Premessa al 15° anniversario
Nel primo
anniversario della scomparsa di Fabrizio De André (11 gennaio 2000), su mia
iniziativa, si tenne una giornata di studio all'Università di Trento (unica in
Italia) presieduta dalla prof.ssa Rossana Dalmonte della Facoltà di Lettere e
dalla prof.ssa Ada Neiger della Facoltà di Sociologia, sull'opera del poeta e
cantautore genovese Fabrizio De André e in serata il pubblico ha ascoltato e
applaudito una corale di bambini di Cles che ha eseguito le sue canzoni in un
auditorium stracolmo.
Così lo ricordava Fernanda
Pivano (Corriere
della Sera 11 genn. 2000):
Davanti al mare mi raccontò un segreto
‘Ero stonato, ho dovuto creare la mia voce’.
Quel giorno
spietato che in una camera cosiddetta ardente ho recitato con Dori Ghezzi il
mantra subvocale del Bardo Thodol come mi avevano insegnato Aldous Huxley e
Allen Ginsberg, Fabrizio era avvolto pietosamente in un manto azzurro come i
suoi occhi ormai chiusi per sempre.
“Sali, sali verso
l'eternità, non ti voltare, non ti fermare”, invocavo la sua anima, cioè
parlavo con la sua finale realtà; e quando sono uscita e molti compagni di
strada mi hanno accolto mi pareva di parlare ancora con lui e ho detto: “non è
vero, non è morto vivrà per sempre, nello splendore della sua poesia, nella
bellezza del suo cuore”.
Sembravano parole
un po' pazze, invece sono state una profezia.
Da allora, quasi
ogni giorno, qualcuno mi ha chiesto di lui, lo ha commemorato, lo ha rievocato;
e il suo nome, la sua immagine, i suoi versi indimenticabili di grandissimo
poeta, quasi ogni giorno sono rinati a darci il coraggio di continuare il suo
messaggio di pace, di non-violenza, di anarchico amore.
Eravamo due
anarchici pacifisti di estrazione altoborghese e passavamo anni senza che ci
incontrassimo, ma la sua utopia era così simile alla mia che ce la
trasmettevamo senza parlarci. Quando ha musicato le poesie libertarie di Spoon River le ha avvolte nella sua
umanità, le ha rese mediterranee, più vicine a noi, e non c'è bisogno di
spiegazioni: la nostra utopia era lì, e la musica, la sua dolcezza ne avevano
sottolineato l'immortalità.
Per questo i
giovani, che non si sbagliano mai, lo hanno amato, mi fermano per strada per
parlarmi di lui, mi fanno capire che la sua vita non è finita, è solo passata
in un'altra realtà irragiungibile dal denaro, dalla politica, dall'ingiustizia:
dalla morte.
L'ultima volta che
sono stata un po' a lungo con lui e con Dori Ghezzi è stato in Sardegna,
naturalmente, nell'estate 1997. La sera stavamo con Dori sulla terrazza a
guardare il rosso mandala del sole che calava sul mare, e mentre nel crepuscolo
dorato il miracolo della baia si preparava alla notte, Fabrizio, dopo aver
smesso di giocare a scopa con Alberto Santini che da una quindicina d'anni lo
aiutava con fanatismo nei lavori della tenuta agricola, ed essere ritornato dal
bagno, nel mare, al fondo della collina, si sedeva con noi e ci faceva
confidenze che non avevo mai letto sulle interviste.
Per esempio è in
una di quelle sere maliarde che mi ha raccontato il segreto di quella sua voce
incantatora, di quel suo timbro ricco di armonici, mi ha detto: “Se faccio un
Do lo faccio con la sua terza e la sua quinta, e questo è un dono naturale. Da
giovane non ero intonatissimo e solo col tempo e l'educazione sono riuscito a
intonarmi. Quando dicono che ho creato la mia voce non posso negarlo”. Quella voce che non si può dimenticare ci ha
accompagnato per tutto quest'anno.
Credo che ci
accompagnerà sempre.”
