di Michele Nobile
1.
Nell’articolo «La Russia come imperialismo aggressivo», gennaio 2024, scrissi che la posizione internazionale della Russia è ora simile a quella del Terzo Reich nel 1939. L’invasione dell’Ucraina ha dimostrato fino a che punto Putin è disposto a rischiare per ricostruire un’identità e una sfera imperiale grande-russa (il precedente della Georgia non aveva la stessa rilevanza). Economicamente più debole rispetto agli imperialismi «occidentali», l’imperialismo russo costruisce la propria sfera d’influenza innanzitutto attraverso l’esercizio di modalità non-economiche e legami di subordinazione politica.
È da tempo che si vede emergere anche un imperialismo cinese, più prudente e moderno di quello russo perché basato su capacità finanziarie, industriali e tecnologiche di gran lunga ad esso superiori ma, proprio per questo motivo, potenzialmente molto più pericoloso (ad es. vedi miei articoli sul Mar cinese meridionale, 2018). Russia e Rpc sono grandi potenze che nel gergo storiografico e geopolitico possono essere dette revisioniste della struttura economico-politica regionale esistente, con l’obiettivo di creare o consolidare proprie sfere d’influenza.
In prima approssimazione questo ricorda i conflitti inter-imperialistici della prima parte del ‘900; e, come in quelli, la conflittualità inter-imperialista si sovrappone alla lotta per la libertà di alcuni popoli: è il caso dell’Ucraina, la possibilità di Taiwan. Concordo con l’idea di Roberto Massari dell’esistenza di «orrendi capitalismi di tipo feudale (Iran), poststaliniano (Cina), oligarchico-mafioso (Russia), che per giunta sono anche le principali potenze aggressive esistenti sul globo». Tuttavia questo è solo l’inizio di un discorso.
Russia e Rpc sono fenomeni senza precedenti perché combinano il peggio di due mondi. Sul piano macrostorico possono considerarsi fenomeni regressivi relativamente ai livelli minimi di civiltà conseguiti nel capitalismo avanzato, che pure non gode di buona salute.
Russia e Rpc sono formazioni sociali in cui residui del mondo pseudosocialista totalitario si combinano con capitalismi decisamente oligarchici. Malgrado le loro notevoli differenze socioeconomiche, le accomuno sotto l’etichetta di capitalismi oligarchici perché l’intreccio di potere politico ed economico è diverso da quello dei capitalismi avanzati, fatto che si esprime anche nelle diseguaglianze sociali particolarmente forti, nella repressione del sindacalismo indipendente, nel monopartitismo costituzionalizzato o di fatto. Benché siano capitalismi la cui prosperità è inscindibile da quanto si dice globalizzazione e dalle relazioni economiche con i Paesi a capitalismo avanzato (inconfutabile per quanto riguarda gli investimenti dall’estero e il commercio internazionale per la Rpc; per la Russia sono insostituibili le esportazioni di energia),
la loro particolare articolazione di potere economico e politico gli consente di atteggiarsi come alternative al cd. neoliberismo: possono dunque selezionare temi di eredità pseudosocialista e anticolonialista.
Il multipolarismo è la parola d’ordine che per Russia e Rpc rappresenta la loro pretesa d’essere riconosciute come potenze che hanno diritto a un loro legittimo «polo» ovvero sfera d’influenza; tuttavia, nello stesso tempo ribadiscono la validità dell’idea westfaliana (1648) della non interferenza negli affari interni d’altri Stati sovrani (sintetizzabile nel motto cuius regio, eius religio), quanto nel gergo contemporaneo è detto sovranismo. Dietro il paravento della pretesa di legittima esistenza di una varietà di sistemi nazionali, il sovranismo non è altro che l’ideologia di difesa di regimi politici autoritari che si collocano al di sotto del livello minimo storicamente acquisito della civiltà politica e giuridica liberal-democratica, bollato come volontà egemonica del cosiddetto Occidente. È per questo ultimo motivo che, al contrario di quanto accade nella politica estera delle potenze liberali, Russia e Rpc possono sostenere regimi autocratici senza incorrere in contraddizioni fra proclami ideali e pratica reale. Con livelli minimi di civiltà intendo riferirmi a un insieme di princìpi, normative e istituzioni che sono il risultato di un processo storico, di lotte sociali e politiche e di guerre, anche d’orrori come la Shoa; princìpi e acquisizioni che nella pratica possono essere evasi e mutilati e applicati in modo selettivo e opportunistico, secondo convenienza, ma che nondimeno rimangono criteri di valutazione e obiettivi di lotta.
