a mia nonna
partigiana,
mi ha
insegnato che un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall'alto,
soltanto
per aiutarlo ad alzarsi...
a Carlo
Giuliani,
non
laveremo mai questo sangue...
Ouverture in forma di eresia
“Avevo il
diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso.
E allora, è
stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti...
Dovrei
rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi.
Rimpianti
sì, ma in ogni caso nessun rimorso”.
Jules
Bonnot
[in tempi
non sospetti Bonnot aveva compreso che rapinare una banca
è un atto
criminale quanto fondarla, e più di ogni cosa
che la
polizia è il braccio armato di ogni potere
e i suoi
crimini restano sempre impuniti!].
I. Il solo poliziotto buono è quello seppellito da una
risata!
C’era una volta la polizia che in un paese
occidentale si rese colpevole del più grave attentato contro la democrazia
(fondata su sessantamila morti della Resistenza) dopo la seconda guerra
mondiale... era il 2001, nell’ultimo giorno del G8 a Genova. Un’ondata persone
(di ogni ceto sociale) si era riversata nella città Medaglia d’oro della
Resistenza per dissentire sulle trame, i disegni, gli imbrogli che otto capi di
Stato stavano pianificando a danno dell’intera umanità... il popolo non ci
stava e mostrava nelle strade il proprio dissenso... uomini, donne, ragazzi
cantavano, ballavano, si stringevano insieme e gridavano contro i responsabili
del disastro universale che “un altro mondo è possibile”.
È vero, c’erano anche i dissidenti del
“blocco nero”, incappucciati che tiravano sassi, davano fuoco alle auto,
spaccavano le vetrate delle banche... tutte cose che, al meglio, emergono dalla
furia montante di questo tempo dove la domesticazione della società consumerista/spettacolare
marchia il disagio armato/finanziario che la governa... al peggio, contenitori
di inclusioni poliziesche mascherate sul versante del dissidio... infatti la
solerte polizia italiana, gli uomini dei servizi segreti, i “robocop”
dell’ordine pubblico si sono ben guardati di fermare questa minoranza di agitatori
e non ne hanno deviato le intemperanze, né li hanno arrestati per violenze ai
danni del popolo tutto. C’eravamo, abbiamo visto e fotografato le “giornate di
Genova”. Abbiamo preso anche un’immagine di poliziotti euforici in posa sulla
carcassa di una macchina bruciata che alzano i fucili al cielo in segno di
vittoria. Dove regnano la costrizione, il ricatto e la violenza, gli indignati
annunciano (con ogni mezzo necessario) l’arte (in rivolta) di non essere
governati, né di governare in questo modo e a questo prezzo.
I corpi di polizia, lo vogliamo ribadire,
nella storia dei movimenti che chiedono un futuro migliore e meno feroce per le
prossime generazioni... sono come i ratti su cumuli di spazzatura al servizio
di istituzioni, partiti, chiese, politici conniventi con il crimine organizzato...
i poliziotti (sotto copertura della politica) fanno cantare la libertà sul filo
della mannaia, sono mercenari in divisa sempre a difesa del profitto di pochi.
“Il manganello rischiara il cervello” dice il poliziotto-medico nel film di
Vicari (Diaz, 2012), mentre tortura
una ragazza tedesca colpevole soltanto di chiedere il rispetto dei diritti
umani. Una sola violenza è una violenza di troppo, perché contiene tutte le
barbarie che sono state e quelle che verranno.
Gli otto “grandi” del saccheggio mondiale
parlavano a loro nome e dei loro bravacci del “mercato finanziario”, i
trecentomila dissidenti erano schierati a fianco di milioni di persone che in
ogni parte della terra soffrono guerre, fame, miseria e tutto per permettere a una
minoranza di saprofiti di saccheggiare dignità, ricchezza e bellezza di interi
paesi. L’uomo nasce libero ma dovunque è in catene... le democrazie dello
spettacolo e i regimi comunisti (le religioni monoteiste, gli eserciti, gli
indici delle Borse internazionali, i concorsi a premi televisivi, il cane del
presidente della repubblica, il canarino un po’ tonto di Monti, la gatta un po’
zoccola della Fornero...) sono dispositivi/strumenti della politica del
profitto perseguiti dalle multinazionali, i veri devastatori del pianeta. Solo
ciò che è giusto per il bene comune è legittimo. Il dispotismo dei partiti e la
menzogna elettorale non lo sono in nessun caso.
