di Roberto Massari
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A un certo punto Č-109 diventerà M-855. Ma non si pensi a un personaggio inventato da Ayn Rand per il suo celebre romanzo fantapolitico, Anthem, in cui Collettivo 0-0009 dialogava con Unanimità 7-3306 o Alleanza 6-7349 con Fraternità 1-5537. Anche se, volendo, si potrebbe cogliere una qualche affinità nel contesto «sociale», fondato sull’obbligo compulsivo al lavoro di tipo schiavistico e sulla totale spersonalizzazione dell’individuo.
Ma le differenze sono troppe e troppo profonde, a cominciare dal fatto non secondario che Č-109 (poi M-85) - come veniva chiamata normalmente nel lager - è stata una persona reale, che l’esperienza schiavistica l’ha vissuta veramente e che ha sperimentato sul proprio corpo e animo il degrado abissale al quale il sistema staliniano costrinse milioni di detenuti, e che non trova equivalenti nemmeno nella più acre e visionaria letteratura distopica.
Precipitata nell’inferno di Vorkuta - uno dei due più terribili àmbiti concentrazionari sovietici (l’altro fu Kolyma) - e riuscendo ciononostante a sopravvivere, Č-109 ha potuto raccontare in dettaglio la vicenda disumana da lei vissuta. Morta centenaria nel 2023, ci ha infatti trasmesso le sue memorie, raccolte grazie alla figlia Barbara, nel libro La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta. (Tradotto e commentato da Luca Bernardini, per Guerini e Associati [Milano 2024], 176 pagine, oltre a una preziosa appendice iconografica.)
Scorrendo i vari capitoli (identificabili dai titoli), percorriamo un itinerario che, benché già descritto da altri fuorusciti dall’inferno dei lager - per fare un nome italiano basti solo pensare alla vicenda e ai libri di Dante Corneli - ogni volta ci porta, però, a scoprire nuovi dettagli, nuovi orrori (magari fin lì per noi inimmaginabili), insieme alle stupende incredibili risorse umane di cui un individuo può arrivare a disporre nel tentativo disperato di tornare a vedere la luce.
E se si ha un minimo di familiarità con i racconti di sopravvissuti dai lager staliniani, anche in questo caso si noterà come una delle note dominanti, la persistenza del ricordo, del pensiero commosso e retrospettivo verso i compagni di detenzione che invece non sono riusciti a farcela. Certo, si trattava di ben poca parte rispetto ai milioni di esseri umani morti nel Gulag, ma erano presenze fondamentali nel gruppo di solidarietà al quale bisognava necessariamente appartenere, se si voleva mantenere una base pur minima di autoconsapevolezza personale e di appiglio alla realtà. Ma anche per affrontare in maniera «organizzata» il tormento quotidiano della fame, della fatica, del gelo, dei sorveglianti, dei criminali comuni padroni delle vite e dei «beni» più elementari dei detenuti, delle punizioni arbitarie e sadiche.
A distanza di tanti decenni dalla fine di un passato che sembra non finire mai - dato che i lager esistono ancora, per es. in Cina e Nordcorea, mentre in Russia si continua a morire come ai tempi del Gulag sovietico, se si è oppositori (si pensi solo all’uccisione di Aleksej Naval’nyj) - riviviamo un’ennesima tragica epopea. Un’epopea che nel 1945 vide entrare nel Gulag una ventiduenne, col nome falso di Anna Norska (subito sostituito da Č-109), e uscirne trentatreenne (nel 1956) col suo vero nome: Anna Szyszko, poi Szyszko-Grzywacz, dopo il matrimonio con un compagno di lager, teneramente affezionato e molto presente nelle memorie.
I tormenti descritti sono da film dell’orrore, soprattutto nella prima parte del libro e nei primi anni di detenzione (il dopoguerra degli anni ‘40), durante i quali Anna fu sottoposta alle umiliazioni più rivoltanti e rischiò più volte di morire. Tali orrori corrispondono pienamente agli altri racconti che abbiamo potuto leggere sull’esperienza nei lager. E questa, casomai ce ne fosse bisogno, è una dimostrazione ulteriore della disonestà intellettuale di chi ha negato e continua a negare la tragica veridicità dei racconti sulla vita nei campi del Gulag.
Ma il racconto di Anna può interessarci in modo particolare per tre aspetti ai quali voglio rapidamente accennare.
