1. «Legenda»
dei tre viandanti
È tutt’altro che facile analizzare in una conferenza il
tipo di rapporti che esistono o si possono stabilire fra i tre elementi
indicati nel titolo. Anche solo sulla reciproca dipendenza di cultura e
comunicazione sono stati versati fiumi d’inchiostro e non si finirebbe mai di
elencare gli studiosi di sistemi sociali e relative comunicazioni di massa che
si sono misurati sul tema. Ma da qualche parte va afferrato il bandolo della
matassa.
Noi proveremo a partire da un’immagine allegorica che,
come tutte le immagini utilizzate in funzione simbolica ed esplicativa,
acquisterà un crescente valore metaforico nel corso dell’esposizione. Con pochi
cenni sintetici e con immagini appropriate tenteremo quindi di trasmettere
delle sensazioni, evitandoci il ricorso a molte o troppe parole.
Fingiamo per qualche momento di trovarci qui ad Assisi, a
luglio dell’anno 992, cioè esattamente mille anni fa. Immaginiamoci in questo
stesso poggio, alle pendici del Subasio, mentre su quel viottolo di campagna
procedono di buon passo tre individui in abiti d’epoca.
Uno di loro potrebbe essere un commerciante diretto per affari a una qualche fiera agricola; o il
membro di una corporazione artigiana;
oppure un nobile che non intende
rinchiudersi in convento onde non fare il secondogenito in casa per il resto
della sua vita e quindi ha deciso di andarsene in giro per il mondo (quello di
allora...). Quale che sia dei tre, possiamo considerarlo a tutti gli effetti un individuo con le caratteristiche
della sua epoca e, nell’ultima ipotesi, addirittura una persona che vorrebbe
sottrarsi ai condizionamenti famigliari o agli obblighi nobiliari vigenti in
quei secoli del medioevo italiano. In ogni caso, una persona consapevole della
propria individualità e intenzionato a difenderla.
Accanto a lui cammina una figura tipica dei secoli
precedenti l’anno Mille: un chierico
vagante, uno studioso di arti varie, uno studente non-universitario solo
perché le università ancora non hanno preso a funzionare (quella di Bologna
ufficialmente comincerà nel 1088, meno di un secolo dopo). Non mancano di certo
centri di raccolta e convivenza degli studiosi, soprattutto nei conventi, per
lo più dedicati all’approfondimento di temi religiosi visto che la cultura
ufficiale, «alta» del tempo, era essenzialmente teologica o comunque
subordinata alle direttive molto poco democratiche del clero cattolico-romano e
delle sue ramificazioni. Si trattasse delle dispute sulle interpretazioni delle
Sacre scritture novellamente tradotte, del moto degli astri o della scala di
creazione degli animali, era comunque la cultura egemone dell’epoca. Chiameremo
quindi sbrigativamente «studente» questa seconda figura e la considereremo come
la più idonea rappresentazione simbolica della cultura media e medievale del
tempo.
Il terzo viandante non può essere altro che un
menestrello, un giullare, un troubadour, un pioniere della lirica occitana,
arrivato in Italia per chissà quale recondita ragione o invitato da chissà chi.
Possiamo immaginarlo con la sua ghironda in un sacco, oppure con un liuto o con
qualsiasi altro strumento musicale a fiato o a corde pizzicate. L’importante è
che si accetti di considerarlo come il più tipico rappresentante della comunicazione dell’epoca. Sappiamo che
questa figura viaggia da una corte all’altra, da un principe all’altro - da
Aquisgrana a Perugia, da Siviglia a Viterbo, da Canterbury a Parigi -
percorrendo spesso e per ragioni più laiche che religiose le stesse strade che
conducono i pellegrini provenienti da altri Paesi (i pionieri del turismo
europeo) lungo la via Francigena fino alla presunta tomba romana dell’apostolo
Pietro o lungo il Cammino di Santiago de Compostela, dove nel secolo precedente
era stata scoperta la presunta tomba di Giacomo il Maggiore. Questa figura di
artista-musico-poeta-viandante incarna in realtà il «giornalista», se non
direttamente il «giornale orale» dell’epoca: è lui che trasferisce le notizie,
i nuovi modi di poetare, la musica e la cultura; lo fa da un villaggio
all’altro, da una sede nobiliare all’altra, da una curia vescovile all’altra.
Non si pensi però che la rappresentazione di queste tre figure,
in marcia congiunta e dirette apparentemente verso un’unica meta, sia una mia
invenzione. In realtà sulla loro convergenza nelle realtà storico-sociali dei
loro tempi e sul ruolo da esse avuto nella diffusione della cultura
«medievale», sappiamo molto, sia grazie alle cronache dei contemporanei, sia
grazie all’opera più recente degli studiosi dell’argomento. Ma ne abbiamo anche
alcune testimonianze - letterarie e musicali allo stesso tempo - nelle canzoni
gogliardiche, di strada o di taverna, conviviali, erotiche, sacromoraleggianti
e financo licenziose, che sono note sotto la denominazione di Carmina Burana.
Ebbene i Carmina
Burana - sulla cui esecuzione reale esiste tutta una diatriba musicologica,
ma che molti di voi avranno apprezzato nella versione musicata da Carl Orff nel
1937 - offrono una rappresentazione unitaria e concentrata delle tre figure
sopraccennate. Prodotti in nessun luogo sociale o geografico specifico, anonimi
ed estranei alla cultura «alta», ufficiale del tempo, questi Carmina venivano
composti, cantati o ascoltati con gran gusto da viandanti, commercianti in
trasferta, chierici vaganti, studenti e menestrelli: un concentrato di cultura
alta e bassa, di lingue nobili (il latino soprattutto, anche se deformato) o
popolari (dall’alto tedesco al volgare italiano); una conoscenza di tradizioni
musicali, dal canto gregoriano alla nuova poesia trobadorica, con cognizioni di
scrittura neumatica; una sintesi effettiva sul piano artistico-popolare delle
correnti spiriturali e di pensiero che potevano essere comuni alle tre figure
che abbiamo scelto come esemplificazione allegorica e punto di avvio del nostro
discorso.
2. Un maître-à-penser
emblematico dei giorni nostri
Facciamo ora un salto di millennio e passiamo all’attuale
anno 1992, nella stessa stradina nei pressi di Assisi, e cerchiamo d’immaginare
un terzetto di personaggi contemporanei che mi consenta di operare una sintesi
analoga: tre figure socioculturali emblematiche che incarnino più o meno
compiutamente espressioni generali dell’individuo, della cultura e della
comunicazione con la stessa pregnanza del precedente terzetto e - perché no...
