di Laris Massari*
Nel momento in cui scrivo, molte cose staranno già cambiando, perché il sistema dei social media - come di tutti i programmi per computer e per smartphone - si alimenta di «aggiornamenti». Senza tali aggiornamenti, il sistema alla lunga diventerebbe obsoleto e nessuno ne vorrebbe più usufruire.
Immergiamoci nel bacino degli attuali social media e partiamo dal più noto di essi: Facebook. Questo prese vita nel lontano 2004 (l’anno in cui nascevo anch’io), per iniziativa di Mark Zuckerberg [n. 1984], Eduardo Saverin [n. 1982], Chistopher Hughes [n. 1983], Andrew McCollum [n. 1983], Dustin A. Moskovitz [n. 1984] - poi divenuti tutti affermati imprenditori. Ma da alcuni anni Fb non vive più di vita propria e ai giovani piace sempre di meno. Certo, è ancora molto diffuso tra le persone di una certa fascia d’età - i non adolescenti, i cosiddetti boomer1 - ma appunto si tratta di un social medium ormai «vecchio». È una delle ragioni per cui il signor «Zuck» con la sua azienda si è dovuto impadronire dei principali concorrenti: chi già fa uso di Instagram e Whatsapp avrà notato che all’apertura di queste applicazioni (programmi per smartphone) compariva la scritta «From Facebook», poi «From Meta» - ultimo fallimentare progetto di aggiornamento.
Il fatto è che i nativi digitali (new generation, gen z2 ecc.) sono maggiormente attratti da quei social che permettono di visualizzare il più alto numero di immagini, nel minor tempo possibile, con il più basso livello d’attenzione. A ciò è dovuto il grande successo di Instagram (Ig), un social medium in cui la condivisione di sole immagini e video, con poco o niente testo, la fa da padrona. Immagini e video che le persone possono «postare» sui propri profili social sotto forma di post, o condividere (col mondo o con una ristretta cerchia d’amici) per una sola giornata tramite le cosiddette «storie» (dall’inglese stories). Così sarebbe possibile pubblicare giorno per giorno la storia della propria vita, ben filtrata, tramite le storie di Ig.
E non c’è bisogno di essere influencer per fare un cosa del genere. Gli influencer, invece, diventano tali quando, a interessarsi di ciò che mostrano della propria vita, sono un numero a volte spaventoso di persone - anzi di seguaci, cioè di follower. Oppure quando personaggi già famosi si creano un proprio profilo. Così il social medium può diventare un luogo di lavoro, nonché in effetti una fiera delle pubblicità: ed è grazie agli sponsor che i più influenti guadagnano ingenti somme di denaro. Condividendo anche i momenti più intimi della propria vita, la persona famosa entra nelle vite dei follower come fosse un loro amico caro, e quindi non c’è da meravigliarsi se poi qualunque prodotto essa pubblicizzi abbia un’alta probabilità di essere acquistato.
Il bello è che i follower, a meno che non siano prede completamente alienate del meccanismo, sanno benissimo come esso funziona, ma, anziché indignarsi, aspirano a diventare essi stessi degli influencer (che possono essere a loro volta follower di qualcun altro). Questo è un esempio della famigerata «democrazia» del Web, giacché a ogni singolo utente è potenzialmente concesso di diventare influente, quindi famoso e ricco, senza possedere grandi qualità umane di alcun tipo.
Qui entra in gioco il celebre «algoritmo», che favorisce chi pubblica contenuti che siano più in linea con le mode - con i trend. Non solo: l’algoritmo fa anche in modo di captare gli interessi di un utente per potergli poi riproporre contenuti e soprattutto prodotti in linea con essi: un fenomeno che vediamo con sempre maggiore frequenza e un po’ dappertutto nel mare di Internet.
Come se non bastasse, ormai se non si paga la versione premium di uno qualsiasi di questi social media, alla pubblicità «di sottofondo» si aggiunge la pubblicità vera e propria tra un post e l’altro, rendendo a confronto gli spot pubblicitari televisivi pura normalità.
