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lunedì 16 luglio 2012

INDIVIDUO, CULTURA, COMUNICAZIONE*, di Roberto Massari

1. «Legenda» dei tre viandanti

È tutt’altro che facile analizzare in una conferenza il tipo di rapporti che esistono o si possono stabilire fra i tre elementi indicati nel titolo. Anche solo sulla reciproca dipendenza di cultura e comunicazione sono stati versati fiumi d’inchiostro e non si finirebbe mai di elencare gli studiosi di sistemi sociali e relative comunicazioni di massa che si sono misurati sul tema. Ma da qualche parte va afferrato il bandolo della matassa.
Noi proveremo a partire da un’immagine allegorica che, come tutte le immagini utilizzate in funzione simbolica ed esplicativa, acquisterà un crescente valore metaforico nel corso dell’esposizione. Con pochi cenni sintetici e con immagini appropriate tenteremo quindi di trasmettere delle sensazioni, evitandoci il ricorso a molte o troppe parole.

Fingiamo per qualche momento di trovarci qui ad Assisi, a luglio dell’anno 992, cioè esattamente mille anni fa. Immaginiamoci in questo stesso poggio, alle pendici del Subasio, mentre su quel viottolo di campagna procedono di buon passo tre individui in abiti d’epoca.
Uno di loro potrebbe essere un commerciante diretto per affari a una qualche fiera agricola; o il membro di una corporazione artigiana; oppure un nobile che non intende rinchiudersi in convento onde non fare il secondogenito in casa per il resto della sua vita e quindi ha deciso di andarsene in giro per il mondo (quello di allora...). Quale che sia dei tre, possiamo considerarlo a tutti gli effetti un individuo con le caratteristiche della sua epoca e, nell’ultima ipotesi, addirittura una persona che vorrebbe sottrarsi ai condizionamenti famigliari o agli obblighi nobiliari vigenti in quei secoli del medioevo italiano. In ogni caso, una persona consapevole della propria individualità e intenzionato a difenderla.
Accanto a lui cammina una figura tipica dei secoli precedenti l’anno Mille: un chierico vagante, uno studioso di arti varie, uno studente non-universitario solo perché le università ancora non hanno preso a funzionare (quella di Bologna ufficialmente comincerà nel 1088, meno di un secolo dopo). Non mancano di certo centri di raccolta e convivenza degli studiosi, soprattutto nei conventi, per lo più dedicati all’approfondimento di temi religiosi visto che la cultura ufficiale, «alta» del tempo, era essenzialmente teologica o comunque subordinata alle direttive molto poco democratiche del clero cattolico-romano e delle sue ramificazioni. Si trattasse delle dispute sulle interpretazioni delle Sacre scritture novellamente tradotte, del moto degli astri o della scala di creazione degli animali, era comunque la cultura egemone dell’epoca. Chiameremo quindi sbrigativamente «studente» questa seconda figura e la considereremo come la più idonea rappresentazione simbolica della cultura media e medievale del tempo.
Il terzo viandante non può essere altro che un menestrello, un giullare, un troubadour, un pioniere della lirica occitana, arrivato in Italia per chissà quale recondita ragione o invitato da chissà chi. Possiamo immaginarlo con la sua ghironda in un sacco, oppure con un liuto o con qualsiasi altro strumento musicale a fiato o a corde pizzicate. L’importante è che si accetti di considerarlo come il più tipico rappresentante della comunicazione dell’epoca. Sappiamo che questa figura viaggia da una corte all’altra, da un principe all’altro - da Aquisgrana a Perugia, da Siviglia a Viterbo, da Canterbury a Parigi - percorrendo spesso e per ragioni più laiche che religiose le stesse strade che conducono i pellegrini provenienti da altri Paesi (i pionieri del turismo europeo) lungo la via Francigena fino alla presunta tomba romana dell’apostolo Pietro o lungo il Cammino di Santiago de Compostela, dove nel secolo precedente era stata scoperta la presunta tomba di Giacomo il Maggiore. Questa figura di artista-musico-poeta-viandante incarna in realtà il «giornalista», se non direttamente il «giornale orale» dell’epoca: è lui che trasferisce le notizie, i nuovi modi di poetare, la musica e la cultura; lo fa da un villaggio all’altro, da una sede nobiliare all’altra, da una curia vescovile all’altra.
Non si pensi però che la rappresentazione di queste tre figure, in marcia congiunta e dirette apparentemente verso un’unica meta, sia una mia invenzione. In realtà sulla loro convergenza nelle realtà storico-sociali dei loro tempi e sul ruolo da esse avuto nella diffusione della cultura «medievale», sappiamo molto, sia grazie alle cronache dei contemporanei, sia grazie all’opera più recente degli studiosi dell’argomento. Ma ne abbiamo anche alcune testimonianze - letterarie e musicali allo stesso tempo - nelle canzoni gogliardiche, di strada o di taverna, conviviali, erotiche, sacromoraleggianti e financo licenziose, che sono note sotto la denominazione di Carmina Burana.
Ebbene i Carmina Burana - sulla cui esecuzione reale esiste tutta una diatriba musicologica, ma che molti di voi avranno apprezzato nella versione musicata da Carl Orff nel 1937 - offrono una rappresentazione unitaria e concentrata delle tre figure sopraccennate. Prodotti in nessun luogo sociale o geografico specifico, anonimi ed estranei alla cultura «alta», ufficiale del tempo, questi Carmina venivano composti, cantati o ascoltati con gran gusto da viandanti, commercianti in trasferta, chierici vaganti, studenti e menestrelli: un concentrato di cultura alta e bassa, di lingue nobili (il latino soprattutto, anche se deformato) o popolari (dall’alto tedesco al volgare italiano); una conoscenza di tradizioni musicali, dal canto gregoriano alla nuova poesia trobadorica, con cognizioni di scrittura neumatica; una sintesi effettiva sul piano artistico-popolare delle correnti spiriturali e di pensiero che potevano essere comuni alle tre figure che abbiamo scelto come esemplificazione allegorica e punto di avvio del nostro discorso.


