Presentazione
Come annunciato in una precedente mail, comincio da oggi a far circolare alcune brevi note di psicopatologia che possono aiutarci a capire meglio noi stessi e i disturbi di personalità che stanno alla base del comportamento politico di molti di coloro che militano nei gruppi della sinistra cosiddetta «rivoluzionaria», «antagonista» ecc.
Poiché spesso i disturbi si presentano in forma molto evidente nelle persone che dirigono tali gruppi, il lettore non avrà difficoltà ad attribuire il quadro diagnostico di queste note a precisi personaggi politici (in genere dirigenti) che diventeranno in tal modo modelli esemplari di riferimento clinico.
Oggi cominciamo con l'introduzione e con il disturbo narcisistico. Il lettore interessato verificherà facilmente che al riguardo nel mondo politico che c'interessa vi è solo l'imbarazzo della scelta per individuare dei modelli clinici di riferimento.
Una precisazione riguardo alla fonte. Questi brevi ritratti sono ricavati da un giornale medico (Note di omeopatia) che viene pubblicato privatamente a Orvieto dal dottor Giorgio Albani (chirurgo, agopuntore, omeopata, psicoterapeuta, medico dotato di una lunga pratica clinica e persona di vasti interessi culturali). Essi sono stati scritti senza pensare necessariamente al campo della politica o a un loro futuro utilizzo politico.
Resta inteso che la responsabilità dell'iniziativa è solo mia (anche se il dottor Albani ne è pienamente informato), così come mia è la scelta dei testi e dei tagli apportati. I miei eventuali commenti non coinvolgono in nessun caso il dottor Albani o altri specialisti che spero si interesseranno all'iniziativa e dei quali si potranno utilizzare i testi.
La finalità del tutto - oltre ovviamente all'intenzione di alleviare la condizione psicologica di chi fa politica affetto o mosso da disturbi di personalità - è di riportare l'elaborazione e la prassi politica alla loro dimensione reale ed umana, ma anche storica, programmatica e teoricamente pura, senza le molte, troppe interferenze d'ordine psicopatologico che la caratterizzano così segnatamente e in forma via via crescente.
Posso confessare che mi portavo dietro questa esigenza pratico-teorica da molto tempo. Direi senza esitazioni dall'inizio del 1969 quando, tornato in Italia dopo un lungo soggiorno a Cuba, assistetti a un fenomeno di isteria collettiva che coinvolse praticamente la totalità dei militanti e dei quadri di movimento dell'epoca. Fu la conversione improvvisa al maoismo, di massa e collettiva, realizzatasi attraverso rituali schizoidi e paranoici praticamente identici da un capo all'altro della Penisola e che lasciò indenne (ovviamente) solo la preesistente gruppettistica a carattere settario e dogmatico, facente riferimento per lo più a ideologie anarchiche, situazionistiche, bordighiste e trotskiste. Il resto - movimento, studenti, operai e intellettuali compresi - fu travolto da un'ondata collettiva di conversione al maoismo (con i ben noti tratti di coazione a ripetere, culto della personalità, odio per l'«altro», mistica del capo e del partito, annullamento della propria personalità ecc.) i cui segni in alcuni soggetti continuano ancora a farsi sentire.
Da allora non ho mai smesso di osservare le patologie schizoidi, i tic nervosi, i disturbi paranoici (con le loro controreazioni altrettanto patologiche di ordine esibizionistico, narcisistico, deliri di potenza, rifiuto del «diverso» ecc.) comuni a quasi tutti i principali quadri o leaders di organizzazioni politiche. Conoscendone alcuni da molto vicino e avendone udito negli anni varie descrizioni da altri, si può dire che ho compiuto un'esperienza clinica di osservazione sul campo durata quasi quattro decenni.
Ora siamo arrivati a una situazione di malessere generalizzato, in cui i disturbi di personalità dominano quasi senza eccezioni l'insieme della sinistra detta «rivoluzionaria» o variamente alternativa. In qualche modo occorrerà porvi rimedio.
Non saranno certo queste note che potranno sanare la situazione. Ma penso che, dopo quattro decenni di frequentazione personale di questo mondo politico malato, sia mio dovere innanzitutto verificare quanto di quelle stesse patologie si possa essere annidato in me e, allo stesso tempo, di aiutare gli altri a prenderne consapevolezza, a vantaggio loro personale e della prospettiva rivoluzionaria più generale. S'intende che potrà trattarsi solo di un aiuto fraterno e solidale, perché indicazioni terapeutiche non saprei darne e comunque non spetterebbe a me farlo.
Suvvia, cominciamo ora questa nuova avventura politico-culturale, la cui traiettoria teorica si è fermata grosso modo al 1936, l'anno in cui Wilhelm Reich scriveva la sua celebre denuncia della sessuofobia staliniana, avendo già prodotto Psicologia di massa del fascismo nel fatidico anno 1933...
Roberto Massari
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1.
I DISTURBI DI PERSONALITA’
del dottor Giorgio Albani
Introduzione
Può capitare, nella vita di tutti i giorni di incontrarsi con persone dal carattere particolare. Ci capita nel lavoro, per strada, nei pubblici uffici. Le persone che abbiamo di fronte assumono atteggiamenti che ci appaiono in qualche modo sbagliati per la situazione. Magari inutilmente autoritari, gratuitamente rigidi, a volte, al contrario, mielosamente confidenziali. Se è vero che è piuttosto difficile stabilire ove sia la normalità nell’ambito delle relazioni umane è anche vero, tuttavia, che alcuni modi di porsi possono risultare ben oltre i limiti di quella fascia comportamentale che siamo disponibili a riconoscere ed accettare come normale. In questi casi tendiamo ad invocare la scusa del carattere particolare per spiegare l’anomalia. Ciò ci toglie di mezzo un sacco di dubbi, ci induce alla tolleranza e, nel contempo, ci stimola alla prevenzione nei contatti con quella determinata persona. Se è vero che le variabilità caratteriali sono infinite è anche vero, tuttavia, che siamo soliti includere erroneamente tra di esse anche dei veri e propri disturbi che vengono ormai annoverati nella sfera delle problematiche d’interesse psichiatrico. Mi riferisco, in questo caso, ai disturbi di personalità. Numerose persone sono conduttrici di questo disagio senza rendersene particolarmente conto. Ciò genera problematiche disfunzionali a loro stessi (che difficilmente si accorgono) e alla struttura ove abitualmente operano. Anche l’omeopatia, insieme ad altre discipline, può dare il suo utile contributo.
Per lungo periodo è stato particolarmente difficile diagnosticare quelli che oggi definiamo disturbi della mente, del comportamento, di personalità. In assenza di criteri diagnostici precisi e condivisi, la loro natura immateriale (non si tratta evidentemente di un eczema o di una ferita che sono visibili a tutti nello stesso modo) poneva problemi interpretativi che risentivano del condizionamento delle culture locali e delle scuole di medicina predominanti nei vari luoghi. Poi la comunità scientifica internazionale ha ufficialmente e convenzionalmente accettato di adottare i precisi criteri diagnostici esposti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder (“manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali” detto sinteticamente DSM) frutto del lavoro approfondito e prolungato della nota associazione degli psichiatri americani (APA). Anche i criteri diagnostici utilizzati per riconoscere e classificare i disturbi di personalità sono oggi riferiti al DSM-IV (ormai alla sua quarta edizione). Il DSM-IV presenta i seguenti disturbi di personalità classificati in 3 gruppi.
Gruppo A. Disturbo paranoide, disturbo schizoide, disturbo schizotipico.
Gruppo B. Disturbo antisociale, disturbo borderline, disturbo istrionico, disturbo narcisistico.
Gruppo C. Disturbo evitante, disturbo dipendente, disturbo ossessivo compulsivo, disturbo non altrimenti specificato (nas).
Attraverso i criteri previsti dal DSM IV, riportati così come sono descritti (senza aggiunte personali) e seguiti da un breve commento ben distinto dai cardini diagnostici, cercheremo di identificare alcuni disturbi di personalità, presi a caso tra i vari gruppi.
Disturbo narcisistico di personalità
I criteri diagnostici sono i seguenti: un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia e nel comportamento), necessità di ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti. E’ sufficiente il riscontro di almeno 5 dei seguenti punti per la diagnosi: 1. ha un senso grandioso di importanza (per esempio, esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione); 2. è assorbito da fantasie di illimitati successi, potere fascino, bellezza, e di amore ideale; 3. crede di essere “speciale” e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata; 4. richiede eccessiva ammirazione; 5. ha la sensazione che tutto sia dovuto, cioè, la irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative; 6. sfruttamento interpersonale, cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi; 7. manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; 8. è spesso invidioso degli altri, o crede che gli altri lo invidino; 9. mostra comportamenti e atteggiamenti arroganti e presuntuosi.