- con la stessa bellezza estetica della traduzione musicale nei Carmina Burana.
Francesco d'Assisi che asciuga le lacrime (affresco del sec. XIV, rielaborato nel sec. XVII). |
Ebbene, per quanto riguarda i miei sforzi, l’insuccesso è
totale: non ho trovato alcunché che possa fungere da equivalente moderno
dell’allegoria dei tre viandanti, dei Carmina ecc., né un qualcosa di concreto
e visibile che mi consenta di collegare metaforicamente le moderne esigenze
dell’individuo, con le moderne esigenze della cultura e della comunicazione. Né
sintesi, né produzione mentale, né rappresentazione visiva, letteraria o
sonora.
Ho deciso allora di ricorrere a una soluzione di
compromesso e di accettare la prima immagine che, per associazione di idee, mi
fosse passata per la testa, onde poterla poi confrontare con la sinteticità, la
storicità e l’unitarietà della rappresentazione trinitaria di cui sopra. Ed è
così che, volente o nolente, mi si creda o no, l’immagine che è apparsa con
maggiore nitore alla mia mente è stata quella di un grande giornalista del
nostro tempo: Giorgio Bocca [nato nel 1920, è morto nel 2011 (nota aggiunta nel 2012)].
Mi sono quindi immaginato questo bastian-contrario di
professione del nostro tempo impegnato a camminare sulla stessa strada
campestre, a luglio del 1992. E la prima constatazione che mi son trovato
costretto a fare è che non si tratta di
un individuo. Intendo dire che se ci riferiamo a un uomo in carne e ossa
che cammina, mangia, defeca e intreccia rapporti con gli altri, Bocca sarebbe
un individuo come chiunque di noi. Ma se ci riferiamo al giornalista,
all’autore di libri e reportage, alla sua malcelata aspirazione a fungere da
maître-à-penser della nostra misera Italietta (da lui tanto e giustamente
disprezzata), appare evidente che non ci troviamo davanti a un individuo reale,
ma davanti a un’immagine.
Un’immagine che si è separata dall’individuo e che procede
ormai per una propria strada, fatta di apparizioni televisive, compromessi o
litigi con direttori di quotidiani. Un’immagine prodotta, trasmessa e
amplificata dai media o se volete da quel settore della società dello
spettacolo che tenta di affabulare le nuove generazioni di sinistra col mito
della guerra partigiana (priva di connotati classisti e allo scopo Bocca
funziona benissimo), con un laicismo superficiale o col mito
dell’indipendentismo-in-carriera (un ossimoro incarnato alla perfezione
dall’esempio da me scelto a illustrazione metaforica della figura di
non-individuo, intesa come immagine puramente mediatica costruita dal sistema
della comunicazione dei nostri giorni). In quanto personaggio relativamente
televisivo, Bocca rimanda in forma più o meno critica al sistema di potere
della televisione (di cui parleremo); come autore di libri, rimanda al sistema
di potere editoriale; come giornalista, rimanda in forma più o meno critica al
sistema dei quotidiani e alla loro opera di massiccia falsificazione della
realtà sociale e politica in cui viviamo. Nel suo insieme rimanda al sistema
delle comunicazioni di massa, versante culturale e in cerca di dignificazione.
E mi compiaccio di aver scelto la figura di uno degli
esponenti meno corrotti o meno disonesti nell’àmbito del giornalismo italiano,
perché in tal modo l’attenzione si rivolgerà più facilmente al dato oggettivo,
cioè all’opera di Grande falsificazione realizzata collettivamente dal sistema
della disinformazione privata e di Stato (con o senza la complicità dei vari
Bocca o non-Bocca), indipendentemente dalla volontà, capacità od onestà del
singolo giornalista. Un giornalista - quello di cui stiamo parlando - che in
quel sistema si è formato e che, nella fattispecie, ha dimostrato anche
discrete qualità nel campo della comunicazione e della cultura (come storico,
redattore di inchieste, difensore del garantismo in campo giudiziario ecc.).
Insomma, Bocca ci offre un’immagine equilibrata, dignitosa e medio-alta in
senso culturale di un modello «critico» di giornalismo, comunque asservito alle
esigenze mediatiche del sistema, ma apparentemente rispettoso dei princìpi
liberaldemocatici sui quali quel tipo di giornalismo sorse e dovrebbe in teoria
continuare a poggiare.
Laddove se avessi scelto l’immagine di un Maurizio
Costanzo - tanto per citare un esempio noto anche a uno come me che la
televisione non l’ha e non l’ha mai avuta - saremmo scesi inesorabilmente al
livello della cultura bassa, molto-bassa, e avremmo dovuto rinunciare
immediatamente alla ricerca di una qualche qualità simbolica in questo secondo
tipo di giornalista che fosse funzionale alla nostra rappresentazione
metaforica unitaria e trinitaria allo stesso tempo.
Paradossalmente, non avrebbe funzionato nemmeno il ricorso
all’immagine di un grande scienziato o di un grande artista, perché ci saremmo
trovati sbilanciati troppo sul lato della cultura alta o molto-alta. Con Bocca
abbiamo un livello intermedio soddisfacente, un equilibrio tra aspirazione a
una cultura medio-alta e il compromesso serrato con una realtà quotidiana fatta
di cultura popolare media o bassa: verrebbe quasi da dire un equilibrio
nazional-popolare - che a Bocca non piacerebbe di certo vedersi attribuire...
Spero quindi di essermi spiegato e che siamo d’accordo:
nel quadro della nostra rappresentazione allegorica, sulla stradina assisiate
dei giorni nostri non marcia un individuo,
ma un’immagine, anche se emblematica
e sufficientemente rappresentativa dei «vizi e pubbliche virtù» dell’epoca in
cui viviamo.
3. Non è espressione unitaria
di cultura
Attraverso questa immagine non marcia la Cultura, e nemmeno una specifica dimensione della
cultura stessa o di una qualche importante sottocultura. Chi se la sentirebbe
di dire che un giornalista, sia pure del livello e delle capacità di Bocca,
possa oggi fornire una testimonianza attendibile o significativa del mondo
culturale in cui viviamo?