2. Un maître-à-penser emblematico dei giorni nostri

Facciamo ora un salto di millennio e passiamo all’attuale anno 1992, nella stessa stradina nei pressi di Assisi, e cerchiamo d’immaginare un terzetto di personaggi contemporanei che mi consenta di operare una sintesi analoga: tre figure socioculturali emblematiche che incarnino più o meno compiutamente espressioni generali dell’individuo, della cultura e della comunicazione con la stessa pregnanza del precedente terzetto e - perché no... - con la stessa bellezza estetica della traduzione musicale nei Carmina Burana.

Francesco d'Assisi che asciuga le lacrime
(affresco del sec. XIV, rielaborato nel sec. XVII).
Ebbene, per quanto riguarda i miei sforzi, l’insuccesso è totale: non ho trovato alcunché che possa fungere da equivalente moderno dell’allegoria dei tre viandanti, dei Carmina ecc., né un qualcosa di concreto e visibile che mi consenta di collegare metaforicamente le moderne esigenze dell’individuo, con le moderne esigenze della cultura e della comunicazione. Né sintesi, né produzione mentale, né rappresentazione visiva, letteraria o sonora.
Ho deciso allora di ricorrere a una soluzione di compromesso e di accettare la prima immagine che, per associazione di idee, mi fosse passata per la testa, onde poterla poi confrontare con la sinteticità, la storicità e l’unitarietà della rappresentazione trinitaria di cui sopra. Ed è così che, volente o nolente, mi si creda o no, l’immagine che è apparsa con maggiore nitore alla mia mente è stata quella di un grande giornalista del nostro tempo: Giorgio Bocca [nato nel 1920, è morto nel 2011 (nota aggiunta nel 2012)].
Mi sono quindi immaginato questo bastian-contrario di professione del nostro tempo impegnato a camminare sulla stessa strada campestre, a luglio del 1992. E la prima constatazione che mi son trovato costretto a fare è che non si tratta di un individuo. Intendo dire che se ci riferiamo a un uomo in carne e ossa che cammina, mangia, defeca e intreccia rapporti con gli altri, Bocca sarebbe un individuo come chiunque di noi. Ma se ci riferiamo al giornalista, all’autore di libri e reportage, alla sua malcelata aspirazione a fungere da maître-à-penser della nostra misera Italietta (da lui tanto e giustamente disprezzata), appare evidente che non ci troviamo davanti a un individuo reale, ma davanti a un’immagine.
Un’immagine che si è separata dall’individuo e che procede ormai per una propria strada, fatta di apparizioni televisive, compromessi o litigi con direttori di quotidiani. Un’immagine prodotta, trasmessa e amplificata dai media o se volete da quel settore della società dello spettacolo che tenta di affabulare le nuove generazioni di sinistra col mito della guerra partigiana (priva di connotati classisti e allo scopo Bocca funziona benissimo), con un laicismo superficiale o col mito dell’indipendentismo-in-carriera (un ossimoro incarnato alla perfezione dall’esempio da me scelto a illustrazione metaforica della figura di non-individuo, intesa come immagine puramente mediatica costruita dal sistema della comunicazione dei nostri giorni). In quanto personaggio relativamente televisivo, Bocca rimanda in forma più o meno critica al sistema di potere della televisione (di cui parleremo); come autore di libri, rimanda al sistema di potere editoriale; come giornalista, rimanda in forma più o meno critica al sistema dei quotidiani e alla loro opera di massiccia falsificazione della realtà sociale e politica in cui viviamo. Nel suo insieme rimanda al sistema delle comunicazioni di massa, versante culturale e in cerca di dignificazione.
E mi compiaccio di aver scelto la figura di uno degli esponenti meno corrotti o meno disonesti nell’àmbito del giornalismo italiano, perché in tal modo l’attenzione si rivolgerà più facilmente al dato oggettivo, cioè all’opera di Grande falsificazione realizzata collettivamente dal sistema della disinformazione privata e di Stato (con o senza la complicità dei vari Bocca o non-Bocca), indipendentemente dalla volontà, capacità od onestà del singolo giornalista. Un giornalista - quello di cui stiamo parlando - che in quel sistema si è formato e che, nella fattispecie, ha dimostrato anche discrete qualità nel campo della comunicazione e della cultura (come storico, redattore di inchieste, difensore del garantismo in campo giudiziario ecc.). Insomma, Bocca ci offre un’immagine equilibrata, dignitosa e medio-alta in senso culturale di un modello «critico» di giornalismo, comunque asservito alle esigenze mediatiche del sistema, ma apparentemente rispettoso dei princìpi liberaldemocatici sui quali quel tipo di giornalismo sorse e dovrebbe in teoria continuare a poggiare.
Laddove se avessi scelto l’immagine di un Maurizio Costanzo - tanto per citare un esempio noto anche a uno come me che la televisione non l’ha e non l’ha mai avuta - saremmo scesi inesorabilmente al livello della cultura bassa, molto-bassa, e avremmo dovuto rinunciare immediatamente alla ricerca di una qualche qualità simbolica in questo secondo tipo di giornalista che fosse funzionale alla nostra rappresentazione metaforica unitaria e trinitaria allo stesso tempo.
Paradossalmente, non avrebbe funzionato nemmeno il ricorso all’immagine di un grande scienziato o di un grande artista, perché ci saremmo trovati sbilanciati troppo sul lato della cultura alta o molto-alta. Con Bocca abbiamo un livello intermedio soddisfacente, un equilibrio tra aspirazione a una cultura medio-alta e il compromesso serrato con una realtà quotidiana fatta di cultura popolare media o bassa: verrebbe quasi da dire un equilibrio nazional-popolare - che a Bocca non piacerebbe di certo vedersi attribuire...
Spero quindi di essermi spiegato e che siamo d’accordo: nel quadro della nostra rappresentazione allegorica, sulla stradina assisiate dei giorni nostri non marcia un individuo, ma un’immagine, anche se emblematica e sufficientemente rappresentativa dei «vizi e pubbliche virtù» dell’epoca in cui viviamo.