Commento. Le persone affette da disturbo narcisistico di personalità tendono a sopravvalutare enormemente le proprie capacità e virtù. Hanno spesso necessità di distinguersi dagli altri entrando in club ed associazioni esclusive ove operano, per altro, in funzione delle loro personali convenienze. Si circondano, abitualmente, di simbolismi ed emblemi che evocano poteri (a volte esoterici quando non occulti) dei quali si fanno fregio per impressionare il prossimo e per aumentare il loro prestigio. Li possiamo anche ritrovare in associazioni benefiche, ma non dobbiamo perdere di vista che loro sono lì non certo per motivi etici o caritatevoli, ma per mettersi in mostra o per stabilire contatti interpersonali che li possano favorire. E’ piuttosto difficile, invece, trovarli nella sfera delle attività private poiché subiscono la selezione del mercato. La gente, in una condizione di libero mercato, tende a scegliere esercenti affidabili e di sostanza. Può capitare, invece, di ritrovarne alcuni tra gli imprenditori di alto bordo ma, anche lì, la tendenza ad effettuare operazioni eccessivamente ottimistiche, quando non spericolate, genera rapide fini di carriera. Il più delle volte, invece, li ritroviamo nel ruolo di funzionari di stato, spesso di alto rango che, attraverso un percorso protetto e non sindacabile, aumentano il loro potere divenendo intoccabili. Poco inclini alla democrazia come mezzo di confronto tra le persone, possono divenire, all’occorrenza, per interessi o per apparenza, falsi paladini e difensori del sistema democratico, sul quale intimamente nutrono fiducia pari a zero. Persone spesso maniacali, ma di sostanza profondamente superficiali, gradiscono avvalorare la loro immagine di tuttologi sentenziando disinvoltamente e spudoratamente su tutto e su tutti. Uomini di potere abituati a stabilizzare il medesimo con ricatti più o meno chiari ed a farlo valere, contro chi metta in dubbio la loro autorità. E’ facile, in questi casi, che s’inneschino prima o poi dei deliri megalomanici di onnipotenza. Non ci sono dubbi che questo tipo di persone siano particolarmente pericolose. Le persone conduttrici del disturbo narcisistico di personalità sono profondamente patologiche ed estremamente disfunzionali per se stesse e per la struttura nella quale operano [...]. E' d’obbligo l’intervento di uno psicoterapeuta esperto.
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2.
Disturbo paranoide di personalità
del dottor Giorgio Albani
I criteri diagnostici che servono per la diagnosi sono 4 o più dalle seguenti caratteristiche: 1. sospetti non realistici di venir sfruttati o danneggiati; 2. dubbi ingiustificati sulla lealtà degli amici; 3. paura di confidarsi con gli altri; 4. fraintendimento delle parole altrui, come semplici rimproveri o altro, verso significati più minacciosi; 5. prevalenza di rancore verso gli altri; 6. sentimento ingiustificato di venire attaccati o danneggiati, e tendenza a reagire; 7. paura ingiustificata di essere traditi dal coniuge [o dal compagno di partito (r.m.)].
Commento. Il punto centrale del disturbo è la diffidenza e la sospettosità verso gli altri. Le persone affette da disturbo paranoide di personalità hanno frequentemente il sospetto che gli altri tramino alle loro spalle e interpretano le motivazioni altrui sempre come costantemente malevole verso la loro persona. Ogni fatto, segno o circostanza, vengono da loro utilizzati per avvalorare questo pensiero che prevale sopra a tutte le altre cose della vita e che polarizza la loro attenzione, distruggendo, in fondo, la loro esistenza, ma anche, purtroppo, quella degli altri che stanno loro vicino. Gli individui che maturano questa struttura di personalità sono dominati in maniera rigida e pervasiva da pensieri fissi di persecuzione, timori di venir danneggiati (o perfino uccisi), paura continua di subire un tradimento anche da persone amate. Queste caratteristiche di personalità sono prevalentemente attribuibili ad un massiccio uso del meccanismo di difesa della proiezione attraverso il quale le caratteristiche ritenute cattive appartenenti alla propria persona vengono attribuite e proiettate all'esterno, su altre persone, o sull'intero ambiente, che verrà così percepito come costantemente ostile e pericoloso per la sopravvivenza dell'individuo. Proiettano sugli altri quelli che sono i loro “difetti”, le loro caratteristiche negative, dando per implicito che gli altri siano necessariamente come loro, abbiano i loro stessi valori (in genere negativi o di convenienza) e ragionino nello stesso modo.
Mancano di capacità di adattamento vero, di elasticità mentale, di sensibilità, di fiducia verso il prossimo e non conoscono il valore autentico della gratitudine. Non riescono a capire che si può dire grazie senza genuflettersi e si può chiedere perdono, con dignità, senza percepirsi umiliati. Sono soliti circondarsi di “amici” a cui chiedono, non la lealtà che implica diversità di vedute, ma veri e propri atti genuflessori e giuramenti di sangue. Il primo timido segno di dissenso viene subito interpretato come tradimento. Sono soliti riversare la loro ira verso persone famigliari o verso, comunque, loro subordinati divenendo frequentemente dei vili (dei veri e propri Fantozzi) di fronte ai potenti. Sono incapaci di gestire relazioni alla pari: o stanno sopra, divenendo despoti, o stanno sotto divenendo servili. Vivono, in fondo, male per la continua sotterranea paura di non essere mai all’altezza o di essere superati. Pertanto si circondano di tutto un apparato di attenzioni (che a volte scadono nella superstizione) e di controlli. Temono tremendamente di essere messi in ridicolo o sottovalutati. Non capiscono il valore dell’ironia fine ma sono, a volte, declamatori di battute volgari che utilizzano per ridicolizzare e sottomettere gli altri o di espressioni gergali che utilizzano per aumentare il loro senso di appartenenza a gruppi che li fanno sentire protetti, sicuri, importanti. Anche in questo caso l’immagine prevale sulla sostanza. Il disturbo paranoide di personalità è un tipo di organizzazione della personalità chiaramente patologica che necessita di cura. Sul piano affettivo la cura verso queste persone è l’amore, anche se sono difficilissime da amare, sapendo rendersi particolarmente sgradevoli. Sul piano clinico è assai necessaria la psicoterapia ben fatta. Va individuato il nucleo di insicurezza che ha generato questa personalità malata e opportunamente elaborato [...]. Questa personalità genera frustrazione che poi si scarica come aggressività fisica o intellettuale.
Conclusione. «I pazienti con disturbi di personalità quasi mai si rendono conto del loro stato patologico. Attribuiscono a cause indipendenti dalla propria volontà i loro problemi esistenziali. Considerano il proprio comportamento normale e ragionevole e tendono a individuare nel comportamento, più o meno intenzionale, altrui la causa delle proprie difficoltà. Di fatto, un paziente con tali caratteristiche può essere scarsamente consapevole della propria personalità, di come essa contribuisca ai problemi vissuti e di come possa essere modificata. In genere, questo tipo di pazienti si presentano in terapia perché spinti da qualche famgliare che intuisce le loro difficoltà o che ha raggiunto i propri limiti di sopportazione; in altri casi, i pazienti vengono obbligati da un giudice a sottoporsi a una terapia psicologica come alternativa alla detenzione. Infine, alcuni di questi soggetti, pur consapevoli della problematicità del loro comportamento non hanno la forza di cambiare. Altri vorrebbero cambiare, ma non sanno come”. (Len Sperry, I disturbi di personalità, Ed. McGraw-Hill).
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Poiché anche a noi è accaduto ciò che racconta qui il dottor Albani - e cioè che alcuni lettori ci hanno contattato per chiederci se avessero ragione a individuare il fenotipo del «narcisista» in questo o quell'altro leader conosciuto della sinistra (e bisogna dire che la cosa non era tanto difficile, viste le caratteristiche molto riconoscibili «esteriormente» di quel tipo di patologia) pubblichiamo anche la nota con cui Albani rispondeva ad analoghe preoccupazioni dei suoi pazienti. (r.m.)
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Nota a margine (di Giorgio Albani)
Nel Novembre 2007 scrissi l’articolo sui disturbi di personalità come avevo già scritto tanti altri articoli, scegliendo l’argomento in funzione dei miei già noti interessi nella materia psichiatrica. Non pensavo sinceramente che avrebbe destato nei miei pazienti particolari reazioni o interessi. Non appena fu diffuso, fui letteralmente tempestato da decine di telefonate e di contatti personali che mi chiedevano, sicuri della risposta positiva, se per fare l’articolo mi ero ispirato a questa o quella persona fisica, cosa che regolarmente smentii. Anche perché per ognuno la persona che veniva indicata come fonte della mia ispirazione era diversa. Dal momento che il mio scritto era semplicemente un commento al già nominato DSM, ne conclusi che ciascuno di loro doveva avere accanto persone cui poteva attribuire un disturbo di personalità narcisistico o paranoide e che l’articolo non aveva fatto altro che facilitare la diagnosi. (G.A.)
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3.