Una democrazia partecipata, diretta o
consiliare è la sola via da intraprendere perché si realizza nelle volontà
sociali del popolo. Le bande mafiose che hanno fatto il covo nei partiti, nei
governi, nelle banche... vanno combattute e sconfitte... il popolo deve esprimere
il proprio volere nelle scelte dei rappresentanti con pubbliche assemblee e non
subire imbecilli imposti dai partiti... solamente il bene comune è il fine da
innalzare sopra ogni decisione democratica. “I partiti sono organismi pubblicamente,
ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della
verità e della giustizia” (Simone Weil) e vanno soppressi.
Il bene comune, la giustizia, la verità non
riguardano i partiti... la politica dei partiti acceca, rende servi, complici
dell’arroganza, spinge anche le persone oneste all’accanimento più crudele
contro gli innocenti... la soppressione dei partiti politici è necessaria, sono
il cancro della società, i veri cani da guardia di tutti i poteri... l’economia
terroristica del consumo poggia sui loro servigi e i grandi poteri utilizzano
questi buffoni infatuati della propria incompetenza per perpetuare gli
interessi dei ricchi a discapito di una società di liberi e uguali. I politici
vanno esposti al pubblico ludibrio e sepolti nel sudario dei loro misfatti...
il debutto della bellezza comincia dove la crudeltà di ogni forma di
autoritarismo crolla e ha inizio la vita autentica.
II. Diaz. Non lavate questo sangue
Il cinema italiano vaga attraverso gli
schermi/video come una puttana sfiorita in un mondo senza marciapiedi (alla
maniera di Cioran, filosofo con la fascinazione per l’ineducazione) e in questo
tempo dove anche gli stupidi possono diventare primi ministri, papi, presidenti
della repubblica o segretari di partito... l’indignazione può diventare un
grimaldello etico/estetico che infrange l’angoscia, la paura e la violenza
prodotti dall’ordine costituito sul sistema di disordini che ha contribuito a
provocare... politici senza destino, tecnici dell’impoverimento
concentrazionario [la ricchezza della banche, dio è con noi! e anche il
manganello] sono i precetti di una regale sciatteria nella quale sonnecchiano
le vestigia pedagogiche di dittature combattute e sconfitte con insurrezioni
popolari... la funzione di educare le masse al silenzio o alla domesticazione
collettiva sembra vacillare... l’oppressione mercantile e l’iniquità dei poteri
che la sostengono cercano nuovi linciaggi ma le giovani generazioni irrompono
nella scena pubblica e danno inizio allo smantellamento delle crudeltà istituzionali.
Il film di Daniele Vicari, Diaz, è un lavoro poco commestibile per
i consumatori di illusioni... racconta alcuni episodi avvenuti durante gli
scontri del G8 a Genova nel 2001 e mai dimenticati... si tratta dell’irruzione
“a mano armata” dei giannizzeri dello Stato nella scuola Diaz e dei metodi di
tortura che hanno riservato ai ragazzi de/portati nella caserma di Bolzaneto
(in Italia la tortura non è perseguibile, si legge nei titoli di coda). Le
opinioni, i contrasti, i dibattiti che il film ha suscitato ci interessano
poco... sono tutte schermaglie dialettiche nate e morte all’interno della carta
stampata o nei salotti televisivi dove anche il conduttore sembra davvero commuoversi
di tanto sangue versato dai ragazzi, donne, vecchi del Social-Forum... così,
tanto per fare un po’ presenzialismo all’acqua di rose e alzare la vendita dei
giornali e gli indici di ascolto. In vero Diaz
tocca le corde profonde della memoria umiliata e offesa della democrazia,
mostra, senza gridare, l’ipocrisia di una tragedia costruita nelle alte sfere
della politica e per la quale nessuno ha pagato (né poliziotti, né questori o
ministri che hanno deciso il massacro).