3. Non è espressione unitaria di cultura

Attraverso questa immagine non marcia la Cultura, e nemmeno una specifica dimensione della cultura stessa o di una qualche importante sottocultura. Chi se la sentirebbe di dire che un giornalista, sia pure del livello e delle capacità di Bocca, possa oggi fornire una testimonianza attendibile o significativa del mondo culturale in cui viviamo?
L’organizzazione della cultura, il sistema della sua produzione, riproduzione e diffusione ha raggiunto gradi di tale complessità che nemmeno il più enciclopedico degli intellettuali viventi potrebbe aspirare a darne una rappresentazione o una sintesi in prima persona: né come individuo, né come lobby giornalistica, né come équipe di ricerca, né come corrente di pensiero ecc. Laddove nelle epoche di passaggio dall’Alto al Basso medioevo e al Rinascimento avremmo potuto raffigurare nelle personalità di qualche grande umanista una sintesi culturale rappresentativa, un’espressione esauriente e complessiva del meglio della cultura dell’epoca. Ma è chiaro che per figure storiche e simboliche allo stesso tempo - come un Marsilio Ficino, un Leonardo da Vinci o, più tardivamente, un Giordano Bruno - non c’è più spazio ai giorni nostri, a causa ancora una volta della complessità e dell’ampiezza dello sviluppo nelle singole arti di cui è composta la cultura media o medio-alta (senza parlare di quella alta), e quindi a causa dei livelli specialistici richiesti nelle singole competenze, si tratti di un matematico, di un anatomista, di un pittore o di un ingegnere.
E al di là della complessità del sistema e dell’inadeguatezza dei soggetti che lo rappresentano, non va dimenticato anche il problema dei luoghi in cui avviene la produzione culturale: luoghi ormai sfuggenti, spesso impalpabili, sempre e comunque condizionati dal denaro, dall’affiliazione politica, dalle esigenze della società spettacolare di massa. Tema che qui tralasciamo, ma che meriterebbe un approfondimento.

4. Non è espressione unitaria di comunicazione

Ora dobbiamo chiederci se questo non-individuo, che non trasporta cultura, sia veicolo almeno di comunicazione. Trattandosi di un giornalista noto e di un personaggio noto al mondo televisivo, la risposta più naturale e più banale sembrerebbe essere di tipo affermativo. Caspita! come non riconoscere che Bocca o l’immagine giornalistica che a lui è associata (o che a lui si sostituisce) trasmette messaggi, amplifica problematiche, connette contesti comunicativi diversi tra loro: insomma, che fa da ponte mediatico tra elementi diversi e costitutivi del sistema delle comunicazioni di massa.
Ebbene, questo terzo elemento del mio quesito trinitario era indubbiamente il più insidioso e apparentemente il più scontato. Ho quindi dovuto rifletterci sopra più a lungo, arrivando ancora una volta ad una constatazione negativa: no, sulla stradina assisiate ecc. ecc., l’immagine del celebre giornalista non porta con sé nemmeno comunicazione, in un senso complessivo, emblematico e strutturalmente integrato.

4a. Non la può portare intanto per una constatazione strumentale, materiale in tal senso. Il menestrello medievale o protorinascimentale portava con sé gli strumenti con cui comunicare, dei quali in genere aveva anche la proprietà: la voce, la ghironda, il liuto, un tamburo o in casi particolari (per es. nel teatro di strada) anche abiti di scena. Se un qualsiasi Bocca o esperto attuale in comunicazioni di massa dovesse portare con sé il proprio strumentario professionale, non basterebbero cinque furgoni a contenere l’apparato televisivo trasmittente, microfoni e amplificazioni, le rotative, le linotypes, i computer o le collezioni d’archivio della stampa quotidiana, classificata per date e argomenti (senza la quale il giornalista si sentirebbe praticamente nudo). [Quest’ultima considerazione è certamente obsoleta alla luce dello sviluppo informatico che i sistemi di archiviazione e catalogazione hanno da allora raggiunto nel web, con Wikipedia, Google ecc. (nota del 2012)].
E non potrebbe certo accontentarsi di possedere e trasportare redazioni o proprietà di testate giornalistiche solo italiane, perché anche nel mondo delle comunicazioni di massa è in atto ormai da tempo un processo di multinazionalizzazione della stampa, delle case editrici, delle Tv, di concentrazione internazionale delle testate giornalistiche e televisive. È notizia di ieri [9 luglio 1992], tanto per citarne una, che il gruppo proprietario de la Repubblica ha acquistato il 17% di un quotidiano portoghese, semplicemente così, come se fosse la cosa più normale del mondo... giornalistico. E ben altri massicci spostamenti di proprietà dei quotidiani e dei grandi gruppi editoriali sono in corso da decenni, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi: negli Usa ancora da prima.