L’organizzazione della cultura, il sistema della sua
produzione, riproduzione e diffusione ha raggiunto gradi di tale complessità
che nemmeno il più enciclopedico degli intellettuali viventi potrebbe aspirare
a darne una rappresentazione o una sintesi in prima persona: né come individuo,
né come lobby giornalistica, né come équipe di ricerca, né come corrente di
pensiero ecc. Laddove nelle epoche di passaggio dall’Alto al Basso medioevo e
al Rinascimento avremmo potuto raffigurare nelle personalità di qualche grande
umanista una sintesi culturale rappresentativa, un’espressione esauriente e
complessiva del meglio della cultura dell’epoca. Ma è chiaro che per figure
storiche e simboliche allo stesso tempo - come un Marsilio Ficino, un Leonardo
da Vinci o, più tardivamente, un Giordano Bruno - non c’è più spazio ai giorni
nostri, a causa ancora una volta della complessità e dell’ampiezza dello
sviluppo nelle singole arti di cui è composta la cultura media o medio-alta
(senza parlare di quella alta), e quindi a causa dei livelli specialistici
richiesti nelle singole competenze, si tratti di un matematico, di un
anatomista, di un pittore o di un ingegnere.
E al di là della complessità del sistema e
dell’inadeguatezza dei soggetti che lo rappresentano, non va dimenticato anche
il problema dei luoghi in cui avviene la produzione culturale: luoghi ormai
sfuggenti, spesso impalpabili, sempre e comunque condizionati dal denaro,
dall’affiliazione politica, dalle esigenze della società spettacolare di massa.
Tema che qui tralasciamo, ma che meriterebbe un approfondimento.
4. Non è espressione unitaria
di comunicazione
Ora dobbiamo chiederci se questo non-individuo, che non
trasporta cultura, sia veicolo almeno di comunicazione. Trattandosi di un
giornalista noto e di un personaggio noto al mondo televisivo, la risposta più
naturale e più banale sembrerebbe essere di tipo affermativo. Caspita! come non
riconoscere che Bocca o l’immagine giornalistica che a lui è associata (o che a
lui si sostituisce) trasmette messaggi, amplifica problematiche, connette
contesti comunicativi diversi tra loro: insomma, che fa da ponte mediatico tra
elementi diversi e costitutivi del sistema delle comunicazioni di massa.
Ebbene, questo terzo elemento del mio quesito trinitario
era indubbiamente il più insidioso e apparentemente il più scontato. Ho quindi
dovuto rifletterci sopra più a lungo, arrivando ancora una volta ad una
constatazione negativa: no, sulla stradina assisiate ecc. ecc., l’immagine del
celebre giornalista non porta con sé
nemmeno comunicazione, in un senso complessivo, emblematico e
strutturalmente integrato.
4a. Non la può portare intanto per una constatazione strumentale,
materiale in tal senso. Il menestrello medievale o protorinascimentale portava
con sé gli strumenti con cui comunicare, dei quali in genere aveva anche la
proprietà: la voce, la ghironda, il liuto, un tamburo o in casi particolari
(per es. nel teatro di strada) anche abiti di scena. Se un qualsiasi Bocca o
esperto attuale in comunicazioni di massa dovesse portare con sé il proprio
strumentario professionale, non basterebbero cinque furgoni a contenere
l’apparato televisivo trasmittente, microfoni e amplificazioni, le rotative, le
linotypes, i computer o le collezioni d’archivio della stampa quotidiana,
classificata per date e argomenti (senza la quale il giornalista si sentirebbe
praticamente nudo). [Quest’ultima considerazione è certamente obsoleta alla
luce dello sviluppo informatico che i sistemi di archiviazione e catalogazione
hanno da allora raggiunto nel web, con Wikipedia, Google ecc. (nota del 2012)].
E non potrebbe certo accontentarsi di possedere e
trasportare redazioni o proprietà di testate giornalistiche solo italiane,
perché anche nel mondo delle comunicazioni di massa è in atto ormai da tempo un
processo di multinazionalizzazione della stampa, delle case editrici, delle Tv,
di concentrazione internazionale delle testate giornalistiche e televisive. È
notizia di ieri [9 luglio 1992], tanto per citarne una, che il gruppo
proprietario de la Repubblica ha
acquistato il 17% di un quotidiano portoghese, semplicemente così, come se
fosse la cosa più normale del mondo... giornalistico. E ben altri massicci
spostamenti di proprietà dei quotidiani e dei grandi gruppi editoriali sono in
corso da decenni, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi: negli
Usa ancora da prima.
4b. Ma il giornalista da noi
scelto ad emblema non può portare o trasmettere la comunicazione con un minimo
di compiutezza o rappresentatività soprattutto per ragioni ideologiche, in ultima analisi anche politiche. Il patrimonio culturale di
cui egli è espressione è solo una componente (più o meno importante, se ne può
discutere) del sistema culturale dominante. Tale sistema è costituito
dall’accumulo ed elaborazione di informazioni, notizie, manifestazioni
artistiche, trasformazioni linguistiche ecc. realizzate nei secoli, lungo tutto
l’arco di permanenza della borghesia al potere. Ed esso riflette bene o male le
differenziazioni molteplici e profonde che il tempo e la lotta di classe hanno
operato all’interno di questa classe sociale, un tempo rigidamente nazionale ed
ora in via di crescente internazionalizzazione (anche se ancora non ha tagliato
la sua genetica identificazione con i singoli Stati nazionali, Paese per
Paese).
Anche un giornalista borghese cult e colto come Bocca non parla a nome dell’intero fronte sociale
della borghesia, e men che mai dell’insieme dei partiti politici che la
rappresentano o con cui essa volta a volta decide di stabilire un rapporto privilegiato
(dall’estrema destra alla cosiddetta «estrema sinistra»). Il nostro
giornalista-simbolo, quando non parla o scrive a nome semplicemente di se
stesso, lo fa a nome di una frazione del fronte borghese, una frazione per
giunta sfuggente e camaleontica, in continua trasformazione. Tale frazione è a
sua volta soggetta - come la classe sociale madre - alle pressioni del
mutamento politico e sociale che non ha più i ritmi secolari dell’anno 992 e di
gran parte del millennio successivo, ma va via via acquisendo ritmi sempre più
rapidi e incontrollabili, caratteristiche sempre più mutevoli.