Dalla discendenza pseudosocialista di Russia e Rpc consegue una seconda differenza rispetto alle potenze revisioniste del Novecento: la loro posizione nei confronti dei Paesi ex coloniali o sottosviluppati è molto diversa. Per quanto la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone imperiale contestassero gli imperi esistenti, il loro anticolonialismo era assai poco credibile; e quello del tempo era ancora un mondo in gran parte coloniale. La Russia e la Rpc odierne possono invece farsi forti dal discendere da rotture «rivoluzionarie» con l’imperialismo «occidentale» e di essere state a lungo soggette a contenimento mentre appoggiavano strumentalmente il movimento di decolonizzazione.
I movimenti nazionalisti erano un fenomeno progressivo quando ancora esistevano gli imperi coloniali ma, ottenuta o conquistata l’indipendenza politica, col tempo i nuovi Stati o hanno originato sistemi politici autoritari rimanendo comunque in condizioni di sottosviluppo socioeconomico, o si sono frantumati secondo linee più o meno etniche e di clan politico-gangsteristici, o sopravvivono sotto una qualche forma di totalitarismo politico e ideologico.
Sovranismo, statalismo oligarchico e antioccidentalismo rappresentano, come vaga ideologia, la convergenza d’interessi non solo fra Russia e Rpc ma fra queste potenze e Stati minori e organizzazioni che, per qualche ragione, non sono integrati nel normale funzionamento del sistema internazionale, ad es. Corea del nord, Iran, Venezuela, più altri Stati più o meno falliti. A questi aggiungo l’India, col suo ignobile sistema castale e la più arcaica fra le grandi religioni, tuttavia potenza nucleare.
Tutto ciò ci dice quanto il mondo sia veramente cambiato rispetto al XX secolo, in particolare rispetto ai primi decenni del secondo dopoguerra. Nei primi vent’anni di questo XXI secolo è giunta a maturazione la sinergia di un insieme di processi che hanno interessato tutti i campi della vita sociale, iniziati a cavaliere degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sia nei Paesi a capitalismo avanzato che nelle diverse altre aree geografiche e sociali del mondo. Per il fine di questo scritto quel che interessa notare è che, a fronte di sviluppi politici che possono dirsi progressivi - nonostante ambiguità e contraddizioni - come la fine di diverse dittature in America latina e in Asia, ve ne sono altri regressivi, se non catastrofici come quelli per diverse ragioni etichettati «Stati falliti» perché distrutti dalla guerra civile, specialmente in Africa ma anche in Medio oriente: Iraq, Siria e Yemen.
Nel complesso non solo risultano in gran parte vane o vanificate le speranze riposte in movimenti nazionalisti che per gran parte del secolo scorso potevano ragionevolmente fare sperare in una diffusione degli elementi minimi della civiltà e nell’elevamento del livello complessivo di civiltà del mondo. Ancor peggio, i risultati ultimi di quei movimenti resistono o attivamente muovono in senso contrario al progredire dei diritti civili. E la resistenza a problemi vecchi e nuovi creati dalla modernità del capitalismo e dell’imperialismo assume spesso forme e contenuti regressivi.
Da questo due fatti paradossali:.
1) Che più male che bene, i livelli minimi di civiltà sono almeno in parte (per i diritti civili e politici) difesi dai vecchi imperialismi dei Paesi a capitalismo avanzato. La ragione è la fine della Guerra fredda, ma per ragione diversa da quella dei critici dell’«egemonismo americano». Il punto è che per motivi strutturali (il carattere nuovo e più avanzato del capitalismo Usa) quel che si dice «wilsonism» (multilateralismo, opposizione a sfere d’influenza e colonie, «porta aperta», preferenza per regimi liberali, un «imperialismo anti-imperialistico») è parte integrante della politica estera statunitense ma, durante la Guerra fredda, venne applicato molto selettivamente e male perché le esigenze del contenimento richiedevano la «realistica» collaborazione con qualsiasi regime anticomunista, per quanto ferocemente repressivo e incapace di attuare riforme. Con la fine guerra fredda il wilsonismo (o una sua variante unilateralista) ha avuto nuovo slancio, uno dei motivi (in fondo il più importante) della contesa fra Democratici e Trump. (Sul wilsonismo ideale e concreto: Tony Smith, America's mission. The United States and the worldwide struggle for democracy in the twentieth century, Princeton University Press, Princeton 1995; per la convergenza e le differenze fra Democratici e Repubblicani prima di Trump: John Ikenberry-Thomas J. Knock-Anne-Marie Slaughter-Tony Smith, The crisis of American foreign policy. Wilsonianism in the twenty-first century,Princeton University press, Princeton e Oxford, 2009.)
2) Il secondo paradosso è che in nome del sovranismo, del multipolarismo e dell’antioccidentalismo una parte della sinistra, che si pensa più radicale, sostiene regimi e movimenti regressivi: è una sinistra reazionaria.
