di Pier Francesco Zarcone
Spiace dirlo, ma il futuro dei Palestinesi si presenta più buio e desolante che mai, perché i paesi arabi sunniti si sono disinteressati di loro e nel mondo non hanno amici potenti. Oggi la loro solitudine è sempre più forte ed evidente, essendo venuti meno anche i residui veli di ipocrita retorica da parte di chi tra gli Arabi potrebbe sostenerli, disponendo di denaro e influenza politica e mediatica. E vediamo perché.
Le cosiddette primavere arabe sono state un fallimento totale acuito non solo dall’irrompere dell’islamismo politico (fenomeno rispetto a cui l’Occidente non è rimasto estraneo) ma altresì dagli appetiti politici dei paesi della penisola araba, che in vario modo hanno appoggiato o fomentato eventi dissolutivi dalla Siria all’Iraq, all’Egitto, alla Libia e alla Tunisia. La cinica realpolitikesercitata con spirito di potere, sempre più caratterizza l’azione di tali paesi, che peraltro non se la passano bene. L’Egitto ha i suoi problemi, economici e di sicurezza interna; in Siria il conflitto non è del tutto terminato; l’Iraq deve uscire dalle devastazioni lasciate dall’Isis; la Giordania non conta nulla e in più il re deve pensare agli opportuni equilibrismi per restare su un trono dai piedi di argilla.
Nel Vicino Oriente i conflitti iracheno e siriano, con i decisivi interventi di Russia e Iran in favore dei locali governi antijihadisti hanno finito col dare una mano involontaria al disinteresse sunnita per la Palestina, dove ormai i sionisti fanno quello che vogliono. Infatti, a motivo degli esiti della crisi siriana le preoccupazioni dei governi di Arabia Saudita, Barhayn ed Emirati Arabi Uniti sono rivolte all’Iran, paese che - pur coi suoi grandi problemi interni - è obiettivamente in fase di espansione politico-militare. Infatti ha potuto realizzare il tanto agognato “corridoio sciita”, cioè un gruppo continuo di paesi amici e confinanti che, per la loro connotazione religiosa in seno all’Islam, costituiscono un suo supporto. Si tratta di un corridoio che va da Teheran a Baghdad e a Damasco finendo a Beirut.
L’Iraq è a maggioranza sciita; la Siria no, ma il potere è gestito dagli Alawiti che furono riconosciuti sciiti all’epoca di Khomeini ed essi hanno un debito di riconoscenza verso l’Iran per l’aiuto militare fornito in uomini e mezzi nella lotta contro ribelli autoctoni e invasori jihadisti; il Libano ha una grande percentuale di Sciiti di cui Hezbollah è il braccio militare, copertosi di gloria nella lotta armata contro le invasioni di Israele, e al momento è parte della coalizione governativa. Si aggiunga che gli Houti yemeniti, contro cui l’Arabia Saudita ha costituito una scombiccherata coalizione nel vano tentativo di eliminarli, sono sciiti.
Questa nuova situazione politico-militare per gli Sciiti – per ben più di un millennio perseguitati o comunque osteggiati dai Sunniti – ha cambiato il quadro della regione, creando fibrillazioni nelle altre entità statali esistent e con ripercussioni sulla questione palestinese.
Forse non è chiaro da noi, ma le dirigenze arabe sanno benissimo che le manovre anti-sciite non trovano affatto appoggi entusiastici presso i Palestinesi. Il tifo sportivo nelle competizioni internazionali il più delle volte esprime gli stati d’animo: ebbene, non è stato affatto casuale che nel Mondiale di calcio il tifo prevalente tra i Palestinesi sia andato alla squadra iraniana contro quelle occidentali e a queste ultime contro la squadra saudita. D’altro canto prestigio e aiuti di Hezbollah e iraniani pesano, tant’è che a Gaza Hamas mantiene ottimi rapporti con entrambi e flirta con Qatar e Turchia; inoltre nelle reti sociali palestinesi abbondano le posizioni critiche verso le petro-monarchie arabe.
Soprattutto in Arabia Saudita l’ascesa al potere del principe ereditario Muhammad bin Salman è stata la punta più visibile dell’emergere di un ceto politico giovane portatore di idee diverse da quelle della vecchia classe politica fino ad allora dominante. Ovviamente non sappiamo se bin Salman uscirà indenne oppure no dalla crisi inerente all’omicidio di Kashoggi e dal disastro della guerra nello Yemen. Ragion per cui il ragionamento che segue vale per l’oggi, quand’anche con un’incognita: se cioè altri giovani rampanti di “sangue reale” riusciranno a prenderne il posto con la stessa mentalità. Da tener presente che il principe ereditario di Abu Dhabi, Muhammad bin Zayed, è uno stretto alleato del suo omologo saudita, condividendone le idee.
Per quanto gli appoggi dalla penisola araba alla Palestina siano sempre stati più teorici che reali, la precedente dirigenza saudita puntava molto sulla possibilità che il sorgere di un qualche Stato palestinese portasse i filoiraniani locali – magari con un certo aiuto finanziario – a moderarsi in buona parte, differenziandosi dalla fazione più oltranzista.
Non pare che ciò sia avvenuto e oggi i nuovi emergenti come i due Muhammad ritengono che tutto sommato sarebbe meglio che lo Stato palestinese (al momento chiaramente ancora da venire) o non si formasse o si formasse male, esistendo il rischio di vederlo diventare un’altra entità filoiraniana nel Vicino Oriente.