Così si
ricordava Fabrizio De André:
“Quando durante la
guerra ero sfollato in Piemonte, Genova per me era un mito. A cinque anni la
vidi per la prima volta e me ne innamorai subito, tremendamente. Genova per me
è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino
al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è
quasi tutto. Anche se a colmare la distanza fra quel quasi e quel tutto
contribuirono le canzoni di Brassens. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia
di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei carruggi, gli esclusi che avrei
ritrovato in Sardegna, ma che ho conosciuto per la prima volta nelle riserve
della città vecchia, le ‘graziose’ di via del Campo e i balordi che, per
mangiare, potrebbero anche dar via la loro madre. I fiori che sbocciano dal
letame, i senzadio per i quali chissà che Dio non abbia un piccolo ghetto ben
protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli.»
(Dal libro su Fabrizio
de André - La mostra –
SilvanaEditoriale)
“Le domande sul
futuro sono sempre un inutile esercizio.”.
Genovese, classe
1940, Fabrizio De André nasce
il 18 febbraio a mezzogiorno, mentre Hitler sta per invadere la Norvegia;
scopre a sedici anni la sua vocazione di musicista. Dai banchi di scuola agli
esordi musicali con un gruppo jazz di cui faceva parte anche un sassofonista di
nome Luigi Tenco. La passione per la musica maturata nelle serate trascorse con
gli amici genovesi, Gino Paoli, Remo Borzini, Paolo Villaggio. Nel 1958 esce il
primo disco, un 45 giri dal titolo Nuvole Barocche, ma il successo e
la notorietà sono rimandati di qualche anno...
Da Nuvole
Barocche ad Anime Salve: il curriculum
artistico di Fabrizio De André è indubbiamente tra i più sofferti e fragili,
quello che ha incarnato “il male di vivere” di almeno un paio di generazioni.
Narratore fine e delicato, è forse il più “maledetto” (nella concezione dei
Verlaine, dei Rimbaud e dei Villon) fra i cantautori italiani, che ha saputo
tra gli anni Sessanta e Settanta capire meglio il “ribellismo adolescenziale,
contro i valori costituiti” senza prediche o messaggi politici. Le sue canzoni
sono piccoli ritratti di gente senza storia, che pure contribuirà a farla;
storie di “poveri eroi, solitari campioni di un’umanità che brancola nel buio e
cerca luce e, troppo spesso, vittima del proprio cammino, inciampa fra i sassi
che costellano le vie dell’esistenza”, come scrive Cesare G. Romana nella
presentazione al “vol.III”
Voce che ci ha
raccontato un pezzo d’Italia con musica e parole intrecciate ad arte, create
per capire dove viviamo attraverso un fitto gioco di testa e cuore.
De André (“Dolce
menestrello della nostra adolescenza”- F.Pivano) ha cercato di scoprire quale
fosse il rapporto tra musica e poesia, ha scandagliato la straordinaria
ricchezza della tradizione popolare, ha saputo integrare nella sua musica le
sensazioni, le idee della musica internazionale, il folk, il rock, la musica
americana e quella francese, senza tradire mai la musica del nostro paese. Ha
scritto canzoni meravigliose e uniche, canzoni in grado di accompagnare la
nostra vita e di farcene vivere qualcun’altra, scrutando l’uomo nei capitoli
più amari, nei risvolti fallimentari della sua storia: essenzialmente storia di
traguardi agognati, irraggiungibili, per una fragile volontà spesso segnata
dalla violenza del destino.
Così abbiamo
l’inquieto paesaggio de La città vecchia … “dove il sole
del buon Dio / non dà i suoi raggi / ha già troppi impegni / per scaldar la
gente / d’altri paraggi…”
o la dolente Ballata
dell’eroe che “era partito per fare la guerra / per dare il suo
aiuto alla sua terra…” con il crudo ritorno di una lei che “aspettava il
ritorno d’un soldato vivo, / d’un eroe morto che ne farà / se accanto nel letto
le è rimasta la gloria / di una medaglia alla memoria”.