L’invidioso (gelosia) I
del dottor Giorgio Albani
Esiste veramente il sentimento che identifichiamo come invidia? E quali sono le ragioni e le espressioni di questo supposto stato d’animo?
Devo dire che le mie idee in proposito, negli anni sono molto cambiate. Per lungo tempo ho pensato che questo sentimento appartenesse alla sfera delle cose inesistenti, al massimo un espediente utilizzato per ravvivare i romanzi d’appendice. Poi alcune esperienze di vita e mille altre situazioni riferitemi, a volte anche nei colloqui con i pazienti, mi hanno portato ad ammettere che, ahimè, esiste una massa primordiale deprecabile, un sentimento negativo, che siamo soliti identificare nell’invidia. Credo che nessuno si possa dichiarare totalmente immune da questo sentimento. Pertanto, sgombriamo il campo da ogni ipocrisia e cominciamo ad analizzare chi scrive. Riguardo ad averla personalmente provata, tuttavia, francamente non saprei dire. Per natura, sono abituato, forse anche un po’ ingenuamente, a vedere il bello, il positivo, il colorato dappertutto. Se si è verificato in me non è mai avvenuto con quell’intensità, quella persistenza, quella continuità che ho potuto riscontrare in alcune situazioni che ho osservato, quasi fosse una pasta naturale della materia umana che ne era coinvolta.
Curare il sentimento negativo dell’invidia significa curare la percezione del mondo di chi ne soffre e, in un ultima analisi, abbattere la sofferenza che comunque è presente nella persona portatrice di questa distorta visione del mondo e delle cose. Indirettamente, quando un “invidioso” guarisce del suo male fa stare automaticamente meglio anche chi gli sta intorno.
Cerchiamo pertanto di capire le radici, le implicazioni, il funzionamento di questa malattia dell’animo.
Cosa significa invidia? Penso che le definizioni di questo concetto possano variare nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perché le regole sociali date per buone 30, 40 anni fa oggi sono radicalmente cambiate e, pertanto, anche i sentimenti satelliti (positivi o negativi) che facevano capo a queste regole hanno subito cambiamenti di consistenza. Basti dire che anche nell’ambito della giurisprudenza si dava, 30 anni fa, un valore ai reati legati all’ “offesa dell’onore” ben diversa da quella odierna. I cambiamenti che avvengono nello spazio sono quelli riferibili alle diverse culture, anche distanti, che popolano il nostro globo terracqueo ove è certamente ammissibile che alcuni valori ed i sentimenti ad essi associati non siano corrispondenti. D’altra parte è logico pensare che alcuni valori si possano considerare, a buon titolo, universali, cioè valevoli per l’intera umanità. C’è da chiedersi se anche alcuni disvalori, quale può essere considerato anche il sentimento dell’invidia, godano della stessa universalità. Non è facile poterlo stabilire. Ammettiamo, per esempio, di entrare in contatto con una di quelle tribù ancora isolate in cui il senso della proprietà privata sia inesistente od ove non ci sia nemmeno la monogamia. Immediatamente dovremmo concludere che in questo gruppo sociale non abbia senso pensare che esista un sentimento di invidia legato al possesso di qualcosa di materiale o al “possesso” (mi si conceda il termine improprio) di una persona. Pertanto questo gruppo non dovrebbe conoscere l’invidia. A meno che non volessimo ammettere che questo stato d’animo negativo non sia collegato esclusivamente all’idea di un possesso materiale ma comprenda anche qualcosa d’altro.
C’è un’altra anomalia. Parlando dell’invidia legata al possesso di materialità si potrebbe pensare che essa sia di più frequente riscontro in condizioni sociali di povertà, ove magari, come avviene in queste situazioni, esistano anche sporadici casi di ricchezza abnorme. Nella realtà la storia ci dimostra che nei periodi di grande povertà, ne sia un esempio il dopoguerra, le persone sono abituate a mettere in atto dei rapporti di cooperazione e collaborazione ispirati all’affettuosità, a patto che non vi siano state altre cause di conflitto. In questo tipo di situazione, le sporadiche persone ricchissime, più che invidiate vengono trattate con particolare stima e deferenza, considerandole un’anomalia congrua al sistema. Anzi esse sono il termine di riferimento necessario per definire cosa sia la ricchezza e cosa sia la povertà. In fondo anche le favole, sempre presenti nelle storie della “povera” gente, sono piene di princìpi e principesse, per i quali, a meno che non siano dei mostri, non viene affatto percepito un sentimento di invidia. Al contrario, sono visti con stima e ammirazione e considerati, in genere, portatori di valori puri e positivi, compresa la generosità.
E qui, forse, abbiamo trovato due termini, stima e ammirazione, che potrebbero costituire dei contrari di alcuni significati che vengono attribuiti al concetto di invidia.
Ricollegandomi al discorso dei gruppi sociali si potrebbe dire che, nella realtà, succede che questo sentimento negativo sia più presente in ambiti ove circoli un diffuso benessere e che non sia assolutamente collegato allo status della persona che lo manifesti. Piccolo esempio: può capitare che il manager con un buon conto in banca e una bella decappottabile sotto casa, usata come terza macchina, arrivi ad invidiare il suo operaio che, pur con molti sforzi, si è potuto permettere di acquistare un’utilitaria fiammante. Questo sentimento insorto nel “capo” può rendere la vita difficilissima a quel pover’uomo che, magari, aveva sempre lavorato in modo volenteroso senza dare, sul piano del suo ruolo, adito a critiche. E’, per quanto strana, una forma di invidia anche questa, con la deprecabile aggravante di essere esercitata da un “potente” che ha a disposizione tutti i mezzi per complicare la vita al pover’uomo. La dinamica appena accennata è frequentissima in ambiti ove vengano esercitati poteri assoluti poco o nulla sindacabili: nei lavori a rigida gerarchia, negli istituti militari, nelle istituzioni comunque totali (caserme, monasteri, ospedali, associazioni particolari, circoli esclusivi [partiti, specie se piccoli (r.m.)] ecc.). In questi sistemi chi detiene il potere, se non dispone anche di un animo ispirato ai buoni sentimenti o, per cosi dire, una magnanimità interiore, può sfruttare la sua posizione per far valere tutti i suoi complessi, i suoi vizi, i suoi capricci. Viene anche da chiedersi, tuttavia: possono coesistere senso del potere e buoni sentimenti nella stessa persona o si tratta di “valori” opposti, che si autoescludono?
Non dobbiamo nemmeno incorrere nell’errore di pensare che il desiderio di potere sia legato alle idee politiche: esso è semplicemente l’espressione di ciò che c’è nel cuore degli uomini. Se è vero che la maggior parte dei dittatori non fa certo mistero della propria sete di potere è anche vero che lo sguardo di molti “rivoluzionari” non è per nulla diverso (e la storia lo ha spesso dimostrato). E se andiamo avanti con questa analisi potremmo arrivare a riconoscere quello sguardo anche in numerosi uomini politici cui piace accreditarsi (magari sono anche riconosciuti in questo senso) come paladini della democrazia. E’ uno sguardo particolare che si osserva nel privato, nei gruppi sociali (anche quelli più piccoli e meno significativi), nelle associazioni di volontariato. Ovunque ci sia qualcosa o qualcuno da amministrare, s’innesca una condizione ideale per slatentizzare questa innata pulsione presente in molti uomini (e donne). [evidenziato da r.m.]
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4.
L'invidioso (gelosia) II
del dottor Giorgio Albani
E’ bene sapere che il desiderio di potere nasce sempre ove ci sia una frustrazione accumulata, una crescita adolescenziale non risolta o un complesso di inferiorità.
Ma torniamo al nostro tema. Abbiamo, sino ad ora, analizzato delle forme di invidia legate alla materialità, stabilendo che non è necessario che chi eserciti l’invidia sia più povero rispetto all’invidiato, potendosi a volte verificare situazioni perversamente rovesciate. Esse non rispondono ad una traccia della benché minima, pur per nulla giustificabile ma comprensibile legge di natura: quella legata alla minore disponibilità materiale o a un effettivo bisogno. Nell’emisfero occidentale, tuttavia, i bisogni primari della popolazione, pur scrivendo questi miei concetti in un periodo di crisi economica importante, sono abbastanza assolvibili. Pertanto a fronte della disponibilità di un minimo indispensabile sufficientemente diffuso, le forme di invidia riguardano spesso altre situazioni.
Per esempio, al giorno d’oggi, capita che sia molto diffusa l’invidia relativa al saper fare. Essa introduce nei rapporti sociali delle dinamiche particolarmente perverse. Semplificando si potrebbe dire che sia legata ad una forma di pensiero, più o meno conscia, del tipo: dal momento che io non riesco a fare o non ho la capacità di fare ciò che fai tu sono particolarmente disturbato dal fatto che tu lo faccia. Anzi desidero ardentemente che tu non possa farlo. Questa volontà porta colui che si percepisce incapace (può anche essere solo un auto percezione fondata su un senso di inferiorità, non corrispondente alla realtà, ma che sfocia nell’aggressività) a boicottare attraverso tutte le possibilità di cui dispone qualunque realizzazione il capace possa produrre.