4b. Ma il giornalista da noi scelto ad emblema non può portare o trasmettere la comunicazione con un minimo di compiutezza o rappresentatività soprattutto per ragioni ideologiche, in ultima analisi anche politiche. Il patrimonio culturale di cui egli è espressione è solo una componente (più o meno importante, se ne può discutere) del sistema culturale dominante. Tale sistema è costituito dall’accumulo ed elaborazione di informazioni, notizie, manifestazioni artistiche, trasformazioni linguistiche ecc. realizzate nei secoli, lungo tutto l’arco di permanenza della borghesia al potere. Ed esso riflette bene o male le differenziazioni molteplici e profonde che il tempo e la lotta di classe hanno operato all’interno di questa classe sociale, un tempo rigidamente nazionale ed ora in via di crescente internazionalizzazione (anche se ancora non ha tagliato la sua genetica identificazione con i singoli Stati nazionali, Paese per Paese).
Anche un giornalista borghese cult e colto come Bocca non parla a nome dell’intero fronte sociale della borghesia, e men che mai dell’insieme dei partiti politici che la rappresentano o con cui essa volta a volta decide di stabilire un rapporto privilegiato (dall’estrema destra alla cosiddetta «estrema sinistra»). Il nostro giornalista-simbolo, quando non parla o scrive a nome semplicemente di se stesso, lo fa a nome di una frazione del fronte borghese, una frazione per giunta sfuggente e camaleontica, in continua trasformazione. Tale frazione è a sua volta soggetta - come la classe sociale madre - alle pressioni del mutamento politico e sociale che non ha più i ritmi secolari dell’anno 992 e di gran parte del millennio successivo, ma va via via acquisendo ritmi sempre più rapidi e incontrollabili, caratteristiche sempre più mutevoli.
Insomma, egli non trasmette comunicazione autentica 1) perché non parla a nome dell’intera classe sociale borghese e nemmeno di sue componenti decisive; 2) perché non può parlare delle trasformazioni che intervengono nel corpo sociale in tempo reale, non può adeguare la propria analisi ai ritmi frenetici del cambiamento sociale e culturale; 3) perché deve misurarsi in continuazione con le ricadute di tale cambiamento in campo politico: non a caso Bocca ha saggiamente deciso di tenersi fuori della mischia, preferendo autoconsiderarsi un anacronismo vivente con il suo esplicito richiamo ai princìpi fondatori di Giustizia e libertà e del Partito d’azione.
Va aggiunto poi che non può parlare nemmeno a nome di una presunta opposizione sociale e politica che è a sua volta frammentata e restia a riconoscersi nel messaggio di questo o quel tribuno (nel senso della «Tribuna politica»), di questo o quel personaggio presuntamente carismatico, di questo o quel segretario di partito, di questo o quell’anchor-man della sinistra [quale sarà di lì a breve Fausto Bertinotti (nota aggiunta nel 2012)].
Frammentarietà, dispersione, impossibilità di sostenere i ritmi frenetici del mutamento... sono alcuni degli elementi che contribuiscono a fornire un quadro realistico della «minoritarietà» con cui riesce a viaggiare oggigiorno il messaggio di un singolo intellettuale (giornalista, politico, cardinale, barone universitario o sindacalista che sia), anche se bravo, anche se preparato, anche se usufruttuario alla grande di privilegi materiali e professionali.
Alla frammentazione e alla diversificazione del corpo sociale (e dei suoi processi riproduttivi) corrisponde un’analoga frammentazione e diversificazione del sistema comunicativo di massa: anzi, potremmo dire che questo lo è in misura maggiore e per tale ragione contribuisce a frammentare e diversificare ulteriormente il tessuto sociale. I chierici vaganti o i menestrelli, con i loro Carmina Burana - presi ad emblema come precedentemente spiegato - unificavano, omogeneizzavano e facevano circolare un certo tipo di cultura che, pur non essendo espressione di tutta la società del tempo, ne rappresentava tuttavia settori cospicui (dal mondo religioso a quello universitario, dal commercio al nascente mondo dello spettacolo in via di istituzionalizzazione), strati di classi sociali in ascesa, a volte il «meglio» sotto il profilo qualitativo della borghesia in formazione, poi emergente e finalmente dominante. (A questo riguardo la nostra allegoria potrebbe spingersi avanti nel tempo e provare a ripartire con tre diverse figure della fine del ‘700, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi: chissà se e quanto potrebbe fiunzionare).
Non sarebbe così infondato applicare agli strati socioculturali in ascesa di quel passato in lenta trasformazione la definizione coniata dalla sociologia moderna (da Mosca o Pareto in poi) di élites. Che sia valida o no la retrodatazione del termine, resta il fatto che quelle élites «medievali» rappresentavano comunque la parte più operosa, studiosa, critica e modernizzante della società del loro tempo: esse davano un contributo essenziale e decisivo alla diffusione del meglio che «l’intellighenzia di massa» di ciascun’epoca era in grado di produrre. E che altre élites si premuravano di diffondere in senso geografico e sociale.
Si converrà che nulla di tutto ciò si può applicare alle moderne caste dei giornalisti, degli accademici, dei politici, dei detentori del controllo sulle comunicazioni di massa. Nella nostra epoca non esiste più il corrispettivo in termini qualitativi dei chierici vaganti, dei giullari, degli alchimisti o dei predicatori dell’epoca. Solo le figure corrotte degli uomini di corte, dei cortigiani servili e voltagabbana, sembrerebbero trovare una qualche analogia con le attuali caste partitiche, parlamentari o radiotelevisive. Ma gli appetiti e l’influenza corruttrice di queste moderne caste cortigiane sono molto più profondi e assolutamente non-paragonabili sul piano quantitativo con quelli dei loro colleghi medievali.

4c. Potrei aggiungere delle considerazioni sul fatto che oggigiorno non esistono «informazioni», manifestazioni «artistiche» o contenuti culturali che non siano riconducibili ai principali schieramenti politici che in ogni Paese industrialmente avanzato determinano il buono e il cattivo tempo nella vita parlamentare quotidiana, riempiendo i «tempi morti» tra una campagna elettorale l’altra. In Paesi come l’Italia, la Francia o la Germania (ma perché non pensare anche ad alcuni Paesi latinoamericani) - in cui il sistema dei partiti domina quasi totalmente l’insieme delle manifestazioni culturali, le occasioni di ascesa in carriera o la presunta professionalizzazione degli operatori culturali stessi - la cosa è più che evidente. E l’influenza del sistema dei partiti sulla diffusione della comunicazione ne costituisce un cancro interiore, un elemento ulteriore di frammentazione che condanna la comunicazione stessa a un’inesorabile e sempre più rapida vanificazione in termini storici.
Di tutto il bla-bla politico quotidiano (dai telegiornali alle Tribune televisive, dai congressi-spettacolo alla crescente omologazione della stampa di partito e non) è sempre più insignificante la parte d’informazione che si sedimenta nel tempo e si trasforma in messaggio duraturo. Lo scadimento di livello nella discussione, la superficialità delle analisi, l’ostilità pregiudiziale verso le esigenze dell’elaborazione teorica, il ricorso spregiudicato al pragmatismo politico del «meno peggio», l’assimilazione genetica della sciagurata teoria del fine che giustifica i mezzi (in Italia massimamente rappresentata dal togliattismo), fanno ormai chiaramente intendere che con questo ritmo di vanificazione non si accantonerà più nulla per il futuro, non resterà granché in termini qualitativi o propositivi su cui possano crescere e misurarsi le nuove generazioni, le nuove élites del pensiero, politico o non.
Mi riferisco ovviamente a tutti: al mondo della destra, del centro, della sinistra e, fatto nuovo rispetto al dopoguerra (almeno dalla fine degli anni ‘60), anche dell’estrema sinistra.
Eppure, mentre questo scadimento generale s’intensifica, il Defensor Pacis di Marsilio da Padova (1275-1342) - per citare a simbolo una grande opera che fece arrabbiare la Chiesa molto prima di Erasmo e di Giordano Bruno - continua ad essere pubblicato, letto e commentato. Per giunta con piacere e costrutto. Altri testi-simbolo destinati a permanere nel tempo si potrebbero facilmente elencare, anche perché non sono molti. Appunto...