L'amore intrecciato
alla morte, l'amore che “strappa i capelli” e l'amore che taglia le vene,
ma anche - gioiosamente - “donna” come motore potente della vita, vento
che scuote l'esistenza individuale e cambia la storia: l'innocenza di Marinella o di Bocca di Rosa che
“metteva l'amore sopra ogni cosa”; gli “occhi grigi come la strada” della
“bambina” di Via del Campo; Suzanne che “ti indica i
colori tra la spazzatura e i fiori”, Teresa di Rimini “figlia di
pirati”, Sally che venne con un tamburello, la Dolcenera che arriva
con l'alluvione, (…) e Maria bambina,
un giglio sul vestitino, “che nel tempio resti china”.
Esiste in De André
una solitudine, un’incompiutezza, una spiritualità irrisolta; un chiedere,
spesso vanamente, l’aiuto di un essere superiore. Il “profilarsi l’ombra di una
speranza” che è essenzialmente spirituale, quasi dubbio di Dio, al quale
chiede, però, continua attenzione... come nella Preghiera in gennaio,
accoratamente dedicata a Luigi Tenco:
“lascia che sia
fiorito,
Signore, il suo
sentiero
quando a te la sua
anima
e al mondo la sua
pelle
dovrà riconsegnare
quando verrà al tuo
cielo
là dove in pieno
giorno
risplendono le
stelle…
l’inferno esiste
solo
per chi ne ha
paura…”
o, invocato in Spiritual:
Dio del cielo,/se mi vorrai amare,/scendi dalle stelle,/vienimi a cercare…
Il primo De André è
racchiuso in questa speranza che sa di fatalità, fra i personaggi sbeffeggiati
quotidianamente dalla smorfia feroce della vita. La sua visione del mondo è
quasi medioevale, e non per le Marinelle, i Geordie, o i Carlo Martello; quanto per quel
senso di fatalismo, a metà strada fra il sacro e il profano, che la pervade. La
sua è l’umanità dei secoli bui, il suo canto è quello di un popolo beffato
dalla sua stessa sopravvivenza.
E dove raggiunge il
massimo della sua poetica è in Tutti morimmo a stento”, una
galleria di personaggi, un vasto mosaico sulla solitudine e sull'infelicità
dell'uomo... E proprio la morte (come negazione della vita, ossia della
dignità, della felicità,di tutto quanto gli antichi comprendevano nel termine humanitas), fornisce il fondale
inquietante di questo canto, che allinea tutto il triste campionario di
un'umanità derelitta (Cesare G. Romana, presentazione al disco).
Abbiamo così il
disperato urlo del Cantico dei drogati:
Ho licenziato Dio,
gettato via un amore
per costruirmi il
vuoto
nell'anima e nel
cuore...
Come potrò dire a
mia madre
che ho paura?
Tu che m'ascolti
insegnami
un alfabeto che sia
differente da
quello
della mia
vigliaccheria.
..., il livore de
la Ballata degli impiccati (mutuata da Villon):
Tutti morimmo a
stento
di una morte senza
abbandono
recitando l'ultimo
credo
di chi muore senza
perdono...
Chi derise la
nostra sconfitta
e l'estrema
vergogna e il modo
soffocato
dall'identica stretta
poi scivolammo nel
gelo
di una morte senza
abbandono
recitando l'ultimo
credo
di chi muore senza
perdono...
Chi derise la
nostra sconfitta
e l'estrema
vergogna e il modo
soffocato
dall'identica stretta
impari a conoscere
il nodo...
… l'allucinate
litania del Girotondo: /se verrà la guerra, Marcondiro’ndero…/Sul mare e
sulla terra chi ci salverà?/, in un mondo dove “solo i bambini sono rimasti
vivi , a continuare un assurdo girotondo che li trascina gradualmente alla
pazzia ”.
E poi il finale del
Recitativo,
inquietante percorso da un Corale, per cui non esiste più
speranza per nessuno e l'unico, estremo appuntamento è quello con la morte.
Tutto l’album è
percorso da un rigore estremo, da un viaggio verso la terra da cui è possibile
far ritorno, anche se la visione globale del tutto è ammorbidita da un bisogno
di perdono.
Stesso discorso,
seppur visto in un’ottica diversa, lo si può fare per la Buona
Novella, lavoro nato da una ricerca sui vangeli apocrifi armeni,
greci e bizantini non riconosciuti dalla Chiesa. C'è la narrazione dell'inizio
e della fine di Cristo in terra, fatta più che altro raccontando i personaggi
che gli sono stati più vicini. Una lunare metafora, dove la dominante è il
rapporto dell’uomo con il potere: quella di un Cristo (rivoluzionario) mutuato
in uomo che predica fratellanza.