Il problema è che l’invidioso, in questo modo, determina danni non solo alla persona che vorrebbe colpire, per sedare la sua paura di essere superato, ma può generare disastrosi danni sociali. Essi avvengono quando l’opera dell’invidioso finisce per impedire o ostacolare all’invidiato la realizzazioni di progetti o cose di rilevanza sociale, destinati al beneficio collettivo. Dinamica, questa, molto diffusa nella politica e ben rappresentata in tutta la storia degli uomini ove l’invidia ha impedito o ritardato frequentemente scoperte scientifiche e progressi sociali. La logica di base su cui ruota questa pulsione insana è, ancora semplificando, la seguente: dal momento che non posso farlo io (mai io può essere anche un io di gruppo [un partitino, per es. (r.m.)) non devi farlo nemmeno tu. Anzi chi sa fare va umiliato ad ogni costo per impedirgli di procedere nel proprio lavoro poiché più egli realizza cose ben fatte più dimostra le sue capacità e virtù e, in questo modo, rende chiare la scarsità delle mie.
Ovviamente è un pensiero generato da una dimensione già alterata e patologica, espressione da una parte di senso d’inferiorità dall’altra di narcisismo straripante [vedi la scheda numero 1, sul «narcisismo» (r.m.)]. Narcisismo significa anche pensare: io sono la regola, la misura e la dimensione di tutto. Nessuno può avere la capacità o semplicemente l’ardire di fare o andare oltre me. “Me” vuol dire e nasconde il significato di oltre le mie possibilità. Siamo cioè all’incapacità assoluta di accettare, ma prima ancora, di ammettere i propri limiti.
E’ una logica perversa, fuorviante, malata, pericolosa, distruttiva.
L’invidioso non si pone minimamente il problema della rilevanza del danno personale e sociale che può creare, tanto è forte il suo sentimento di rivalsa da privilegiare la logica, alle estreme conseguenze, del fatidico: allora muoia Sansone con tutti i Filistei. Logica apparentemente assurda, ma ben rappresentata e riscontrabile, nel pratico, in numerosi ambienti. Per esempio quelli ove vigono le regole della carriera ad ogni costo. Pertanto torniamo a parlare di ambiti militari, ospedali, istituti totalizzanti [partiti grandi e piccoli (r.m.)].
Si osserva, tuttavia, anche in piccole comunità ove, almeno superficialmente, apparirebbero presenti rapporti leggeri, basati sull’amicizia e l’affetto mentre nella realtà, più subdolamente, la logica di fondo su cui ruota il sistema e proprio quella appena indicata. Gli indicatori del funzionamento vero del gruppo, che portano a svelare i meccanismi reali su cui si fondano i rapporti interpersonali, sono fortunatamente poco falsificabili e di facile lettura.
Riguardano il grado di progresso sociale ed economico, il grado di sviluppo del pensiero, la capacità ad aprirsi ad idee, culture ed influenze diverse, l’elasticità ad adottare soluzioni, variabili, nuove, non ripetitive. A volte la ripetitività viene giustificata con la scusa del rispetto della tradizione, per nascondere solo un’incapacità (si veda oltre su questo tema). Tra questi indicatori dobbiamo considerare anche la capacità di seguire in tutte le sue forme il progresso del mondo e dei sistemi, pur accettando quel minimo grado di insicurezza che il lasciare la strada vecchia comporta. Pertanto, in ultima analisi, gli indicatori positivi sono: la capacità di essere giovani di mente, di mettersi in discussione e di saper osare puntando verso il futuro per evitare di ripetere vecchi modelli, pur accettando un livello minimo di rischio controllato.
In gruppi ove siano presenti elementi che condividano queste caratteristiche, non è possibile che si stabiliscano reazioni invidiose o improntate a quel sentimento gemello che è la gelosia, poiché ognuno ha una buona idea, ognuno ha qualcosa da fare e progettare per se e per gli altri, piuttosto che tenere sotto osservazione esclusivamente cosa stia facendo il suo prossimo. Un sistema di questo genere è positivo, propositivo, assertivo. A volte nelle persone positive e operative manca persino il tempo per osservare il prossimo. Al contrario, ove manchino queste positive capacità, l’invidia e la già detta gelosia, possono divenire il pane quotidiano.
In questo senso il diffuso far nulla o il deliberato ozio che si osservano in numerosi enti, frequentemente purtroppo tutelati da un certo tipo di statalismo deteriore, costituiscono un humus eccezionale per far germogliare l’infestante pianta dell’invidia. E’ chiaro che, più che un problema di sistema, è, al solito, la qualità degli uomini a fare la differenza. Il dedicare a se stessi spazi di tempo non lavorativo da impiegare in piccoli o grandi interessi, alla lettura, ad un hobby o semplicemente a pensare non è certo ozio ma può essere il punto di arrivo ricercato di un uomo maturo che abbia compreso la vita (l’ozio contemplativo degli autori latini). Se mai è la qualità dei pensieri con cui riempiamo il nostro animo e la nostra mente a fare la differenza [Rimanderei a Il diritto alla pigrizia, di Paul Lafargue (r.m.)].
L’invidia è un sentimento che appartiene ai piccoli uomini.
Non è certo un problema di statura ma semplicemente l’incapacità di alcuni di saper accettare, apprezzare e godere della propria condizione (magari ritenuta vantaggiosa da altri) e nel contempo all’ulteriore totale incapacità, qualora non piaccia, di operare in senso positivo, con fantasia, con entusiasmo, usando le proprie forze e senza agire a discapito degli altri, per cambiarla in meglio.
In questo senso, l’invidia può riguardare anche la serenità dell’altro, che magari pur vivendo in una condizione sociale inferiore all’invidioso e pur essendo dotato di minori mezzi materiali, ha saputo costruire la sua vita e i suoi rapporti personali all’insegna di valori di serenità e di affettuosità. L’invidioso tende a credere che questa condizione sia immeritata per l’invidiato, facendo l’errore di pensare che sia caduta dal cielo e non capendo che è il frutto di un lavoro costante, certosino, quotidiano, dovuto alla volontà e alla fantasia e imbastito intorno a autenticii valori di tolleranza, disponibilità, desiderio di miglioramento, affetto, amore, dati e ricevuti.
E’ invidia anche commentare sempre è in ogni caso il lavoro degli altri, trovando che non sia poi così perfetto, che potrebbe essere fatto meglio, che comunque manchi qualcosa o che, “pur essendo un buon lavoro potevi fare di più… Da te mi sarei aspettato senz’altro di meglio”. Frasi queste che svelano una totale incapacità di saper riconoscere all’altro le sue virtù, di gratificarlo come merita e di saperne gioire insieme.
L’invidioso, pertanto, vive di una profonda malattia interiore che nasce in se stesso ed è cagionata da se stesso,dalla sua distorta visione del mondo, anche se a lui fa piacere e forse anche comodo pensare che dipenda dagli altri.
Invece di lavorare per migliorare le sue qualità, le sue capacità, magari anche prendendo uno spunto positivo e confrontandosi con il lavoro altrui, preferisce maledire o invidiare chi gli sta intorno. L’invidia, in questo senso, diviene l’emblema di una passività totale e, pertanto, il controvalore di un positivo attivismo, mai esasperato o fine a se stesso, che ogni uomo può coltivare per migliorare, a vari livelli, non necessariamente e solo materiali, la propria esistenza. L’invidioso visto in questa luce si svela come uomo profondamente arido, un “povero di spirito” e di sentimenti che non riesce a decollare dal suo brodo di fango ma solo ad agitarvisi dentro. Più vi si muove e più si impasta. Il grado di negatività degli invidiosi è altissimo: non riescono a gioire della vita per quello che è. Perversamente, però, traggono soddisfazione dalla sofferenza che hanno procurato o in cui, per caso, sono incorse le loro vittime designate. In qualche modo questi uomini vivono nell’invidia e, se non intervengono cambiamenti sostanziali dei loro sentimenti, sono destinati a morire, insoddisfatti e logorati, nell’invidia, generando danni a se stessi e agli altri.
Potrebbe essere utile porsi, infine, alcuni quesiti.
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L'invidioso (gelosia) III
del dottor Giorgio Albani
PRIMO. In che misura l’uomo saggio deve modificare il proprio modo di agire quando si confronta con un invidioso o con una comunità di persone la cui modalità reattiva comune ruota intorno a questo disvalore?
Se è vero, in effetti, che l’invidia è malattia del singolo è anche vero che piccoli ambienti possono essere accomunati da questa modalità reattiva che circola come uniforme modo di percepire i rapporti umani, essendo appresa precocemente, a volte quasi respirata nell’aria e riuscendo a superare il livello di allerta del potere critico individuale che, quando ben usato, salva l’uomo di buon senso da possibili derive collettive.