4d. Nell’anno 992 non vi era nulla che si potesse considerare prodromo o espressione pionieristica del danno epocale che oggigiorno il sistema dei partiti opera sulla crescita e la diffusione di un’autentica cultura di massa, e quindi nessun paragone è possibile. Solo la Chiesa cattolica - grazie alla sua relativa inamovibilità nel corso dei secoli - ha conservato un ruolo paragonabile a quello che essa stessa ebbe allora, ma tale aspetto esula dalla nostra riflessione. Laddove si sarà notato che il monaco (o il frate) - grande figura dell’anno 992, se non dell’intero Medioevo, dotata di grande e suggestiva forza - non è stato da noi incluso nel terzetto di allegri compagni da cui abbiamo preso avvio.
Una scelta deliberata, giacchè la figura reale o simbolica del frate escludeva un tempo l’espressione di una propria individualità. Per definizione essa doveva annullarsi in Gesù/Dio (specie se francescano, minorita e spirituale) e, anche se predicatore, non doveva diffondere nulla di nuovo fuori delle mura del convento o dell’Ordine, oltre al messaggio cristologico variamente interpretato. Ma va ugualmente riconosciuto che molti di quei frati - a partire dall’Ordine benedettino ma non solo - stavano dando inconsapevolmente un contributo fondamentale alla preservazione della cultura classica («alta» in questo senso) tramite il loro lavoro di copisti amanuensi. Un lavoro che essi compivano, tuttavia, come atto di mortificazione di se stessi, del proprio io, e di devozione nei confronti del divino e senza alcuna ambizione traducibile in termini di incremento o estensione della «comunicazione di massa», come la si sarebbe potuta intendere all’epoca. In termini letterari quel mondo intellettuale è stato magnificamente ricostruito da Umberto Eco ne Il nome della rosa.
No. Il frate predicatore o amanuense o martire in eresia, decisamente non si sarebbe potuto accompagnare al nostro allegro terzetto. Ma non per questo si deve trascurare l’importanza della sua opera nella collettività dell’Ordine o, in certi casi, della sua testimonianza personale. Qui ad Assisi non ho bisogno di dilungarmi sul tema, anche se mi piacerebbe aprire un capitolo sulle raffigurazioni artistiche di alcune delle cose alle quali sto accennando.

5. Società spettacolare di massa

Spero che il procedimento da me avviato con l’immagine allegorica del terzetto unitario sia stato in primo luogo gradevole e divertente per chi mi ascolta. In secondo luogo sia stato comprensibile e in terzo luogo utile. La mia ambizione inconfessata era infatti di riassumere in poche frasi e immagini-simbolo il senso ultimo delle biblioteche di volumi che hanno descritto o ricostruito il modo in cui siamo passati dalle culture fondamentalmente orali (quelle cioè fondate sulla trasmissione della parola, che dal canto loro hanno continuato ad essere in auge anche in epoche in cui la scrittura si diffondeva e si tramandava in forma amanuense) alle culture tipografiche (èra Gutenberg, cioè quando si è cominciato a far viaggiare la scrittura, riprodotta a stampa, al posto delle parole), per giungere all’epoca attuale costituita da culture basate prioritariamente su immagini (rappresentazioni visive, filmiche o telematiche): un’epoca, va detto, che è dominata dalla mercificazione spettacolare di qualsiasi manifestazione culturale - creativa o conformista che sia, individuale o di massa che sia.
Mi riferisco ovviamente alla visione critica del nuovo modo di dominazione sulla vita culturale e sul sistema delle comunicazioni che nel suo libro del 1967 Guy Debord definiva come società dello spettacolo. Al quel testo e successive interpretazioni si rimanda.
La rappresentazione in video (come televisione, elaborazione computerizzata, comunicazione telematica ecc.) e gli altri sistemi di produzione e diffusione di immagini che il progresso scientifico renderà via via sempre più «economici» - quindi fruibili in tempo reale e disponibili per il consumo da parte di milioni e ben presto miliardi di persone - concentrano in sé il controllo di tutte le forme di comunicazione di massa definibili come tali. Cioè tutte le forme di comunicazione trasferibili in supporti concepiti in base a criteri di tecnologia industriale, quindi riproducibili, quindi commerciabili e consumabili a titolo individuale, di gruppo, di etnia, di nazione, di massa e... di intera umanità, se potessero agire in forma del tutto incontrastata le leggi di mercato.

6. Cinema

Si sarà notato che finora non ho nominato né coinvolto nella critica della società videodipendente il cinema, inteso come mondo della produzione filmica. Forse ciò dipende da una mia debolezza personale, dal fatto che non riesco a riprendermi dai postumi di un precoce amore giovanile nutrito verso la Decima musa (o Settima arte). Continuo a pensare, infatti, che tale mondo abbia caratteristiche proprie, specifiche di linguaggio, nobili e contemporaneamente plebee fin dalla nascita, non riducibili comunque al fatto spettacolare in sé o al rapporto di videodipendenza che anche il cinema avrebbe potuto indurre nello spettatore, ma di fatto non ha indotto. Sappiamo oggi che ciò non è accaduto: la videodipendenza non è cominciata in campo cinematografico, bensì televisivo ed è lì che ha originariamente attecchito.
Il cinema può essere considerato essenzialmente (e chissà fino a quando) uno strumento d’intrattenimento figurativo, più e forse meglio di quanto poteva esserlo stato in passato il teatro nelle sue varie forme (dall’atellana alla neoavanguardia, passando per le sacre rappresentazioni, il teatro di strada ecc.), rispetto al quale esso si situa in diretta linea ereditaria. Nonostante i grandi progressi tecnologici che si verificano anche in questo campo, il cinema conserva - e anzi sembra accrescere col passare del tempo - le proprie caratteristiche costituive nonché le sue grandi potenzialità, che possono essere valorizzate in maggiore o minore misura a seconda dei periodi e dei luoghi. Ciò vale in rapporto a criteri di godibilità estetica, creatività artistica, indagine psicosociologica, sintesi storiografica, affabulazione allegorica, narrazione pura e semplice e via discorrendo a seconda dei generi, degli autori, dei committenti e delle correnti cinematografiche.
Forse m’illudo sull’autonomia di risorse del linguaggio filmico, ma vorrei ugualmente tentare di tenere la capacità evocativa di certo cinema (e di certo teatro, ovviamente) fuori della mia critica rivolta ai processi degenerativi della società dello spettacolo e alla crescente invadenza delle comunicazioni di massa, televisive e telematiche. Il tempo deciderà quanto giustificato sia questo evidente favoritismo per le opere destinate al grande schermo.