Da un lato, Maria e
Giuseppe ambedue pedine di un disegno più ampio - ignari protagonisti di una
tragedia non voluta - dall’altro, “Maria nella bottega del falegname” mentre
accarezza quel legno su cui morirà suo figlio.
La Via della Croce, percorsa da una folla,
umana già sconfitta, vera protagonista di questa via crucis:
…il potere vestito
di umana sembianza
Ormai ti considera
morto abbastanza
E già volge lo
sguardo a spiar le intenzioni
Degli umili e degli
straccioni.
Ma gli occhi dei
poveri ora piangono altrove,
non sono venuti ad
esibire un dolore
che alla via della
croce ha proibito l’ingresso
a chi ti ama come
te stesso…
E poi il
bellissimo, lancinante Testamento di Tito forse uno dei
brani più politici scritti da De André, di inesausta durezza e lucidità, dove
le tavole della legge vengono comprate attraverso il dolore, e il comandamento
più grande rimane proprio quello che comandamento non è: “ama il prossimo tuo
come te stesso”.
…ma adesso che
scende la sera e il buio
mi toglie il dolore
dagli occhi
e scivola il sole
al di là delle dune
a violentare altre
notti
Io nel vedere
quest’uomo che muore
Madre, io provo
dolore
Nella pietà che non
cede al rancore
Madre, ho imparato
l’amore.
E il Laudate
Dominum si trasforma in un universale “Laudate Hominem” in
cui il Cristo non è il protagonista ma solo il pretesto narrativo che animerà e
farà emergere – nella sua tragica possenza – lo stesso popolo già ascoltato nei
dischi precedenti che sarà protagonista anche in Non al Denaro non all’Amore né
al Cielo, ispirato all’Antologia
di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Non può stupire la
scelta di De André, che sempre di frammenti di drammi si è occupato, di “scene
di villaggio”, di tipi umani colti nei momenti decisivi e rivelatori della loro
anima, così da diventare simboli della condizione dell’uomo in una società
priva di forti riferimenti collettivi, proprio come i protagonisti dell’opera di Masters. Un prologo e otto
ritratti di una società in cancrena; una lacerata fotografia di idiosincrasie,
paure, ambiguità, falsità di una società che diventa metafora del mondo.
Il “matto, il giudice,
il blasfemo, il malato di cuore, il medico, il chimico, l’ottico e il suonatore
Jones”, gli stessi sconfitti
della vita di sempre.
Tutti “dormono,
dormono sulla collina” e la terra annulla tutto, lasciando solo il rimpianto e
un filo di pentimento. Anche qui, a trionfare sulla vita, è solo chi è capace
di un gesto d’amore; come il suonatore Jones, quello che in un vortice di
polvere ci vedeva “la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa” e che “offrì
la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, Non al Denaro, non all’Amore né
al Cielo”.
La contestatissima Storia
di un impiegato (1973), un “clamoroso fallimento privo di
qualsiasi sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico”,
scriverà – voce non isolata - Simone Dessi (ma per Dori Ghezzi intervistata da
Mollica, è il miglior disco…), scritto con Fabrizio Bentivoglio e Nicola
Piovani, esalta il maggio e la violenza come coscienza di lotta, ma la storia
di quell’impiegato, che tenterà una propria via rivoluzionaria con un attentato
non riuscito, finirà in galera.