Il potere di condizionamento delle piccole comunità [per es. i partitini (r.m.)] è altissimo e si diffonde in modo particolarmente subdolo alterando i modi di sentire, le capacità critiche, la scala dei valori di ogni singolo membro e generando ostracismo, isolamento, o ponendo nel ridicolo chi non si conforma alle abitudini collettive. Magari perché le riconosce come limitate, grette, chiuse, superate, generatrici di valori negativi, incapaci di qualunque miglioramento.
E’ nozione comune e diffusa che nelle piccole comunità si può vivere benissimo, per certi versi, ma anche malissimo per altri.
Alcuni individui possono percepire la necessità di condurre un percorso di crescita interiore autentico, imprescindibile, ispirato a valori profondi. In questo cammino possono trovarsi, in modo del tutto naturale, a dover rifiutare e mettere al bando ogni manifestazione ispirata all’ipocrisia o ogni modello comportamentale che, per quanto comunemente condiviso, non sia più adeguato alla loro crescita evolutiva. Ebbene, queste persone, se vivono all’interno di una piccola comunità, possono trovarsi a dover assistere alla disintegrazione delle rete sociale. Divengono automaticamente “diversi”, persone che non si sanno accontentare di ciò di cui si accontentano gli altri. Si preferisce pensare che il loro perseguire strade strane e particolari nasca dal desiderio di volersi distinguere ad ogni costo dal gruppo più che da una vera, autentica, istanza interiore. I gruppi si fondano su delle regole che servono a mantenerli in vita. Nessun elemento del gruppo, essendo conformato e “normalizzato”, è minimamente disponibile a prendere in considerazione l’ipotesi che l’individuo isolato possa percorrere strade particolari per una percepita ricerca interiore. E’ solo un difforme. Se poi lo stesso malaugurato individuo ha necessità di spostare le sue vedute da un dimensione di coscienza ristretta, locale, legata alle piccole convenienze, ad una coscienza universale, sintonizzata sulla percezione di una sensibilità più planetaria, allora diviene, per i più, veramente ormai un pazzo. Il problema ridotto all’osso è che nelle piccole comunità, nei piccoli gruppi sociali, in genere, manca un’adeguata sensibilità comune che aiuti a capire e rispettare scelte difformi. Non si tratta ormai più nemmeno di invidia ma del semplice fatto che in questi circuiti limitati manca totalmente la capacità di mettersi in seria discussione. La sicurezza del gruppo si acquisisce ripetendo pedissequamente modi di fare, pensieri, abitudini, manifestazioni collettive e contrabbandando questa incapacità al cambiamento, come già detto, con il presunto desiderio di rispettare la tradizione. La tradizione, così concepita, non è solo sacra ma è anche inviolabile e lo spirito di corpo si accanisce, senza più confrontarsi con il lume della ragione, con chi la vuole alterare o mettere in discussione o semplicemente analizzare per capire in che modo essa possa essere migliorata, aggiornata ai tempi.
Si perde totalmente di vista, ancora una volta, il concetto che anche la tradizione, pur intesa nell’accezione migliore, è comunque una costruzione degli uomini, o, per meglio dire, di uomini del suo tempo, spesso basata su usanze e abitudini così lontane negli anni da non essere più adatte all’epoca in cui viviamo. Ho personalmente assistito a moltissimi esempi di questo tipo di disfunzioni, in fondo di dispercezioni del reale, avendo avuto sotto osservazione numerosi “laboratori” umani ove tutte le dinamiche esaminate, anche le più chiaramente patologiche, si articolavano regolarmente nel modo descritto senza che nessuno le mettesse minimamente in dubbio.
Veniamo ad un altro quesito: in che misura si può essere danneggiati da chi incentra i suoi pensieri e agisce in funzione di un sentimento di invidia?
Cerchiamo di avanzare qualche risposta
Per il primo quesito (in che misura l’uomo saggio deve modificare il proprio modo di agire quando si confronta con un invidioso o con una comunità di persone la cui modalità reattiva comune ruota intorno a questo disvalore?). La risposta è semplice ed essenziale. Nessuno deve cadere nella trappola di cambiare di un grammo la propria vita, le proprie aspettative, le proprie abitudini, il proprio modo di essere, lavorare, concepire l’esistenza per la paura di doversi confrontare con persone portatrici di questo negativo sentimento. Le limitazioni degli altri non devono divenire limitazioni per noi stessi. Se ci comportassimo diversamente finiremmo per danneggiarci da soli e per danneggiare tutta la rete, famiglia compresa, cui offriamo i buoni prodotti che siamo in grado di realizzare perseguendo un pensiero positivo e non condizionato.
Secondo quesito. Rispetto alla possibilità che si possa essere danneggiati da un invidioso il problema, ovviamente, appare più complesso. Sul piano del rapporto interpersonale, l’antidoto è quello di evitare di farsi coinvolgere in alcuni circuiti malati del pensiero, evitandoli o, meglio, rifiutandoli con chiarezza da subito e stabilendo le giuste distanze, anche quando si presentino apparentemente concilianti per stabilire un aggancio. Se materialmente l’invidioso ha poco o nullo potere su di noi e sulla nostra vita, la sola sofferenza che possiamo provare quando attaccati da una persona che operi con questo sentimento negativo è legata alle nostre reattività e sensibilità individuali. Essendo queste un fatto solo nostro, da noi gestibile, possono essere opportunamente elaborate e modificate per divenire insensibili, quando siamo sicuri di operare nel giusto, a critiche ed attacchi. Ciò comporta, però, per contropartita, di dover perdere quell’innato desiderio dell’uomo di ricercare approvazioni e adulazioni. E’ il pegno che si deve pagare.
Se, invece, l’invidioso ha possibilità di agire nella nostra vita potendo determinare danneggiamenti pratici, materiali (magari è un nostro superiore), il problema può divenire più complesso e non ci sono tecniche di difesa di valore universale. Va esaminata la situazione specifica e valutata con attenzione una possibile via. E’ ovvio che, quando si può, la strada di svincolarsi da questo legame è quella migliore da perseguire per tagliare ogni influenza e dipendenza (cosa che fa stare malissimo l’invidioso poiché perde il potere sadico di incidere sulla sua vittima). Quando questa strada non è operabile bisogna ricercare un compromesso. Chi ha l’indole del buon samaritano può cercare di trovare un canale di comunicazione essendo cosciente che chi manifesta invidia comunque è portatore di una sofferenza (una vera e propria malattia interiore), spesso nata lontano nel tempo, che non è stata risolta e che condiziona buona parte della vita di chi ne è colpito. C’è sempre, nell’invidioso, un narcisismo ferito, un’incapacità ad accettare i propri limiti, un trauma emotivo non superato, un genitore troppo pretenzioso che ha dato un insegnamento di vita sbagliato e fuorviante. Questa buona opera da compiere, simile in fondo ad una conversione, richiede capacità “missionarie”, estrema pazienza, grande tolleranza. Si tratta, in effetti, di far filtrare pian piano nell’invidioso l’idea che si possa vivere di valori semplici, positivi, costruttivi, ispirati alla collaborazione e all’affettività e che non sia necessario misurarsi continuamente con il prossimo per edificare qualcosa. Si tratta di far capire che i risultati personali, famigliari, aziendali che si ottengono ispirandosi a questi valori (aggiungi il tuo pezzo al mio ma non distruggere il mio, nel tuo stesso interesse, poiché ti troveresti a ripartire da zero) sono decisamente superiori e, nel contempo, consentono all’individuo e a chi gli sta intorno di vivere una vita più appagata e rilassante. Se ben condotta questa non facile opera può aiutare a cambiare la qualità della vita del carnefice e… della vittima designata.
Infine una curiosità: il prof. Cesare Lombroso (1835-1909), scienziato, antropologo, giurista, criminologo, attraverso i suoi discussi studi sulla fisiognomica, derivanti dal più antico filone antropologico noto con il nome di darwinismo sociale, aveva individuato alcuni tratti caratteristici del volto di persone con tendenze d’animo particolari. Tra di essi erano stati individuati anche i tratti salienti dell’invidioso. Oggi gli studi di Lombroso sono considerati solo per il loro interesse storico e come riflesso della cultura deterministica della sua epoca. Tuttavia alcuni “tratti dell’invidioso”, a ben vedere, mi è capitato di riscontrarli in persone o pazienti che, nel formulare i loro giudizi e nell’esporre le proprie motivazioni, senza alcun dubbio mostravano reazioni fondate su questo sentimento. In realtà più che elementi fisiognomici veri e propri con i quali, secondo Lombroso, l’individuo nasce (aveva individuato anche la categoria dell’uomo delittuoso, stabilendo addirittura la propensione ad alcuni crimini specifici) insorgono nella persona umana pervasa da alcuni particolari sentimenti (negativi o positivi che siano) delle particolari linee espressive del volto. Esse sono dovute allo stato di contrazione involontaria (pertanto non del tutto controllabile) di alcuni muscoli del viso (i muscoli pellicciai)) che delineano le varie “maschere” espressive proprie della nostra specie e dei sentimenti che la caratterizzano. Le modalità reattive dei muscoli dell’espressività si acquisiscono gradualmente nella vita, in funzione dei vissuti personali e delle risposte caratteriali e sono coordinate da riflessi nervosi, in buona parte, come già detto, automatici, inconsci, involontari. Esistono maschere mimiche riconoscibilissime (la gioia, il terrore) ed altre più sfumate, che richiedono attenzione per essere interpretate (tra di esse la sospettosità, l’invidia, la gelosia, ecc.). Anche l’invidia, pertanto, ha la sua sfumatissima maschera. Dopo Lombroso molti altri studi con carattere più moderno e scientifico hanno trattato e approfondito questo tema. Oggi mi capita, un po’ per gioco un po’ per professione, di utilizzare questa piccola conoscenza per cercare riscontri (che spesso regolarmente trovo) tra le persone che affollano i vari contesti ove la vita mi conduce.