Insomma, egli non trasmette comunicazione autentica 1)
perché non parla a nome dell’intera classe sociale borghese e nemmeno di sue
componenti decisive; 2) perché non può parlare delle trasformazioni che
intervengono nel corpo sociale in tempo reale, non può adeguare la propria
analisi ai ritmi frenetici del cambiamento sociale e culturale; 3) perché deve
misurarsi in continuazione con le ricadute di tale cambiamento in campo
politico: non a caso Bocca ha saggiamente deciso di tenersi fuori della
mischia, preferendo autoconsiderarsi un anacronismo vivente con il suo
esplicito richiamo ai princìpi fondatori di Giustizia e libertà e del Partito
d’azione.
Va aggiunto poi che non può parlare nemmeno a nome di una
presunta opposizione sociale e politica che è a sua volta frammentata e restia
a riconoscersi nel messaggio di questo o quel tribuno (nel senso della «Tribuna
politica»), di questo o quel personaggio presuntamente carismatico, di questo o
quel segretario di partito, di questo o quell’anchor-man della sinistra [quale
sarà di lì a breve Fausto Bertinotti (nota
aggiunta nel 2012)].
Frammentarietà, dispersione, impossibilità di sostenere i
ritmi frenetici del mutamento... sono alcuni degli elementi che contribuiscono
a fornire un quadro realistico della «minoritarietà» con cui riesce a viaggiare
oggigiorno il messaggio di un singolo intellettuale (giornalista, politico,
cardinale, barone universitario o sindacalista che sia), anche se bravo, anche
se preparato, anche se usufruttuario alla grande di privilegi materiali e
professionali.
Alla frammentazione e alla
diversificazione del corpo sociale (e dei suoi processi riproduttivi)
corrisponde un’analoga frammentazione e diversificazione del sistema
comunicativo di massa: anzi, potremmo dire che questo lo è in misura maggiore e
per tale ragione contribuisce a frammentare e diversificare ulteriormente il
tessuto sociale. I chierici vaganti o i menestrelli, con i loro Carmina Burana - presi ad emblema come
precedentemente spiegato - unificavano, omogeneizzavano e facevano circolare un
certo tipo di cultura che, pur non essendo espressione di tutta la società del
tempo, ne rappresentava tuttavia settori cospicui (dal mondo religioso a quello
universitario, dal commercio al nascente mondo dello spettacolo in via di
istituzionalizzazione), strati di classi sociali in ascesa, a volte il «meglio»
sotto il profilo qualitativo della borghesia in formazione, poi emergente e
finalmente dominante. (A questo riguardo la nostra allegoria potrebbe spingersi
avanti nel tempo e provare a ripartire con tre diverse figure della fine del
‘700, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese in poi: chissà se e quanto
potrebbe fiunzionare).
Non sarebbe così infondato applicare agli strati
socioculturali in ascesa di quel passato in lenta trasformazione la definizione
coniata dalla sociologia moderna (da Mosca o Pareto in poi) di élites. Che sia valida o no la
retrodatazione del termine, resta il fatto che quelle élites «medievali»
rappresentavano comunque la parte più operosa, studiosa, critica e
modernizzante della società del loro tempo: esse davano un contributo
essenziale e decisivo alla diffusione del meglio che «l’intellighenzia di
massa» di ciascun’epoca era in grado di produrre. E che altre élites si
premuravano di diffondere in senso geografico e sociale.
Si converrà che nulla di tutto ciò si può applicare alle
moderne caste dei giornalisti, degli accademici, dei politici, dei detentori
del controllo sulle comunicazioni di massa. Nella nostra epoca non esiste più
il corrispettivo in termini qualitativi dei chierici vaganti, dei giullari,
degli alchimisti o dei predicatori dell’epoca. Solo le figure corrotte degli
uomini di corte, dei cortigiani servili e voltagabbana, sembrerebbero trovare
una qualche analogia con le attuali caste partitiche, parlamentari o
radiotelevisive. Ma gli appetiti e l’influenza corruttrice di queste moderne
caste cortigiane sono molto più profondi e assolutamente non-paragonabili sul
piano quantitativo con quelli dei loro colleghi medievali.
4c. Potrei aggiungere delle
considerazioni sul fatto che oggigiorno non esistono «informazioni»,
manifestazioni «artistiche» o contenuti culturali che non siano riconducibili
ai principali schieramenti politici che in ogni Paese industrialmente avanzato
determinano il buono e il cattivo tempo nella vita parlamentare quotidiana,
riempiendo i «tempi morti» tra una campagna elettorale l’altra. In Paesi come
l’Italia, la Francia o la Germania (ma perché non pensare anche ad alcuni Paesi
latinoamericani) - in cui il sistema dei partiti domina quasi totalmente
l’insieme delle manifestazioni culturali, le occasioni di ascesa in carriera o
la presunta professionalizzazione degli operatori culturali stessi - la cosa è
più che evidente. E l’influenza del sistema dei partiti sulla diffusione della
comunicazione ne costituisce un cancro interiore, un elemento ulteriore di
frammentazione che condanna la comunicazione stessa a un’inesorabile e sempre più
rapida vanificazione in termini storici.
Di tutto il bla-bla
politico quotidiano (dai telegiornali alle Tribune televisive, dai
congressi-spettacolo alla crescente omologazione della stampa di partito e non)
è sempre più insignificante la parte d’informazione che si sedimenta nel tempo
e si trasforma in messaggio duraturo. Lo scadimento di livello nella
discussione, la superficialità delle analisi, l’ostilità pregiudiziale verso le
esigenze dell’elaborazione teorica, il ricorso spregiudicato al pragmatismo
politico del «meno peggio», l’assimilazione genetica della sciagurata teoria
del fine che giustifica i mezzi (in Italia massimamente rappresentata dal
togliattismo), fanno ormai chiaramente intendere che con questo ritmo di
vanificazione non si accantonerà più nulla per il futuro, non resterà granché
in termini qualitativi o propositivi su cui possano crescere e misurarsi le
nuove generazioni, le nuove élites del pensiero, politico o non.
Mi riferisco ovviamente a tutti: al mondo della destra,
del centro, della sinistra e, fatto nuovo rispetto al dopoguerra (almeno dalla
fine degli anni ‘60), anche dell’estrema sinistra.
Eppure, mentre questo scadimento generale s’intensifica,
il Defensor Pacis di Marsilio da
Padova (1275-1342) - per citare a simbolo una grande opera che fece arrabbiare
la Chiesa molto prima di Erasmo e di Giordano Bruno - continua ad essere
pubblicato, letto e commentato. Per giunta con piacere e costrutto. Altri
testi-simbolo destinati a permanere nel tempo si potrebbero facilmente elencare,
anche perché non sono molti. Appunto...