7. Invadenza globalizzante (totalitarismo) della televisione

Molti hanno scritto e ancor di più si scriverà nel futuro sul declino o fine dell’èra indicata come «Galassia Gutenberg»: una definizione molto bella e suggestiva, anche se formulata con scarse capacità analitiche e in un pessimo libro (tanto celebrato e citato, ma evidentemente non altrettanto letto) di Marshall McLuhan. Col termine, entrato ormai nel linguaggio corrente, ci si riferisce al processo - ben tracciabile storicamente - che vede la scrittura cedere il passo in forma via via crescente al potere iconico: il potere delle immagini o lo si chiami come si vuole.
Per amore di sinteticità dirò subito che vivendo da contemporanei nel pieno di questo processo, la nostra mente va soprattutto allo strumento televisivo (e per induzione al mondo che vi ruota intorno), trascurando per economia di discorso tutto ciò che di bello o di utile continua a tramandarsi o a nascere in campo visuale: dalla sempre più perfetta riproducibilità tecnica, quindi industriale e di massa, dei prodotti delle arti plastiche e figurative - che li rende oggigiorno godibili anche «a domicilio» per buona parte dell’umanità, anche se privi dell’aura «cultuale» di cui parlava W. Benjamin (nel celebre saggio del 1935/39) - all’immediatezza comunicativa di un certo tipo di cinema, cui si è sopra accennato; dalla crescente integrazione simbiotica delle varie arti in prodotti multimediali (video, poesia, letteratura, cartoni animati, musica, colori, suoni, odori, tecniche varie di pluridimensionalità) all’uso o ricostruzione di scenari realmente o presumibilmente esistiti come supporto agli studi di paleontologia, archeologia, storiografia, ecc., alla didattica scientifica e letteraria in generale.

7a. La prima inconfondibile caratteristica della televisione - che nessun mezzo di comunicazione ha mai avuto nel passato - è il suo carattere globale, totalizzante potremmo dire: essa concentra in sé la rappresentazione mediatica (a volte posticcia, sempre artificiale) del tutto nella nostra epoca: vale a dire, tutto ciò che l’umanità produce, in qualsiasi campo, in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi congiuntura storico-politica, in qualsiasi forma (fisica o virtuale). Nel sistema televisivo sono confluite (senza speranza di ritorno indietro e rinunciando alla propria autonomia) tutte le precedenti forme di comunicazione.
Esso ha assorbito tutte le specifiche forme di scrittura (letteraria, erotica, volgare, poetica, politica, pubblicitaria ecc.); ha fatto suo appiattendolo il monopolio dell’informazione quotidiana o settimanale un tempo detenuto dai periodici nella loro pluralità di stili e di correnti di pensiero (quanti non comprano più il giornale in edicola perché tanto c’è il Telegiornale...).
Ha soppiantato le funzioni tradizionali dell’editoria, sia sostituendosi ai «riti di iniziazione letteraria» classici (perché leggere i romanzi di Salgari dopo aver visto la grottesca serie cinetelevisiva dedicata a Sandokan?); sia assumendosi (aggiudicandosela in aste virtuali e truccate) l’autorità letteraria per stabilire quali libri vadano letti da masse di plebe incolta, quali debbano vincere i sempre più numerosi premi letterari, quali vadano indirizzati a speciali nicchie di mercato, fossero pure costituite da irriducibili bastian-contrari della cultura dominante. Il trattato di psicologia scritto da un noto calciatore potra competere nel mercato librario-teledipendente solo con il manuale di tecnica calcistica scritto da un noto psichiatra. E poiché a questo siamo già arrivati da tempo, non resterebbe che recitare il de profundis per l’indipendenza creativa dell’opera letteraria, di narrativa o di saggistica - intesa in termini editoriali e ammettendo che una minima autonomia dell’individuo creatore possa ugualmente restare intatta, ma a caro prezzo, a fatica, fuori dei canoni editorial-televisivi.
Più banalmente: quanto tempo di vita trascorso davanti al televisore viene tolto alla lettura? Che io sappia non esistono indagini sull’argomento e se tali confronti si dovessero fare, il mondo editorial-televisivo farebbe di tutto per non farli emergere.
Il mondo delle arti figurative subisce un’influenza devastante pari se non peggiore a quella qui indicata per l’editoria, secondo meccanismi analoghi. Per non parlare del mondo della musica, sia classica, sia delle nuove generazioni (dal rock consumistico ai megaconcerti, raves in diretta ecc.).
7b. Né è necessario aggiungere parole al fenomeno del tifo calcistico - e via via di tutti gli altri giochi di squadra in genere - ormai totalmente identificato con riti spettacolari trasmessi essenzialmente attraverso i canali televisivi. I riti del tifo calcistico - siano essi allo stadio, in casa o nelle strade - riescono a coinvolgere milioni di individui (prevalentemente maschi), alimentando la loro fanatizzazione o comunque l’aggravamento di uno stato più o meno temporaneo di alterazione mentale. Ciò avviene con frequenza crescente in ogni luogo del Paese, nella maggior parte dei Paesi e in ore diverse della giornata, avendo reso definitivamente indifferente il fatto che solo un’infinitesima parte di costoro potrebbe  assistere alle partite direttamente negli stadi. Penso che il fenomeno sia comunque noto e poco vi sia da aggiungere sull’imbarbarimento di massa che si esprime attraverso il tifo calcistico e che il sistema televisivo incoraggia in tutti i modi, scoperti e camuffati.
Per l’altra grande fonte di fanatismo irrazionale - la moda (questa volta prevalentemente femminile, ma non solo) - la televisione esercita un ruolo analogo a quello del tifo calcistico (con pubblicità e sfilate di modelli), anche se in forme molto diverse e, occorre dirlo, con finalità che possono essere anche d’ordine estetico.