Il docu-film di Vicari è un rizoma di
microstorie che confluiscono nella scuola Diaz e tra le mura della caserma di
Bolzaneto... c’è quella del giornalista della “gazzetta di Bologna” (Elio
germano), di Alma (Jennifer Ulrich), l’anarchica tedesca che si occupa delle
persone disperse e arrestate negli scontri di piazza, di Nick (Fabrizio
Rongione), il manager che si interessa di economia solidale, arrivato a Genova
per seguire il seminario dell’economista Susan George. Nella Diaz capita anche
il pensionato, militante della CGIL (Renato Scarpa), insieme a tanti anziani
aveva preso parte ai cortei pacifici del G8 e si trova a passare lì la notte.
Ci sono inoltre anarchici (francesi, finlandesi, italiani), il “blocco nero”,
il vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma (Claudio Santamaria)
e centinaia di altri protagonisti che incrociano i loro destini nella notte del
21 luglio 2001.
I fatti sono quelli conosciuti anche dall’ultimo
ubriaco che staziona nei cessi del parlamento... poco prima della mezzanotte
quattrocento poliziotti irrompono nella Diaz dove ha sede il Genova
Social-Forum e danno inizio al pestaggio di quanti si trovano nella scuola
(alcuni avvocati, giornalisti, testimoni dell’aggressione dicono che i
“poliziotti sembravano drogati”, una pratica usata dai soldati nelle battaglie
all’”arma bianca” e mai abbandonata). Si distinguono per ferocia il VII nucleo
del reparto mobile di Roma, gli agenti della Digos e i celerini di carriera...
i carabinieri circondano l’edificio e lasciano picchiare persone che con le
mani alzate gridavano “pace”, “non violenza”, “rispetto dei diritti umani”...
in poco meno di dieci minuti (questo è il tempo della storia, nel film la
durata è più amplificata) novantatrè persone sono bastonate e arrestate, diverse
delle quali finiscono in ospedale e/o nella caserma di Bolzaneto. Qui i “bravi
ragazzi” della polizia (la citazione del film di Scorsese sui gangsters newyorchesi, Quei bravi ragazzi, è d’obbligo)
continuano il pestaggio, le vessazioni, le torture... alcuni “black bloc“ che
si erano nascosti in un bar per tutta la notte escono nella strada e si trovano
davanti a un campo di battaglia... una di loro entra nella scuola, vede
l’efferata devastazione della polizia, prende un pezzo di cartone, ci scrive
sopra — “Non lavate questo sangue” — e lo attacca al vetro di una finestra...
di lì a poco arrivano i giornalisti, filmano, fotografano, raccolgono i segni
dell’operato della polizia e iniziano a diffondere (non sempre con l’afflato e
lo sdegno necessario) i misfatti della Diaz.
Né poliziotti, né questori, né il ministro
della giustizia pagheranno mai per questa profanazione della dignità di un
popolo, molti di loro saranno premiati con l’avanzamento di grado e il
responsabile di questo massacro annunciato sarà elevato a capo dei servizi
segreti di questa Italia dell’impostura, della cialtroneria e del manganello
facile. Nuove resistenze sociali però stanno avanzando dai bordi della società più
umana e, come un tempo mai dimenticato, quando i partigiani contribuirono alla
fondazione di una nazione nuova, vanno ad incrinare le ingiustizie della
repressione e prima o poi daranno a questi squallidi untori della violenza
parassitaria la sorte che meritano.
Diaz è un film sincero, a tratti commovente...