4d. Nell’anno 992 non vi era
nulla che si potesse considerare prodromo o espressione pionieristica del danno
epocale che oggigiorno il sistema dei partiti opera sulla crescita e la
diffusione di un’autentica cultura di massa, e quindi nessun paragone è
possibile. Solo la Chiesa cattolica - grazie alla sua relativa inamovibilità
nel corso dei secoli - ha conservato un ruolo paragonabile a quello che essa
stessa ebbe allora, ma tale aspetto esula dalla nostra riflessione. Laddove si
sarà notato che il monaco (o il frate) - grande figura dell’anno 992, se non
dell’intero Medioevo, dotata di grande e suggestiva forza - non è stato da noi
incluso nel terzetto di allegri compagni da cui abbiamo preso avvio.
Una scelta deliberata, giacchè la figura reale o simbolica
del frate escludeva un tempo l’espressione di una propria individualità. Per
definizione essa doveva annullarsi in Gesù/Dio (specie se francescano, minorita
e spirituale) e, anche se predicatore, non doveva diffondere nulla di nuovo
fuori delle mura del convento o dell’Ordine, oltre al messaggio cristologico
variamente interpretato. Ma va ugualmente riconosciuto che molti di quei frati
- a partire dall’Ordine benedettino ma non solo - stavano dando inconsapevolmente
un contributo fondamentale alla preservazione della cultura classica («alta» in
questo senso) tramite il loro lavoro di copisti amanuensi. Un lavoro che essi
compivano, tuttavia, come atto di mortificazione di se stessi, del proprio io,
e di devozione nei confronti del divino e senza alcuna ambizione traducibile in
termini di incremento o estensione della «comunicazione di massa», come la si
sarebbe potuta intendere all’epoca. In termini letterari quel mondo
intellettuale è stato magnificamente ricostruito da Umberto Eco ne Il nome della rosa.
No. Il frate predicatore o amanuense o martire in eresia,
decisamente non si sarebbe potuto accompagnare al nostro allegro terzetto. Ma
non per questo si deve trascurare l’importanza della sua opera nella collettività
dell’Ordine o, in certi casi, della sua testimonianza personale. Qui ad Assisi
non ho bisogno di dilungarmi sul tema, anche se mi piacerebbe aprire un
capitolo sulle raffigurazioni artistiche di alcune delle cose alle quali sto
accennando.
5. Società
spettacolare di massa
Spero che il procedimento da me avviato con l’immagine
allegorica del terzetto unitario sia stato in primo luogo gradevole e
divertente per chi mi ascolta. In secondo luogo sia stato comprensibile e in
terzo luogo utile. La mia ambizione inconfessata era infatti di riassumere in
poche frasi e immagini-simbolo il senso ultimo delle biblioteche di volumi che
hanno descritto o ricostruito il modo in cui siamo passati dalle culture fondamentalmente orali (quelle
cioè fondate sulla trasmissione della parola, che dal canto loro hanno
continuato ad essere in auge anche in epoche in cui la scrittura si diffondeva
e si tramandava in forma amanuense) alle culture
tipografiche (èra Gutenberg, cioè quando si è cominciato a far viaggiare la
scrittura, riprodotta a stampa, al posto delle parole), per giungere all’epoca
attuale costituita da culture basate
prioritariamente su immagini (rappresentazioni visive, filmiche o
telematiche): un’epoca, va detto, che è dominata dalla mercificazione spettacolare
di qualsiasi manifestazione culturale - creativa o conformista che sia,
individuale o di massa che sia.
Mi riferisco ovviamente alla visione critica del nuovo
modo di dominazione sulla vita culturale e sul sistema delle comunicazioni che
nel suo libro del 1967 Guy Debord definiva come società dello spettacolo. Al quel testo e successive
interpretazioni si rimanda.
La rappresentazione in video (come televisione,
elaborazione computerizzata, comunicazione telematica ecc.) e gli altri sistemi
di produzione e diffusione di immagini che il progresso scientifico renderà via
via sempre più «economici» - quindi fruibili in tempo reale e disponibili per
il consumo da parte di milioni e ben presto miliardi di persone - concentrano
in sé il controllo di tutte le forme di comunicazione di massa definibili come
tali. Cioè tutte le forme di comunicazione trasferibili in supporti concepiti
in base a criteri di tecnologia industriale, quindi riproducibili, quindi
commerciabili e consumabili a titolo individuale, di gruppo, di etnia, di
nazione, di massa e... di intera umanità, se potessero agire in forma del tutto
incontrastata le leggi di mercato.
6. Cinema
Si sarà notato che finora non ho nominato né coinvolto
nella critica della società videodipendente il
cinema, inteso come mondo della produzione filmica. Forse ciò dipende da
una mia debolezza personale, dal fatto che non riesco a riprendermi dai postumi
di un precoce amore giovanile nutrito verso la Decima musa (o Settima arte).
Continuo a pensare, infatti, che tale mondo abbia caratteristiche proprie,
specifiche di linguaggio, nobili e contemporaneamente plebee fin dalla nascita,
non riducibili comunque al fatto spettacolare in sé o al rapporto di
videodipendenza che anche il cinema avrebbe potuto indurre nello spettatore, ma
di fatto non ha indotto. Sappiamo oggi che ciò non è accaduto: la
videodipendenza non è cominciata in campo cinematografico, bensì televisivo ed
è lì che ha originariamente attecchito.
Il cinema può essere considerato essenzialmente (e chissà fino
a quando) uno strumento d’intrattenimento
figurativo, più e forse meglio di quanto poteva esserlo stato in passato il
teatro nelle sue varie forme (dall’atellana alla neoavanguardia, passando per
le sacre rappresentazioni, il teatro di strada ecc.), rispetto al quale esso si
situa in diretta linea ereditaria. Nonostante i grandi progressi tecnologici
che si verificano anche in questo campo, il cinema conserva - e anzi sembra
accrescere col passare del tempo - le proprie caratteristiche costituive nonché
le sue grandi potenzialità, che possono essere valorizzate in maggiore o minore
misura a seconda dei periodi e dei luoghi. Ciò vale in rapporto a criteri di
godibilità estetica, creatività artistica, indagine psicosociologica, sintesi
storiografica, affabulazione allegorica, narrazione pura e semplice e via
discorrendo a seconda dei generi, degli autori, dei committenti e delle
correnti cinematografiche.