“La pietà si
appoggia/al suo bombardamento preferito/ e perdona la bomba”. Con queste parole
di Gregory Corso, il poeta statunitense che nel 1960 aveva provocatoriamente
scritto una poesia d’amore alla bomba atomica “incalzatrice della storia /
freno del tempo Tu Bomba / giocattolo dell’Universo”, De andré suggella la Storia di un impiegato perché sia
chiara, sin dall’inizio, la contraddizione implicita in ogni sovvertimento che
il più delle volte non porta a una società nuova, ma alla sostituzione di un
potere ad un altro. Una lucida previsione di quello che sarebbe stato lo
scenario politico italiano negli anni Settanta, durante i quali il terrorismo
avrebbe rafforzato il potere delle istituzioni che “perdonavano” le bombe,
mentre spariva dietro l’orizzonte qualsiasi prospettiva di cambiamento
...Lottavano così
come si gioca
i cuccioli del
maggio era normale
loro avevano il
tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori
rimaneva
la stessa rabbia la
stessa primavera…
... anche la rabbia
soffocata dal grido degli studenti nella Canzone del maggio (liberamente tratta
da un canto del Sessantotto francese):
Anche se il nostro
maggio
ha fatto a meno del
vostro coraggio
se la paura di
guardare vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha
risparmiato
le vostre
millecento
anche se voi vi
credete assolti
siete lo stesso
coinvolti....
Per quanto voi vi
crediate assolti
siete per sempre
coinvolti.
...sfocerà in un
attentato non riuscito e in una maturazione di classe (sic) in galera. Allora
l'io narrante (“nella mia ora di libertà”) diviene per la prima volta “noi”, e
in galera è possibile recuperare il senso di un impegno per cui il protagonista
rinuncia al cortile che dovrebbe spartire con il suo piantone, a favore di una
ribellione finalmente collettiva.
Nel 1978 esce Rimini
(scritto a quattro mani con Massimo Bubola), specchio
di un certo tipo di società borghese, in cui fanno capolino le prime esperienze
sarde. Interessi che prenderanno corpo nei dischi successivi (L’Indiano
e Creuza de ma), rivolti a quelle etnie diverse e antiche – gli
indiani d'America, i Sardi – che ancora si conservano, in qualche forma
linguistica o epica, nella cultura moderna; alla musicalità del dialetto; alle
maggiori possibilità sonore della lingua parlata rispetto a quella scritta,
cristallizzata dall'uso ufficiale. Un album di difficile chiave interpretativa
(dicono), probabilmente un'apologia sul naufragio della borghesia, coi suoi
ultimi superstiti in piedi, sul cassero della nave, mentre questa affonda.
“Rimini, è
rimasta uguale com'era nei Vitelloni di Fellini”, dice De André dopo aver
presentato la canzone nei concerti del 1979, ma la Rimini del cantautore
genovese è un mondo a parte, è il luogo dove s’incontrano i destini più
diversi, dove si incrociano l'America, la Sardegna e il Messico,
“ i naufragi di
parole e il mare aperto” (e anche Marco Pantani, “il pirata”):
Teresa ha gli occhi
secchi
guarda verso il
mare
per lei figlia di
pirati
penso che sia normale
Teresa parla poco
ha labbra
screpolate
mi indica un amore
perso
a Rimini d'estate
Lei dice bruciato
in piazza
dalla santa
inquisizione
forse perduto a
Cuba
nella rivoluzione
o nel porto di New
York
nella caccia
alle streghe
oppure in nessun
posto
ma nessuno le
crede............................Riminiiii
Per ritrovare un De
André più sociale, bisognerà aspettare il 1981 quando il trasferimento in
Sardegna e il sequestro di cui furono vittime il cantautore e la sua compagna
Dori Ghezzi (un'esperienza vissuta con spirito d'avventura), porterà all'album
senza titolo comunemente conosciuto come L'indiano, per il disegno di
copertina. Scritto con la collaborazione di Massimo Bubola, questa volta
dedicato alle minoranze (sarde o pellerossa che siano) alla loro quotidiana
lotta per la sopravvivenza. È forse anche il primo passo di un cammino che
porterà De André alla scoperta di un nuovo suono, di una mediterraneità che
diventa ricerca delle proprie radici e che si tramuterà (1984) nel capolavoro Creuza
de ma interamente cantato in genovese. Un disco eccezionale, da
fargli meritare il titolo di disco del decennio. È un flusso continuo di suoni
strumentali e vocali.