7c. E di mio aggiungerei anche un riferimento alla religione - in Italia soprattutto cattolica, ma altrove corrispondente all’egemonia che riesce ad esercitare questa o quella delle tre grandi religioni monoteistiche o comunque delle religioni rivelate. Nelle sue manifestazioni cultuali, la religione cattolica si può considerare come una forma particolare e spettacolare di comunicazione di massa. Mentre la televisione si sta dimostrando sempre più come uno strumento «onnipotente» di propaganda religiosa e di emarginazione degli antireligiosi, degli atei, degli agnostici, dei liberi pensatori in genere, ma anche dei seguaci di altre religioni, dei cristiani protestanti ecc.. Il controllo totale e indiscusso che il Vaticano esercita sul sistema televisivo italiano e sul suo indotto è diventata l’arma principale di clericalizzazione della vita sociale e culturale del popolo, dello Stato, delle istituzioni, dell’infanzia, della vita scolastica ecc., e di soffocamento di qualsiasi istanza libertaria o di autonomia di pensiero. Sul terreno televisivo il Vaticano ha giocato la su più importante partita negli anni ‘50, vincendola fin dagli inizi e stravincedola quando il clericalismo ha cominciato a permeare di sè anche anche l’ex sinistra (in Italia, dalla fine degli anni ‘70 in poi).
Attenzione, perché attraverso il controllo del sistema televisivo, il Vaticano rafforza ulteriormente anche la sua possibilità di controllo sul sistema scolastico, che comunque è già totalmente asservito alle esigenze della Chiesa sotto vari profili (contenuti della didattica, insegnamento della religione, cerimonie che accompagnano le festività per-lo-più-religiose, assunzione degli insegnanti di religione, presenza ossessiva della simbologia cristologica ecc.). Attraverso il meccanismo televisivo, questo controllo ecclesiastico e di massa sulle coscienze si rafforza e giunge a una situazione di quasi monopolio.

8. Dove stiamo andando? Impotenza della fantapolitica

Che si sia d’accordo o no con questa descrizione distopica dell’universo orwelliano - in cui l’azione congiunta delle comunicazioni di massa (assorbite prevalentemente dal mondo televisivo, dalle immagini prodotte o trasmesse via video, dalle nuove potenzialità dei computer), tende a pervadere in senso totalitario la vita della gente - su una constatazione si può convergere: il sistema della comunicazione culturale nella nostra epoca non è più riducibile o affidabile a un individuo, anche se particolarmente dotato di qualità carismatiche (penso in primis al grande comunicatore che fu Francesco d’Assisi in ambito mediterraneo - cioè nel «mondo» culturale di allora) e nemmeno a un gruppo collettivamente strutturato di individui: la mente può andare alla Compagnia di Gesù oppure a celebri Scuole filosofiche che erano a volte egemonizzate da eminenti personalità cattoliche (francescane e non solo) nei grandi centri universitari come Oxford, Praga, Parigi, Bologna ecc.
Dirò di più: tale sistema non è più riducibile nemmeno a un’unica casta politica (come poteva essere il Partito fascista di un tempo) e nemmeno a un’unica classe sociale, per quanto integrata e omogenea questa possa essere al proprio interno. Non esiste una classe sociale che possa garantire il controllo di un sistema così diversificato nelle sue innumerevoli ramificazioni e allo stesso tempo così scopertamente monopolico nell’esercizio del potere e nella sua opera di commercializzazione e spettacolarizzazione di ogni forma di attività umana.
Alle considerazioni ovvie che un sociologo farebbe sulla diversificazione sociale delle  classi o fronti di classi, di strati, ceti ecc., andrebbe aggiunta la rivoluzione operata dallo sviluppo tecnologico nell’ambito delle comunicazioni di massa o mass-media. Tale rivoluzione non si è fermata alle soglie della teletrasformazione totalitaria della vita sociale e culturale, ma è proseguita con passo via via più affrettato e ha ormai dei ritmi d’innovazione dei quali nessun soggetto politico, economico o scientifico può garantire più il controllo. E il divario tra controllo tecnologico e controllo sociale è destinato ad approfondirsi nel tempo, in forma via via più accellerata.
Sotto questo profilo è veramente difficile non solo rispondere sul come, ma anche immaginare dove stiamo andando. E lo sarà sempre di più. Fantapolitica, distopie letterarie e previsioni sociali scientifiche sembrano darsi la mano nella loro incapacità di previsione rispetto al punto di arrivo di tali processi e sui tempi di percorso. Non sappiamo verso dove, né il come, né il quando. Probabilmente non sappiamo nemmeno perché, anche se perlomeno alcuni di noi ancora se lo chiedono. Il presente, però, lo conosciamo o possiamo conoscerlo. O meglio, alcuni di noi possono tentare di conoscerlo.

9. Ritardo della coscienza rispetto allo sviluppo della tecnologia
applicata alle comunicazioni di massa

Viviamo quindi in un ‘epoca in cui nessun individuo e nessun gruppo strutturato di individui - dalle lobbies alle classi sociali dominanti - ha più la possibilità di esercitare un controllo monopolistico totale, duraturo e univoco sul sistema delle comunicazioni di massa. A partire da un certo momento - per alcuni con la radio, per altri con la televisione, per altri ancora con l’adozione del sistema satellitare a partire dal 1973-74 e infine con la creazione di reti comunicative informatiche [la costituzione ufficiale del World Wide Web (www) avvenne l’anno dopo, nel 1993 (nota aggiunta nel 2012)] - il sistema delle comunicazioni è stato investito dallo sviluppo tecnologico, rendendosi via via più autonomo da qualsiasi altra forma di controllo d’ordine sociale, economico o politico.