Il primo può sembrare tautologico, ed è il fatto che la narratrice è una donna. Non che manchino memorie scritte da donne passate attraverso la sofferenza del Gulag: Evgenija Solomonovna Ginzburg, Margarete Buber-Neumann, Elinor Lipper, Maria Ioffe, Evfrosinija Kersnovskaja e altre. Ognuna di esse ha in qualche modo trasmesso la testimonianza, se non la prova documentale, che nei lager sovietici (ma probabilmente nei lager di tutto il mondo) l’esser donna poteva trasformarsi in un’aggravante, soprattutto se giovane. Lo schiavismo sessuale era una regola spietata alla quale ci si poteva sottrarre solo scegliendo di morire o, detta più precisamente, scegliendo di non sopravvivere.
Anna dedica molte pagine a descrivere i traffici su basi di mercimonio sessuale, imposto in primo luogo dai malavitosi (i blatnjaki) - criminali incalliti e capi assoluti della vita «sociale» nei lager - e in sottordine dai guardiani. Ma non mancano sopraffazioni anche da parte degli stessi detenuti, descritti a volte in scene di autentica disperazione, quasi bestiale, indotta dalla mancanza di rapporti con donne. A tali aggravanti sessuali dello schiavismo lavorativo non ci si poteva sottrarre e le descrizioni che ne fa Anna sembrano in un certo senso renderle quasi una componente «normale» della vita nel lager e nella quotidiana lotta per la sopravvivenza.
Il secondo aspetto distintivo è che Anna era una detenuta politica. Non una classificata come «trotskista» (per sua fortuna, perché ciò l’avrebbe posta al fondo della ferocia repressiva esplicitamentre prevista dalla legge concentrazionaria), ma come partigiana, attiva nelle file della resistenza che il popolo polacco oppose alla prima e alla seconda invasione sovietica. Il suo ruolo militare era stato di fuciliera a cavallo [con mitra] e si era svolta in ambienti silvani. Purtroppo le memorie, essendo dedicate agli anni della prigionia, non approfondiscono quest’aspetto che invece sarebbe stato affascinante da sviluppare, sia per la «specialità militare» in quanto tale, sia per il contesto resistenziale (di banda) in cui si era svolta.
E il discorso sulla resistenza ci porta al terzo aspetto distintivo: Anna era polacca, assolutamente fiera di esserlo. Nell’intero racconto scorre come un filo rosso il tema della patria lontana, dell’appartenenza a una cultura nobile e antica (basti pensare alle opere o personaggi letterari che vengono citati in vari momenti) e dell’affinità umana con le detenute polacche (qui necessariamente al femminile) con le quali si trova a condividere giacigli, cibo, funzioni fisiologiche, ma anche attaccamenti affettivi e mutua comprensione.
Sentimenti affettuosi vengono espressi anche verso membri di altre nazionalità sottoposte alle dittature sovietiche: soprattutto ucraini (orientali e occidentali), bielorussi (la cui lingua Anna parlava correntemente) estoni, lituani, lettoni, anche armeni ecc. Ma nulla di paragonabile alla passione con cui essa si rivolge alle sue compagne polacche e ai sacrifici ai quali essa si sottopone pur di restare o tornare a stare con loro.
A questo punto, però, bisogna fermarsi a considerare il retroterra politico in cui si svolge la vicenda di Anna, al quale lei accenna a tratti, ma senza dargli l’importanza che merita, e che io invece desidero sottolineare. Anna finisce nel lager per aver preso parte a un’esperienza che storicamente fu resa possibile solo in Polonia (e in minor parte col banderismo [da Stepan Bandera] ucraino). E cioè nel fatto che la resistenza armata si svolse contemporaneamente contro i nazisti e contro i sovietici. Ciò fu dovuto al famigerato patto di Stalin con Hitler (Molotov-Ribbentrop) che ad agosto 1939 sancì l’alleanza tra i due regimi totalitari, preparando l’invasione congiunta della Polonia, la sua ennesima spartizione e di fatto l’inizio della Seconda guerra mondiale.
Con la duplice invasione di settembre 1939, i partigiani polacchi si erano trovati a combattere su due fronti: contro i nazisti e contro i sovietici, alleati fra loro per affinità totalitarie e mire di espansionismo territoriale. Una simile esperienza - di combattere contro nazisti e sovietici allo stesso tempo - sarebbe stata impensabile in Italia, per ovvi motivi geopolitici. Anna invece crebbe in quel mondo e, leggendo con attenzione le sue pagine, si riesce a cogliere che per lei il concetto di «resistenza» era univoco: fossero nazisti o staliniani, erano pur sempre i nemici del suo popolo e contro di essi aveva cominciato a combattere non ancora ventenne.
Una scelta condivisa con tante altre donne polacche, molte morte in combattimento: scelta politica che a lei costò il sacrificio dei migliori anni della gioventù. Ma dal libro non traspaiono recriminazioni né pentimenti.
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