La maggior parte delle app tende al modello di Fb e Ig. Per esempio, a Whatsapp (messagistica istantanea) e a YouTube (piattaforma di video di media e lunga durata) da un po’ di tempo è stata aggiunta la funzione di pubblicare le storie giornaliere. Le stesse Fb e Ig prendono spunto da altri social e viceversa, in un continuo aggiornamento per accaparrarsi il maggior numero di utenti. Un social di recente creazione, di nome BeReal, pretende di distinguersi dagli altri perché chiede agli utenti di pubblicare foto in certe ore della giornata, che li ritraggano in qualunque frangente essi si trovino, affinché costoro non possano «mentire» sulla loro reale condizione. Lo slogan paradossale è: Your Friends for Real.
Simile a Ig è la poco più recente, nonché principale concorrente, Snapchat (originaria di Stanford, a differenza della Fb di Harvard). La caratteristica principale di Snapchat è consentire agli utenti della propria rete di inviare messaggi di testo, foto e video visualizzabili solo per 24 ore. L’app permette inoltre la condivisione della geolocalizzazione al proprio gruppo di amici. Mi è capitato di vedere utenti della mia età all’opera con quest’app - non molto diffusa in Italia quanto all’estero - inviare a grande velocità un’immagine del proprio volto (un selfie per capirci) a una parte della propria lista di contatti. Probabilmente con la stessa velocità con cui l’immagine è inviata, l’immagine sarà vista dal ricevente, che avrà troppe pseudocorrispondenze in corso per poter dare ad alcuna la giusta importanza.
Merita un discorso a parte il fenomeno di TikTok: app cinese del 2016, derivata di musical.ly, attraverso cui gli utenti (detti TikToker) possono creare brevi videoclip di durata variabile (dai 15 ai 600 secondi) ed eventualmente modificare la velocità di riproduzione, aggiungendo ai propri filtri, effetti particolari e suoni. Evoluzione (o involuzione) dei social precedenti, TikTok ha abolito ogni forma statica di immagine o didascalia, per lasciare spazio solo a video brevi. L’app ha spopolato, tra i giovani e i giovanissimi, ma non solo loro, con più di un miliardo di utenti nel mondo. Si tratta di un ennesimo social «mangia-vita», che tiene le persone attaccate al minischermo per ore e ore, potenzialmente per l’intera giornata, a vedere i video di altra gente. Stiamo parlando di contenuti quali balletti, gag (o meglio, dire meme3), ricette di cucina e chi più ne ha più ne metta.
Ovviamente tra una scemenza e l’altra ci scappa qualche video serio che perde qualsiasi credibilità in mezzo al mucchio. Si sente in giro parlare di «trend di TikTok» che tutti ripetono - a voce o con gesti e balletti - come fossero le battute di Fantozzi, per poi dimenticarsene in breve, appena sopraggiungono nuovi trend.
Basti pensare al personaggio di Khaby Lame [n. 2000] (un vero e proprio trendsetter), senegalese naturalizzato italiano, il quale, reagendo a video ridicoli di altri utenti, con altrettanta ridicolezza ha raggiunto al momento [febbraio 2024] 160 milioni di follower su TikTok e 80 milioni su Ig: cifre da capogiro. È divenuto il TikToker più seguìto al mondo, che abbiamo visto sfilare sul red carpet degli Oscar e stringere la mano a star di Hollywood. Primato italiano...
Si provi a immaginare cosa significhi informarsi in un tale caos. Ma purtroppo i social sono il canale d’informazione preferito da noi giovani e anche da una gran quantità di adulti. A tale riguardo, devo ringraziare mio padre per avermi salvato, avviandomi alla lettura quotidiana del giornale, ormai da alcuni anni. La lettura del giornale - meglio se cartaceo - equivale alla scoperta di un mondo: quello reale in cui viviamo. È una sorta di rituale che richiede il suo tempo, meno di quanto pigramente si creda, di certo meno del tempo dedicato normalmente al mondo virtuale. Ed è una lettura a tutto tondo, che spazia dalla politica nazionale all’internazionale, dalle cronache alla cultura. Quest’ultima è una parte fondamentale e ad alto impatto educativo. Stiamo parlando comunque di una gigantesca acquisizione di conoscenze che si perdono inevitabilmente nella rimanipolazione confusa delle frenetiche e approssimative «informazioni» sui social.
