Sostengo da tempo, con alterne fortune, l'enorme influenza del protagonismo individuale, in teoria illimitato, sui social media e i suoi effetti negativi sul protagonismo collettivo, in particolare su quello politico extra-istituzionale, di base, di movimento. In tale mio impegno, ad esempio ho provato, in particolare in riunioni e assemblee COBAS Scuola e convegni CESP, a dare una spiegazione non convenzionale di un fenomeno descritto negli ultimi tempi da parecchi insegnanti: e cioè l'ossessiva e apparentemente maniacale necessità della quasi totalità degli studenti di avere con sé in permanenza, e in consultazione continua, il proprio smartphone, al punto da manifestare una specie di "crisi da astinenza" se ne vengano separati per qualche ora durante le lezioni (pare che, in tal caso, tanti studenti guardino gli armadietti, in cui sono provvisoriamente chiusi gli smart, come se ci fosse imprigionato un animaletto amatissimo in sofferenza).
In tali consessi, ho espresso la mia opinione che non si trattasse dell'effetto di semplice rincoglionimento collettivo e di effetti "decerebranti" dei social, ma di qualcosa di più complesso e profondo, attinente ad un bisogno spasmodico di protagonismo individuale. Per spiegarmi meglio, ho fatto un paragone con un'analoga necessità, seppur su livelli di protagonismo apparentemente ben più motivati e "produttivi", dei leader politici, e in generale dei politici in carriera, di restare in permanenza collegati con i social e di dare in continuazione segnali della propria presenza nelle quotidiane baruffe e polemiche politiche. E ho posto la domanda: seppur su piani apparentemente non confrontabili per importanza, appare così inverosimile che la stessa frenesia di protagonismo social del politico in carriera, o dell'intellettuale famoso o del sindacalista celebre o del protagonista del mondo dello spettacolo o sportivo, colpisca anche milioni di giovani e meno giovani che sentono un'analoga necessità di segnalare la propria presenza nell'agone sociale, amicale, familiare? Con il conseguente bisogno frenetico di non perdere manco una battuta del dialogo incessante con i propri follower o più semplicemente con gli "amici di tastiera", con i gruppi sociali e amicali con i quali sono, attraverso le innumerevoli chat, in collegamento permanente?
Davvero i due piani non sono paragonabili? A smentire una considerazione del genere, apparentemente di buon senso, potrei richiamare il successo cosmico non tanto di influencer, dotati comunque di particolari abilità o conoscenze di moderni "galatei" o modelli di comportamento (sullo stampo delle Chiara Feragni, per intenderci), ma anche di "giovani qualunque". Come quel Khaby Lame, nato In Senegal e in Italia dall'età di un anno, che dal nulla del suo lavoro precario perso nel 2020 a venti anni, ha guadagnato in tre anni oltre cento milioni di follower in tutto il mondo semplicemente sbeffeggiando su Tik Tok, e senza parlare (si auto-definisce dislessico), la banalità dei video di altri frequentatori del social, di certo meno furbi e sagaci, divenendo infine oggi una star mondiale del mondo dello spettacolo a 360 gradi. Possiamo anche sottovalutare l'effetto imitativo di questi casi, sempre più numerosi, di improvviso successo planetario di persone che, senza alcuna particolare abilità, professionalità o conoscenze, riescono a raggiungere una notorietà globale e universale, superiore di gran lunga a quella della gran parte dei politici conosciuti. Ma dovremmo però almeno prender atto che milioni di giovani e meno giovani si accontentano pure di una notorietà assai più limitata, fosse anche circoscritta in una ristretta cerchia di amici, familiari, colleghi di lavoro o di studio, conoscenze e "amicizie virtuali" accumulate nei social, ritenendo comunque indispensabile uscire dal totale anonimato a cui erano destinati, prima del trionfo dei social, milioni (anzi, miliardi) di individui che non svolgevano attività politiche, economiche o sociali di una qualche rilevanza. E per guadagnarsi tale, seppur circoscritta, notorietà, essi/e devono competere quotidianamente con un impegno indefesso, che rende indispensabile aver sempre a portata di mano l'"attrezzo da lavoro" mediatico, che non può stare, di conseguenza, neanche per qualche ora confinato in un armadietto. In alcuni casi, tale desiderio di comparire, di essere notati anche oltre la cerchia amicale, porta addirittura ad imprese scellerate e autolesioniste, come pubblicare dei video di violenze compiute, aggressioni, stupri, uccisioni di animali, torture o persecuzione di portatori di handicap: video che poi diventano la prova provata dei crimini stessi e si ritorcono contro gli autori, individuati e condannati proprio grazie a quei video..