È il frutto di una
lunga e appassionata ricerca sulle affinità morfologiche che si ritrovano nel
patrimonio musicale di tutti i popoli del bacino del mediterraneo, africani,
europei o asiatici, e non solo di quelli, poiché le strade di diffusione delle
culture risalgono ai tempi arcaici, travalicano le vie dei commerci e disegnano
un atlante nuovo e insospettato delle forme della creatività umana. Ancora tipi
umani tante volte incontrati: l'emarginato sociale, in questo caso la A
Pittima che riscuote i
crediti; le prostitute in uscita domenicale e la regina “de e bagascie”, Jamin-a,
cantata in un capolavoro di hard-core: la guerra raccontata attraverso la
“piccola” morte di un bambino palestinese Sidun (straziante) nel tragico
orizzonte del Libano:
il mio bambino il
mio
il mio
labbra grasse al
sole
di miele di miele
tumore dolce
benigno
di tua madre
spremuto nell'afa
umida
dell'estate
dell'estate
e ora grumo di
sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei
soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla
bocca
cacciatori di
agnelli
a inseguire la
gente come selvaggina
finchè il sangue
selvatico
non gli ha spento
la voglia
e dopo il ferro in
gola i ferri della prigione
e nelle ferite il
seme velenoso della deportazione
perchè di nostro
dalla pianura al modo
non possa più
crescere albero ne spiga ne figlio
ciao bambino mio
l'eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che
brucia
nella sera che
scende
e in questa grande
luce di fuoco
per la tua piccola
morte.
...e la
scaltrezza di un marinaio genovese che
da prigioniero dei turchi diventa Sinàn Capudàn Pascià. Una galleria
di situazioni aperta e conclusa da due canzoni di mare, la malinconica Da
me riva, uno sguardo verso terra mentre naviga “un po' più a largo
del dolore”, e l'onda calma e continua di Creuza de ma, già ricordata.
Quasi non fosse
possibile scrivere altro, De André - sei anni dopo – esce con l'album Le
Nuvole
(Ispirandosi
all'omonima commedia di Aristofane). Nuvole
come arte del confondere e raggirare; nuvole
come espressione di un cielo denegato; nuvole illusorie che promettono e non
mantengono le immagini della favola e peranco “ci lasciano la voglia di
pioggia”. De André svela una società che non ha più alcun discorso, la coglie
dopo una catastrofe che non è neppure avvenuta, ove i miti-feticci hanno preso
il posto della verità e del dubbio: “cantami di questo tempo/l'astio e il
malcontento/di chi è sottovento/...Millecinquecento scatole d'argento/fine
Settecento ti regalerò”... Piccoli personaggi senza volto si alternano nei
testi delle canzoni soffrendo e offrendo lo spettacolo della loro propria
confusione, della loro disperata e però banale protesta: una galleria di
mostriciattoli senza il conforto di alcun discorso, migliore o peggiore che
sia, di alcuna legge da accettare o da confutare. Personaggi senza identità
sprofondano in un quotidiano senza futuro. Secondini, commercianti, cuochi,
contadini... inseguono il loro illusorio tornaconto e seppelliscono anche il
sentire, sempre che ne conservino uno, occultandolo in una palude di oggetti ai
quali hanno delegato l'identità.
Il racconto di De André
esplica un’ironia amarissima, dalla quale traspare una rabbia impotente. Per
resistere, per continuare ad essere liberi occorre tenere un cannone nel
cortile di casa:
l'assedio non
regala tregua, non è più appannaggio esclusivo di istituzioni folli, di
politiche assurde, di economie assassine. È il risultato di una confusione senza
limiti. Persino l'uomo che s'innamora di un'asina non desta stupore, semmai
stupide rituali invidie e impedimenti paradossali. Persino il dolore per la
morte di un figlio può essere facilmente sedato con opportune “pillole” in
libera offerta sul mercato.
Due facciate, due
visioni del mondo. La prima per raccontare del potere e della sua
arroganza, della cancrena e della putrefazione di una società, come in Don
Raffaè: Tutto il giorno con quattro infamoni / briganti, papponi,
cornuti e lacchè / Tutte l'ore cò 'sta fetenzia / che sputa minaccia e s'a
piglia co' me / ma alla fine m'assetto papale / mi sbottono e mi leggo 'o
giornale / mi consiglio con don Raffaè / mi spiega che penso e bevimm'o cafè /
ah che bello 'o cafè / pure in carcere 'o sanno fa / co' 'a ricetta ch'a
Ciccirinella / compagno di cella / ci ha dato mammà …
L'altra, in dialetti di mare (sardo, napoletano, genovese) per raccontare
delle vittime di questo potere: storie comuni di gente comune che chiede solo
che le nuvole non vengano a portar pioggia in un campo che ha bisogno di sole. Nuvole
malefiche cupe ed oppressive, foriere di male.