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Continua la serie di "schede" di psicopatologia politica, avviata a dicembre del 2008. La scheda attuale, sul complottismo paranoide, è di Giorgio Barberis, ricercatore in Storia del pensiero politico presso l'Università del Piemonte Orientale. L'abbiamo ricavata dal suo studio - "L'ossessione del complotto tra rivoluzione e terrore" - nel libro Paranoia e politica, a cura di Simona Forti e Marco Revelli (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 70-2).
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6.
Il complottista (paranoide)
di Giorgio Barberis
Il cospirazionismo implica un punto di vista profondamente dissonante rispetto alla conoscenza convenzionale; per farlo proprio occorre uno spostamento radicale della percezione. In molti casi si tratta di una vera e propria "conversione".
Le teorie del complotto hanno una modalità peculiare di insinuarsi e di crescere nella mente di una persona, fino a diventare un modo specifico di vedere la vita nel suo complesso, uno schema interpretativo che può abbracciare ogni cosa. Spesso le teorie del complotto contengono anche elementi di veridicità e ragionevolezza tali da renderle plausibili. Talora, poi, persone autorevoli adottano e difendono alcune argomentazioni tipiche del cospirazionismo, che riesce a insinuarsi anche nelle menti più brillanti e vigili, oppure persone dissennate e impreparate, nel divulgare le loro teorie paranoiche, si spacciano per esperti accademici, confondendo i piani e producendo una quantità sorprendente di studi spuri e pseudoconoscenze autoreferenziali.
Esistono, tuttavia, alcuni strumenti utili per riconoscere le teorie del complotto e per darne un'adeguata valutazione. Tra di essi, il ricorso al comune buon senso, una corretta conoscenza della storia e la capacità di distinguere gli schemi propri del cospirazionismo e i presupposti di questa modalità di pensiero.
Non tutto ciò che è logicamente possibile è anche sensato e ragionevole. Per il "buon senso", scrive Daniel Pipes nel 1997 (Il lato oscuro della storia. L'ossessione del grande complotto, Lindau, Torino 2005), citando David Kelley, vale il principio di semplicità e parsimonia: "A parità di ogni altro elemento, un'ipotesi è più plausibile di un'altra se richiede un numero minore di nuovi presupposti". Il cospirazionismo, invece, moltiplica a dismisura gli elementi di complicazione. Ma tanto più è elaborato un complotto, tanto meno è probabile che esista.
Vi sono, poi, diversi tratti comuni di tali teorie, tra i quali l'oscurità e la confusione; il gusto per l'improbabile e per l'occulto; la riluttanza a divulgare apertamente le fonti informative; la dipendenza dalle falsificazioni; le molteplici incoerenze, che si ripresentano ciclicamente; la sovrabbondanza di riferimenti eruditi e per lo più inessenziali; la sovrapposizione tra diverse teorie e l'accettazione acritica di qualsiasi argomento che implichi un complotto; la noncuranza del mutare delle circostanze e dei diversi contesti storici; il rifiuto delle prove contrarie e l'atteggiamento "spregiudicato" rispetto ai fatti, talora inventati del tutto.
Come giustamente osserva Massimo Introvigne ("Le teorie del complotto", in G. Cantoni, Piacenza 1997), le pulsioni paranoiche possono anche non rassegnarsi mai, neppure di fronte a lampanti confutazioni empiriche. Si può sempre sostenere che il potere dominante abbia occultato le prove, si possono accusare gli scettici di non voler vedere la verità, si può denunciare il complotto che nega il complotto. Ma è ovvio che in questo caso l'onere della prova dovrebbe spettare a chi sostiene l'esistenza di trame occulte, altrimenti la narrazione può non avere alcun limite e giustificare qualunque fantasia, portando al parossismo il "racconto" postmoderno, non disposto a riconoscere alcuna validità alla comprensione razionale del divenire storico.
Le teorie del complotto, precisa inoltre Pipes, presuppongono che l'obiettivo primario dell'agire umano sia il conseguimento del potere (anche la filantropia può essere intesa come "una forma di avidità mascherata"); che "il beneficio significhi controllo" (per capire un evento bisogna chiedersi a chi abbia giovato); che siano le cospirazioni a guidare il processo storico (proponendo quasi sempre una teoria unificatrice, un "disegno generale" in grado di spiegare ogni singolo evento); che il caso non abbia alcun ruolo e che tutto sia riconducibile a una precisa volontà, per lo più nascosta; infine, che le apparenze ingannano sempre, e che anche coloro che sembrano amici, in realtà celino, il più delle volte, cattive intenzioni.
Si tratta, evidentemente, di forzature interpretative. Di teorie magari anche interessanti e suggestive, ma quasi sempre prive di fondamento, inattendibili e indimostrabili, oltre che tipicamente ideologiche. Il rischio è anche che l'esagerazione distolga l'attenzione dai molti microcomplotti che quotidianamente sono all'opera dietro alla cronaca e alla storia (...).
Tali teorie, che come detto semplificano sempre la complessità del reale, nella maggioranza dei casi sono anche molto pericolose in ragione della sistematica individuazione (e conseguente persecuzione) di capri espiatori a cui addossare la responsabilità dei mali del mondo.
Ovviamente, vi sono diversi gradi di adesione alle teorie complottistiche, in uno spettro che va dal dilettante al credente di professione, totalmente devoto alla propria fede; dalla curiosità divertita all'ossessione paranoica; da letture occasionali a un maniacale proselitismo. Se si conduce il cospirazionismo alle sue estreme conseguenze, si può giungere fino a dubitare di tutto; l'approdo rischia di essere un nichilismo assoluto. Del resto, il farsi parvenza del mondo è uno dei tratti specifici della patologia paranoica.
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7.
Un esempio di paranoia politica (Socialismo rivoluzionario)
Continua la serie di "schede" di psicopatologia politica, avviata a dicembre del 2008. La scheda attuale fa seguito a quella sul complottismo paranoide, inviata lo scorso mese di giugno, e ne fornisce un'esemplificazione pratica.
La lettera che qui riproduciamo è stata scritta come reazione al libro pubblicato prima dell'estate nella collana "Utopia Rossa". Un libro di polemica storico-politica nei confronti del gruppo Socialismo rivoluzionario, il cui titolo è: DIETRO LA NON-POLITICA.... Sottotitolo: Quando il «socialismo rivoluzionario» vive di apparati, espulsioni e culto della personalità. A cura di Stefano Santarelli, con testi di Yurii Colombo, Miguel Martínez, Antonella Marazzi, Roberto Massari, Michele Nobile, Dario Renzi e altri. Massari editore, pagine 288, euro 12.
Qui presentiamo il comunicato (interno) che la segreteria nazionale di Socialismo rivoluzionario ha inviato ai propri iscritti fin da luglio, per metterli in guardia e invitarli a non comprare il libro in questione. Si tratta quindi di una documentazione molto utile per descrivere concretamente i tipici disturbi della personalità che animano in generale capi, capetti e apparati dei tanti micropartitini che vediamo nascere e morire su scala ormai industriale nel presente contesto politico italiano e non solo.
Essendo stato scritto dalla direzione di Sr appositamente per il proprio apparato periferico, il comunicato offre per l'appunto una preziosa testimonianza clinica, diretta e molto sincera, di una delle forme più comuni in cui può manifestarsi la psicopatologia politica di tipo complottistico e/o paranoide.