Queste mie considerazioni mi sono state confermate durante gli ultimi mesi da quello che potrei chiamare il trionfo dell'"esercito del selfie" (devo l'espressione al titolo di un ironico hit musicale di Tagagi&Ketra, alias Alessandro Merli e Fabio Clemente, di qualche tempo fa) a livello universale. Ovviamente non sto scoprendo l'acqua calda, il successo straripante dei selfie non è certo di oggi (d'altra parte Tagagi&Ketra lo sbeffeggiavano appunto già nel 2017). Purtuttavia, essermi trovato a poche settimane di distanza prima in un paese dominato dalla cultura islamica più integralista - ove la quasi totalità delle donne locali circolano bardate in palandrane nere, che non si possono togliere neanche quando al mare provano ad entrare in acqua (e chi tenta di "denudarsi" modello-Occidente viene travolta dalla riprovazione generale), e con almeno il capo coperto se non pure buona parte del viso - e poi, in un paese culla del cosiddetto "pensiero occidentale", mi ha sbattuto in faccia l'imprevedibile e impensabile, fino a ieri, elemento unificante di luoghi e contesti così distanti ed estranei: il culto supremo del selfie. Ho visto integralisti islamici e cristiani ortodossi, atei e credenti, giovani e anziani, ragazzi/e dal corpo modellato in palestre e scuole di danza e fisici sformati fino all'inverosimile, vicini ai 150 chili, usare con la stessa ossessività e onnipresenza il selfie, indipendentemente dalla bellezza o insignificanza del posto, con esclusivo soggetto, dunque, il proprio corpo nelle pose più pagliaccesche e grottesche, con veri e propri auto-servizi fotografici su se stessi, in perfetta solitudine e della durata anche di ore.
La qual cosa, stante che oltretutto entrambi i paesi sono punto di raccolta di un turismo planetario, con cittadini/e di tutti i paesi e continenti, ha rafforzato la mia convinzione di quanto sia dilagante - e superi confini e differenze di luoghi, tradizioni, religioni, etnie, modelli culturali e stili di vita, caratteristiche estetiche, studi e professioni - il desiderio di emergere in qualche modo dall'appiattimento universale, di aver il famoso "quarto d'ora" di notorietà pubblica preconizzato da Andy Wahrol, o almeno di ottenere l'approvazione e la curiosità degli altri/e, fosse pure nelle proprie cerchie amicali, professionali o sociali, su se stessi qualche giorno o mese. Non dunque semplice e banale narcisismo, cosa possibile per chi ha un fisico da modello/a e spera magari che qualcuno/a che conta nel mondo dell'immagine lo noti, ma non certo per chi non può avvalersi di niente del genere fisicamente, o per integraliste islamiche con il 90% del corpo occultato da un abbigliamento “monastico”: ma piuttosto, una confluenza universale di centinaia di milioni di esseri umani uniti/e da un fortissimo desiderio di dare un segno di sé, di lasciare una traccia, quand'anche nelle piccole conventicole delle proprie chat. Però, oltre la spontanea riprovazione per il fenomeno globale , riprovazione che credo di condividere con tutta la generazione dei militanti politici degli anni ’60 e ’70, mi sono domandato se del tentativo - che per i “selfisti” assume sovente aspetti grotteschi se non addirittura ripugnanti (i video di imprese crudeli e criminali) - di emergere, di farsi comunque notare, noi fossimo del tutto estranei durante il