È stata questa una novità propria dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, che non si era verificata in altre epoche: per es., nella ghironda del menestrello o nella penna d’oca del chierico vagante non si riflettevano i livelli di tecnologia musicologica o scritturale dell’epoca, già allora molto più avanzati. E la stessa identificazione dei media comunicativi con la radio, prima, e con la televisione, poi, è avvenuta con decenni di ritardo rispetto all’elaborazione delle basi scientifiche adottate nella fabbricazione di questi strumenti. È inutile dire che quel ritardo iniziale è stato recuperato e definitivamente scavalcato, essendosi costituita ormai una strettissima interconnessione (interattiva) tra sviluppo scientifico della tecnologia e sua applicazione pratica al mondo delle comunicazioni di massa (nonché della guerra, della ricerca spaziale, dei sistemi di spionaggio ecc.).
Un tempo si ammetteva con Marx che nello sviluppo dell’umanità vi è sempre stato un ritardo della coscienza sulle condizioni di esistenza. Aggiungendo però che l’uomo è stato l’unico rappresentante del mondo animale che non solo è riuscito ad accumulare sapere e su di esso si interroga fin dalle origini, ma a un certo punto - molto presto in termini relativi di storia dell’uomo - ha creato addirittura gli strumenti che consentissero la riproduzione di quel sapere accumulato, con o senza la presenza concomitante degli eventuali inventori, sia nel corso della vita di costoro, sia dopo la loro morte, nel corso dei secoli ecc....
L’elettricità fu forse la prima invenzione tecnologicamente moderna che permise una forte contrazione dei tempi fra applicazione massiccia della nuova tecnologia e suo utilizzo nel campo delle comunicazioni. La radio, la televisione e la stessa cibernetica (ormai detta «informatica» o con termine generico «elettronica») sono figlie di quel balzo in avanti permesso dall’elettricità. Nel futuro dell’uomo, però, la caccia all’innovazione assumerà forme sempre più affannose ed oggigiorno si può cominciare a intravedere o presumere che il prossimo passo - qualitativamente diverso e scientificamente significativo - sarà l’applicazione della fisica atomica al mondo delle comunicazioni di massa.
Se ne vedranno delle belle! e forse ciò si potrà verificare già nelle prossime generazioni, nel passaggio al nuovo millennio, al quale arriveremo prima di un decennio. L’anno Duemila visto sotto il profilo della crescita delle comunicazioni di massa... una fantasia che dà i brividi. E pensare che nella mia infanzia e adolescenza il solo fatto di pronunciare la parola «Duemila» aveva un sapore inequivocabile, evocativo di fantascienza.
Ebbene, come nell’ultimo mezzo secolo i mutamenti più significativi nel comportamento della gente sono stati indotti dalle trasformazioni dei mezzi di comunicazione di massa, non sembra molto difficile prevedere che alle soglie del Duemila e dopo sarà l’applicazione dell’elettronica e delle tecniche di computerizzazione a questi stessi mezzi di comunicazione che indurrà le maggiori e più profonde modifiche nella vita quotidiana delle persone. Un processo che stiamo già vivendo.
Lo sviluppo scientifico avrà una sua piccola parte di responsabilità in questo mutamento, mentre l’applicazione dell’elettronica in forma sempre più massiccia alla tecnologia delle comunicazioni di massa avrà la parte ultramaggioritaria di responsabilità per i prossimi e in larga misura già prevedibili mutamenti antropologici nel campo delle relazioni umane. Si approfondirà e arriverà alle estreme conseguenze un fenomeno già delineatosi nel corso Rinascimento, quando cioè lo sviluppo tecnico-scientifico cominciò a sfuggire al controllo nonché alla comprensione di una massa via via crescente della comunità umana, mentre si approfondiva il distacco sociale con questa stessa comunità da parte degli umanisti-scienziati direttamente coinvolti.
All’«avanguardia» di questo distacco si distinsero senza dubbio i cosiddetti «filosofi». A partire dai primi dell’Ottocento costoro cesseranno di avere rapporti professionali con le arti, la scienza o l’organizzazione del lavoro, diventando nella quasi totalità dei professori universitari: quindi una ben precisa categoria sociale. Nel Kant astronomo e cattedratico le due figure ancora sembrarono equilibrarsi per un po’, ma col trionfo dell’idealismo tedesco la trasformazione dilagò, facendosi maggioritaria e col tempo irreversibile: il mondo dei «filosofi» contemporanei è ormai costituito ovunque da una cosmopolita casta accademica, con crescenti dimensioni di massa, sostanzialmente avulsa dal mondo della scienza, certamente in termini operativi, ma anche in termini teorici.
Questo fenomeno, tuttavia, rientra a sua volta in processi degenerativi della società spettacolare che accomunano i professori universitari «filosofi» ad altre categorie e caste del mondo accademico-intellettuale. Processi degenerativi responsabili per la parte che loro compete del fatto che la coscienza delle comunità umane continuasse a perdere terreno rispetto alla scienza, benché questa stesse trasformando radicalmente le condizioni dell’esistenza.
La religione s’impegnò a fondo e continua a impegnarsi per ampliare questa divaricazione, ma ovviamente furono molti altri i fattori in gioco che diedero avvio al processo che, inarrestabile e sempre più impetuoso, è attualmente in corso.

Hanno ancora senso o sono ormai obsolete le parole del vecchio aforisma per il quale l’umanità sarebbe in grado di risolvere solo i problemi che è in grado di porsi?
Spero che questa mia riflessione - pur non aiutando a rispondere alla domanda - ci invogli perlomeno a porcela.
Non sono amante delle citazioni, forse anche per rispetto dei nostri grandi predecessori che probabilmente sapevano esattamente cosa intendessero dire nel momento in cui pronunciavano certe frasi. Tuttavia, viste le origini dell’organizzazione che mi ha invitato a parlare, vorrei terminare con l’augurio che il prima possibile si arrivi a un sistema sociale in cui si possa  utilizzare lo sviluppo della tecnologia, con le sue possibili applicazioni, solo per la realizzazione dei due fini che Trotsky indicava (in La loro morale e la nostra) come gli unici degni di una prospettiva autenticamente rivoluzionaria: aumentare sempre di più il potere di controllo dell’uomo sulla natura e diminuire sempre di più il potere di controllo dell’uomo su altri uomini.
Ecco, queste sono parole che difficilmente avrebbero potuto pronunciare i tre viandanti della stradina assisiate, ma avendo l’occasione di ascoltarle, forse avrebbero potuto anche condividerle. Ma per quanto riguarda noi contemporanei, quali che siano i  ritardi della coscienza sulle condizioni del’esistenza, quelle parole andrebbero sottoscritte senza esitazioni.



* Relazione al seminario di Socialismo Rivoluzionario/Utopia Socialista
(Assisi, 10 luglio 1992)



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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.