Forse m’illudo sull’autonomia di risorse del linguaggio
filmico, ma vorrei ugualmente tentare di tenere la capacità evocativa di certo
cinema (e di certo teatro, ovviamente) fuori della mia critica rivolta ai
processi degenerativi della società dello spettacolo e alla crescente invadenza
delle comunicazioni di massa, televisive e telematiche. Il tempo deciderà
quanto giustificato sia questo evidente favoritismo per le opere destinate al
grande schermo.
7. Invadenza
globalizzante (totalitarismo) della televisione
Molti hanno scritto e ancor di più si scriverà nel futuro
sul declino o fine dell’èra indicata come «Galassia Gutenberg»: una definizione
molto bella e suggestiva, anche se formulata con scarse capacità analitiche e
in un pessimo libro (tanto celebrato e citato, ma evidentemente non altrettanto
letto) di Marshall McLuhan. Col termine, entrato ormai nel linguaggio corrente,
ci si riferisce al processo - ben tracciabile storicamente - che vede la
scrittura cedere il passo in forma via via crescente al potere iconico: il potere delle immagini o lo
si chiami come si vuole.
Per amore di sinteticità dirò subito che vivendo da
contemporanei nel pieno di questo processo, la nostra mente va soprattutto allo
strumento televisivo (e per induzione
al mondo che vi ruota intorno), trascurando per economia di discorso tutto ciò
che di bello o di utile continua a tramandarsi o a nascere in campo visuale:
dalla sempre più perfetta riproducibilità
tecnica, quindi industriale e di massa, dei prodotti delle arti plastiche e
figurative - che li rende oggigiorno godibili anche «a domicilio» per buona
parte dell’umanità, anche se privi dell’aura «cultuale» di cui parlava W.
Benjamin (nel celebre saggio del 1935/39) - all’immediatezza comunicativa di un
certo tipo di cinema, cui si è sopra accennato; dalla crescente integrazione
simbiotica delle varie arti in prodotti multimediali (video, poesia,
letteratura, cartoni animati, musica, colori, suoni, odori, tecniche varie di
pluridimensionalità) all’uso o ricostruzione di scenari realmente o
presumibilmente esistiti come supporto agli studi di paleontologia,
archeologia, storiografia, ecc., alla didattica scientifica e letteraria in
generale.
7a. La prima inconfondibile
caratteristica della televisione - che nessun mezzo di comunicazione ha mai
avuto nel passato - è il suo carattere globale,
totalizzante potremmo dire: essa concentra
in sé la rappresentazione mediatica (a volte posticcia, sempre artificiale) del tutto nella nostra epoca: vale a
dire, tutto ciò che l’umanità produce, in qualsiasi campo, in qualsiasi parte
del mondo, in qualsiasi congiuntura storico-politica, in qualsiasi forma
(fisica o virtuale). Nel sistema televisivo sono confluite (senza speranza di
ritorno indietro e rinunciando alla propria autonomia) tutte le precedenti forme di comunicazione.
Esso ha assorbito tutte le specifiche forme di scrittura (letteraria, erotica, volgare,
poetica, politica, pubblicitaria ecc.); ha fatto suo appiattendolo il monopolio
dell’informazione quotidiana o settimanale un tempo detenuto dai periodici nella loro pluralità di stili
e di correnti di pensiero (quanti non comprano più il giornale in edicola
perché tanto c’è il Telegiornale...).
Ha soppiantato le funzioni tradizionali dell’editoria, sia sostituendosi ai «riti di
iniziazione letteraria» classici (perché leggere i romanzi di Salgari dopo aver
visto la grottesca serie cinetelevisiva dedicata a Sandokan?); sia assumendosi
(aggiudicandosela in aste virtuali e truccate) l’autorità letteraria per
stabilire quali libri vadano letti da masse di plebe incolta, quali debbano
vincere i sempre più numerosi premi letterari, quali vadano indirizzati a
speciali nicchie di mercato, fossero pure costituite da irriducibili
bastian-contrari della cultura dominante. Il trattato di psicologia scritto da
un noto calciatore potra competere nel mercato librario-teledipendente solo con
il manuale di tecnica calcistica scritto da un noto psichiatra. E poiché a
questo siamo già arrivati da tempo, non resterebbe che recitare il de profundis per l’indipendenza creativa
dell’opera letteraria, di narrativa o di saggistica - intesa in termini
editoriali e ammettendo che una minima autonomia dell’individuo creatore possa
ugualmente restare intatta, ma a caro prezzo, a fatica, fuori dei canoni
editorial-televisivi.
Più banalmente: quanto tempo di vita trascorso davanti al
televisore viene tolto alla lettura? Che io sappia non esistono indagini
sull’argomento e se tali confronti si dovessero fare, il mondo
editorial-televisivo farebbe di tutto per non farli emergere.
Il mondo delle arti
figurative subisce un’influenza devastante pari se non peggiore a quella
qui indicata per l’editoria, secondo meccanismi analoghi. Per non parlare del
mondo della musica, sia classica, sia
delle nuove generazioni (dal rock consumistico ai megaconcerti, raves in
diretta ecc.).
7b. Né è necessario
aggiungere parole al fenomeno del tifo
calcistico - e via via di tutti gli altri giochi di squadra in genere -
ormai totalmente identificato con riti spettacolari trasmessi essenzialmente
attraverso i canali televisivi. I riti del tifo calcistico - siano essi allo
stadio, in casa o nelle strade - riescono a coinvolgere milioni di individui
(prevalentemente maschi), alimentando la loro fanatizzazione o comunque
l’aggravamento di uno stato più o meno temporaneo di alterazione mentale. Ciò
avviene con frequenza crescente in ogni luogo del Paese, nella maggior parte
dei Paesi e in ore diverse della giornata, avendo reso definitivamente
indifferente il fatto che solo un’infinitesima parte di costoro potrebbe assistere alle partite direttamente negli stadi.
Penso che il fenomeno sia comunque noto e poco vi sia da aggiungere
sull’imbarbarimento di massa che si esprime attraverso il tifo calcistico e che
il sistema televisivo incoraggia in tutti i modi, scoperti e camuffati.
Per l’altra grande fonte di fanatismo irrazionale - la moda (questa volta prevalentemente
femminile, ma non solo) - la televisione esercita un ruolo analogo a quello del
tifo calcistico (con pubblicità e sfilate di modelli), anche se in forme molto
diverse e, occorre dirlo, con finalità che possono essere anche d’ordine estetico.