nostro protagonismo collettivo degli anni del Decennio rosso, ripensando ad esempio a tanti dei nostri interventi, modello’68, nelle interminabili assemblee dell'"anno mirabilis", a base di "nella misura in cui.." e con il lodevole intento di "portare avanti il discorso..". O se, oltre alla sincera volontà di contribuire al successo della lotta collettiva, non contribuisse al nostro impegno permanente anche un desiderio di farsi notare, di emergere nella massa, di diffondere, insomma, un proprio "selfie politico-sociale". Certo, la differenza nell’espressione di questo desiderio resta enorme perchè nei casi citati d'antan si contribuiva comunque ad un progresso e ad una avanzata sociale collettiva: seppure resta da domandarsi quanto di quel protagonismo individuale abbia poi contribuito alla disgregazione gruppettara dei movimenti negli anni successivi, con l'esplodere di sigle e siglette divise spesso da bizantinismi incomprensibili ai non addetti ai lavori, a cui non fu estraneo – direi oggi - il desiderio di emersione e visibilità individuale e di gruppo.
C'è in più da sottolineare come, rispetto al secolo scorso, dopo l'esplosione e il dilagare dei social, l'impegno collettivo, politico e sociale sia divenuto assai più arduo e molto più facilmente dissolvibile nel protagonismo individuale, a causa non tanto di repressioni o politiche ostative dei poteri politici ed economici, quanto soprattutto dell'incredibile capacità assorbente dell'apparato mediatico mainstream, in perfetta sintonia con il trionfo, apparentemente molto democratico, della possibilità di ognuno/a, tramite i social, di parlare come singolo/a - senza bisogno di organizzazioni, partiti o strutture collettive - alle "masse". Al punto da farmi domandare quanto sarebbe durato il '68 o il Decennio rosso se, invece di un apparato mediatico e politico ottuso e respingente, avessimo dovuto affrontare l'incredibile potere avvolgente e suadente degli attuali media, mainstream o social. Basti pensare, per fare un esempio, alla sorte del movimento climatista, a partire dalla sua componente di maggior successo, Fridays for Future e dalla sua fondatrice Greta Thumberg. Dopo un prima fase di dilagante e universale successo, il movimento è stato letteralmente divorato da una corale discesa in campo non solo di tutti i media che contano ma di qualsiasi impresa economica, commerciale, industriale, fino all'ultima delle sigle alimentari o del più piccolo supermercato: che hanno fatto il verso ai temi del movimento, martellando quotidianamente con pubblicità tutte invitanti a salvare il pianeta grazie a questo o quell'acquisto, a questo o quella modalità di comportamento individuale quotidiano. Cosicché, in breve tempo l'impegno collettivo è stato sovrastato dalla richiesta di milioni di impegni individuali per salvare un proprio ipotetico piccolo pezzo di mondo. Rendendo affannosi, tanto per fare un esempo, i tentativi di Ultima generazione, la più recente versione del movimento climatista, di richiamare l'attenzione sul cambio climatico con gesti eclatanti, (e per il "volgo mainstream" contestabili e condannabili), che finiscono purtroppo per disperdersi nella cacofonia interessata dell'intero sistema che quotidianamente bombarda i cittadini/e con inviti a comportamenti virtuosi individuali per salvare il pianeta.