Per ovvie ragioni, sono i politici tra coloro che più utilizzano i social - e non parlo solo del più comune Twitter (ora X di Elon Musk [n. 1971]), ma anche tutti gli altri. Si ricordi la campagna politica di Silvio Berlusconi [1936-2023] su TikTok prima della sua dipartita (celebrata con un vergognoso e mediatico funerale di Stato).
Tra i vari cambiamenti ai quali stiamo assistendo vi è la sempre più presente Intelligenza artificiale (Ai), che si sta cercando di integrare negli smartphone e nei social media. Primi effetti collaterali sono stati le immagini di falsi avvenimenti e i profili finti di belle donne create con l’Ai, che hanno comunque raggiunto centinaia di migliaia o milioni di follower.
Tutto ciò sarà ancor più rivoluzionato dall’avvento dei nuovi VisionPro di Apple: degli occhialioni che permettono praticamente di vivere dentro il proprio smartphone, ma allo stesso tempo di non perdere del tutto la percezione dell’ambiente reale. Sono già state avvistate persone aggirarsi per le città o addirittura al volante indossando questi occhialoni. Nel futuro l’umanità ne vedrà delle belle...
Riflettendo su quanto detto, ci si deve porre una prima domanda: come può tutto ciò essere di qualche giovamento per la specie umana?
E, seconda domanda, mentre molti adulti si rincretiniscono, cosa avviene nelle menti dei giovani che nascono o arrivano a disastro inoltrato? Questo perché le nuove generazioni, prive dei necessari e adeguati strumenti teorici, sono le prime a essere inghiottite dal vortice informatico. Saranno quindi (e già lo sono) più facilmente manipolabili e influenzabili da parte delle linee di pensiero imposte dal social di turno. Non si conosceranno più alternative al mondo virtuale, destinato a diventare il nuovo habitat «sociale» umano.
Noi essere umani, però, non siamo programmati per vivere nei programmi (nelle app ecc.): siamo invece biologicamente predisposti per far sì che il nostro patrimonio genetico ci sopravviva nelle generazioni future e nell’unico mondo in cui ci siamo evoluti. Evoluzione coadiuvata proprio dai mezzi ideati dalla mente umana per facilitarci la vita, non per negarcela. La semplificazione del vivere quotidiano, portata all’estremo dallo sviluppo informatico (foss’anche di effettiva utilità), rischia d’introdurre complicazioni nuove e spesso ingestibili. Se i mezzi arrivassero ad avere la meglio sui propri creatori, del fine congenito si perderebbe traccia.
La mia conclusione provvisoria - come lo è il livello raggiunto dalla tecnologia informatica - è che la ricerca di risposte sembrerebbe portare solo a prospettive tra le più catastrofiche. Resta il fatto però che, benché io abbia fatto esperienza del mondo social in una fase più «acerba» della mia vita, sono poi riuscito a tirarmene via (del tutto o quasi), con occhio assai critico o forse con qualche effetto collaterale indesiderato. Ma proprio perché ne sono stato vittima, faccio ora di tutto per mettere me e altri al riparo. Non so quanti stiano facendo lo stesso, ma si tratterà certo di minoranze che, libere dal mondo frenetico dei social, sentono necessario l’impegno per la salvaguardia del nostro mondo reale.
NOTE
* Il testo è apparso come appendice al libro di Roberto Massari, Masse ribelli e protagonismo digitale, Bolsena 2024, pp. 215-22.
1 È la forma abbreviata di baby boomer, utilizzata comunemente con riferimento al boom demografico del secondo dopoguerra. Il termine dovrebbe indicare in genere i nati in Europa e negli Usa tra il 1946 e il 1964, ma è diventato sinonimo - ironico o alquanto spregiativo - di persone nate negli anni del boom economico, caratterizzate da modi di pensare superati e conservatori, e soprattutto inadeguate per l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche.
2 Nel linguaggio giornalistico si riferisce alla generazione dei nativi digitali, nati tra il 1997 e il 2012 (come per es. il sottoscritto).
3 I memi digitali sono contenuti virali in grado di monopolizzare l’attenzione degli utenti sul Web. Un video, un disegno, una foto - se è massima la loro «replicabilità», che dipende dalla capacità di suscitare un’emozione - possono diventare «meme». Il termine è stato coniato dal biologo Richard Dawkins [n. 1941], in The selfish gene (1976) (Il gene egoista, Mondadori 1976) per indicare un’entità di informazione replicabile.