7c. E di mio aggiungerei
anche un riferimento alla religione -
in Italia soprattutto cattolica, ma altrove corrispondente all’egemonia che
riesce ad esercitare questa o quella delle tre grandi religioni monoteistiche o
comunque delle religioni rivelate. Nelle sue manifestazioni cultuali, la
religione cattolica si può considerare come una forma particolare e
spettacolare di comunicazione di massa. Mentre la televisione si sta
dimostrando sempre più come uno strumento «onnipotente» di propaganda religiosa
e di emarginazione degli antireligiosi, degli atei, degli agnostici, dei liberi
pensatori in genere, ma anche dei seguaci di altre religioni, dei cristiani
protestanti ecc.. Il controllo totale e indiscusso che il Vaticano esercita sul
sistema televisivo italiano e sul suo indotto è diventata l’arma principale di
clericalizzazione della vita sociale e culturale del popolo, dello Stato, delle
istituzioni, dell’infanzia, della vita scolastica ecc., e di soffocamento di
qualsiasi istanza libertaria o di autonomia di pensiero. Sul terreno televisivo
il Vaticano ha giocato la su più importante partita negli anni ‘50, vincendola
fin dagli inizi e stravincedola quando il clericalismo ha cominciato a permeare
di sè anche anche l’ex sinistra (in Italia, dalla fine degli anni ‘70 in poi).
Attenzione, perché attraverso il controllo del sistema
televisivo, il Vaticano rafforza ulteriormente anche la sua possibilità di
controllo sul sistema scolastico, che
comunque è già totalmente asservito alle esigenze della Chiesa sotto vari
profili (contenuti della didattica, insegnamento della religione, cerimonie che
accompagnano le festività per-lo-più-religiose, assunzione degli insegnanti di
religione, presenza ossessiva della simbologia cristologica ecc.). Attraverso
il meccanismo televisivo, questo controllo ecclesiastico e di massa sulle
coscienze si rafforza e giunge a una situazione di quasi monopolio.
8. Dove
stiamo andando? Impotenza della fantapolitica
Che si sia d’accordo o no con questa descrizione distopica
dell’universo orwelliano - in cui l’azione congiunta delle comunicazioni di
massa (assorbite prevalentemente dal mondo televisivo, dalle immagini prodotte
o trasmesse via video, dalle nuove potenzialità dei computer), tende a
pervadere in senso totalitario la vita della gente - su una constatazione si
può convergere: il sistema della comunicazione culturale nella nostra epoca non
è più riducibile o affidabile a un
individuo, anche se particolarmente dotato di qualità carismatiche (penso
in primis al grande comunicatore che fu Francesco d’Assisi in ambito
mediterraneo - cioè nel «mondo» culturale di allora) e nemmeno a un gruppo collettivamente strutturato di
individui: la mente può andare alla Compagnia di Gesù oppure a celebri
Scuole filosofiche che erano a volte egemonizzate da eminenti personalità
cattoliche (francescane e non solo) nei grandi centri universitari come Oxford,
Praga, Parigi, Bologna ecc.
Dirò di più: tale sistema non è più riducibile nemmeno a
un’unica casta politica (come poteva
essere il Partito fascista di un tempo) e nemmeno a un’unica classe sociale, per quanto integrata e
omogenea questa possa essere al proprio interno. Non esiste una classe sociale
che possa garantire il controllo di un sistema così diversificato nelle sue
innumerevoli ramificazioni e allo stesso tempo così scopertamente monopolico
nell’esercizio del potere e nella sua opera di commercializzazione e
spettacolarizzazione di ogni forma di attività umana.
Alle considerazioni ovvie che un sociologo farebbe sulla
diversificazione sociale delle classi o
fronti di classi, di strati, ceti ecc., andrebbe aggiunta la rivoluzione operata dallo sviluppo tecnologico nell’ambito delle
comunicazioni di massa o mass-media. Tale rivoluzione non si è fermata alle
soglie della teletrasformazione
totalitaria della vita sociale e culturale, ma è proseguita con passo via
via più affrettato e ha ormai dei ritmi d’innovazione dei quali nessun soggetto
politico, economico o scientifico può garantire più il controllo. E il divario
tra controllo tecnologico e controllo sociale è destinato ad approfondirsi nel
tempo, in forma via via più accellerata.
Sotto questo profilo è veramente difficile non solo
rispondere sul come, ma anche immaginare dove stiamo andando. E lo sarà sempre
di più. Fantapolitica, distopie letterarie e previsioni sociali scientifiche
sembrano darsi la mano nella loro incapacità di previsione rispetto al punto di
arrivo di tali processi e sui tempi di percorso. Non sappiamo verso dove, né il
come, né il quando. Probabilmente non sappiamo nemmeno perché, anche se
perlomeno alcuni di noi ancora se lo chiedono. Il presente, però, lo conosciamo
o possiamo conoscerlo. O meglio, alcuni di noi possono tentare di conoscerlo.
9. Ritardo
della coscienza rispetto allo sviluppo della tecnologia
applicata alle comunicazioni di massa
Viviamo quindi in un ‘epoca in cui nessun individuo e
nessun gruppo strutturato di individui - dalle lobbies alle classi sociali
dominanti - ha più la possibilità di esercitare un controllo monopolistico
totale, duraturo e univoco sul sistema delle comunicazioni di massa. A partire
da un certo momento - per alcuni con la radio, per altri con la televisione,
per altri ancora con l’adozione del sistema satellitare a partire dal 1973-74 e
infine con la creazione di reti comunicative informatiche [la costituzione
ufficiale del World Wide Web (www) avvenne l’anno dopo, nel 1993 (nota aggiunta nel 2012)] - il sistema
delle comunicazioni è stato investito dallo sviluppo tecnologico, rendendosi
via via più autonomo da qualsiasi altra forma di controllo d’ordine sociale,
economico o politico.
È stata questa una novità propria dei nuovi mezzi di
comunicazione di massa, che non si era verificata in altre epoche: per es.,
nella ghironda del menestrello o nella penna d’oca del chierico vagante non si
riflettevano i livelli di tecnologia musicologica o scritturale dell’epoca, già
allora molto più avanzati. E la stessa identificazione dei media comunicativi
con la radio, prima, e con la televisione, poi, è avvenuta con decenni di
ritardo rispetto all’elaborazione delle basi scientifiche adottate nella
fabbricazione di questi strumenti. È inutile dire che quel ritardo iniziale è
stato recuperato e definitivamente scavalcato, essendosi costituita ormai una
strettissima interconnessione (interattiva) tra sviluppo scientifico della
tecnologia e sua applicazione pratica al mondo delle comunicazioni di massa
(nonché della guerra, della ricerca spaziale, dei sistemi di spionaggio ecc.).
