la Lega araba disse di no e aggredì Israele. Da allora la teoria dei due Stati è diventata uno slogan vuoto, buono per mettersi a posto la coscienza, ma irrealistico: due Stati, entrambi confessionali e ostili tra loro, non porterebbero altro che a nuove guerre.

Guerre che saranno vinte sempre dagli israeliani, ma questa non è una buona ragione per alimentare il sorgere di nuovi conflitti in Medio Oriente. Soprattutto ora che tutti i principali Stati arabi hanno riconosciuto o si accingono a riconoscere Israele. Questa è una grande novità rispetto al 1948, al 1967, al 1973 ecc. L’unico bastione irriducibile, fautore del genocidio antiebraico, rimane l’Iran degli ayatollah. Di questo si deve tener conto, quando si parla del futuuro di Gaza. E forse si avvicina il giorno in cui vedremo finalmente una coalizione degli Stati arabi compreso Israele- divenuto nel frattempo Stato multietnico (formula più precisa che «multinazionale»), possibilmente laico e includente i palestinesi -  impegnata a far crollare il regime teocratico dell’Iran. In ciò, la coalizione arabo-israeliana sarà aiutata dal fatto che la maggioranza del popolo iraniano è fortemente ostile a tale regime.

Ma la prova decisiva che dimostra l’ipocrisia di chi si nasconde dietro la teoria dei due Stati, sta nel fatto che nessuno ha il coraggio di dire concretamente dove dovrebbe sorgere un vero e proprio Stato palestinese, in quale luogo. E questo perché tale luogo non esiste, a meno che l’Arabia Saudita non acconsenta - come è improbabile - a cedere una parte del suo immenso e disabitato territorio. (Richiesta già fatta arrivare da Trump a Mohammad bin Salman, per i gazesi, e momentaneamente respinta al mittente.)

Tuttavia, se ancora si avevano dubbi sull’insensatezza della teoria dei due Stati, ciò che è avvenuto nello staterello di Gaza dovrebbe averli fugati del tutto: appena Israele si è ritirato completamente dal territorio gazese, un colpo di forza militare ne ha passato la guida ad Hamas. E il controllo di Gaza è servito ad Hamas per preparare l’aggressione militare, incurante dei prezzi che la popolazione avrebbe pagato, anzi includendo tali prezzi nella strategia politica. Una strategia disumana che ha finito col ritorcersi contro Hamas stesso che ha avuto perdite enormi (oltre 15.000 militanti morti) e non ha più il controllo totale del territorio. Può solo consolarsi di non essere ancora scomparso, come invece aveva promesso Netanyahu.

È facile profezia prevedere che Israele non accetterà mai più di ripetere l’errore fatto con Gaza. E per quanto paradossale ciò possa sembrare, i primi ad avvantaggiarsene saranno proprio i gazesi che in questi mesi di morte e distruzione avranno maledetto in cuor loro il giorno in cui Israele si è ritirato da Gaza e ha lasciato il campo libero ad Hamas: doveva essre l’inizio dell’indipendenza e invece si è trasformato nel massacro del nostro popolo e nelle distruzione del nostro Paese.

Conclusione provvisoria

Tutto ciò mi porta a ripetere e a concludere che d’ora in avanti dovremo fare di tutto per decidere noi gazesi il nostro destino. E questo ben sapendo che tenteranno di impedircelo le migliaia di ex prigionieri, militanti di Hamas, tornati in libertà e intenzionati ancora a uccidere ebrei (anche civili), palestinesi oppositori, gazesi informatori veri o presunti. Non si dimentichi, infatti, che la fucilazione in pubblico di alcuni «collaborazionisti» è stata la prima cosa fatta appena iniziata la tregua, per dare un segnale chiarissimo: Hamas continua ad avere il potere assoluto sui gazesi (anche se non più su Gaza) e verrà eliminato chiunque non obbedisca ciecamente.

In queste condizioni sarà ovviamente quasi impossibile per noi gazesi decidere del nostro futuro. Mentre l’assenza di canali di espressione democratica, anche minima, rischia di lasciare campo libero ai vari Trump, agli anti-Trump e più in generale agli indignati di professione (quelli, ripeto, innamorati soprattutto della propria indignazione).

Riuscirà il mio popolo a esprimersi finalmente in forma autonoma dopo circa tre millenni di sudditanza e oppressione?

Inshallah 

روبرتو بن المساري

 

ENGLISH

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.