In contemporanea, infine, l'impegno diretto e collettivo è stato sostituito per milioni di persone da un impegno "da tastiera", individuale e virtuale, assai più riposante, che si esplica con le continue esternazioni, più o meno indignate, contro questo o quel misfatto della politica sociale quotidiana, che sia l'ultima decisione governativa fascistoide di Meloni o le sparate omofobe, misogine o razziste del suo entourage, condensando nella virtualità social quello che ieri avrebbe richiesto ben altro impegno fisico, culturale e politico nella vita in diretta. Ora, questo non significa certo l'impossibilità di far rinascere un impegno collettivo diretto, sociale e politico, che è poi il tentativo in cui noi COBAS e varia altra non dispersa militanza politica, sindacale e sociale ancora crediamo e per cui ci impegniamo quotidianamente. Solo che per condensare un tale attivismo non basta più il desiderio individuale di protagonismo e neanche una sincera volontà personale di cambiare le cose. Bisogna che si raggruppino e si addensino bisogni materiali pressanti, convergenti e unificanti, ai quali però si sappia anche offrire una soluzione positiva, che non sia semplicemente gli alti lai contro il cambio climatico o l'ingiustizia sociale ed economica, ma che sappia indicare una strategia, una tattica e un gruppo di obiettivi su cui sia possibile portare a casa successi anche parziali, ma immediati, per ricostruire - sostituendo al selfie individuale una vasta galleria di "foto" collettive - la fiducia in trasformazioni sociali ed economiche che, pur risultando di fatto addirittura più necessarie che nei passati decenni di grande impegno politico collettivo, appaiono al momento ben più lontane di allora.
SUL TESTO DI PIERO BERNOCCHI
di Michele Nobile
Anni fa, entrando nella Basilica di santa Maria Maggiore di Bergamo, dal fondo della navata e nel suggestivo ambiente semibuio mi trovai di fronte allo spettacolo di una moltitudine di mani levate e quasi congiunte, rivolte verso l’altare in quello che appariva come un gesto d’adorazione. Ma quel che più mi colpì fu che lo spazio tra le mani di ciascuno sfavillava di luce.
Un miracolo? No, tanti fra i presenti levavano in alto i loro luminosi cellulari per scattare fotografie, in un gesto che mi appariva un nuovo rituale, di cui non ricordo più quale fosse l’occasione. Stavo facendo un reportage per Città alta e feci una serie di scatti a cui diedi il nome I nuovi credenti. Credenti in cosa poi, in quell’atto estraneo alla liturgia cristiana, se non in se stessi? Se non per poter poi affermare, nella virtuale relazione ad altri, «io ero lì, dunque sono»?
L’articolo di Piero Bernocchi parte da un esempio della medesima fenomenologia, che è parte usuale del nostro vivere quotidiano: gli onnipresenti selfie, visti come sintomo ed espressione della necessità di un protagonismo individualistico opposto a quello collettivo.
Anche nel movimento collettivo viveva l’individualità e il desiderio d’essere visibili e riconosciuti, ma in questo caso la componente narcisistica poteva essere subordinata, regolata o controllata dalla comunicazione razionale e dall’esperienza comune. Quell’esperienza comunicativa collettiva e razionale, che in qualche modo bene o male faceva o comunque poteva fare i conti con fatti materiali dei quali si condivideva la realtà, pur in una molteplicità d’interpretazioni, è regredita in modo spaventoso.
Ebbene, l’articolo di Bernocchi tocca un problema da cui dipende il futuro di qualsiasi politica liberatoria, emancipativa, rivoluzionaria. Non voglio anticipare altro dell’articolo di Piero ma, se non si riesce a superare la logica del protagonismo individualistico e del presenzialismo virtuale o dell’opinione incontrollata in cui svanisce la realtà fattuale, la «sinistra» (qualunque cosa s’intenda col termine) è condannata a sopravvivere in un mondo essenzialmente virtuale, forse gratificante, forse portatore d’una rendita elettorale, sicuramente irrilevante nel corso storico del mondo reale.
Non so quanto Bernocchi sia d’accordo, ma è mia convinzione che per gran parte di quel che resta della sinistra che si vuole radicale, anticapitalistica e antimperialistica si sia attuata una profonda mutazione psichica dai gravi effetti concreti e ideali.