Un tempo si ammetteva con Marx che nello sviluppo
dell’umanità vi è sempre stato un ritardo della coscienza sulle condizioni di
esistenza. Aggiungendo però che l’uomo è stato l’unico rappresentante del mondo
animale che non solo è riuscito ad accumulare sapere e su di esso si interroga
fin dalle origini, ma a un certo punto - molto presto in termini relativi di
storia dell’uomo - ha creato addirittura gli strumenti che consentissero la
riproduzione di quel sapere accumulato, con o senza la presenza concomitante
degli eventuali inventori, sia nel corso della vita di costoro, sia dopo la
loro morte, nel corso dei secoli ecc....
L’elettricità fu forse la prima invenzione
tecnologicamente moderna che permise una forte contrazione dei tempi fra
applicazione massiccia della nuova tecnologia e suo utilizzo nel campo delle
comunicazioni. La radio, la televisione e la stessa cibernetica (ormai detta
«informatica» o con termine generico «elettronica») sono figlie di quel balzo
in avanti permesso dall’elettricità. Nel futuro dell’uomo, però, la caccia
all’innovazione assumerà forme sempre più affannose ed oggigiorno si può
cominciare a intravedere o presumere che il prossimo passo - qualitativamente
diverso e scientificamente significativo - sarà l’applicazione della fisica atomica al mondo delle comunicazioni di
massa.
Se ne vedranno delle belle! e forse ciò si potrà
verificare già nelle prossime generazioni, nel passaggio al nuovo millennio, al
quale arriveremo prima di un decennio. L’anno Duemila visto sotto il profilo
della crescita delle comunicazioni di massa... una fantasia che dà i brividi. E
pensare che nella mia infanzia e adolescenza il solo fatto di pronunciare la
parola «Duemila» aveva un sapore inequivocabile, evocativo di fantascienza.
Ebbene, come nell’ultimo mezzo secolo i mutamenti più
significativi nel comportamento della gente sono stati indotti dalle
trasformazioni dei mezzi di comunicazione di massa, non sembra molto difficile
prevedere che alle soglie del Duemila e dopo sarà l’applicazione
dell’elettronica e delle tecniche di computerizzazione a questi stessi mezzi di
comunicazione che indurrà le maggiori e più profonde modifiche nella vita
quotidiana delle persone. Un processo che stiamo già vivendo.
Lo sviluppo scientifico avrà una sua piccola parte di
responsabilità in questo mutamento, mentre l’applicazione dell’elettronica in
forma sempre più massiccia alla tecnologia delle comunicazioni di massa avrà la
parte ultramaggioritaria di responsabilità per i prossimi e in larga misura già
prevedibili mutamenti antropologici nel campo delle relazioni umane. Si approfondirà
e arriverà alle estreme conseguenze un fenomeno già delineatosi nel corso
Rinascimento, quando cioè lo sviluppo tecnico-scientifico cominciò a sfuggire
al controllo nonché alla comprensione di una massa via via crescente della
comunità umana, mentre si approfondiva il distacco sociale con questa stessa
comunità da parte degli umanisti-scienziati direttamente coinvolti.
All’«avanguardia» di questo distacco si distinsero senza
dubbio i cosiddetti «filosofi». A partire dai primi dell’Ottocento costoro cesseranno
di avere rapporti professionali con le arti, la scienza o l’organizzazione del
lavoro, diventando nella quasi totalità dei professori universitari: quindi una
ben precisa categoria sociale. Nel Kant astronomo e cattedratico le due figure
ancora sembrarono equilibrarsi per un po’, ma col trionfo dell’idealismo
tedesco la trasformazione dilagò, facendosi maggioritaria e col tempo
irreversibile: il mondo dei «filosofi» contemporanei è ormai costituito ovunque
da una cosmopolita casta accademica,
con crescenti dimensioni di massa, sostanzialmente avulsa dal mondo della
scienza, certamente in termini operativi, ma anche in termini teorici.
Questo fenomeno, tuttavia, rientra a sua volta in processi
degenerativi della società spettacolare che accomunano i professori
universitari «filosofi» ad altre categorie e caste del mondo
accademico-intellettuale. Processi degenerativi responsabili per la parte che
loro compete del fatto che la coscienza delle comunità umane continuasse a
perdere terreno rispetto alla scienza, benché questa stesse trasformando
radicalmente le condizioni dell’esistenza.
La religione s’impegnò a fondo e continua a impegnarsi per
ampliare questa divaricazione, ma ovviamente furono molti altri i fattori in
gioco che diedero avvio al processo che, inarrestabile e sempre più impetuoso,
è attualmente in corso.
Hanno ancora senso o sono ormai obsolete le parole del
vecchio aforisma per il quale l’umanità sarebbe in grado di risolvere solo i
problemi che è in grado di porsi?
Spero che questa mia riflessione - pur non aiutando a
rispondere alla domanda - ci invogli perlomeno a porcela.
Non sono amante delle citazioni, forse anche per rispetto
dei nostri grandi predecessori che probabilmente sapevano esattamente cosa
intendessero dire nel momento in cui pronunciavano certe frasi. Tuttavia, viste
le origini dell’organizzazione che mi ha invitato a parlare, vorrei terminare
con l’augurio che il prima possibile si arrivi a un sistema sociale in cui si
possa utilizzare lo sviluppo della
tecnologia, con le sue possibili applicazioni, solo per la realizzazione dei
due fini che Trotsky indicava (in La loro
morale e la nostra) come gli unici degni di una prospettiva autenticamente
rivoluzionaria: aumentare sempre di più
il potere di controllo dell’uomo sulla natura e diminuire sempre di più il potere di controllo dell’uomo su altri
uomini.
Ecco, queste sono parole che difficilmente avrebbero
potuto pronunciare i tre viandanti della stradina assisiate, ma avendo
l’occasione di ascoltarle, forse avrebbero potuto anche condividerle. Ma per
quanto riguarda noi contemporanei, quali che siano i ritardi della coscienza sulle condizioni
del’esistenza, quelle parole andrebbero sottoscritte senza esitazioni.
* Relazione al seminario di Socialismo Rivoluzionario/Utopia Socialista
(Assisi, 10 luglio 1992)
Si consiglia di leggere anche, dello stesso R. Massari, CONTRO L'EDITORIA O EDITORIA CONTRO?
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