Che l’attuale monarca saudita – Salman bin Abd al-Aziz – non la pensi come il figlio è di scarso rilievo, tenuto conto che non controlla più le reti di potere, e le sue dichiarazioni in favore del “diritto dei Palestinesi a un proprio Stato indipendente e di Gerusalemme est come capitale” lasciano il tempo che trovano; per il momento almeno.
Salman bin Abd al-Aziz è diventato re a gennaio del 2015, e subito il figlio Muhammad ha preso in mano le redini del potere esautorando, con metodi a dir poco polizieschi, tutti gli avversari nel precedente entourage. E subito la politica estera saudita è bruscamente cambiata, da estremamente cauta che era. Vero è che nell’indifferenza generale era stata creata nel mondo una vasta rete di moschee e madrase di stretta impostazione wahhabita, che avevano diffuso negli ambienti islamici questa corrente fanática, in precedenza di scarsa rilevanza; tuttavia, non erano mai state assunte iniziative dirompenti e pericolose.
Poi a marzo del 2017 bin Salman ha scatenato la guerra contro lo Yemen e a giugno dello stesso anno ha imposto il blocco al Qatar, non prono ai suoi voleri. La guerra yemenita ristagna, pur facendo morti e distruzioni, e il blocco qatariota ha finito col rendere questo Emirato sempre più dipendente dall’Iran per la sopravvivenza quotidiana. Si aggiunga che – sempre per le intemperanze del principe saudita – l’influenza di Ryadh in Libano (cioè sui Sunniti locali) è assai diminuita, tant’è che il governo con Hezbollah non è caduto. Infine in Siria Bashar al-Assad è rimasto al potere.
Questi dati sono essenziali in rapporto al fatto che tutta la politica di bin Salman è orientata dalla paura per l’Iran, rendendo l’Arabia Saudita non solo in simbiosi con l’amministrazione Trump, ma anche disposta a forti avvicinamenti con l’altro aricinemico dell’Iran: Israele.
Le collusioni tra bin Salman e Israele sono sempre evidenti, perché avvengono alla luce del sole, e di recente anche l’Oman sembra disposto addirittura al riconoscimento dell’entità sionista. Talché seppure per un miracolo lo Stato palestinese dovesse venire alla luce, è facile prevedere che da Arabia Saudita ed Emirati non riceverebbe un dollaro di aiuto, perché il contrario vorrebbe dire, alla fin fine, fare un favore all’Iran. Molti politici occidentali – tra cui Trump e suo genero Jarod Kushner - sognano (o fanno finta di sognare) che invece avvenga il contrario, ma allo stato delle cose si tratta proprio di un sogno.
Il fatto è che le nuove e giovani dirigenze arabe perseguono solo uno stretto realismo politico, determinando un radicale rivolgimento della preesistente prospettiva culturale di base. Essa, riguardo alla politica internazionale, si incardinava nella stretta unione tra interesse statale e coerenza arabo-islamica, di modo che il Sionismo restava il nemico (quand’anche con scarso attivismo contro di esso) e la difesa dei Palestinesi ne faceva parte integrante. Questo quadro non esiste più, e non si può nemmeno escludere che il nuovo orientamento trovi consenso in parte dell’opinione pubblica peninsulare.
Ora, indipendentemente dalla sorte di bin Salman, è ovvio che il deteriorarsi della “crisi iraniana” contribuirà al rafforzamento della nuova posizione politica verso Israele e i Palestinesi.
A maggio di quest’anno bin Salman ha dichiarato, con la sua consueta brutalità, che i Palestinesi o fanno la pace con Israele (ovviamente alle condizioni di questa) oppure devono stare zitti. Inoltre egli ha anche minimizzato il loro problema dichiarandolo “non in cima all’agenda” del governo saudita, rivendicando per gli Israeliani il diritto ad avere la propria terra e finendo con l’esaltare la prospettiva delle relazioni diplomatiche con Israele.
La collaborazione tra bin Salman e Jared Kushner ha prodotto uno pseudopiano di pace in cui spicca - più della rinuncia formale dei Palestinesi al “diritto al ritorno” (le cui possibilità di realizzazione stanno obiettivamente a zero) - il riconoscimento di Gerusalemme come capitale soltanto di Israele: per l’ipotetico Stato palestinese la capitale sarebbe Abu Dis, un villaggio vicino a Gerusalemme!
Ormai anche Emirati Arabi e Bahrayn sono intenzionati a instaurare rapporti strategici con Israele in funzione antiraniana. Infatti il 12 maggio scorso si è tenuto a Washington un incontro riservato (ma non troppo) tra Benjamin Netanyahu e gli ambasciatori degli Emirati Arabi e del Bahrayn (rispettivamente Yusef al-Otaiba e Shaykh Abd Allah bin Rashad al-Khalifa) per rafforzare l’asse antiraniano nel Golfo.
A questi governi si unisce pure l’Egitto, finora più cauto nell’evidenziare le sue relazioni con Israele, benché sia ben conosciuta la loro cooperazione militare nel Sinai settentrionale contro i ribelli islamisti.
Stando così le cose, può ancora parlarsi di speranze per i Palestinesi in Palestina, al di là della misera prospettiva di una specie di “bantustan”?
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