Prima di procedere alla lettura del materiale "clinico", tuttavia, suggerisco di leggere le seguenti brevi righe, tratte dalla ben più ampia definizione della Personalità paranoica presente nel 3° vol. del Dizionario di psicologia curato da Umberto Galimberti. Da notare come, nella loro schematicità, esse offrano comunque una griglia pressoché coincidente con i sintomi di disturbi paranoici che il lettore può facilmente evincere dal comunicato della direzione di Sr (ma anche dal comportamento “politico“ più generale del gruppo, quale è stato ricostruito con ampia documentazione nel libro di Santarelli). Galimberti si riferisce ovviamente alla dinamica psicopatologica del singolo, ma nulla impedisce di estendere le sue definizioni al collettivo che intorno al paranoico si costituisce (così aprendo, tuttavia, ulteriori dinamiche di cui ci occuperemo in altra occasione parlando, per es., del ricorso maniacale ai meccanismi della scissione organizzativa come comune strumento di fuga da situazioni psicopatologiche particolarmente dolorose o comunque insopportabili).
Citazioni da U. Galimberti (i grassetti sono nostri):
"Un tipo di personalità caratterizzata dalla tendenza pervasiva e immotivata, comparsa entro la prima età adulta e presente in una varietà di contesti, a interpretare le azioni delle persone come deliberatamente umilianti o minacciose (...). La personalità paranoica presenta tratti di diffidenza, sospettosità, riservatezza, timore dell'aggressività altrui, rigidità con impossibilità di mettere in discussione le proprie persuasioni e con ipersuscettibilità alle critiche, alta concezione di sé con ostinazione e intolleranza verso gli altri, e modalità fanatiche di vita (...). Tra le cause supposte alla base della personalità paranoica sono state indicate in ambito psicodinamico la struttura profondamente narcisistica che induce il paranoico a utilizzare abitualmente meccanismi di negazione e proiezione (...). I temi deliranti possono essere a sfondo persecutorio dove i persecutori sono individuati in gruppi ben precisi identificabili nella società o nei famigliari, di gelosia con ricerca minuziosa delle prove, di rivendicazione per torti presunti o realmente subìti, di avvelenamento che comporta una vigilanza assoluta su ogni cosa, di erotomania per la convinzione di essere segretamente amato da qualcuno solitamente importante, mistico-riformista con conseguente fondazione di sette o di movimenti politici religiosi (...). Questi temi deliranti sono caratterizzati da interpretazioni abnormi della realtà, sorrette da una consequenzialità molto rigorosa e da un'intensa partecipazione affettiva."
Infine, siamo costretti a cogliere l'occasione per fare alcune precisazioni sulle accuse ingiuste che il comunicato rivolge al curatore Stefano Santarelli.
1) La lettera personale scritta da Dario cui si accenna di seguito non è stata inclusa nel libro perché, non essendo mai stata resa pubblica in precedenza, non si sarebbe potuta riprodurre senza l'autorizzazione dell'interessato.
2) Gli interventi di responsabili di Sr inclusi nel libro erano già stati resi tutti pubblici sulla loro rivista (come viene riconosciuto anche nel comunicato, addirittura una riga dopo l'accusa di scorrettezza al riguardo). Il curatore, quindi, non ha violato alcuna norma editoriale nel ripubblicarli avvalendosi del "diritto di antologia" riconosciuto dal Codice.
3) Non è vero che in copertina si citino membri di Sr come autori o coautori del libro, perché l'unico autore che compare è il curatore Santarelli. Si può leggere qui all'inizio, invece, la dicitura con cui sono stati indicati, in altra parte della copertina, i nomi di chi nel libro compare con testi relativamente lunghi o significativi, come si usa normalmente per tutte le antologie. Nessuna confusione è possibile.
4) Affermare che il nome di Dario Renzi sia stato incluso in tale lista di nomi perché ciò aiuterebbe a "vendere il libro" è un ulteriore esempio di megalomania paranoide e culto del capo, senza alcun riscontro nella realtà del commercio librario italiano.
5) La riproduzione del comunicato è qui fedele all'originale, ma abbiamo indicato in grassetto tutte le espressioni di valenza puramente offensiva che abbondano nel testo (così come nei testi precedenti scritti da Sr in polemica con noi e già inclusi nel libro).
A voler sorridere, si dovrebbe dire che nell'utilizzo di questo linguaggio offensivo si riscontra una ben strana concezione dell'"umanesimo" e dell'amore per il prossimo cui la direzione politica e l'apparato di Sr dichiarano di ispirarsi. Ma in realtà anche queste oscillazioni così brusche dal generico sdilinquimento sentimentale all'improvvisa virulenza verbale sono ulteriori manifestazioni della sindrome psicopatologica qui descritta.
(r.m.)
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Lettera de La Comune
dalla Segreteria nazionale ai compagni e alle compagne di Socialismo rivoluzionario (8 luglio 2009)
Nota informativa della Segreteria nazionale di Sr
COME RISPONDIAMO ALL'INIMICIZIA VERSO SR
1. Informiamo tutta Sr del fatto che è appena uscito un libro ignobile che ha come unica finalità portare un volgare attacco ad Sr ed alle sue persone secondo il tipico metodo borghese della calunnia e dell'insulto, della menzogna e della trivialità.
2. A questa operazione infame si sono dedicati componenti o collaboratori della Associazione politica Utopia Rossa (R. Massari, A. Marazzi, M. Nobile, S. Santarelli, Y. Colombo, tali Miguel Martinez, Pietro Serpolla, E. Valls) ed è infatti pubblicato dalla loro editrice Erre emme edizioni. Il testo, che si intitola "Dietro la non-politica. Quando il 'Socialismo rivoluzionario' vive di apparati, espulsioni e culto della personalità" è una netta espressione dell'ossessione e dell'ostilità che tale Associazione cova nei confronti. Gli autori, miserabili desperados della politica resistenziale, in realtà descrivono il loro mondo intriso di tutte le peggiori categorie e logiche borghesi, perciò così furiosamente astiosi verso i rivoluzionari. In questo senso si qualifica come un'operazione banalmente reazionaria.
3. Come è noto, con tale Associazione abbiamo chiaramente ed unilateralmente interrotto ogni rapporto per la totale assenza di pronunciamenti di contenuto, la mancanza elementare di rispetto ed una palese inimicizia da parte loro nei nostri confronti. Prendemmo cioè atto (nella Dna del 28/29 marzo 2009) non solo che non poteva sussistere alcun rapporto con loro ma che si qualificavano come estranei ostili (si vedano i testi a tale proposito pubblicati in Utopia Socialista n. 20). Oggi, arrivando a scrivere e pubblicare un simile libro, confermano ed aggravano la loro postura nei nostri confronti: è una inedita (letteralmente) espressione di ostilità, di cui prendiamo atto e da cui traiamo alcune conseguenze.
4. Poiché non si tratta di una polemica politica con le nostre idee e posizioni, ma unicamente di una vergognosa sequenza di volgarità, menzogne ed offese, non intendiamo in alcun modo rispondere su tale terreno. La scelta già operata dopo la nostra rottura, di fronte ad altri loro scritti via-internet o per posta, si conferma e si ribadisce: rispondiamo con un glaciale silenzio al bieco gossip politico. Per noi sono sul serio altre le priorità.
5. Anche questa vicenda, in sé davvero poca cosa, sollecita comunque a riconoscere che Sr ha dei nemici, al di là della risibilità dell'attacco contro di noi e della palese esiguità ed inconsistenza di chi lo muove. Non sono certo questi i principali tantomeno i nostri più temibili nemici, basti pensare all'impegno persecutorio degli apparati repressivi statali contro un nostro dirigente come Antonio P. e quindi contro tutta Sr, ma ciò rimanda sempre di più a sapere attivamente chi siamo e che cosa suscitiamo: Sr, per il suo progetto e la sua natura, per la sua diversità e la sua crescita, così come attrae tanta amicizia provoca anche tanta inimicizia.
6. Noi non risponderemo in questo caso scendendo su un terreno così distante dal nostro: all'aggressività frustrata vuota di contenuti già espressa con tale libro o che eventualmente incontreremo risponderemo con fermezza, senza lasciare alcuno spazio. Difendere le nostre idee e le nostre persone è parte integrante della nostra costruzione fuori dal sistema, una riaffermazione della nostra diversità.
7. In questo quadro è comunque significativo che i curatori di questo libro hanno cercato di coinvolgere nella sua fattura nostri ex compagni e/o dirigenti che si sono rifiutati di farlo e si sono premurati di farcelo sapere. Chi ci attacca con tanta volgarità dimostra di non avere alcun progetto se non quello di aggregarsi nell'inimicizia e nell'invidia nei nostri confronti, ma non trova facilmente sponda tra chi è passato nelle nostre fila, anche quando ne sia uscito con divergenze forti.