Posto il problema, due osservazioni di metodo, più facili a dirsi che a seguirsi.
La prima l’accenno soltanto. Gran parte dei problemi del mondo sono spiegati con la cd. globalizzazione neoliberista o, se si preferisce, con gli effetti del colonialismo e dei rapporti di dominio neocoloniali; oppure sono ricondotti a contrastanti tradizioni culturali o religiose profondamente radicate nella vita dei popoli. Ovviamente colonialismo, neocolonialismo e culture entrano sempre in gioco, ma è sempre cruciale specificare come concretamente interagiscono in una determinata situazione il globale e il locale, passato e presente, economia, politica e cultura. Ad esempio, sia i palestinesi sia i sionisti giustificano l’azione presente con le rispettive tragedie passate e con la continuità storica relativamente alla terra, quest’ultima immaginaria per gli ebrei non israeliani, reale per i palestinesi arabi. Dunque, guardarsi da questo storicismo, ma anche dalla generalizzazione spaziale che salta la specificità locale: ad es. ridurre il conflitto israelo-palestinese allo «scontro di civiltà» o alla malefica influenza iraniana.
La parola «civiltà» ha due significati che generano ambiguità. Il primo è quello normativo: ciò che si considera essere civile in un dato tempo e spazio, che serve anche a giudicare la distanza fra norma ideale e realtà effettiva: la libertà dall’oppressione e dal bisogno. A volte civiltà è utilizzato come sinonimo di cultura, ma a differenza del secondo termine tende a definire qualità essenziali trans-storiche, in modo stereotipato, spesso accomunando culture distinte. E direi che l’uso politico comune è proprio di questo tipo. La cosa è pericolosa perché in pratica non solo si traduce in xenofobia ma nella negazione del valore universale di quanto oggi si può considerare civile, nella logica «ognuno se ne stia a casa propria». Un esempio in questo senso (per farne uno «nobile») è il concetto essenzialista di civiltà dello «scontro di civiltà» di Samuel Huntington, derivato dal feticismo che attribuisce gli effetti di pratiche umane storiche alla metafisica di un’ideologia religiosa compatta e invariante, senza considerare differenze fra ère e tradizioni diverse, senza considerare differenze e contrasti interni alle varie comunità nazionali e fra Paesi, creando una entità detta «Islam» o «mondo islamico» mitica quanto l’«Occidente», per giunta assimilandola ai talebani e Hamas e alla teocrazia sciita iraniana. Come se il cristianesimo possa ridursi all’integralismo cattolico o al fondamentalismo protestante o alla Spagna di Francisco Franco. Semmai, è interessante chiedersi perché dalla seconda metà degli anni ’70 sia iniziata La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquete du monde, argomento del libro di Gilles Kepel, Seuil 1991. In Israele Likud e partiti religiosi ebbero per la prima volta il governo nel 1977.
A proposito di civiltà e barbarie è pure bene ricordare che per quel che concerne i modi più moderni della barbarie, il cosiddetto Occidente fa scuola. L’Olocausto non fu un fatto mussulmano o arabo, ma europeo; il terrore di massa su scala mai prima vista e l’introduzione del lavoro schiavile nei gulag staliniani furono decisi a Mosca non a Baghdad. E sullo «sfondo» di quel che segue è il fatto che quella fra Stato israeliano e arabi palestinesi di Gaza e Cisgiordania è una relazione di dominio neocoloniale, realtà obiettiva che non è intaccata neanche dalla più dura e spietata critica della politica delle organizzazioni palestinesi di ieri e di oggi. Se si trascura questa realtà la battaglia contro il fanatismo e Hamas è persa in partenza. Chiedersi come conseguire la sconfitta strategica di Hamas e soci equivale quindi a chiedersi come può risolversi la lotta palestinese per una effettiva libertà nazionale e anche come deve cambiare Israele.
La seconda considerazione di metodo è il versante pratico della precedente e prende il resto del testo: esiste un’immensa se non incommensurabile differenza a tutti i livelli possibili, compreso quello militare, tra affrontare Hamas oppure la Cina, la Russia oppure l’India, la Corea del nord o Boko haram. Come nella lettera precedente, in questi ragionamenti non tratto il problema sotto il profilo etico, ma ragionando con l’obiettivo della sconfitta della barbarie di Hamas e soci, locali e internazionali. I termini in cui si pone la questione etico-politica del rapporto fra mezzi e fini emergono dai fatti. È la ragione per cui scrissi che Hamas è un nemico del popolo palestinese. Bisogna però considerare obiettivamente l’altra faccia della medaglia: che il governo israeliano è caduto nella trappola politica di Hamas non per errore ma volontariamente.