Vicari mostra anche che non tutti i poliziotti sono belve (il vicequestore del
reparto mobile di Roma), si sofferma sulla piccola storia d’amore tra una
ragazza spagnola e un ragazzo del Social-Forum (abbastanza di maniera) e
ritaglia la bonarietà operaia del pensionato (un po’ troppo ingenua a dire il
vero) che in qualche modo si interseca alla curiosità cronachistica del
giornalista di Bologna. Straordinaria è la figura dell’anarchica Alma... le spaccano
i denti e la umiliano nella caserma di Bolzaneto ma non perde mai la bellezza
della sua non-violenza. La madre di Alma viene in Italia a riprendersi la
figlia... si commuove quando la vede uscire dalla caserma insieme ad altri
stranieri pestati dalla polizia... le sorride piangendo, Alma si copre con la
mano la bocca ferita e sale (in uno splendido rallentamento) sul pullman che la
porterà fuori dal suolo italiano, espulsa come indesiderabile.
L’affabulazione filmica di Diaz è particolare... Vicari intreccia
frammenti documentali e costruzioni attoriali con sapienza... la cinecamera è
veloce, tratteggia gli eventi con cura e i picchiatori della polizia sono
sottolineati con estrema veridicità... i ragazzi del “blocco nero” sono visti
con il giusto distacco, “compagni che sbagliano”, forse... tuttavia all’interno
di un tessuto urbano in devastazione progressiva (quello della globalizzazione
neoliberista che produce povertà e disuguaglianze profonde) è difficile
arginare rabbia e disobbedienza di ragazzi che non hanno nulla da perdere se
non le loro catene.
La sceneggiatura di Vicari e Laura Paolucci è
tratta dagli atti dei processi e conferisce al film quell’aura di giustizia
sociale propria al grande cinema italiano del Neorealismo fino a quello d’impegno
civile degli anni settanta. Il montaggio di Benni Atria è convulso, di notevole
bellezza espressiva e lascia leggere il film nella sua drammaticità senza
sottolineare troppo gli strappi del racconto. La musica di Theo Teardo si
addossa all’accadere con grazia, non è mai spalmata a favore della sequenza
d’effetto. La fotografia di Alessandro Bandinelli e Emanuele Gherardo Gossi (in
collaborazione con Vicari) è insolita per la retorica filmica italiana... sgranata,
segnata da istanze documentarie, restituisce una visione d’insieme di singolare
carattere autoriale. Il rallenty
della bottiglia che scatena il massacro della Diaz rimanda non poco al Kubrick
di Odissea nello spazio e intorno a
questa citazione Vicari costruisce l’intero film. I vertici istituzionali
prendono a pretesto gli oggetti (bottiglie d’acqua, lattine di birra, scatole
di cartone...) che alcuni ragazzi tirano contro le auto della polizia e
decidono la mattanza della Diaz in nome della “sicurezza di Stato”.
Diaz è un ritratto compiuto dei “fatti di
Genova”... “la vera realtà è sempre irreale” (Kafka, diceva), il vero resta
incollato agli occhi dello spettatore più attento, quello che rifiuta
l’angheria del predone e il fatalismo del rassegnato... fa domande, non
pretende risposte... rimanda al primato della coscienza il diritto di
dissentire o di approvare le malversazioni della polizia e dei capi di Stato...
i “mangiamerda” in divisa sono intersecati a ecumenici discorsi istituzionali e
(con dovizia d’intenti poetici) il film si affranca al coraggio e alla bellezza
di pezzi di popolo che non chiedono (a faccia scoperta) vendetta né perdono ma
la conquista di una società di liberi e uguali. A guisa di chiusura e per una
ballata tutta ancora da cantare (ovunque c’è un manganello che si abbatte su
uomo libero): non bisogna prendersela con i vermi per eliminare la sozzura
politica nella quale proliferano e li tiene a libro paga per bastonare i
dissidi sociali... occorre spazzare via i tribuni, i burocrati, i voltagabbana
che incensano la propria mediocrità nelle cloache dei governi e restituire ai popoli
la bellezza, la giustizia, l’accoglienza e il diritto di vivere un’esistenza
più giusta e più umana. Sia lode ora a uomini di fama.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23
volte aprile 2012