8. Ci preme infine che i compagni/e di Sr siano al corrente delle seguenti avvertenze ed indicazioni: a) - Il libro reca in copertina fra i nomi degli autori quello di Renzi, e nel sommario ancora il nome di Dario e di Francesca Fabeni, Piero Neri, Vincenzo Sommella. E' un'operazione truffaldina, volta a presentare questi nostri dirigenti come se fossero co-autori/autrici del libro, ed è evidentemente un meschino escamotage per venderlo. Non è mai stata ovviamente data alcuna autorizzazione da parte nostra e ciò dice della totale disonestà dei curatori del libro. Gli scritti dei nostri dirigenti che compaiono in questo libro sono già stati pubblicati sulla rivista Utopia Socialista. Forniremo centralmente di una copia del libro ogni sede per tutti coloro che fossero interessati, ma diamo chiara indicazione di non acquistarlo: nemmeno un centesimo alla ben misera causa di questi squallidi nemici.
b) - Poiché nel libro viene pubblicata anche una delirante lettera personale che R. Massari e A. Marazzi inviarono alcuni mesi fa a Dario R., senza però significativamente pubblicarne la dura risposta, forniamo una copia della stessa, con l'autorizzazione di Dario, perché sia conosciuta da tutte/i compagni/e di Sr.
La Sn di Sr
Firenze 8 luglio 2009
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8.
Identità e repressione del dissenso
di Raffaele Carcano e Adele Orioli
L'idea di un mondo diviso in due è una situazione sempre potenzialmente esplosiva, perché coinvolge tutti coloro che fanno parte del Noi nella contrapposizione con e la differenziazione da un altro: l'Altro è dunque produttore di identità e, nel contempo, destinatario delle politiche di esclusione attuate in nome dell'identità (...).
Questa logica, se trova nelle minoranze un bersaglio scontato, finisce per produrre il maggior numero di "vittime" proprio tra gli individui più autonomi: quelli che non appartengono a nessun gruppo, che subordinano la loro appartenenza a una scelta consapevole o che rivendicano la pluralità delle proprie affiliazioni e che non possono nemmeno contare sulla solidarietà (anch'essa identitaria) delle minoranze. Da un lato gruppi che negano l'esistenza di minoranze, dall'altro minoranze che negano l'esistenza di diritti dell'individuo: entrambi i corni dell'odierno dilemma multiculturale, seppur con gradi diversi, mettono in un angolo i diritti della persona, sminuendoli in nome di un fine ritenuto più alto, ed è proprio il condizionamento sociale risultante dalla promozione di identità collettive a impedire lo sviluppo di un'identità personale (...).
Non tutti sono disponibili a lottare per la propria libertà individuale: l'appartenenza dona tranquillità, il dissenso tensione. A posteriori, l'effetto più evidente finisce dunque per essere anche quello più celato: la dissimulazione, il nicodemismo. I crolli improvvisi di sistemi politici e religiosi che sembravano eterni dimostra quanto siano diffusi, in questi contesti, i comportamenti esclusivamente di facciata.
Non bisogna infatti dimenticare che i mutamenti accadono: forse perché esistono individui che resistono, forse perché vi sono zone franche dove le istituzioni non riescono ad arrivare, o forse, più semplicemente, perché viene a galla la "stanchezza di essere stanchi". Quanto più il panorama sociale è piatto e monotono, tanto più facilmente una novità attirerà l'attenzione di tutti. Di fronte a comportamenti non conformisti, i gruppi dominanti raramente stanno a guardare: essi diffidano per natura dei nomadi culturali, degli individui consapevoli che rappresentano, secondo Zygmunt Bauman, "l'incubo di ogni potere". Due sono le strade a disposizione dell'autorità per rispondere adeguatamente alla sfida dei dissenzienti: l'assimilazione o la repressione.
Il dissenso costituisce un rifiuto (cosciente o meno) delle motivazioni d'ingresso nella comunità, nonché del "discorso" di identità e appartenenza che quest'ultima porta avanti. In poche parole, rappresenta la messa in discussione dei confini del gruppo, e varcare perimetri sacralmente fondati, come il mito di Remo insegna, può trasformare in nemico anche la persona più amata. Chi non rema nella stessa direzione è spesso considerato un deviante, un traditore che compromette le possibilità di sopravvivenza del gruppo stesso.
I dissensi espliciti possono infatti essere contagiosi: per contrastarli in tempo, le autorità attueranno una strategia di premi e punizioni cercando, con promesse più o meno vaghe, o più raramente raccogliendo alcune istanze, di convincere i dissenzienti più moderati della bontà delle proprie ragioni. Ma che fare con gli irriducibili? In questo caso, l'uso di politiche repressive nei loro confronti è talmente diffuso, nel tempo e nello spazio, da rappresentare una soluzione quasi automatica. Intendiamo qui il termine "repressione" in senso ampio: anche l'abbassamento dello status lo è. Talvolta anche la semplice minaccia di un'espulsione si rivela efficace, in mancanza di un gruppo esterno disposto ad accogliere il dissenziente. In altri casi, l'efficacia è garantita proprio dalla punizione: non solo del dissenziente, ma anche di chi non punisce il dissenziente. La zelante collaborazione alla punizione, richiesta dal gruppo, trova del resto terreno fertile nell'attitudine umana, anche di chi sarebbe mite per natura: in ognuno di noi sembra nascondersi un potenziale carnefice, e il comportamento è talmente generalizzato da essere stato definito "effetto Lucifero". Una punizione "esemplare" (e in particolar modo quella estrema, l'eliminazione fisica) rappresenta un messaggio per tutti: conformismo e repressione tendono reciprocamente a rafforzarsi (...).
Ogni gruppo umano tende a ragionare come un Noi, generalmente contrapposto a un Loro, gli Altri. Questa caratteristica può essere anche molto spiccata, e in tal caso si parlerà di atteggiamento esclusivista: rigido, autoreferenziale, autocelebrativo, è caratterizzato da scarso interesse verso chi non ne fa parte, dalla relativizzazione degli Altri in un tutto indistinto e negativamente connotato, dalla refrattarietà a voler modificare in base agli impulsi esterni il proprio centro orientatore e le proprie istituzioni (basate su testi sacri, e pertanto immodificabili), nonché dalla marcata indisponibilità ad accettare al proprio interno individui che, non condividendo tale centro orientatore o tali istituzioni, vengono visti come una minaccia all'integrità del gruppo e della sua dottrina, ritenuta l'unica "vera" e dunque, inevitabilmente conflittuale con le altre. L'esclusivismo è marcatamente dualista: Noi buoni Loro cattivi, Noi nel giusto Loro nell'errore, e via di questo passo (bene-male, amico-nemico...). Una concezione di questo tipo determina ovviamente anche le modalità con cui il gruppo cerca di svilupparsi: più è esclusivista, più sarà convinto di detenere la verità, più sarà tentato di imporla con la forza.
(Tratto dal bellissimo libro di R.Carcano e A. Orioli, Uscire dal gregge, L. Sossella ed., Roma 2008, pp. 24-27)
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(1) Il narcisista (dottor G. Albani)
(2) Il paranoide (")
(3) L'invidioso (I) (")
(4) L'invidioso (II) (")
(5) L'invidioso (III) (")
(6) Il complottista (paranoide) (G. Barberis)
(7) Un esempio di paranoia politica: Socialismo rivoluzionario
(8) Identità e repressione del dissenso (R. Carcano-A.Orioli)
LA SERIE DI PSICOPATOLOGIA POLITICA CONTINUA E A UN CERTO PUNTO VERRÀ RACCOLTA IN VOLUME.
SI INVITANO GLI STUDIOSI DEL TEMA A PARTECIPARE CON PROPRI CONTRIBUTI.
SI PREGA DI FAR CIRCOLARE IL PIU' POSSIBILE
Di seguito l'elenco completo delle schede di psicopatologia politica inviate sino ad oggi.
Gli arretrati si possono richiedere a utopiarossa@enjoy.it .
(1) Il narcisista (dottor G. Albani)
(2) Il paranoide (")
(3) L'invidioso (I) (")
(4) L'invidioso (II) (")
(5) L'invidioso (III) (")
(6) Il complottista (paranoide) (G. Barberis)
(7) Un esempio di paranoia: Soc. riv.
(8) Identità e repressione del dissenso (R. Carcano-A.Orioli)
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A lettura terminata di questo testo sul militantismo mi è accaduto ciò che normalmente provo nei confronti dei migliori libri di filosofia: sono d'accordo sulla conclusione ultima, ma non vedo l'argomentazione, non vedo la concatenazione logica e mi resta sempre l'impressione che quella cosa lì, giusta e sacrosanta, si sarebbe potuta dire con meno parole e più argomenti logici. Nel caso della militanza, anche con esempi storico-politici più azzeccati.
Fatta la critica, richiamo l'attenzione sulla bellezza suggestiva di questo argomento, in attesa che qualcuno di noi scriva qualcosa di analogo, ma attualizzato e meglio argomentato. Resta il fatto che questo testo del 1972 costituisce un'importante testimonianza
storica: e cioè che la pazzia di massa che colse la piccola borghesia radicalizzata alla fine degli anni '60-primi anni '70 e la spinse a militare con fanatismo a migliaia e migliaia nei piccoli partitini nati o ingrossati dal '68, si poteva cogliere e descrivere già allora. In quanto tale, questo "documento" potrà andar bene in appendice al libro sulla psicopatologia politica che prima o poi riusciremo a fare. (r.m.)
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