Le cicale
friniscono all'inizio e alla fine del primo lato: suoni fastidiosi e stridenti.
Ingombranti, quasi come le coscienze mute di chi, inutilmente, ha tentato di
usare una voce diversa.
La domenica delle salme, è la catarsi di tutto questo. L'ultima invettiva, il cerchio che si
chiude, la parola che non ha più ragion d'essere. De André non offre requie o
speranza: ancor di più la sua indignazione è totale. Nell'inferno deandreiano
non ci sono più né santi né peccatori e il coro di “vibrante protesta” diventa
questo stridìo, in cui si perde anche quello che avrebbe dovuto essere il ruolo
di chi canta, mandato impietosamente, dopo una mezz'oretta “a cagare”.
È il dileggio di
tutta una categoria : quella che aveva “voci potenti”, lingue allenate a
battere il tamburo, “adatte per il vaffanculo”, e che invece s'è smarrita a
cantare per “l'Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti”
e dai padri Maristi
voi avete voci
potenti
lingue allenate a
battere il tamburo
voi avete voci
potenti
adatte per il
vaffanculo...
mentre il cuore
d'Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in coro
di vibrante
protesta.
Nuvole
Nuvole che lasciano
voglia di pioggia e non fermentano alcunchè: ripetono l'andare e il tornare
dentro lo scenario senza desideri.
Alla fine dello
stesso anno il giornalista Cesare Romana gli dedica un libro, Amico
fragile, che rievoca non solo gli anni fortunati della carriera
musicale, ma anche i giorni lontani e i ricordi sbiaditi della giovinezza. “È
un po' la storia della mia vita da quando, durante la guerra, la mia famiglia
era rifugiata nelle campagne di Asti e mio padre, alla macchia, era ricercato
dai fascisti.
Passando attraverso
l'infanzia, l'adolescenza, la scoperta del sesso, dell'amore, della musica,
della politica e dei spassosi e qualche volta tragici equilibrismi. Il titolo è
anche quello di una delle mie canzoni nelle quali mi riconosco di più”.
Nel 1996 pubblica Anime
salve - che secondo De André significa etimologicamente “anime
solitarie” e per estensione “spiriti liberi” (cfr. Musica del 17 maggio 1997) - scritto e musicato con Ivano Fossati:
“non ce lo siamo mai detto però...(questo disco) era un concept album sul tema
della solitudine” (La Repubblica, 19
settembre 1996).
Possiamo però dire
che ai temi della solitudine si lega anche il conflitto tra destino e salvezza,
tra destino e libertà, tra destino imposto e scelte individuali, tra poteri e
minoranze resistenti e renitenti.
Per comprendere
meglio sono da ricordare i versi di Smisurata preghiera:
...per chi viaggia
in direzione ostinata e contraria
col suo marchio
speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei
respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla
morte una goccia di splendore
di umanità di
verità
… ricorda signore
questi servi disobbedienti
alle leggi del
branco
non dimenticare il
loro volto
che dopo tanto
sbandare
è appena giusto che
la fortuna li aiuti...
E si prega che
questo miracolo pietoso avvenga proprio “per chi viaggia in direzione ostinata
e contraria/col suo marchio speciale di speciale disperazione”, per chi “tra il
vomito dei respinti muove gli ultimi passi/per consegnare alla morte una goccia
di splendore/di umanità, di verità”.
A questi “servi
disobbedienti alle leggi del branco”, alla loro ricerca di una propria verità,
in nulla arrogante ma vissuta con preziosa dignità umana si contrappone (come
sempre in De André), la “maggioranza” che detiene il dominio e il potere: “Alta
sui naufragi/dal belvedere delle torri/.../a guidare la colonna di dolore e di
fumo/..../coltivando tranquilla/l'orribile varietà/delle proprie superbie/la
maggioranza sta”.