Si possono rintracciare le condizioni genetiche di questa mutazione nella miseria della strategia politica, nella sconfitta del «lungo 1968» e nell’accumularsi delle sconfitte successive, nelle trasformazioni strutturali del capitalismo e della sfera della comunicazione, nella mancata elaborazione del lutto per la fine dei regimi pseudosocialisti: ma ora siamo ben oltre i presupposti e la genesi di qualcosa la cui formazione ha impiegato decenni, a cavaliere dei secoli XX e XXI. Adesso la mutazione è compiuta, si avvita su se stessa, marcia sulle proprie gambe.
Ciò che caratterizza questa mutazione è un problema a un tempo cognitivo ed emotivo, in cui la razionalizzazione discorsiva esprime qualcosa d’inconscio, la cui comprensione richiede gli strumenti della psicologia: la selettiva assenza d’empatia pur di fronte all’evidenza materiale della sofferenza.
Anche in passato si verificavano casi apparentemente simili, ma allora entravano in gioco primariamente l’ideologia e la fiducia nel partito. Era una condizione che non escludeva la possibilità che, prima o poi, l’idea si scontrasse violentemente col fatto che la contraddiceva, che si ci si potesse rendere conto della realtà e modificare o abbandonare l’idea. Adesso, invece, risulta invertito il rapporto tra consapevole razionalizzazione discorsiva e capacità d’umana empatia. Il primato della necessità di mantenere la stabilità psicologica è diventato assoluto. Il discorso è diventato la mera razionalizzazione d’una condizione psichica che rifiuta di fare i conti con i fatti.
L’evento che per la sua enormità è certo rivelatore di questa condizione è stato l’atteggiamento di fondo durante la pandemia di Covid-19, con quei presunti «oppositori radicali» (i no-vax di vario genere) che si sono persi nella sottovalutazione, se non nell’esplicita negazione della gravità della malattia e della realtà della pandemia con i suoi milioni di morti. Dei dettagli dei provvedimenti governativi si doveva – e si deve ancora - discutere, ma resta sbalorditiva la mancanza d’umana empatia al cospetto di decine e centinaia di migliaia e milioni di malati gravi e di decessi (al 6 settembre 2023, in Italia 191.370 decessi, almeno 7 milioni nel mondo), di cui siamo stati testimoni oculari o quasi. Erano eventi tragici verificabili nell’esperienza quotidiana, ma nascosti sotto la copertura d’astrusi ragionamenti circa lo «stato d’eccezione» in cui si perdeva il fatto realissimo d’una crisi sanitaria mondiale senza precedenti che non poteva non richiedere misure straordinarie. Che dovevano essere quanto più tardive e brevi possibili, perché l’imperativo dei governi è sempre stato ed è il ritorno alla normalità della produzione e circolazione delle merci.
Ovviamente, il modo per evadere la realtà consiste nel costruirne una alternativa, infarcita di paranoia complottistica, che consente di affermare egocentricamente la propria identità virtuale.
In fin dei conti, per chi si ispira a Marx questo non è motivo di stupore. Viviamo da decenni in un’atmosfera politica e culturale che - sbrigativamente - può dirsi postmoderna, in cui trionfa l’immagine e lo spettacolo di sé, il tutto tremendamente rafforzato dal digitale e da circoli telematici autoreferenziali. Perché mai la «sinistra» dovrebbe essere esente dall’influenza di questa atmosfera, di questa logica?
E allora come uscirne?
Intanto raccogliendo gli stimoli lanciati dal testo di Piero e poi andando ad approfondire l’analisi della realtà «reale» in cui viviamo, senza più complessi o rimorsi riguardo a categorie interpretative che per quanto più o meno valide siano state nel passato, sono oggi totalmente obsolete a fronte dei mutamenti intervenuti nella struttura del mercato mondiale e dei regimi postdemocratici.