La parola
“maggioranza” per De André ha un significato particolare: “Oggi maggioranza ha
un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores.
I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed
esercitavano l'autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di
numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all'aumento in loro
favore dei privilegi, dell'autorità, del potere, (ormai) pressoché
illimitati... I minores... saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che
facciamo... Credo che la gente si sia per questo identificata con le minoranze
emarginate, le protagoniste di Anime
salve; ed è per questo che
“una larga parte di
popolazione comincia a sentirsi minoranza” (cfr Musica del 17 maggio 1997).
Tra questi servi
disobbedienti e queste minoranze troviamo un Cristo vestito di stracci che “capace”
di fare miracoli, di contrapporre a costo della vita il suo “vasto programma di
eternità” e di
universale pietà,
alla rabbia meschina di coloro che detengono il potere e lo usano per i propri
miserabili vantaggi.
In un intervento
scritto nel dicembre 1996 De André dice: “c'è chi è toccato dalla fede e chi si
limita a coltivare la virtù della speranza… Il Dio in cui, nonostante tutto,
continuo a sperare è un'entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle
ipocrite preci collettive, un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosìddetta
giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia alla stessa maniera in cui
non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell'amore” (Buscadero, dicembre 1996).
Tutto il disco –
una canzone dopo l'altra - è un racconto di solitudini e di libertà, un
susseguirsi di storie di emarginati e di minoranze, raccontate con un
fortissimo slancio lirico di solidarietà umana.
Non stupisce che
una canzone sia dedicata al popolo Khorakhanè, tribù rom nomade ma di origine
serbo-montenegrina, che ha fatto della libertà, dell'essere vento, del non
avere proprietà né terra, la propria religione. De André e Fossati, con la
straordinaria presenza di Dori Ghezzi, cantano la loro immane tragedia, il
momento in cui “un uomo t’incontra e non si riconosce”, il momento in cui “ogni
terra si accende e si arrende la pace”, il momento in cui “i figli cadevano dal
calendario/Iugoslavia Polonia Ungheria/i soldati prendevano tutti/e tutti buttavano
via...”
Ancora una volta De
André si accosta ai destini degli uomini, alle loro disperate solitudini e
abissali disperazioni, con grande vicinanza e trepidazione lasciando però il
giudizio a “chi sa raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”. Viene da
chiedersi: esiste un destino che non sia, in fondo, ridicolo o assurdo? Esiste
cioè, per usare le parole di un'altra canzone di De André e Fossati - Disamistade - “un modo di vivere senza
dolore”, un modo per fermare “questa corsa del tempo e sparigliare destini e
fortune”? Probabilmente no... inutile cercare di sfuggire al proprio destino...
Il tema del
destino, della fortuna, della sorte, è un continuo in tutto il lp Anime salve.
Lo troviamo in Ho
visto Nina volare, in Dolcenera dove il cataclisma
improvviso muta l'acqua da benedetta in acqua di malasorte; in Le
acciughe fanno il pallone, di rara sensibilità: “passano le
villeggianti/con gli occhi di vetro scuro/passano sotto le reti/che asciugano
sul muro/e in mare c'è una fortuna/che viene dall'oriente/che tutti l'hanno
vista/e nessuno la prende... se prendo il pesce d'oro/ve la farò vedere/se
prendo il pesce d'oro/mi sposerò all'altare”; in Anime Salve (canzone),
perché anime solitarie, “salve” perché capaci di “illudersi e fallire”,
di guardarsi piangere e ridere, di arrivare e partire, di vincere e perdere nel
gioco alterno della vita e della fortuna...
Ossia di vivere questo
tempo (“che grande che bello questo tempo”) nella sua fugace ma straordinaria
bellezza: “sono state giornate di finestre adornate, canti di stagione... sono
state giornate furibonde, senza atti d'amore... solo passaggi... passaggi...
passaggi di tempo”.
LE CANZONI DI DE ANDRÉ
RESTANO A BRILLARE
AL SOLE DI OGGI
COME IL PRIMO GIORNO
IN CUI SONO NATE
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